Les populations de la Gaule devinrent ainsi Romaines, non par le sang, mis par les institutions,
par les coutumes, par la langue, par les arts, par les croyances, par toutes les habitudes de l’esprit.
Cette conversion ne fut l’effet ni des exigences du vainqueur ni de la servilité du vaincu
(Fustel de Coulanges, Histoire des Institutions politiques de l’Ancienne France. La Gaule Romaine, Paris 1891, p. 137).
Premessa
Malgrado negli ultimi due decenni forme ed esiti del processo d’integrazione di territori e popolazioni assoggettati al dominio romano siano stati oggetto di analisi a carattere metodologico, nonché in relazione a casi specifici1, che ne hanno messo in luce la complessità anche per l’area gallica2, la verifica dell’incidenza della romanizzazione in rapporto al gender non sembra tuttavia aver destato particolare attenzione3.
Tralasciando qui ogni discussione sulle cause, conviene comunque notare che in un panorama di studi arricchitosi di recente di importanti ricerche di genere dedicate a zone significative dell’occidente romano4, la storiografia non ha mancato di appuntarsi su status e condizioni di vita delle donne della Gallia romana5, valorizzando caratteri e peculiarità desumibili da corpora di fonti sovente disomogenee per le diverse province del territorio in questione, quanto ad esaustività e continuità cronologica. Tornando ad interrogarci sulle sue orme, si intende qui verificare se e in quale misura per quelle meridionali, interessate dalla romanizzazione prima delle altre, in particolare per la Narbonensis e l’Aquitania, sia possibile cogliere indizi di una specificità della condizione femminile locale ed esaminarne l’evoluzione in rapporto a costumi ed usi romani.
È necessario precisare che su questa ipotesi di lavoro gravano difficoltà di ordine diverso, vale a dire: a) la mancanza di riscontri documentari sufficientemente ampi ed eterogenei sulle condizioni di vita delle donne per la fase immediatamente antecedente l’inizio dell’avanzata romana nella Gallia meridionale in età tardo-repubblicana, utili per stimare in chiave comparativa il cambiamento intervenuto in seguito ad essa; b) il carattere comunque discontinuo e disomogeneo di quelli ad essa inerenti per l’età imperiale, oggetto d’attenzione nel presente contributo; c) la loro prospettiva circoscritta sotto il profilo sociale, che implica risultati concernenti solo individui femminili di estrazione medio-alta o comunque entrati in relazione con essi, come nel caso delle nutrices, o di donne dedite a particolari attività restituiteci da attestazioni epigrafiche; e infine d) il focus inevitabilmente maschile che connota la valenza documentaria di una tipologia di fonti pur non marginali ai fini del nostro discorso, quali le testimonianze letterarie, rendendole efficaci solo a patto di tenere preventivamente in conto vari “filtri”. Al di là della permeabilità a istanze provenienti ad es. da particolari contesti familiari o ancora da posizioni di tipo confessionale, come nel caso di quelle cristiane, al di là cioè di elementi più in generale destinati a pesare sulla fruibilità in chiave storica della tradizione letteraria anche rispetto ad altri periodi ed aree geografiche, occorre inoltre non sottovalutare ch’essa restituisce informazioni sulla realtà di vita delle donne della Gallia meridionale di età imperiale solo attraverso le lenti maschili di intellettuali e più in generale di figure comunque ispirate da paradigmi valoriali e percorsi di formazione romani, ancorché acquisiti in area provinciale.
Si potrebbe giustamente obiettare che, in ragione di ciò, qualunque acquisizione se ne desuma potrà servire a comprendere in quale modo letterati di area gallica di età imperiale interpretarono e rappresentarono il ruolo assunto da componenti femminili appartenenti a nuclei familiari di condizione medio-elevata, piuttosto che a chiarire realmente come le donne vissero e percepirono in quel territorio il proprio status. Cionondimeno, pur gravando sulla possibilità di ricostruire a partire dal loro punto di vista una effettiva storia di gender6, il limite documentario insito nelle testimonianze maschili non esclude che, acquisitane la unilateralità opposta proprio in termini di genere, esse possano contribuire a far luce su forme e spazi di espressione dell’identità femminile nell’area studiata.
Alle radici di un monito: l’interpretazione della maternità nella Gallia Narbonensis
In questa direzione, una constatazione formulata al principio dell’età augustea da Strabone7 denota la presa d’atto della peculiarità incarnata dalle donne della Gallia Narbonensis quanto a prolificità e capacità di allevare i figli e può inoltre fungere da premessa per interrogarsi sul significato di un episodio secondo Gellio occorso più di un secolo e mezzo dopo, nonché sulla possibilità ch’esso riflettesse reazioni suscitate da cambiamenti della condotta femminile intervenuti proprio nell’area considerata dal geografo.
Stando alla versione dei fatti restituitaci dalle Noctes Atticae, solo pochi decenni dopo che Plutarco aveva elaborato le sue riflessioni sui metodi educativi migliori, ammettendo la possibilità che i neonati fossero affidati alle cure di nutrici, sia pur a particolari condizioni8, ma apprezzando al contempo la moglie di Catone il Vecchio per aver provveduto personalmente9, Favorino di Arles avrebbe cercato di convincere una nobilis femina a nutrire personalmente il figlio appena partorito, senza affidarlo alle cure di nutrici estranee.
Il seguito del racconto, introdotto da precisazioni che rivelano la relazione di Gellio con il protagonista dell’intervento10 e la matrice autoptica della notizia11, attestando ancora una volta il valore storico della sua opera12, contiene un monito forse non casualmente espresso dal celebre oratore originario del centro della Narbonensis.
Ne ricaviamo, in particolare, che in una data imprecisata, collocabile sotto il principato di Adriano (117-138) con il quale ebbe relazioni contrastate, o poco più tardi, al rientro dopo l’esilio da lui comminatogli13, dunque sotto quello di Antonino (138-161), alla cui salutatio fu ammesso14, Favorino si trovò a far visita ad un nucleo familiare di rango elevato, costituito da un capofamiglia figlio di un senatore15, dalla sua sposa e dalla madre di lei, sollecita nel voler impedire che dopo le fatiche del parto la figlia si sottoponesse a quelle dell’allattamento16.
Le argomentazioni con cui in seguito tentò di convincerla a recedere dall’intenzione di affidare il nipote ad una nutrice evidenziano ch’egli intravvedesse in quest’uso non solo una scelta contraria a quanto predisposto dalla natura concedendo ad ogni donna l’organo adatto a prov-vedervi personalmente17, bensì un malcostume esibito da quante per ragioni estetiche non esitavano ad escogitare pratiche adatte a eliminare il latte puerperale18: soluzioni nella prospettiva di Favorino non distanti per finalità dagli aborti cui molte donne avrebbero fatto ricorso per mantenere intatto e giovane l’aspetto fisico19.
Guardando oltre tale denuncia, non v’è dubbio ch’essa fosse ispirata dalla convinzione che l’allattamento costituisse un atto importante non solo sul piano nutritivo, maturata probabilmente grazie ad acquisizioni prodotte dal sapere medico più o meno coevo20. In tal senso, vi si può inoltre cogliere l’eco del dibattito sviluppatosi fin dai secoli precedenti sui benefici del latte materno21 e di riflessioni più recenti sull’opportunità di ricorrere alle balie solo previe opportune verifiche dei loro requisiti fisici22, alle quali non si era sottratto neanche l’amico Plutarco23.
D’altro canto, un passaggio successivo del resoconto di Gellio lascia intravvedere che a fondamento della posizione di Favorino vi fossero anche le sue riserve sull’uso di ricorrere a balie di status o origine servile, provenienti da terre straniere e aliene per pratiche ed usi: uno spauracchio sufficiente ad indurlo a rincarare la dose prospettando a madre e nonna del nascituro, destinatarie del suo discorso, il rischio di imbattersi in donne dal comportamento disonesto e con la vocazione all’ubriachezza, inevitabile data la necessità di selezionarle senz’altro criterio che la verifica della loro capacità di allattare:
Quae, malum, igitur ratio est nobilitatem istam nati modo hominis corpusque et animum bene ingeniatis primordiis inchoatum insitivo degenerique alimento lactis alieni corrumpere? praesertim si ista quam ad praebendum lactem adhibebitis aut serva aut servilis est et, ut plerumque solet, externae et barbarae nationis est, si inproba, si informis, si inpudica, si temulenta est; nam plerumque sine discrimine, quaecumque id temporis lactans est adhiberi solet.
Diamine! Questa nobiltà dell’uomo appena nato, e un corpo e un’anima che prendono le mosse da principi così ben disposti, che ragione c’è di guastarli con l’alimentazione artificiosa e degenere del latte altrui? tanto più se quella che assumerete perché dia il latte è una schiava o discende da schiavi e, come in genere accade, è di nascita straniera e barbara; se è disonesta, brutta, spudorata, avvinazzata; perché in genere si prende la prima che capita, solo che al momento abbia latte24.
Compresa nell’opera di un autore interessato a documentare posizioni e interventi anche in tema di promozione delle nozze e della moralità femminile25, la testimonianza spinge a domandarsi se il discorso pronunciato in lingua greca da un illustre intellettuale nativo di Arles nella domus probabilmente romana di una non meglio identificabile famiglia di rango senatorio, grosso modo entro l’anno 16026, esprimesse una volontaria presa di posizione sollecitata anche dall’osservazione dell’evolversi dei costumi proprio in quell’area narbonense che gli aveva dato i natali ma con la quale – come sappiamo – egli non aveva mantenuto grandi rapporti, rifiutandone perfino la concessione di un’onorificenza27.
Prima di cercare riscontri utili a rispondere a tale quesito conviene ricordare che l’impiego di nutrici costituì una pratica attestata in ambito romano fin dall’età repubblicana, quando non fu raro che, per ragioni diverse, le famiglie delle élites affidassero i neonati per l’allattamento a donne di condizione servile interne alla domus o appositamente acquistate28, delle quali pare fosse inoltre possibile reperire i servigi in una specifica area dell’urbe29. A tale costume, attestato anche in aree provinciali30, nonché regolato per durata e modalità attraverso appositi contratti31 e secondo criteri di selezione che tenevano conto anche della provenienza geografica delle balie32, non si sottrassero membri di nuclei meno elevati, per ragioni talvolta legate alla scomparsa della figura materna33. In ogni caso, nel I secolo a. C. doveva ormai costituire una pratica ricorrente fra le donne romane, se Varrone poteva rimarcare l’uso differente attestato in area illirica34.
Volendo tuttavia considerare in questa sede testimonianze più specificamente concernenti l’area gallica, qualche elemento di riflessione si può attingere da un illustre esponente della cultura dell’epoca altoimperiale molto probabilmente originario di quel territorio: Tacito35.
Dal resoconto del dibattito sul declino dell’eloquenza al quale, stando ad un’affermazione inclusa al principio del Dialogus de oratoribus, egli avrebbe assistito al tempo della propria giovinezza, cioè verosimilmente nella seconda metà degli anni Settanta del I secolo d. C.36, riprendendone poi il contenuto circa cinque lustri più tardi37, apprendiamo che in quel periodo Messalla avrebbe levato la sua requisitoria contro l’abitudine di ricorrere a balie per educare e allattare i figli38, dilagata da Roma nelle province.
A fronte della testimonianza restituita da uno scritto di cui è stato a più riprese evidenziato il valore storiografico39, appare altrettanto eloquente un giudizio formulato dallo storico in altra sede ma grosso modo nel medesimo torno di anni, a proposito del costume delle donne germaniche di allattare direttamente i figli senza ricorrere alle nutrici40. Accanto all’apprezzamento riservato alla diversa condotta riscontrata in un territorio popolato da “donne-virago” dall’autore percepite e dipinte come emblemi di un universo femminile proprio di un mondo incontaminato, giova tener conto anche di alcune considerazioni dallo stesso formulate a proposito del suocero Gnaeus Iulius Agricola.
Dall’operetta composta per celebrarlo emerge infatti che il generale nativo di Forum Iulii (Fréjus) dovesse le sue buone qualità anche al fatto d’essere stato educato direttamente dalla madre Iulia Procilla, una donna di rara castitas, capace di vigilare su di lui personalmente fin dall’infanzia trascorsa a Marsiglia41, in verità poi finita vittima dei saccheggi compiuti nel territorio di Intimilii (Ventimiglia) dai soldati di Otone, accanitisi contro il suo podere e il suo patrimonio senza che il figlio potesse portarle neppure l’estremo saluto durante le onoranze funebri42.
Al di là di quanto si può ricavare dalla testimonianza concernente un provinciale cui la Gallia Narbonensis aveva garantito una consorte come Domitia Decidiana, dal genero Tacito apprezzata per i suoi mores antichi43, con toni di ammirazione che nel complesso possono pur risultare di parte44, la requisitoria di Favorino contro il rischio di affidare i neonati a balie straniere provenienti da territori barbari merita comunque d’essere valutata alla luce di attestazioni epigrafiche rinvenute in quell’area tanto simile per costumi e meriti dei suoi abitanti alla penisola italica, da apparire a Plinio il Vecchio, al tempo dei Flavi, Italia verius quam provincia45.
I riscontri raccolti dalla storiografia specialistica per il periodo compreso fra il I e il III secolo d. C. documentano infatti una significativa presenza a Narbo46, Arelate47, Nemausus48, Lugdunum49 e Forum Iulii50, di nutrices di condizione servile, libertina, talora cittadine romane51. Commemorate dagli accuditi sia pur nei toni di un’affezione codificata52, esse figurano talvolta anche nei panni delle dedicanti di epitaffi che di per sé ne dimostrano la capacità di contrarre legami non meramente professionali con i fanciulli tenuti a balia53 e in alcuni casi di mantenerli vivi anche nel corso degli anni54.
Nel complesso si tratta di indicazioni utili per dedurne che nella parte meridionale della Gallia in età imperiale le nutrici dovettero conquistarsi stima e posizioni non marginali55, acquisendo quel ruolo di ausiliarie speciali, o se si vuole di parenti adottive56, ad esse occasionalmente riconosciuto a livello generale già all’interno delle istituzioni familiari romane. In tal senso, i riscontri epigrafici inerente all’area in esame autorizzano a sospettare che la fermezza espressa da Favorino, sia pur fra le pareti di una domus probabilmente ubicata a Roma, nello sconsigliarne l’impiego nel caso del neonato nipote del suo discepolo, potesse inoltre riflettere la consapevolezza del crescente diffondersi anche nella sua patria d’origine di costumi contrari a quella vocazione alla maternità ‘piena’ da Strabone identificata quale cifra distintiva della femminilità nella Narbonensis, già riscontrati nell’urbe secondo quanto lamentato – come abbiamo visto – da Messalla. Così, sembra ammissibile che il sofista originario di Arles possa aver maturato un’ostilità più circostanziata di quella manifestata al riguardo da quanti fra il I ed il II secolo d. C. non persero occasione per fustigare il consolidarsi della prassi del baliatico57.
Non va tralasciato, del resto, che per quella provincia apparsa già in età augustea terra di madri feconde ed eccezionalmente capaci di allevare i figli, oltre che luogo in cui le donne uscendo dalle pareti domestiche erano occupate in attività d’imprenditoria commerciale58, è attestato per la prima età imperiale anche l’impiego di personale femminile in campo educativo. Significativo al riguardo un cippo risalente all’inizio del II secolo d. C. offerto in segno di ringraziamento alla paedagoga Porcia Lada e allo schiavo Optatus:
D(iis) M(anibus) / Porciae Lade et / Optati servi). / Epafra conlibert(a) / Syntyche Anatole ser(vae) / paedagogis piissimis / v(ivae) p(osuerunt).
Agli Dei Mani di Porcia Lada e dello schiavo Optato. La colliberta Epafra, e le schiave Syntyche ed Anatole hanno dedicato questa sepoltura da vivae ai loro piissimi pedagoghi59.
Per quanto caratterizzata, comunque, fin dall’età repubblicana da un modello familiare tradizionale, cioè incentrato sul riconoscimento al pater familias di un potere di vita e di morte sulle moglie e sui figli60, l’area della Narbonensis offre inoltre riscontro della posizione non marginale assunta più tardi, in età imperiale, nel campo dell’educazione dei fanciulli da altre figure femminili della rete parentale e in particolare dalle nonne, già in ambito romano deputate ad un ruolo significativo61.
Sebbene non siamo in grado di valutare l’incidenza di una prassi legata al luogo d’origine per il caso di Antonino Pio (138-161), l’imperatore originario di Nemausus, dopo la scomparsa del padre Aurelius Fulvus e il nuovo matrimonio della madre Arria Fadilla allevato dai nonni Arrius Antoninus (con. suf. 69; 97)62 e Boionia Procilla63, è interessante notare che costei, una ricca imprenditrice, lasciò un’ingente dote al nipote, come ricaviamo da un’iscrizione del dispensator che si occupò di amministrarla64.
D’altra parte, un cippo funerario ritrovato ad Arles voluto da Lucius Vallius Atillianus per la nonna Iulia Tertullina65, flaminica della colonia di Apta, induce a chiedersi se fosse stato affidato alle sue cure, mentre un altro, che documenta la premura della nonna Annia Pupa nel commemorare il nipote ventiduenne Gaius Annius Atilianus, lascia immaginare che lei avesse provveduto ad occuparsene forse in sostituzione dei genitori morti66.
Nel complesso, in un’area geografica per la quale steli funerarie volute da benestanti signore del ceto medio-alto, desiderose di riunire attorno a sé membri di più generazioni67, sembrano documentare insieme all’importanza attribuita alla custodia della memoria dei legami familiari, il desiderio di “fotografare” in perpetuo l’armonia di nuclei in grado di riconoscere alle donne uno spazio non residuale, queste ultime dovettero comportarsi conciliando peculiarità locali e istanze di cambiamento sollecitate anche dal contatto con costumi provenienti dall’urbe, contribuendo con ciò a realizzare un processo di romanizzazione che non si tradusse tuttavia in ricezione passiva degli antichi mores romani.
Del resto, sotto tale aspetto è utile tener conto in parallelo dell’incidenza che ebbero nella parte meridionale della Gallia il ricorrere di unioni miste68 e casi non rari di mobilità sociale specificamente documentati per il periodo relativo al I-II secolo dell’impero per alcuni centri particolari, come Nemausus69. Né va tralasciato, quanto ad acquisizione di occasioni di espressione di un’identità di gender, che nello stesso periodo in quel territorio alcune donne raggiunsero anche l’onore di un funus pubblico, scaturito dal fatto che ivi poterono inoltre ricoprire importanti cariche sacerdotali come il flaminato70, di per sé significativo per presupporre, fra l’altro, che godessero di una condizione patrimoniale adeguata a sostenere le spese ch’esso comportava71.
Salvaguardia e reinterpretazione dei mores romani nell’Aquitania tardoantica
Due secoli più tardi, la capacità delle donne di ritagliarsi in area gallica spazi di gestione della famiglia in particolari frangenti si ricava anche dalle testimonianze letterarie, segnatamente da alcuni componimenti di Decimo Magno Ausonio.
In anni non lontani da quelli in cui Ammiano Marcellino, lo storico di Antiochia, rievocava le feminae di Aquitania con caratteri palesemente tributari di una tradizione a sfondo etnografico72, un professore di Bordeaux, di rango non particolarmente elevato73, asceso fino ad entrare nel senato municipale e a divenire prima prefetto del pretorio di Gallia (378), quindi console (379) e poi, per volere di Valentiniano I, chiamato a far da precettore a Graziano (ca. 364), nei Parentalia metteva in luce il suo debito nei confronti di consanguinee che ne avevano accompagnato l’infanzia e la giovinezza conquistandosi la sua ammirazione prima ancora della sua gratitudine con il loro rigore e la fedeltà a valori che appaiono tipicamente romani74.
Dalla raccolta, che – come è stato rilevato75 – costituisce un unicum per la sua capacità di far luce su un nucleo familiare della Gallia tardoantica, ricaviamo infatti che oltre ai genitori, sulla sua formazione non incisero solo illustri componenti maschili della famiglia, come il fratello della madre, lo zio Aemilius Magnus Arborius76, un celebre oratore di Tolosa divenuto governatore della Gallia Narbonensis (326) e più tardi tutore del Cesare Costantino77, ricordato con nostalgia dal nipote per esserne stato accudito al contempo nelle vesti di padre e madre78.
In effetti il giovane Ausonio, oltre che su quest’ultima, più tardi celebrata anche per la sue premure nell’allevare i figli79, poté contare sull’assistenza e le cure di quattro donne della famiglia, a cominciare dalla nonna materna Aemilia Corinthia80. Scherzosamente designata in gioventù dalle coetanee Maura, per il suo colorito olivastro81, costei, forse appartenente ai ranghi cittadini più elevati82, si distinse per rettitudine di comportamenti, occupandosi in prima persona del nipote fin dall’infanzia, come suggerisce un cenno nel componimento a lei dedicato, al fatto che lo prese dalla culla e dal seno materno, poi lo educò con autorevolezza austera e al contempo affettuosa83.
Al giovane, per ragioni non facilmente individuabili84, provvidero anche due zie materne, Aemilia Hilaria85 ed Aemilia Dryadia86, ed una zia paterna, Iulia Catafronia87. Della prima, esemplare nel votarsi alla castità e preservarla fino alla morte, ma anche nell’offrire attenzioni e consigli al nipote, come fosse una madre, apprendiamo che ebbe non solo un carattere deciso bensì la fermezza adatta a dedicarsi all’esercizio dell’attività medica, dall’autore reputata tipicamente maschile:
Tuque gradu generis metertera, sed vice matris / affectu nati commemoranda pio, / Aemilia, in cunis Hilari cognomen adepta, / quod laeta et pueri comis ad effigiem, / reddebas verum non dissimulanter ephebum, / more virum medicis artibus experiens. / Feminei sexus odium tibi semper et inde / crevit devotae virginitatis88 amor, / quae tibi septenos novies est culta per annos: / quique aevi finis, ipsae pudicitiae.
Anche tu, zia materna per grado di parentela, ma degna di essere ricordata come una madre dalla pia tenerezza di un figlio, Emilia, soprannominata fin dalla nascita Ilario per il tuo sorriso e per la tua gaiezza, come di fanciullo; ma realmente somigliavi ad un giovanetto quando ti accingevi come gli uomini all’arte medica. Hai costantemente odiato il sesso femminile e per questo crebbe in te l’amore di una devota verginità. L’hai conservata per sessantatré anni e la fine della tua vita fu anche la fine della tua castità89.
Una personalità forte dovette inoltre caratterizzare la sorella di Ausonio, Iulia Dryadia, una femina prudens dotata non solo di tutte le virtù tipicamente muliebri bensì di qualità a giudizio del fratello talvolta assenti anche negli uomini90. Istruita a sufficienza, autonoma nel garantirsi la sopravvivenza attraverso l’esercizio di un’attività di filatura, nonché integerrima per fede religiosa, costei, rimasta vedova in giovane età, continuò a risiedere nella casa paterna fino alla morte, sopraggiunta all’età di sessanta anni91.
Allevato e maturato fra l’affetto di donne a lui legate da vincoli di sangue, Ausonio dovette apprezzarne il sostegno e l’ausilio anche dopo la morte prematura della moglie ventottenne Attusia Lucana Sabina92, appartenente ad un’antica famiglia senatoria di Bordeaux. Al di là della sua scelta di commemorare la sposa defunta facendone un emblema di doti peculiarmente romane e della possibilità che il suo ritratto riflettesse una relazione ispirata all’amore reciproco esistente fra i due coniugi93, i Parentalia ci restituiscono nel complesso l’immagine di un nucleo familiare allargato, all’interno del quale diverse donne interagirono assolvendo a compiti significativi nell’educazione delle giovani generazioni e nell’amministrazione del patrimonio. Su quest’ultimo aspetto è significativo un passaggio del componimento dedicato alla cognata Namia Pudentilla, esemplare nel gestire i propri beni, sopperendo all’inertia del marito, senza dar prova di disappunto né mettere a repentaglio la propria buona reputazione:
Nobilis haec, frugi, proba, laeta, pudica, decora / coniugium Sancti iugiter haec habuit. / Inviolata tuens castae preconia vitae / rexit opes proprias, otia agente viro: / non ideo exprobrans aut fronte obducta marito, / quod gereret totam femina sola domum.
Era di buoni natali, sobria, onesta, gaia, pudica, bella e condivise senza interruzione la vita coniugale di Santo. Amministrava i suoi propri beni, pur conservando intatta la fama della sua castità, mentre suo marito passava il tempo senza far nulla; tuttavia mai un rimprovero, mai una nuvola sulla sua fronte facevan carico al marito di lasciare ad una donna sola tutto il governo della casa94.
In direzione analoga, un secolo più tardi meritano attenzione alcune testimonianze di Sidonio Apollinare, cui dobbiamo fra l’altro una raccolta di lettere preziosa per metterne a fuoco la percezione dell’universo femminile95 e per valutare la posizione delle donne entro strutture e paradigmi familiari dell’Alvernia del V secolo96.
Così un’epistola97, indirizzata alla moglie nel 474 da Lugdunum, sede del suo incarico episcopale, rivela il ruolo speciale che dovettero assumere nella formazione della giovane figlia della coppia, Roscia, le zie e la madre di lui, lasciandoci cogliere oltre alla separazione dei coniugi in un frangente particolare, l’apprezzamento di Sidonio per due consanguinee in grado di assicurare alla nipote un’educazione al contempo premurosa e rigorosa.
Al di là della funzione che si può dedurre esse abbiano assolto prendendosi cura di una delle figlie in una circostanza speciale, nonché del legame che unì in particolare l’autore alla madre per tramite della quale egli si compiaceva di vantare un importante vincolo di sangue (summa sanguinis iuncti necessitudo) con la famiglia degli Aviti98, un’altra lettera permette tuttavia di notare che pur attribuendo alle matres quale merito importante la gravidanza Sidonio riconosceva comunque alla paternità una valenza primaria rispetto all'atto generativo99.
In questa direzione non stupisce che il suo apprezzamento per le donne si traducesse in elogio di virtù muliebri ispirate ad un quadro di valori tradizionali, ma al contempo da esso circoscritte, come si evince dall’elogio riservato alla defunta Filimatia in un’epistola che ne celebrava il profilo di sposa sottomessa, figlia pietosa, madre prolifica ma sfortunata di cinque figli100 e, per converso, da una lettera con la quale esortava Esperio a non permettere alla moglie di sottrarlo al piacere dello studio, invitandolo piuttosto a coinvolgerla come avvenuto nei ménages coniugali di celebri coppie della cultura letteraria romana101.
Del resto, sotto questo aspetto non va trascurato che pur ammettendo di buon grado la possibilità che le donne nutrissero interessi intellettuali, tanto da auspicare in un altro contesto di poter ricevere un parere sulla propria produzione da Eulalia, la dotta moglie del cugino Probo102, stando ad un altro riscontro epistolare Sidonio reputava del tutto ovvia e opportuna l’esistenza di appositi spazi distinti, ad uso femminile, all’interno delle biblioteche delle domus103.
Se da un lato tali informazioni non possono essere interpretate quale espressione di posizioni misogine nutrite dall’autore104, bensì vanno ricondotte alla sua adesione a paradigmi squisitamente quanto tradizionalmente romani che – come è ben noto – fin dall’età repubblicana oltre a ridurne la facoltà di parola imponevano alla donna limiti di autonomia anche all’interno del rapporto coniugale, d’altro lato notizie concernenti il suo nucleo familiare offrono comunque indizi utili a percepire che nell’Aquitania tardo-antica non mancarono figure femminili in grado di ritagliarsi occasioni e spazi d’intervento anche fuori dalle pareti domestiche.
In tal senso, meritano attenzione taluni particolari concernenti la condotta e la personalità tutt’altro che remissiva della moglie Papianilla105. Figlia di un personaggio di estrazione senatoria e cursus illustre come l’Eparchio Avito106 asceso al soglio imperiale dal 455 fino alla morte, l’anno seguente, costei dovette possedere un buon patrimonio su cui non è escluso che abbia tentato di vigilare intervenendo talvolta con piglio autonomo.
Al di là di quanto possiamo dedurre, a proposito del primo aspetto, da un riferimento alla proprietà della villa di Avitacum, sita sulle rive del lago Aydat non lontano da Clermont-Ferrand, da lei portata in dote al marito con le nozze107, una testimonianza di Gregorio di Tours sembra suggerire che non esitasse a farsi avanti per difendere il possesso di beni di famiglia, se è vero che – come riportato in un passaggio della Historia Francorum – in una circostanza, irritata con il marito (scandalizabatur in eum), prodigo ad insaputa della moglie (nesciente coniuge), nell’elargire ai poveri l’argenteria di casa, durante il suo ufficio episcopale, Papianilla si sarebbe spinta a recuperarla riacquistandola108.
D’altra parte, fra le righe dell’epistola già sopra ricordata a comprova del ruolo non defilato assunto dalla madre e dalle sorelle di Sidonio nell’educazione della figlia Roscia, possiamo cogliere oltre all’affettuosa riconoscenza per una moglie capace di mantenersi fedele a nozze interpretate come espressione di unione concorde, anche qualche indizio sulla sua capacità di far fronte da sola a situazioni difficili nonché sull’atteggiamento partecipe con cui dovette seguire le vicende dei propri consanguinei. Dalla lettera, inviata direttamente a Papianilla nel 474, ricaviamo infatti che, informandola del recente conferimento della dignità patrizia al fratello Ecdicio ad opera dall’imperatore Giulio Nepote, Sidonio si compiaceva della decisione di quest’ultimo di dar corso ad una promessa del predecessore Antemio, ma si doleva al contempo di dover comunicare la novità solo per via epistolare alla moglie, allora costretta a fare i conti con il terrore di un assedio imminente. Purtuttavia egli non aveva dubbi sulla gioia che avrebbe procurato la notizia dell’ascesa del fratello a colei che ai suoi occhi appariva un’ottima moglie ed una sorella perfino migliore (si uxor bona, soror optima es)109.
Del ruolo non defilato assunto dalle donne della famiglia del vescovo di Clermont-Ferrand, si potrebbe, del resto, trarre testimonianza anche da un episodio riportato da un discusso passaggio di Gregorio di Tours, stando al quale un’altra figlia della coppia, Alchima, non avrebbe esitato ad intervenire insieme alla cognata Placidina presso il vescovo Quinziano per sostenere la nomina episcopale del fratello Apollinare il Giovane, promettendone l’ubbidienza e finanche spingendo l’interessato a supportare le proprie ambizioni con l’offerta di ricchi doni110.
Sebbene non siamo in grado di stabilire in quale misura i personaggi femminili dell’entourage ausoniano e sidoniano costituissero solo emblemi eccezionali dell’aristocrazia gallo-romana, rimane il fatto che le testimonianze considerate fanno sospettare l’esistenza di un’attitudine al protagonismo non rara fra le donne di rango elevato dell’Aquitania tardo-antica, incarnata da figure in grado di coniugare adesione a valori considerati necessari per la donna romana fin dalla tradizione più antica, interessi culturali ed esigenze di partecipazione attiva ed interazione non subalterna rispetto alle sorti dei familiari e a tutela del patrimonio.
Del resto, merita d’esser rilevato che proviene dalla medesima area anche l’Eucheria autrice nel VI secolo di un componimento in distici elegiaci111 che oltre a costituire uno dei rari casi di produzione letteraria femminile conservatasi, lascia intravvedere il profilo di una donna tanto dotta e raffinata nell’uso della topica poetica in lingua latina quanto autonoma e pungente nel ricorrervi per comporre un testo inteso, poco importa se realmente o fittiziamente, a respingere un pretendente da lei non reputato alla sua altezza: quale che sia stata la sua identità, che si sia trattato cioè di un membro del circolo sidoniano112 o della moglie di un patrizio di Marsiglia dell’avanzato sesto secolo113, il suo lusus letterario rivela quali effetti poté produrre l’assimilazione della cultura romana nella Gallia tardo-antica, e in particolare per mano di una donna pronta a servirsene per esprimere consapevolezza del proprio status sociale e aspirazione a orientarsi in modo autonomo nella scelta del partner.
Considerazioni conclusive
Sebbene il dibattito sulla romanizzazione, ricco di indagini che ne hanno messo in luce la complessità anche con riguardo all’area gallica, abbia riservato scarsa attenzione all’incidenza di fattori di genere, i dati sopra presi in esame suggeriscono che nella Gallia meridionale in età imperiale donne appartenenti a ceti diversi conquistarono posizioni e opportunità di esprimere “un’autonomia di genere” variamente riflessi e restituiti dalle fonti letterarie e da quelle epigrafiche.
Così, da un lato, testimonianze della prima categoria documentaria risalenti ai secoli I-II consentono di rilevare per la Narbonensis il radicarsi di paradigmi genuinamente romani usati da taluni autori (Tacito, Favorino) nel valutarne la condotta, mentre riscontri epigrafici lasciano presumere in parallelo un’ascesa femminile crescente, oltre che in campo imprenditoriale, all’interno di nuclei familiari concepiti in modo da attribuire spazio significativo sul piano affettivo anche alle nutrices.
D’altro canto, informazioni e riflessi delle vicende biografiche concernenti due eminenti esponenti della cultura gallica, fedeli ad un’idea di Romanitas elevata a baluardo identitario, come Decimo Magno Ausonio e Sidonio Apollinare offrono informazioni utili a intuire la posizione non marginale raggiunta nei secoli IV-V da donne di milieu alto. Nonostante la diversa prospettiva, rispettivamente pagana e cristiana, dall’opera composta dall’uno per commemorare i membri della propria famiglia, nell’area di Bordeaux, e dall’epistolario dell’altro, non privo di dettagli inerenti soggetti femminili collocabili nell’area di Clermont-Ferrand, emergono indizi sufficienti per notare che nell’Aquitania tardoantica, pur continuando a costituire motivo di apprezzamento l’adesione delle donne a mores e valori risalenti alla più antica tradizione romana (pudicitia, probitas, fides) talvolta rivisitati anche alla luce del nuovo credo religioso, alcune di esse, facendo leva su un elevato status sociale, intervennero con volitività crescente nella gestione dei membri e delle risorse della famiglia, garantendosi inoltre occasioni di accesso alla cultura e ad attività considerate per lo più maschili, come quella medica.
Nel complesso, malgrado la discontinuità e l’eterogeneità dei dati, il quadro delineato autorizza a ritenere che nell’area studiata oltre alle strutture familiari114, anche la condizione femminile conobbe un processo evolutivo peculiare, sicché l’assimilazione dei valori romani non limitò opportunità di ampliamento di ruoli autonomi per le donne in particolari contesti sociali, traducendosi in un’alterità di costumi capace di esprimersi come identità locale e destinata a produrre effetti più consistenti in età merovingia.