La proposta che vorrei approfondire è quella di cogliere nel personaggio storico di Jane Avril una figura della massa e delle sue ambivalenze. In questa luce, si tratterà innanzitutto di valutare quali sono le inerenze del personaggio alle elaborazioni contemporanee della nascente psicologia delle folle e della produzione estetica, per poi coglierne gli elementi di irriducibilità. A un tale scopo, l’indagine si potrebbe far partire dal 1893, quando ad Henri de Toulouse-Lautrec viene commissionata una litografia per la copertina della prima uscita di L’Estampe originale, una rivista che intende rivolgersi a un pubblico di collezionisti come raccolta di un certo numero di incisioni d’autore. All’epoca Toulouse-Lautrec ha già dipinto a olio un ritratto intitolato Jane Avril e una prima Jane Avril dansant, la Jane Avril che entra al Moulin Rouge e quella che lo abbandona, mentre proprio negli stessi mesi si prepara a produrre le due litografie di Jane Avril au Jardin de Paris e la Jane Avril che dovrà comparire sui manifesti del Divan Japonais. Così, anche il lavoro commissionato da L’Estampe originale si rivela una grande occasione per sviluppare lo studio di un soggetto che lo sta già impegnando da qualche tempo e che lo continuerà a impegnare fino al 1899, concretizzandosi nella pubblicazione di una Jane Avril chez l’imprimeur lithographe che ci potrebbe fornire alcune indicazioni interessanti (Pedley-Hindson , 2005).
1. Turbolenze sociali
Ha scritto Walter Benjamin: “La storia di ogni forma d’arte ha delle epoche critiche in cui questa forma spinge con urgenza verso certi effetti che si potranno produrre senza sforzo soltanto con uno standard tecnico trasformato”. Per esempio, aggiunge, “il dadaismo ha provato a generare con gli strumenti della pittura (e della letteratura) quegli effetti che oggi il pubblico cerca nel cinema” (Benjamin, 2012, pp. 83-84). Ed ecco allora che anche noi, sul volto sempre identico e vagamente robotico di Jane Avril, potremmo cominciare a sospettare le prefigurazioni di alcuni procedimenti dovuti alla pressione esercitata dalla massa sullo statuto dell’opera d’arte quali il ready-made, il collage, il détournement o il palinsesto pittorico e litografico del cosiddetto “schema iterativo”, cogliendo la precedenza delle trasformazioni interne alla storia della percezione rispetto al loro completamento negli effetti del progresso tecnico e tecnologico. Oltretutto, il contesto nel quale adesso Jane Avril interpreta insistentemente se stessa è molto singolare, perché non siamo più all’interno o nei pressi di una sala da ballo ma dentro l’officina di uno stampatore, dove la diva darebbe quasi l’impressione di essersi recata per vagliare e forse licenziare una pila di stampe che verosimilmente la ritraggono. Ora non abbiamo più a che fare con una semplice rappresentazione di Jane Avril, ma con la rappresentazione del controllo che lei sembra voler esercitare sulla propria rappresentazione o con quella che forzando un po’ le cose si potrebbe considerare un’allegoria o una testimonianza della sua volontà di auto-rappresentazione.
A questo punto saremmo forse tentati di ipotizzare che il manifesto impugnato e scrutinato da Jane Avril sia lo stesso in cui lei osserva e giudica, creando non solo un cortocircuito interno alla destinazione di una rivista che ha la pretesa di mantenere un rapporto feticistico con l’originale (perché qui la copia verrebbe autenticata semmai da tutte le altre copie sorelle, istituendo quello che potremmo ragionevolmente considerare un “rapporto sociale tra cose”) ma anche un episodio di più ordinaria mise en abîme. Non potendo stabilirlo con certezza, però, sarà sufficiente constatare che al termine di quella sua ispezione, la soddisfazione di Jane Avril dovrà comunque dipendere dalla corrispondenza tra il volto che viene ispezionato e il volto dell’ispettrice, la quale si ritrova a operare nel gran mondo delle relazioni con il pubblico, la folla dei potenziali spettatori o più in generale con la dimensione della massa che vengono implicati da una strategia dell’immagine deputata all’affissione (e in un luogo di lavoro, la stamperia, preposto all’elaborazione di questa strategia).
Del resto, la stessa massa coinvolta dal modo in cui Toulouse-Lautrec gestisce l’immagine di Jane Avril sembra trovare una serie di riscontri sia pure taciti nelle pagine autobiografiche con le quali è lei stessa a parlare di sé. Il più clamoroso di questi riscontri riguarda senza dubbio la sua dichiarata riluttanza nei confronti delle proposte di “pittori, scultori, disegnatori e fotografi” che non le avrebbero probabilmente assicurato un controllo altrettanto personale della propria immagine, poche righe prima che lo stesso atteggiamento venga riservato alla proposta di venir filmata (Avril, 2015, p. 50). Il secondo potrebbe riguardare l’impressione di una certa civetteria che restituiscono delle memorie nelle quali abbiamo continuamente a che fare con una voce narrante che non manca di vantare le più illustri e altolocate conoscenze (soprattutto in ambito artistico e culturale) ma allo stesso tempo si dichiara indegna e che riferisce dei suoi numerosi spasimanti come uno strano fenomeno del quale lei stessa non è in grado di comprendere le ragioni. Civetteria nei termini di Georg Simmel, allora, in quanto creatrice di un’esitazione tra il sì e il no della quale è soltanto la civetta a poter disporre, uno spazio di libertà e di potere presidiato da “l’essere per sé – scrive Simmel – che è riuscito a dominare i contrasti” (Simmel, 1985, p. 89). Uno spazio – ed ecco il terzo aspetto che mi sembra di poter illuminare nella prospettiva dischiusa dalla Jane Avril chez l’imprimeur lithographe – che è proprio quello dell’isteria, una volta definita come un’azione di conformità deliberata e “per sé” (appunto) all’assenza di fondamento dei saperi e delle pratiche che ne hanno oggettivato l’identificazione. Anche se in via del tutto preliminare, dunque, a questo punto sembreremmo disporre di quattro elementi che si possono definire l’uno in rapporto all’altro, a partire dalla sensazione che il volto seriale di Jane Avril possa finalmente stare all’implicazione del pubblico, della folla e della massa come le convulsioni e gli ammiccamenti dell’isterica stanno alla clinica di Jean-Martin Charcot.
Nel tentativo di procedere, non sarà inutile situare il successo di Jane Avril nel contesto più ampio dell’affermazione di alcuni luoghi costitutivamente affollabili e affollati come le esposizioni universali e i grandi magazzini, contemporanei all’istituzione della Confédération générale du travail (1895). Più nel dettaglio, tra il 1870 e il 1895 si sommeranno quasi 2700 scioperi, tra cui quello dei vetrai nel marzo 1894 durato 317 giorni, mentre a partire dal 1888 comincia a circolare la parola d’ordine “sciopero generale” che viene ufficialmente adottata dal movimento sindacale nel 1892 (Lazzeri, 2016). Nel frattempo, con il primo pellegrinaggio nazionale dei malati al santuario di Lourdes (1873), la folla ha cominciato a destare l’interesse della Salpêtrière, il cui stato maggiore sembra intenzionato a contrastare nei nuovi fenomeni di massa la reinsorgenza e il conseguente scandalo del sacro. Nel cantiere di quella che sta per essere definita “medicina retrospettiva”, così, Gilles de la Tourette si occuperà di un caso di isteria ninfomane ambientato tra le mura di un convento di orsoline nel 1632 (è il caso di Suor Giovanna degli Angeli), mentre Bourneville dirigerà la collana “Bibliothèque diabolique” per la quale il dottor Paul Regnard, nel 1887, pubblica un testo che sembra anticipare molti dei temi ai quali daranno presto una forma più sistematica Gustave Le Bon e Gabriel Tarde.
2. Danza e socialismo
La tesi più rilevante e decisiva di Regnard è che certi fenomeni si possono comprendere soltanto alla luce di una sorta di “mimetismo sociale”. Prendete un individuo qualunque e fatene una folla, scrive: vedrete a quali eccessi si abbandonerà. E aggiunge: “Questa tendenza all’imitazione è stata talmente colta dai legislatori di tutti i tempi, che ovunque incontriamo delle leggi contro gli assembramenti” (Regnard, 1887, p. XI). Esiste infatti una follia per imitazione che secondo Regnard si può illustrare a partire dal caso emblematico delle streghe, le antenate medievali delle pazienti della Salpêtrière. Antenate già da sempre coinvolte in una dinamica di massa, sembra dire, perché in rapporto simbiotico con i battaglioni di demoni che Satana oppone alle armate celesti degli angeli, “folle immense di demoni” – le definisce – che si organizzano in una gerarchia molto scrupolosa di sessantadue notabili e 7.405.928 diavoli comuni (p. 9). Ed è per invidia del Creatore che Satana convoca queste sue folle demoniache nel sabba, la parodia di tutte le cerimonie religiose che si tiene di notte presso un cimitero abbandonato, in aperta campagna o tra le rovine di un monastero e alla quale prendono parte tutte le streghe di una medesima regione. All’inizio Satana è seduto sul trono della presidenza con la testa e i piedi da capra, una lunga coda e le ali da pipistrello, ma dopo che le streghe e i demoni hanno banchettato partecipa lui stesso al momento topico e climaterico dell’adunata che consiste nello scatenamento di danze tanto oscene, scrive Regnard, da renderne inopportuna la descrizione (pp. 23-28). Chi proprio non potesse fare a meno di saperne di più dovrà consultare i verbali originali, aggiunge, che fortunatamente sono scritti in latino.
Di questo limite pudibondo della descrizione bisognerà tornare a occuparsi, ma intanto le parti degli interrogatori che Regnard ritiene di poter tradurre ci forniscono alcune informazioni interessanti su quali siano le prove incontrovertibili della partecipazione al sabba e alle sue danze, le quali poi comportano l’accusa di stregoneria e la messa a morte. Innanzitutto il “sesso” (Regnard scrive proprio così), dal momento che il rapporto è di mille streghe per ogni stregone (p. 30). Poi vengono il pallore e la sporcizia causati dalle frequenti metamorfosi delle streghe in qualche animale (e bisognerà ricordarsi qual è il rapporto che verrà istituito da Elias Canetti tra massa, potere e metamorfosi), gli abiti molto eccentrici e infine una serie di caratteristiche comuni alla strega e alle cosiddette statue viventi di Charcot, le isteriche: la presenza di alcuni punti insensibili del corpo che si possono pungere senza che fuoriesca una goccia di sangue (è il cosiddetto sigillum diaboli), le contratture, le convulsioni, le allucinazioni e l’arco di ponte, la figura che consiste nel reggere tutto il peso del corpo in un arco compreso tra la nuca e i talloni e che verrà immortalata nella Iconographie Photographique de la Salpêtrière, a cura di Bourneville e dello stesso Regnard. Perché proprio come la stregoneria, scrive Regnard, anche l’isteria si può propagare in modo epidemico, dal momento che l’attacco di una singola isterica diventa il “focolaio di imitazione” che contagia la folla di tutte le altre (p. 175).
In conclusione, quindi, volendo provare a divinare quale sarà l’epidemia spirituale del XX secolo, Regnard introduce nella nascente o incombente psicologia delle folle un tratto che dovrà mantenere a lungo e che la fa chiaramente risultare come una specie di esorcismo interno al paesaggio di scioperi e turbolenze sociali che abbiamo abbozzato. Allo stesso modo in cui la stregoneria è una forma di follia riconducibile alla miseria e alla disperazione, infatti, le diseguaglianze del secolo alle porte potrebbero spingere alcuni uomini a cercare i mezzi per rimediare alla propria, di miseria, gettandosi tra le braccia di quei teorici che rinviano la soluzione di qualunque problema alle condizioni economiche delle nostre esistenze. Tanto più che alla fine della giornata, scrive Regnard, il miserabile diventa preda dell’alcol e ascolta le promesse di questi cattivi maestri per poi disporsi a spaccare, demolire e bruciare tutto. È quanto è avvenuto con la Comune di Parigi, che Regnard sembra nominare indirettamente con un riferimento ai “monumenti secolari distrutti in una bella sera di maggio” (e per la precisione il 16 maggio 1871, direi, quando i comunardi hanno abbattuto la Colonna Vendôme) ed è quanto accade tuttora, conclude lo psichiatra, all’epoca in cui ogni giorno si sente “qualche illuminato che predica il rovesciamento di ogni cosa” (p. 429).
Il primo dato che mi pare importante acquisire, prima ancora delle valutazioni di ordine politico, riguarda l’istituzione di un rapporto storicamente mediato (dalla stregoneria e dall’isteria) tra la danza e la folla. Non solo perché ci era parso di poter indovinare la presenza di una correlazione ancora tutta da comprendere ma comunque analoga nella Jane Avril chez l’imprimeur lithographe, ma perché si tratta di una pista ulteriormente percorribile. Lo storico della letteratura Alain Pagès, per esempio, ha dimostrato come alle origini della rappresentazione naturalista della folla ci potrebbero essere le scene letterarie di danza comprese tra il 1860 e il 1885, con particolare riferimento alla Germinie Lacerteux dei Goncourt, a La femme de Paul di Maupassant e a Germinal. A rendere conto della medesima evoluzione sarebbe la stessa etimologia, dal momento che il termine foule deriva dal verbo fouler, calpestare, vale a dire che anche alla costituzione linguistica della folla corrisponde innanzitutto la dimensione fisica del passo in relazione alla gravità e alla pressione tra i corpi (Pagés, 1998).
La danza compare del resto in un passaggio nevralgico del testo che più di qualunque altro avrebbe ipotecato il modo in cui le scienze umane, nella prospettiva già indicata dalla psichiatria, si stanno apprestando a stigmatizzare il protagonismo storico e politico della massa: La psicologia delle folle di Gustave Le Bon (1895). Tradotto in diciassette lingue, lo studio di Le Bon si sarebbe presto rivelato un vero e proprio bestseller mondiale che solo nel primo quarto di secolo verrà ristampato quindici volte, che come è probabilmente noto si aggiudicherà la devozione di Benito Mussolini e che allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, nel 1939, giungerà alla sua quarantunesima edizione (Rubio, 2008). I motivi per i quali ritengo nevralgico questo passaggio sono due: perché in quel momento Le Bon si deve in qualche misura caratterizzare rispetto alla fonte non dichiarata e mai citata delle sue analisi, La folla delinquente pubblicata da Scipio Sighele nel 1891 e subito recensita positivamente in Francia sia da Charles Richet (un altro allievo di Charcot) che da Gabriel Tarde (Van Ginneken, 1985); e perché nel differenziarsi, vale a dire nel sostenere che non esiste una folla specificamente criminale dal momento che qualunque folla si può considerare un insieme di “semplici automi incoscienti guidati dalla suggestione”, non più criminali di quanto lo sia “una tigre che divora un Indù”, sta naturalizzando la presunta bestialità di qualunque formazione collettiva, non solo quella riconducibile alla criminalità comunemente intesa. Nel compiere questa operazione, appunto, Le Bon ricorre all’esempio dei cosiddetti “settembristi”, cioè di coloro che ai primi di settembre del 1792 diedero luogo al massacro di seimila detenuti nelle carceri parigine accusandoli di sostenere la monarchia. Un massacro che si può considerare criminale dal punto di vista legale ma non psicologico, spiega, dal momento che i carnefici agivano nella convinzione di commettere un atto tanto lodevole da consumare il massacro in un’atmosfera di “piacevole allegria”. E proprio nel tentativo di rendere plateale questo genere di atmosfera, quindi, Le Bon racconta: “Si balla e si canta intorno ai cadaveri e si dispongono le panche ‘per le signore’ felici di veder uccidere gli aristocratici” (Le Bon, 2004, p. 205).
È ancora la danza, dunque, a rivelare quale sia la vera natura delle folle, anche se mentre Le Bon aggiunge che “la storia della Comune del 1871 ci dà parecchi esempi simili”, assistiamo contestualmente alla rivelazione di quale sia la vera natura della psicologia sociale. D’altronde, accodandosi più o meno consapevolmente a quanto ha sostenuto Regnard nelle pagine conclusive di Les Maladies épidemiques de l’esprit, il principale problema che Le Bon dichiara di avere con le folle è che queste “formano i sindacati davanti ai quali tutti i poteri capitolano, [e] creano le camere del lavoro che, a dispetto delle leggi economiche, tendono a regolare le condizioni dell’impiego e del salario”. O ancora:
Oggi le rivendicazioni delle folle si fanno sempre più precise e tendono a distruggere da cima a fondo la società attuale per riportarla a quel comunismo primitivo che fu la condizione normale di tutti gli aggregati umani prima dell’aurora della civiltà. Limitazione delle ore di lavoro, esproprio delle miniere, delle ferrovie, delle industrie e del suolo; suddivisione alla pari dei prodotti, eliminazione delle classi superiori a profitto delle classi popolari e così via (p. 34).
Ma mentre la folla delle streghe si radunava nei luoghi preposti alla celebrazione del sabba (rovine, aperta campagna, cimiteri eccetera), ora non è più necessario che i corpi entrino fisicamente in contatto tra loro e con lo spazio, dato che “migliaia di individui separati – scrive Le Bon – possono […] acquistare le caratteristiche di una folla psicologica” (p. 47), la quale risulta pertanto un sinonimo della massa. E che soprattutto non è la somma o la media delle sue componenti individuali, “ma combinazione e creazione di elementi nuovi”, un po’ come accade nei processi chimici nei quali “le basi e gli acidi si combinano per formare un corpo nuovo dotato di proprietà diverse da quelle dei corpi che hanno servito alla sua formazione” (p. 50). Per quanto risulti curioso e probabilmente significativo che a illustrare la composizione di un soggetto disincarnato (la folla psicologica) debba intervenire il paragone con il comportamento di altri corpi, atteniamoci alla conclusione per la quale l’anima collettiva annullerebbe le singole individualità per dissolverle in quelli che Le Bon definisce gli “innumerevoli residui ancestrali che costituiscono l’anima della razza” (p. 51).
A favorire questa dissoluzione concorrono quindi tre cause: il sentimento di potenza che gli individui traggono dallo stare insieme, il contagio mentale e soprattutto la suggestione. Tuttora che la singola individualità si è dissolta nella folla, infatti, l’individuo è come ipnotizzato e “diventa schiavo di tutte le sue attività inconsce, dirette dall’ipnotizzatore a suo piacimento. La personalità cosciente è svanita, la volontà e il discernimento aboliti. Sentimenti e pensieri vengono orientati nella direzione voluta dall’ipnotizzatore” (p. 54). In sintesi, continua Le Bon, si tratta di un soggetto che “non è più se stesso ma un automa”, lo stesso automa del quale ci era parso di poter indovinare l’arresto meccanico sulla maschera che Toulouse-Lautrec fa insistentemente indossare a Jane Avril. D’altronde, ad accomunare le streghe e la folla di Le Bon è ancora il sesso, come direbbe Regnard, vale a dire che nella loro impulsività e nella loro conseguente incostanza le folle si rivelano “femminili” e “le più femminili di tutte sono le latine” (p. 63). Ma si tratta di un’incostanza solo apparente, in fondo, perché “come tutti i primitivi” anche le folle conservano la più totale incapacità di modificare la propria condizione, rimanendo sempre identiche a se stesse (p. 81). Anche quando svolge una funzione trasformativa, infatti, la folla sta semplicemente subendo la manipolazione di qualcuno che ne ha saputo orientare le idee e i comportamenti: è accaduto con “la creazione del Buddismo, del Cristianesimo, dell’Islamismo, la Riforma, la Rivoluzione francese” e continua tuttora ad accadere con “l’invasione minacciosa del Socialismo”, scrive Le Bon (p. 96). Tanto più oggi che l’istruzione “presenta il pericolo molto serio di ispirare a chi l’ha ricevuta un disgusto violento della condizione in cui è nato, e l’intenso desiderio di uscirne. L’operaio non vuole più restare operaio, il contadino non vuole più essere contadino, e l’ultimo dei borghesi ritiene che l’unica carriera possibile per i suoi figli sia quella statale”. Va da sé che per risolvere tutti i problemi causati dalla scolarizzazione di massa, Le Bon ritenga necessario “sostituire gli odiosi manuali e i pietosi concorsi con un’istruzione professionale capace di riportare la gioventù verso i campi, gli opifici e le imprese coloniali” (p. 126). Non si tratta allora di rompere il cerchio della suggestione, ma di farlo girare in una direzione opposta a quella odierna, verso le fabbriche, la terra e le colonie. Perché sempre, “non appena un certo numero di esseri viventi sono riuniti [...] ricercano d’istinto l’autorità di un capo, di un trascinatore” che adesso pare trovino in “quei nevrotici, esagitati, semi-alienati che vivono al limite della follia” e le cui volontà si propagano allo stesso modo in cui agivano i focolai di imitazione ai quali si riferiva Regnard. Spiega infatti Le Bon:
Il fenomeno si osserva anche tra gli animali riuniti in folla. Il tic di un cavallo in una scuderia viene presto imitato da tutti gli altri cavalli della stessa scuderia. Una paura improvvisa, un movimento inconsulto di qualche pecora si propaga presto all’intero gregge. Il contagio delle emozioni spiega la subitaneità del panico. Anche i disordini cerebrali, come la follia, si propagano per contagio (pp. 160-161).
Sulla base di queste premesse, Le Bon approfondirà poi lo studio più particolareggiato delle “rivendicazioni delle folle” in un testo del 1899 intitolato Psicologia del socialismo nel quale suggerisce di sfruttare il lavoro dei “trascinatori” e le dinamiche del contagio e della suggestione per condurre le folle ipnotizzate verso traguardi più nobili. Ed è una volta tradotta in tecnologia di governo, evidentemente, che la sua visione delle cose susciterà l’interesse e l’identificazione dei vari Mussolini.
Ma si tratta di un risultato davvero parziale e ancora inadeguato, per noi, dal momento che a questo punto dovremmo tornare nell’officina dello stampatore litografo soltanto per sorprendere Jane Avril alle prese con il ruolo della meneuse des foules, la trascinatrice, colei che attraverso il controllo della propria immagine sta civettando con il pubblico allo scopo di sedurne e dirigerne le aspettative. La danza, così, si ridurrebbe all’equivalente funzionale di qualunque altra merce, senza instaurare con la Jane Avril di Toulouse-Lautrec e dell’autobiografia alcun rapporto specifico. Al contrario, sostenere che il volto di Jane Avril potrebbe stare alla massa come le convulsioni dell’isterica stanno alla clinica di Jean-Martin Charcot, comporta un’indagine relativa ai rapporti che intercorrono tra quel volto e le attese che il pubblico parigino della Belle Époque ritiene di poter riporre nelle sale e negli spettacoli di danza, proprio come le convulsioni devono necessariamente soddisfare determinati e non generici criteri diagnostici. E una volta stabilita la proporzione, inoltre, varrà la pena rimarcare che l’incognita della quale stiamo andando in cerca, una figura della folla, si ottiene in riferimento a una strategia, quella isterica, che nel momento esatto in cui si attiene a determinati canoni figurativi sta soltanto simulando la propria aderenza alla presunta veridicità dei saperi ai quali intende sopravvivere.
3. Estetica della meccanica sociale
Alcune indicazioni risolutive ce le può allora fornire un saggio di Rae Beth Gordon intitolato From Charcot to Charlot, a partire dalla constatazione di come anche la danza di Jane Avril sia contemporanea alle ricerche con le quali filosofi, psicofisiologi e psichiatri concordano nel mettere in evidenza l’infrastruttura dinamica della percezione (Gordon, 2001, p. 519). Vale a dire che la percezione non si deve più risolvere integralmente in un’immagine mentale o nella sfera sensoriale, ma implica ora una componente motoria: “Non c’è percezione senza movimento” ha scritto nel 1884 Charles Richet, il primo recensore francese de La folla delinquente al quale abbiamo già fatto riferimento (p. 520). Il che significa non solo che il movimento è un fattore costitutivo dell’oggetto percepito o una condizione variabile del soggetto che percepiente, ma che la percezione stessa consiste in una serie di reazioni corporee che replicano la forma e il movimento dell’oggetto nelle trasformazioni interne al soggetto. Così, ai confini tra la coscienza dell’artista e quella del fruitore, subentra un processo di “imitazione inconscia” o di “mimetismo interno” che insiste sulle medesime correlazioni che ci era parso di poter stabilire tra l’individuo ipnotizzato, la strega in quanto focolaio di imitazione, l’isteria, i cavalli dei quali scrive Le Bon e dunque la folla. Anzi, scrive Rae Beth Gordon, la scoperta stessa di un inconscio corporeo – perché a differenza della “folla psicologica” abbiamo nuovamente a che fare con la dimensione dell’intercorporeità – si deve proprio allo studio dei riflessi automatici e dei gesti ripetuti condotti dai medici sui casi di isteria e di ipnosi.
Sarà il tema dell’incorporazione, pertanto, a fornirci una chiave di lettura di ciò che accade nelle sale da ballo o negli altri luoghi deputati all’incontro tra uno spettacolo e la folla del pubblico, facendo assumere una notevole rilevanza alla tipologia dei gesti prodotti e riprodotti, osservati e compiuti internamente, imitati e vissuti. La danza stessa, come Rae Beth Gordon sottolinea in un altro testo intitolato Dances with Darwin, non potrà che ricavarne una perdita d’innocenza che a partire dal 1870 i medici hanno insistentemente ricondotto alle sue commistioni con la patologia (Gordon, 2009). Un’associazione clinica, questa, che nei termini della coreomania (la diagnosi di Jane Avril), del tarantismo, del ballo di San Vito o più in generale dell’organizzazione figurativa alla quale si devono adeguare le internate della Salpêtrière, si rifletterebbe nella percezione popolare e nelle elaborazioni letterarie del cancan come una variante occasionale del grande attacco isterico. Come stabilisce Paul Souriau in un testo del 1889 intitolato L’Esthétique du mouvement, insomma, il gesto della ballerina, lo stesso gesto che secondo la medicina sperimentale la sta imparentando alla malata, agisce per contagio e può finire col provocare nel corpo dello spettatore una reazione imitativa degli stessi disturbi di cui è il sintomo (Souriau, 2010, p. 120). La danza viene quindi associata al rendersi manifesta di una seconda personalità nella quale si fa progressivamente strada la scoperta dell’inconscio, annunciata di volta in volta dalle varie identificazioni più o meno metaforiche del cancan con gli animali selvatici, le donne nere o più in generale con un repertorio di automatismi, contratture e figure dello smembramento che rinviano alla capitolazione della coscienza. Tutti aspetti del corpo patologizzato, questi, che anche in forma di razzializzazione ritroviamo al centro dello stile performativo del cabaret e del cinema delle origini, mentre alla destituzione dell’individualità cosciente dovrà corrispondere il dispotismo della sensazione e del corpo al quale viene attribuito il comportamento bestiale e meccanico delle “masse incantate”.
L’epoca dei trionfi di Jane Avril al Moulin Rouge e alle Folies Bergère, in altri termini, è anche quella degli scatti, i tic, le agitazioni corporee, le risate convulse e la perdita del controllo che sembra accomunare la classe (radunata in sciopero), il genere (la folla è femminile, scriveva appunto Le Bon) e la razza (le “donne nere”, i “popoli primitivi”) alla coeva produzione di opere artistiche e di intrattenimento. Lo si coglie e lo si potrà cogliere sempre più chiaramente nelle continue analogie tra l’umanità e il mondo meccanico che il volto di Jane Avril potrebbe aver annunciato, nelle marionette di Georges Méliès in un film come Dislocations extraordinaires (1905), nella “fisicofollia” auspicata da Marinetti con il manifesto intitolato appunto Le Music-hall (1909), nell’anarchia corporea e nell’ilarità di Dada, nella biomeccanica di Mejerchol’d e di Ėjzenštejn ma anche negli automi lavoratori di Franz Wilhelm Seiwert o in quelli reduci della grande guerra di Heinrich Hoerle e George Grosz (che nella sua autobiografia chiamerà i combattenti “formiche meccaniche”), in Metropolis (1927), nell’importanza attribuita da Dziga Vertov alla funzione della macchina o nelle prossemica di Charlot, Ridolini, Stanlio e Ollio e Buster Keaton. In definitiva, come sostiene Rae Beth Gordon, si direbbe quasi che il dolore e la liberazione del corpo isterico abbiano giocato un ruolo davvero decisivo nel plasmare l’espressione estetica nei primi decenni del XX secolo (Gordon, 2001, p. 549). Ed è appunto questa la prospettiva in cui mi pare ragionevole comprendere anche le Jane Avril di Toulouse-Lautrec, del quale lo storico dell’arte Émile Schaub-Koch, in una monografia del 1935 e con esplicito riferimento all’ambientazione delle sale da ballo, scriverà:
Nessuno più di Lautrec ha capito che la folla ha un’anima del tutto differente dalla somma delle anime individuali che la compongono. Sotto questo aspetto le grandi opere di Lautrec sono singolarmente rappresentative e sintetiche. Sintetici soprattutto i modelli anonimi che, in primo piano, riassumono in qualche modo l’opera completa. Le tele e i cartoni che studiano i music-halls, i circhi, i caffè, i teatri... (Schaub-Koch, 1935, p. 57).
Ma una volta accertato che Toulouse-Lautrec, in realtà, condivide questo suo presunto primato con la contemporanea e letteralmente analoga formulazione di Le Bon, sarà finalmente giunto il momento di porre la domanda più impegnativa: siamo davvero autorizzati a classificare lo stile coreografico di Jane Avril tra le rubriche di questa estetica della meccanica sociale e dell’isteria, delle macchinazioni del corpo e della follia delle macchine? Probabilmente no, hanno sostenuto Michel Bonduelle e Toby Gelfand con l’unico argomento (fragile ma unico) del quale disponiamo anche noi, perché sebbene quello stile fosse vivace al punto da farla definire “posseduta”, i contemporanei concordano nell’averlo giudicato talmente elegante e aggraziato da impedirci di attribuirle le movenze tipiche di una marionetta o di un automa (Bonduelle, Gelfand, 1999). Quelle movenze, semmai, le ritroviamo ancora una volta (e sempre con lo stesso volto) quando a stilizzarne la danza è sempre Toulouse-Lautrec, nella Jane Avril dansant del 1892 come nella Jane Avril del 1899, del tutto coerenti alla Jane Avril che entra ed esce dal Moulin Rouge o che si reca in litografia, l’impresaria di se stessa e della propria immagine, la quale non coincide necessariamente, anzi: a questo punto pare di poter davvero escludere che potesse coincidere con una Jane Avril ugualmente invischiata nella folla e in una danza della quale non possediamo alcuna immagine e che non doveva sicuramente avere molto a che fare, a quanto ne dice lei stessa, con le sessioni più decorative e meccaniche dei suoi spettacoli. Perché quando racconta di aver dovuto partecipare controvoglia a una di quelle sessioni, per esempio, le ricorda in termini inequivocabili: “Ero nella condizione di dover offrire i miei passi agli spettatori – scrive nelle memorie – e avevo la vaga sensazione di compiere un atto di servilismo nell’applicarmi a piacere agli altri mentre mi muovevo al ritmo trascinante dei walzer” (Avril, 2015, p. 50).
Se davvero all’orizzonte si profila una resa storica della danza alla “meccanizzazione” dei corpi, come la definirà Siegfried Kracauer, un esito più coerente all’estetica dell’isteria con il quale “la figura umana inserita nelle figurazioni ornamentali di massa ha intrapreso l’esodo dal rigoglioso splendore organico” (Kracauer, 1982, p. 107), bisognerà domandarsi quali sono le ragioni che inducono Jane Avril a identificarsi con la maschera rituale che indossa e pretende di indossare nella stamperia del litografo e in qualunque altro ritratto di Toulouse-Lautrec, offrendo allo sguardo degli altri un’immagine di sé che non corrisponde alla probabile percezione del suo corpo in movimento. Ed è la testimonianza vivente di un altro pittore che ci può forse aiutare a formulare meglio il nostro problema, un’annotazione di Francis Jourdain secondo il quale, davanti alle esibizioni di Jane Avril, “la danza perde il suo carattere astratto per diventare linguaggio, smette di essere arte puramente decorativa per assumere un accento umano; l’arabesco tracciato nello spazio da una gamba ispirata non è più un segno vuoto, ma una scrittura” (Caradec, 2001, p. 71). Scrittura che grazie al suo accento umano, quindi, si conferma estranea all’esodo dal “rigoglioso splendore organico” nel quale starebbe precipitando la meccanizzazione della danza: una scrittura intraducibile, allora, proprio come non si potevano tradurre dal latino le descrizioni del sabba o come la stessa Jane Avril potrebbe aver ribadito attraverso la controfigura dalla quale si lascia puntualmente sostituire sulle tele e i manifesti di Toulouse-Lautrec. Il cui automa, pertanto, ci consente di cogliere nella Jane Avril chez l’imprimeur lithographe e nella sua volontà di auto-rappresentazione non tanto il desiderio di corrispondere alla realtà, ma di farne piuttosto l’impedimento alla traduzione di una scrittura che deve rimanere esterna al lavoro di qualunque rappresentazione.
Torna alla mente l’apologo di Potëmkin con il quale Benjamin introduce il saggio su Kafka. Anche Potëmkin soffre di un male che gli impedisce di identificarsi con le funzioni che i tempi gli hanno assegnato e non può essere là dove l’attendono l’imperatrice e l’impero, nelle firme da apporre sui troppi atti pubblici che in conseguenza di questa sua intraducibilità si sono via via accumulati sulle scrivanie degli uffici ministeriali. Al recupero delle firme ritiene allora di poter provvedere lo scrivano Šuvalkin, che gli sottopone la pila delle pratiche da sbrigare e che in questo modo intende restaurare la corrispondenza tra Potëmkin e ciò che Potëmkin rappresenta (o ciò che lo rappresenta: la firma). Ma proprio questa restaurazione fornisce a Potëmkin un’ulteriore occasione per ribadire la propria assenza ed è soltanto con il nome di Šuvalkin che si concede ai vincoli della rappresentazione. Scrive infatti Benjamin: “Un atto dopo l’altro era firmato: Šuvalkin, Šuvalkin, Šuvalkin...” (Benjamin, 1962, p. 261-262).
E forse allora le cose stanno davvero così, che l’immagine di Jane Avril deve restituire un certo modo di intendere la folla proprio come sulle lastre al collodio umido della documentazione fotografica della Salpêtrière devono apparire l’arco di ponte e le altre presunte fattezze dell’isteria. Ai teoremi di Gustave Le Bon, dunque, verrebbe riservato il medesimo trattamento che le isteriche rifilano alla clinica di Jean-Martin Charcot, proteggendo la contingenza della folla e delle sue danze dagli esorcismi elaborati nel cantiere della nascente psicologia sociale. Un cantiere che assegna una funzione costitutiva proprio al tema dell’immagine, dal momento che “la folla pensa per immagini e l’immagine evocata evoca a sua volta una serie di altre immagini senza alcun nesso logico con la prima” (Le Bon, 2004, pp. 64-65). E questo perché “le folle si trovano pressapoco nelle condizioni del dormiente – aggiunge Le Bon – le cui facoltà razionali, momentaneamente sospese, lasciano nascere nella mente immagini di estrema intensità che presto si dissiperebbero se intervenisse la riflessione” (pp. 94-95).
Quello di Le Bon è un uomo-folla, in altri termini, del quale Jane Avril ci consente di cogliere un tratto che la psicologia sociale darebbe l’impressione di fraintendere. Di questo tratto rende conto l’analisi molto convincente che Françoise Gaillard ha condotto sul testo di La bestia umana, il romanzo di Zola. In chiave conclusiva, allora, proviamo a seguirne l’andamento. La scena principale alla quale si riferisce Gaillard è quella in cui Jacques Lantier sta per compiere un omicidio e viene descritto da Zola come se si trovasse in un “altrove” o in quella che Le Bon potrebbe definire la “condizione del dormiente”, nella quale a spingerlo all’assassinio – secondo le parole dello stesso Zola – è “il clamore di una folla”. Questo clamore, è lo strano fenomeno acustico che accompagna la metamorfosi di Lantier in una bestia assassina. Si direbbe quindi che siamo nei pressi del momento in cui si impone un voler-altro, una forza che si impadronisce degli individui divenuti automi e che l’istinto fa regredire a uno stadio anteriore rispetto a quello dell’umanità raziocinante. Ma è una visione semplicistica – sostiene Gaillard (p. 115) – appunto perché animata esclusivamente dalla paura storica delle masse. E perché un momento prima di incarnare questo clamore del “noi”, aggiunge, è indispensabile che nell’individuo via sia un’attitudine al legame che sfugge all’ordine dell’autonomia, del giudizio, della volontà e della ragione con il quale l’epoca identifica l’umano. Un’attitudine che si può chiaramente esporre alla suggestione e all’influenza, che si ripresenta nell’uomo moderno sottoforma di una presunta volontà esterna, ma che rinvia invece al “desiderio sepolto in ciascuno di noi di rifare l’orda” (p. 118), la quale riconosce soltanto il legame intersoggettivo. Così che la conclusione di Gaillard può corrispondere integralmente alle nostre, riscattando il volto robotico di Jane Avril dalle spiegazioni che se ne potevano dare nella prospettiva esorcistica di Le Bon e opponendo a questa prospettiva una ricostruzione per la quale “non è l'ipnosi che permette di spiegare il fenomeno della folla, ma il fenomeno della folla che permette di comprendere quello dell'ipnosi” (p. 119). Perché se l’ordine dell’ipnotizzatore o del trascinatore funziona, è soltanto per un desiderio di “essere folla” con il quale l’io non si rassegna ad abbandonare il noi di cui è storicamente e visceralmente costituito.
