Collera, crisi politica e soggetti queer. Da Antigone a Dioniso

DOI : 10.54563/eugesta.804

Abstract

How does outrage work in Greek tragedy? Does the success or defeat of outraged characheters depend on gender identity? The paper outlines two differents patterns from Sophocles’ and Euripides’ drama. Through her orgé Antigone does not open a new history. Oedipus’ catastrophe is updated, the catastrophe of an impossible and indiscernible legitimacy: political power ashamed to discover that it is founded on horror. Antigone’s outrage is the fruit of the political incest played out in Oedipus’ story. It is a wretched family where fathers, sons and brothers mingle and blur into a monstrous muddle and this is the symbolic image of a crisis in Athenian democracy. The Sophoclean pattern of implosion is antagonistic to the Euripidean pattern, where the system explodes and is shattered forever. Euripides’ dramaturgy draws queer outraged characters – Medea and Dionysus – who transgress the boundaries of identity category and liquidate corrupt system and affiliations.

Text

Negli ultimi anni luoghi e città diverse nel mondo sono stati teatro di cospicue manifestazioni di piazza tra espressioni di indignazione popolare e richiesta impellente di diritti e di libertà. Mentre i mercati finanziari continuano a oscillare vertiginosamente, collera e indignazione sembrano diffondersi come un’onda dal Nord Africa all’Europa, dal Sud America all’Asia. Forse anche la collera sta diventando un fenomeno globale tanto quanto le dinamiche economiche che essa spesso combatte. Ma può la collera avere un ruolo effettivo nel ridisegnare le agende politiche degli stati? Ci si può chiedere inoltre se l’efficacia e i risultati dell’indignazione dipendano in misura rilevante da identità e genere. Le categorie identitarie – come ha osservato Butler1 – possono funzionare come “the normalizing categories of oppressive structure” o, al contrario, costituirsi come “the rallying points for a liberatory contestation of that very oppression”. Se collera e indignazione sono reazioni infiammate alla crisi politica e a fenomeni di discriminazione, quali configurazioni identitarie possono trasformare la passione collerica nell’apertura produttiva ad un nuovo progetto e a positive alternative? Un’identità “calcificata” e rigida rischia di essere presa in cattura da quegli stessi dispositivi di potere contro cui si leva facendo udire la voce della protesta. Al contrario, forme fluide e metaforiche di identità, capaci di invenzione creativa e di ibridazioni, possono avere una maggiore efficacia strategica nell’agire l’indignazione in ambito politico. Configurazioni queer della soggettività se queer implica – come ha affermato Sedgwick – “the open mesh of possibilites, gaps, overlaps, dissonances and resonances”2.

Nel teatro greco, non pochi sono gli esempi di personaggi animati dalla collera, personaggi che sfidano la città e le sue gerarchie con differenti esiti. Anche in questo caso ci si può domandare se il loro successo o la loro disfatta dipendano in modo significativo da differenti criteri in cui viene agito o performato il genere. E in aggiunta a ciò ci può indiscretamente interrogare se queste storie e questi personaggi possono essere, in qualche misura, confrontati con i casi di indignazione contemporanea. La collera pre-moderna non è, ovviamente, la stessa passione che sgorga oggi dai corpi feriti delle società postcoloniali e dalle democrazie occidentali vacillanti. Ma vi si può percepire, allo stesso tempo, una sorta di inquietante famigliarità che merita di essere indagata. Dal presente, al passato, dal passato al presente: si tratta di operare, con cautela e consapevole problematicità, una “pratique contrôlée de l’anachronisme”, secondo quanto ha indicato Loraux3. Comprendere le dinamiche del genere e dell’identità antiche – nel loro gioco con il teatro delle passioni – significa scegliere in quale “anacronismo” ci vogliamo ancora identificare, o, per converso, quali modelli sono da scartare, a fronte di una molteplice e spesso inconsapevole ripetizione di questi archetipi di lunga durata.

In questo lavoro si prenderanno in considerazione – attraverso la lente del queer e in rapporto al tema della collera/indignazione – tre figure del teatro tragico: l’Antigone di Sofocle, la Medea dell’omonimo dramma euripideo e il Dioniso delle Baccanti. La prima figura è stata assunta nella sfera teorica queer dall’influente saggio di Butler4, che riattraversa e interroga la perturbazione e l’opacità delle strutture ordinative della parentela che la figlia di Edipo rappresenta e performa. Oltre e al di là della nascita incestuosa, Antigone agisce e esprime nel suo linguaggio un desiderio che risulta paradossale e problematico da più punti di vista: “She is precisely the one with no place who nevertheless seeks to claim one [...] a position within kinship that is no position”5. Il desiderio che Antigone agisce non conduce – questo è ovvio – all’acquisizione di un’altra sessualità che non sia l’eterosessualità, e da questo punto di vista – considerando l’ossessione identitaria che la anima – ella non sarebbe propriamente e del tutto “a queer heroine”6. Ma tale configurazione della sessualità, confermata anche dalla conclusione del dramma, parrebbe infine dissolvere l’eterosessualità stessa: “She does seem to deinstitute heterosexuality [...]. If the love toward which she moves [...] is a love for her brother and thus, ambiguously, her father, it is also a love that can only be consummated by its obliteration, which is no consummation at all”7. In tale prospettiva, Antigone – osserva dunque Butler – esprimerebbe piuttosto una “heterosexual fatality that remains to read”. L’eterosessualità sarebbe “fatale” perché destino e norma, ma allo stesso tempo, nell’ottica queer, maledizione e melanconia. L’azione e il linguaggio di Antigone, d’altro canto, per i modi e gli esiti con cui essa si posiziona dinanzi a tale “fatalità”, potrebbero aprire – o quanto meno dare gli strumenti per aprire – una diversa prospettiva nell’organizzazione stessa delle relazioni e della parentela: “If kinship is the precondition of the human, then Antigone is the occasion for a new field of the human, achieved through political catachresis, the one that happens when the less than human speaks as human, when gender is displaced, and kinship founders on its own founding laws”8. La “fatalità” inscritta e espressa dalla vicenda di Antigone si dovrebbe, perciò, intendere come una “promising fatality”9. Una promessa e insieme una premessa per un differente futuro cui Butler – rileggendo Sofocle insieme a Hegel e Lacan – guarda pensando agli orizzonti contemporanei: alle rivendicazioni, appunto, di una revisione giuridica e teorica della parentela, che apra la via a diverse (e non eteronormative) configurazioni dell’istituto famigliare. C’è da chiedersi, tuttavia, se l’Antigone del testo sofocleo abbia in sé i germi di una “fatalità promettente” e aperta al futuro, come insieme a Butler anche altri hanno pensato, o non sia piuttosto il sintomo persistente di un male e di una contraddizione del politico, che si esprime attraverso di lei e attraverso la sua collera. Ed è su tale interrogativo che si muove il discorso qui presentato. Rispetto a ciò, la questione dell’incesto non è interessante come trasgressione in sé di un tabu sessuale (fatto che appartiene all’orizzonte mitico e, per così dire, pre-tragico di Edipo), quanto invece come dato simbolico e relazionale che rinvia all’organizzazione della politica e del potere, come si proverà a suggerire.

Quanto alla storia di Medea, la drammaturgia euripidea parte dalla situazione di una “donna” il cui “letto” è stato offeso e abbandonato: una “donna” tradita cui nulla rimane una volta che il “letto”, la relazione con il “maschio” è venuta meno; una vicenda di abbandono e di rottura dei patti: la sventura più grande e dolorosa che possa accadere al femminile (vv. 225 ss., 286 ss.). In tale prospettiva, l’opposizione di genere maschile/femminile potrebbe apparire come il dato fondamentale attraverso cui guardare quanto accade sulla scena. Perché evocare allora la dimensione del queer? Come si vedrà, Medea reagisce alla situazione cui è posta mettendo in atto maschere e tratti identitari differenti, realizzando forme di linguaggio e di azione diversi e non riconducibili in modo univoco né al maschile né al femminile, fino al punto da manifestarsi, nel finale, come una figura divina e dunque, al di là del dato mitico, non umana e sicuramente non donna. Questa strategia attraverso la quale la sua collera si esprime e si realizza può essere accostata e compresa nell’ottica del queer poiché il queer – è bene ricordarlo – non corrisponde a una identità data in partenza né vuole produrre alcuna identità stabile: il queer è strategia, tattica politica, che mima e rappresenta le identità e i possibili incroci di esse per contraddirle e annullarle, per produrre, attraverso la dinamica della rappresentazione e della perfomance, una disarticolazione di quell’ordine che, nell’esercizio ideologico della giustizia e della legge, si manifesta per taluni soggetti come affermazione contraria dell’ingiustizia e dell’offesa. E, in tale orizzonte, Medea appare un’eroina queer assai più “promettente” per il carattere definitivo e assoluto dell’esito cui la sua agency conduce. Ancor più “promettente” e definitivo è infine, come si vedrà, il Dioniso delle Baccanti euripidee, la cui evocazione in rapporto al queer non dipende tanto dall’androginia pre-iscritta nella figura del dio e nell’immaginario religioso, ma – come per Medea e con ancora più forza – per l’uso strategico della performance dei dati identitari al fine di sconfiggere il sistema cui egli si oppone, e, insieme ad esso, i soggetti che lo rappresentano.

Nel corso dell’analisi si farà spesso cenno a nozioni quali, ad esempio, sovranità, legittimità, élite, gruppo di potere. Il discorso presuppone e implicitamente attiva una modalità di lettura della tragedia che mira all’osservazione/ricostruzione di una “fenomenologia” del politico espressa dal e attraverso il teatro. Un primo livello di indagine, in generale, è certo rappresentato dalla messa in luce dei dati storico-antropologici presenti nei testi tragici e dal rilievo degli scarti che, eventualmente, si producono nell’uso di tali dati rispetto al sistema e all’organizzazione della realtà civica coeva. Una tale prospettiva mette a fuoco la coerenza di una rappresentazione ideologica conforme (il modo in cui la città a teatro costruisce se stessa e il proprio discorso) o, all’opposto, segnala i casi di tensione e di rovesciamento, in una dialettica che sostanzialmente muove tra due polarità: la produzione teatrale come conferma e produzione di un’ideologia civica o, al contrario, come orizzonte di un’antipolitica che si rivolge non tanto al “cittadino” quanto al “mortale”, sfondando la parete simbolicamente rappresentata dalla polis 10. Un arricchimento di indagine e di comprensione potrebbe, tuttavia, venire da una modalità di lettura, come accennato, “fenomenologica” che – in quell’“evento” che è, in sé, la tragedia – osservi il movimento, i rapporti reciproci, gli spostamenti, le sostituzioni che si operano tra le categorie dell’esperienza storica, tra le categorie che l’evento della rappresentazione produce e insieme intreccia. Il politico, l’ideologico, il giuridico, il religioso sono ambiti categoriali generali che il presente storico della città declina con modalità di volta in volta differenti e mutevoli. Categorie che hanno tra loro evidenti relazioni, ma che non individuano ambiti omogenei né connessioni stabili e pre-ordinate. Il loro mutuo rapporto costituisce un ulteriore livello di interrogazione critica. Può accadere, a titolo esemplificativo, che le categorie del giuridico possano essere evocate sulla scena per risolvere un problema o una crisi di carattere politico. Il che costituisce sicuramente una possibilità attuabile, ma tale movimento non è per nulla scontato e, in molti casi, non è per nulla innocente nella misura in cui il problema politico esigerebbe una risposta coerentemente politica e non una soluzione che si richiami al dato della legge come elemento che chiude il dibattito, lasciando irrisolta di fatto la questione suscitata in seno al politico stesso. La categoria del sacro è essenziale nella città antica, ma è altrettanto evidente come, tanto sulla scena storica quanto sulla scena teatrale, il sacro, pur assunto nella serietà di pratica condivisa, possa diventare oggetto di manipolazione e di contesa, pretesto e artificio retorico, elemento scotomizzante rispetto ad altre dinamiche sottese agli eventi, e infine strumentale rispetto a finalità sottaciute, con esiti per nulla riconducibili all’affermazione rassicurante di un ordine rituale e religioso che dovrebbe sovra-intendere alla città (e si potrebbe aggiungere che la democrazia ateniese finisce per “consumare”, nel tempo, molto del suo stesso apparato antropologico fondativo). In tale ordine di considerazioni si può evocare anche l’opposizione – spesso esibita sulla scena e ripresa in sede critica – tra case aristocratiche, soggetti di un passato nobiliare, e spazio della democrazia realizzata dalla città classica. Si mostra e si ribadisce un processo di transizione tra le antiche case, le antiche stirpi e l’orizzonte della comunità che le supera instaurando un nuovo ordine. E si problematizzano, del pari, le situazioni in cui i valori e i modi di quelle antiche case confliggono, rovinosamente, con le istanze del mondo democratico. Un conflitto che, a seconda degli autori e delle circostanze extra-sceniche, deve risolversi in una sconfitta dell’antico a favore del presente civico o in una ri-negoziazione delle rispettive posizioni. Ciò è senza dubbio vero, ma l’opposizione delle categorie aristocratico-democratico rischia talora di rimanere astratta e riguardare solo il piano categoriale ideologico. Il quadro, tuttavia, si complica se si osserva come la contrapposizione coesista e insieme ricopra un altro problema ovvero il diverso posizionamento di soggetti ugualmente aristocratici nei confronti dell’ordine e del discorso della democrazia: il potere, nominalmente e istituzionalmente democratico, può essere allora lo spazio di lotta e di contesa della medesima “famiglia” nobiliare, o di diverse “famiglie” che assumono e esprimono rapporti diversi nei confronti del “popolo”, ribadendo o al contrario negando il passato della loro identità costitutiva. Su un diverso piano e secondo una differente modulazione, “famiglia” può essere semplicemente significante co-estensivo di città nella misura in cui i cittadini autoctoni sono tutti figli di una stessa terra e fra loro fratelli, con l’esito di una sovrapposizione della struttura parentale al simbolico della polis. Che democrazia sia un significante suscettibile di significati del tutto diversi lo mostra assai esplicitamente Tucidide o lo ribadisce con provocatoria denuncia Platone affermando che il sistema ateniese, che si dice democratico, è, nei fatti, un “bazar di costituzioni” (Repubblica 557 d), un mercato ove sotterraneamente il commercio della politica contraddice la facies ideologico-istituzionale. Non tener contro di questi aspetti, di questo gioco, appunto, di piani categoriali, significa imbrigliare la lettura nel nominalismo astratto delle singole categorie in sé considerate o più immediatamente esibite dal testo stesso. Quando al contrario è sulla rimozione, sui silenzi e sugli interstizi che occorre interrogarsi. È parso opportuno richiamare, sia pur sommariamente, tali considerazioni per rendere avvertito il lettore di ciò che la lettura sottende e che la bibliografia indicata provvede, per altro, a esplicitare con dovizia argomentativa. Il modello di lettura qui operante si rifà alle indagini e alle formulazioni teoriche della scuola filologica di Padova con il lavori ermeneutici di Carlo Diano11 e poi di Giuseppe Serra12, il quale problematizza le categorie storico-antropologiche dell’antico in chiave fenomenologica, attraverso un dialogo – ora manifesto, ora nascosto – con le riflessioni teoriche di Walter Benjamin, con la teologia politica di Carl Schmitt e con i silenzi della scrittura filosofico-politica indagati da Leo Strauss. Tale approccio di lettura del tragico si è poi arricchito e complicato nel dialogo con la scuola filologica di Pavia i cui più giovani esponenti, formatesi nel magistero di Diego Lanza, hanno arricchito la strumentazione ermeneutica dell’antropologia storica nel confronto con Diano e Serra da un lato, con la riflessione sul potere di Foucault e con i gender studies dall’altro13. Ne scaturisce un lavoro teorico e analitico di produttiva complessità per il teatro antico, lavoro che meriterebbe forse di essere meglio conosciuto al di fuori dei confini italiani.

Per quanto concerne il rapporto “anacronistico” con il presente, inizialmente evocato attraverso il nome di Loraux, un’ultima considerazione può essere utile. Tra l’azione soggettiva e individuale dell’eroe tragico antico che agisce la sua collera e i movimenti di piazza del contemporaneo c’è una distanza la cui ovvietà è data per scontata. Ciò non toglie che vi siano ricorsività di modelli e di nomi che si ri-materializzano sulle nostre scene sociali. Chi ha memoria storica del terrorismo italiano e tedesco degli anni ‘70 sa bene che Antigone non è una mera citazione classica, ma una presenza inquietante che lo stesso dibattito pubblico e gli stessi media hanno evocato come figura appunto che “ricorre” a inquietare lo spazio comunitario14. Analogamente, nei movimenti studenteschi di contestazione il nome e lo spazio dell’orgia dionisiaca non costituiscono una sovrapposizione estrinseca, ma un elemento strategico rispetto a un Edipo patriarcale15. Di qui anche l’opportunità di ri-pensare, di nuovo, gli uni rispetto agli altri. E viceversa.

All’inizio dell’Antigone, un raggio di sole brilla su Tebe (100 ss.). L’incubo della guerra è finito. È il momento di ballare e di cantare. È il momento di gettarsi dietro le spalle gli orrori del sangue e della violenza. La città vuole tornare a vivere: vuole dimenticare. Ma l’“oblio” per essere efficace, deve essere unanime ed assoluto. Cosa accade se qualcuno si ostina a ricordare? O all’opposto: cosa accade se qualcuno, con troppa fretta, per personale interesse, vuole cancellare le tracce di quel che è stato. Nell’uno e nell’altro caso c’è un rischio: i fantasmi irrequieti del passato tornano a circolare liberamente, diffondendosi come una peste, come un contagio incontrollabile. E il “raggio di sole” si spegne nel fetore ammorbante di una carogna in putrefazione.

Sul campo di battaglia, i due figli di Edipo, Eteocle e Polinice sono morti, l’uno per mano dell’altro. Sul trono siede ora Creonte, che, per prima cosa, emette un bando:

Ἐτεοκλέα μέν, ὃς πόλεως ὑπερμαχῶν
ὄλωλε τῆσδε, πάντ᾽ ἀριστεύσας δόρει,
τάφῳ τε κρύψαι καὶ τὰ πάντ᾽ ἀφαγνίσαι
ἃ τοῖς ἀρίστοις ἔρχεται κάτω νεκροῖς.
τὸν δ᾽ αὖ ξύναιμον τοῦδε, Πολυνείκη λέγω,
ὃς γῆν πατρῴαν καὶ θεοὺς τοὺς ἐγγενεῖς
φυγὰς κατελθὼν ἠθέλησε μὲν πυρὶ
πρῆσαι κατ᾽ ἄκρας [...]
τοῦτον πόλει τῇδ᾽ ἐκκεκήρυκται τάφῳ
[...] ἐᾶν δ᾽ ἄθαπτον καὶ πρὸς οἰωνῶν δέμας
καὶ πρὸς κυνῶν ἐδεστὸν αἰκισθέν τ᾽ ἰδεῖν.

Eteocle è morto per la sua città, combattendo con valore: deve essere sepolto e ricevere tutti i riti che accompagnano gli eroi nel mondo dei morti. Ma per quanto riguarda il suo consanguineo, intendo Polinice, che era stato esiliato ed è tornato qui per distruggere con il fuoco la terra dei suoi padri e gli dei della città [...] ho vietato alla città di tributargli esequie e lamenti. Il suo cadavere deve restare insepolto, lasciato in pasto a cani e uccelli: ne faranno scempio (194-205).

Creonte giustifica questa scelta con la necessità di distinguere in modo netto l’“amico” dal “nemico”: le due categorie fondamentali del politico. “Amico” può essere solo chi vuole il bene della città, chi difende la patria, chi si spende per renderla grande. I legami di sangue e la parentela non contano. Sulla scena, il manifesto di Creonte si pone come un elemento di discontinuità e di rottura radicale rispetto al passato: è l’appello ad un nuovo patto. O almeno così sembra. Ma Creonte non è propriamente un uomo nuovo né un inedito soggetto politico. Fratello di Giocasta, cognato di Edipo, zio dei due nipoti fratricidi, Creonte è sempre stato lì, accanto al trono, dentro quella reggia. Il regno passa nelle sue mani proprio perché è il parente più prossimo dei morti. Creonte è inscritto nella rete del sangue, è parte di quel passato che tutti vorrebbero dimenticare, che lui stesso vuol fare dimenticare. Per opportunismo politico, egli sceglie di dimostrarsi diverso dalla sua storia; prende le distanze dall’élite cui appartiene, si dissocia dalle responsabilità che gravano sul proprio clan. Con questa abile strategia egli si appresta a cancellare ogni compromissione e ogni memoria, riacquistando la propria verginità.

Ma una ragazza – una vergine appunto – gli rovina il gioco: si ribella all’editto, lo contesta e decide di trasgredirlo. Il suo nome è Antigone e siamo – lo avrete capito – sulla scena dell’omonima tragedia sofoclea. Così ella denuncia:

τὸν δ᾽ ἀθλίως θανόντα Πολυνείκους νέκυν
[...] ἐκκεκηρῦχθαι τὸ μὴ
τάφῳ καλύψαι μηδὲ κωκῦσαί τινα,
ἐᾶν δ᾽ ἄκλαυτον, ἄταφον [...]
τοιαῦτά φασι τὸν ἀγαθὸν Κρέοντα σοὶ
κἀμοί, λέγω γὰρ κἀμέ, κηρύξαντ᾽ ἔχειν,

è stato bandito che nessuno seppellisca e pianga il cadavere del misero Polinice: deve rimanere illacrimato e insepolto [...]. Questo il nobile Creonte ha ordinato a te e a me. A me, ti rendi conto? (29-32).

È importante quel “me” che Antigone ripete dialogando con la sorella. Antigone si sente chiamata direttamente in causa, si sente colpita come individuo16. Antigone si agita: il suo viso va in fiamme, il suo cuore è “caldo”, infiammato dalla passione. Vuole, a ogni costo, eseguire i riti funebri che il dio della morte esige. Antigone passa all’azione e ricopre il cadavere con una manciata di terra tebana, ripetendo ben due volte i gesti dell’omaggio funebre. Lei non può e non vuole fare altrimenti. Antigone è una giovane donna indignata. “Indignez-vouz”, “Indignatevi” è l’appello che Stephane Hessel ha rivolto di recente ai nostri giovani, a coloro che, per ragioni anagrafiche, non hanno conosciuto la lotta per la resistenza e le carneficine della seconda guerra mondiale. “L’indifferenza – egli scrive in un pamphlet che è diventato un bestseller – è il peggiore dei mali [...] ai giovani dico: guardatevi attorno e troverete argomenti che giustificano la vostra indignazione”17. Molti giovani nel mondo hanno risposto all’appello, facendo sentire la loro voce contro scelte politiche che li privano di un futuro. Molte donne hanno risposto con l’indignazione pubblica agli scandali sessuali e alla corruzione di una certa politica: “Ribelliamoci” è stata la parola d’ordine che ha risuonato in molti luoghi; la richiesta di un cambiamento e di un’alternativa che ponga fine alle forme malate e corrotte di un questo potere maschile.

Anche Antigone è una giovane donna. Anche Antigone si è guardata attorno e ha trovato una ragione per indignarsi, per opporsi all’uomo che governa la sua città. Ma che tipo di indignazione è la sua? Da dove nasce? È una passione che scaturisce da una situazione inaccettabile? Da un presente disforico? L’eroina reagisce perché è contraria allo specifico divieto che il re ha appena fatto bandire per le vie della città? Si tratta solo di questo? Di un particolare evento accaduto in preciso momento? O si tratta di una storia che ha radici più lontane? Cosa possiamo sentire nella sua voce? È forse la rabbia di una donna che vuole prendere la parola, che vuole rompere un interdetto?

[...] γυναῖχ᾽ ὅτι
ἔφυμεν, ὡς πρὸς ἄνδρας οὐ μαχουμένα.
ἔπειτα δ᾽ οὕνεκ᾽ ἀρχόμεσθ᾽ ἐκ κρεισσόνων,
καὶ ταῦτ᾽ ἀκούειν κἄτι τῶνδ᾽ ἀλγίονα

Siamo donne. Non siamo nate per fare la guerra agli uomini. E dobbiamo piegarci a chi è più forte di noi, obbedire agli ordini, fossero anche più dolorosi di questi (63-4).

Così aveva detto l’arrendevole e mite Ismene che si riconosceva, all’opposto, nell’impossibilità femminile di fare opposizione. Quando viene arrestata, Antigone rivendica il suo gesto davanti a Creonte: non vacilla, non nega quel che ha fatto, non ha paura di quell’uomo più anziano che sta di fronte a lei. Creonte è ossessionato dall’idea dell’ordine: i suoi discorsi sono pieni di riferimenti all’ordine assoluto che deve regnare sulla città; le sue parole stigmatizzano il caos dell’anarchia come il peggiore dei mali. Ad Antigone il linguaggio di Creonte non interessa: la sua idea di ordine non le piace. A Creonte le parole di Antigone non interessano: gli suonano come un’offesa terribile. Lei e Creonte sono due universi incompatibili e impermeabili. Oltre a ciò, Antigone trasgredisce oltrepassando i confini di genere: “both Antigone’s act of burial and her verbal defiance become – come osserva Butler – the occasions on which she is called ‘manly’ by the chorus, Creon and the messengers”18. Tant’è che il signore della città teme di perdere la propria virilità per effetto dell’atto e delle parole di Antigone:

ἦ νῦν ἐγὼ μὲν οὐκ ἀνήρ, αὕτη δ᾽ ἀνήρ,
εἰ ταῦτ᾽ ἀνατὶ τῇδε κείσεται κράτη

Io non sono più un uomo, è lei l’uomo, se potrà avere impunemente la meglio (485-6).

La figlia di Edipo, l’ultima erede della dinastia reale – come lei stessa sottolinea (940-1) – finisce così per esercitare “the form of a certain masculine sovereignty”19, e Creonte, per converso, viene a coincidere con il femminile sedizioso e distruttivo che egli aborrisce (741).

Cosa dobbiamo vedere in tutto questo? La reazione indignata di Antigone è la rabbia di una giovane generazione che non ci sta, che non vuole più piegare il capo davanti ai vecchi, che respinge il modo in cui essi hanno da sempre gestito il potere? È la reazione dei figli e delle figlie che contestano i padri per gli abusi e le malversazioni di una politica oppressiva? È la determinazione a rompere la gabbia soffocante di un ordine che porta solo esclusione ed infelicità? Alcune riscritture hanno dato quest’interpretazione al mito. Nel film di Liliana Cavani, I cannibali 20, Antigone è una ragazza di famiglia borghese che non vuole più, appunto, farsi divorare da un potere disumano. Non è più disposta a vivere in una società dove i cadaveri dei ribelli e dei dissidenti vengono lasciati a marcire per le strade nella città nell’indifferenza generale. La sua coraggiosa ribellione farà dei proseliti. Nel finale del film un gruppo crescente di giovani seguirà il suo esempio; il muro della paura e dell’indifferenza sono distrutti: è l’inizio di un diverso movimento politico.

Ma la passione dell’Antigone sofoclea è di questa stessa natura? Il suo caso particolare può diventare esempio ed icona per un diverso modo di dire la politica? Antigone è mossa da un’orgé, da una “collera”, da un “impulso” che la spinge da agire per la sua famiglia, per i suoi morti. È un’orgé autógnotos (αὐτόγνωτος ὀργά) passione che decide da sé, che sceglie e delibera per se stessa contro tutti e contro tutto. L’orgé di Antigone è insieme emozione e ragione deliberante. L’orgé le detta parole potenti con cui giustificare e difendere il suo gesto: la giustizia, la pietà religiosa, le leggi non scritte degli dei, il mondo dell’aldilà. Sono argomenti che accecano e stordiscono, che inducono chi ascolta a simpatizzare con lei, a farsi prendere dalla sua stessa passione. Questa particolare orgé fa di Antigone un soggetto autónomos, un soggetto che si fa legge da solo, che si autodetermina contro i nómoi, contro le leggi della città21. Per questo sarà condannata:

ἀλλ᾽ αὐτόνομος ζῶσα μόνη δὴ
θνητῶν Ἅιδην καταβήσει.
[...]
σέβειν μὲν εὐσέβειά τις,
κράτος δ᾽ [...]
παραβατὸν οὐδαμᾷ πέλει·
σὲ δ᾽ αὐτόγνωτος ὤλεσ᾽ ὀργά.

Hai fatto tutto da sola, secondo la tua legge, e adesso unica fra tutti gli esseri umani, scendi ancora viva nell’Ade [...]. Onorare i morti è certo un atto di pietà, ma non si può andare contro il potere [...], il tuo impulso ha deciso da sé e ti ha rovinato (821-75).

Così il coro dei Vecchi tebani commentano la fine di Antigone mentre essa si avvia alla tomba. Ma c’è un problema ulteriore: l’orgé di questa ragazza non è, a ben vedere, propriamente “autonoma”; non è una passione libera e originaria. Non le appartiene come cosa propria. Diversamente da quanto auspicano Cavani e Hessel, l’indignazione di Antigone non è veramente altra rispetto all’orizzonte che viene contestato. Osserva ancora il coro dei Vecchi:

δηλοῖ τὸ γέννημ᾽ ὠμὸν ἐξ ὠμοῦ πατρὸς
τῆς παιδός. εἴκειν δ᾽ οὐκ ἐπίσταται κακοῖς.

Dura e intrattabile come suo padre non sa arrendersi alle sventure (471-2).

Antigone ha il carattere omós, “crudo”, selvaggio”, di un padre altrettanto “crudo” e “selvaggio”22: Antigone ha il carattere di Edipo23. Ne incarna e ne ripete il destino. Antigone è, sulla scena sofoclea, “l’Erinni della mente”, la maledizione di una follia che abita tutta la stirpe (603).

Solo per equivoco la “selvaggia” Antigone può essere confusa con un’eroina dell’“amore”. Ella afferma:

οὔτοι συνέχθειν, ἀλλὰ συμφιλεῖν ἔφυν

Non sono nata per condividere l’odio, ma per condividere la philía (523)24.

Tale rifiuto dell’“odio” non ha, però, nulla di astratto e di universale: non ha i tratti della pace e dell’armonica composizione. La condivisione della phília ha un significato univoco e ristretto. È l’“amore” esclusivo per ciò che è identico e uguale a lei: il fratello, il padre, i nati dallo “stesso” ventre di Giocasta. È l’ossessione di un’autós, di un “se stesso” identitario che si ripete in ogni membro della famiglia25. La philía che Antigone proclama è un’“omosocialità” radicale, pericolosa e distruttiva quanto l’odio contro cui apparentemente si leva. Attraverso l’orgé di Antigone non si apre una nuova storia: si riattualizza la catastrofe di Edipo, la catastrofe di una legittimità impossibile e introvabile, di un potere che si scopre fondato sull’orrore26. Antigone è il ritorno del rimosso, l’incubo che ossessiona la città e le sue istituzioni, la deriva che non si riesce a neutralizzare e a contenere. Antigone è il passato che, sulla soglia della morte, inghiotte il presente, lasciando intorno a sé un nuovo cumulo di cadaveri27. La giustizia, la pietà e gli dei che la sua orgé evocano nascono da un orizzonte contaminato e maledetto che non può e non riesce ad essere superato. Non c’è modo di separare il diritto che Antigone esibisce dall’impurità e dal crimine. Per la stessa ragione non c’è modo separare troppo facilmente Antigone dal suo antagonista. Nel dramma sofocleo, Antigone e Creonte sono i due volti, ugualmente deliranti, di una stessa famiglia malata, le due facce di un gruppo di potere lacerato al suo interno e votato all’autodistruzione28. La loro collera, la loro indignazione sono destinati, in partenza, all’insuccesso e alla sconfitta perché non sono in grado di produrre alcuna rigenerazione, alcuna rottura rispetto all’infamia della loro storia e del passato29.

Antigone è una vergine, ma agisce come un uomo. È viva e ancora respira, ma afferma di essere già morta:

[...] ἡ δ᾽ ἐμὴ ψυχὴ πάλαι
τέθνηκεν, ὥστε τοῖς θανοῦσιν ὠφελεῖν.

Io sono morta da tanto tempo per servire i nostri morti (559-60).

Le sue parole e i suoi gesti si articolano – in modo inusitato – a partire dal regno di Ade che invade così lo spazio politico. Appartiene all’universo culturale della città, ma è selvaggia come un animale. Ama il fratello, ma la sua sollecitudine funebre copre, allo stesso tempo, la dimensione morbida dell’incesto:

φίλη μετ᾽ αὐτοῦ κείσομαι, φίλου μέτα,

Io sono sua e giacerò con lui, che è mio (73).

Antigone mescola e confonde le categorie di genere e di identità così come le linee della parentela, ma – come ricordato all’inizio – non è propriamente un eroina queer nella misura in cui non si produce alcun nuovo orizzonte. La sua azione implica infatti una prospettiva regressiva e non disarticola effettivamente l’ordine del sistema cui si oppone. Antigone, più che incarnare una “heterosexual fatality”30, rappresenta una “fatalità incestuosa” che conduce alla ripetizione del destino paterno e della violenza fraterna. Alla fine, questa eroina “non è nulla, non è più nulla: non sposa, non madre, non sorella, è la figura vivente della maledizione”31, una sorta di residuo sporco e contaminato di una vicenda che la precede.

L’indignazione di Antigone è il retaggio dell’incesto politico che la storia di Edipo rappresenta. La famiglia malata dove padri, figli e fratelli si confondono in unico mostruoso intreccio è la controfigura della città democratica ove la fratellanza dei cittadini affoga nella disputa senza fine delle fazioni politiche e dei processi, nelle accuse strumentali e nelle delegittimazioni reciproche32. L’indignazione di Antigone non dissolve i fantasmi, ma continua ad alimentarli in un cerchio ove la politica si riproduce come maledizione, strage cruenta, scambio avvelenato, infedeltà ai progetti condivisi e manipolazione della memoria. La collera di Antigone è autógnotos e autónomos, segue la sua “legge”, ma questa legge – ormai lo abbiamo capito – è la legge in cui echeggiano di continuo le imprecazioni di Edipo, in cui risuona l’impossibilità di vivere insieme. In questa storia, l’unico cadavere putrefatto che nessuno riesce a seppellire, che nessuno riesce a nascondere è in realtà il cadavere della politica, il cadavere della democrazia, lasciato lì davanti ai nostri occhi.

La verifica e la riprova di tutto ciò è l’osservazione di quanto accade nell’Edipo re e nella sua conclusione. Quell’Edipo re di cui l’Antigone è – al di là del ductus mitico ovviamente differente – la prova generale da un punto di vista della fenomenologia che vi è implicata. Nel finale di quel dramma, Edipo formula, come è stato efficacemente mostrato33, una politica della “relazione incestuosa” del padre con le figlie, una “politica” fatta con i resti contaminati del proprio stesso passato e della propria liquidazione politica. Edipo articola una sorta di lascito testamentario (vv. 1446 ss.), ove i figli maschi vengono disconosciuti e le figlie femmine vengono lasciate in eredità a Creonte, per poi levare un lamento sulle figlie stesse quando esse compaiono in scena: “Parafrasando e riassumendo: piango per voi, vivrete una vita grana, non frequenterete più nessuno, non vi sposerete mai [...]. È una vera maledizione [...] essa consiste nell’ingiunzione di non essere mai spose, di non essere mai madri [...] è la maledizione di restare del padre”34. Ma poiché Edipo non è solo padre, ma anche fratello, la maledizione finisce per investire anche la l’asse della fratellanza: “Alle figlie viene interdetto anche lo scambio dei fratelli, perché il padre sia e resti l’unico fratello. I fratelli saranno pertanto una meta impossibile che riproduce costantemente il fantasma del padre”35 e, una volta scomparso Edipo, Antigone non può che rimanergli fedele attraverso il fratello. Tale fantasia incestuosa va compresa non nel suo dato letterale, ma nella sua dimensione simbolica e sintomatica, nella misura in cui è la stessa città in cui vive Antigone ad essere, per tali premesse, un fantasma di città in cui “tutti i padri sono destinati alla follia e tutti i figli maschi alla morte”36 (come accade appunto a Creonte e a Emone). Si produce in tale dinamica uno svuotamento in cui – portando i dati alle loro estreme conseguenze – si può dire che la città di Antigone sia “il luogo di una rapsodia ideologica (il nómos, la sepoltura, la frontiera amico/nemico) senza più referenti [...]. Antigone non ha possibilità di scelta, non può esercitare la ‘ragion pratica’ [...] non ha intorno a sé, né rappresenta lei stessa, alcuno spazio di ‘praticabilità valoriale’ [...] quella di Antigone non è una rivendicazione, è un destino”37. Rispetto a questo niente con cui Antigone viene in sostanza a coincidere e rispetto allo spazio della città cui appartiene, rimane solo la figura di Edipo come immagine di corpo politico totale e insieme impossibile. Rimangono i nodi che la vicenda dell’Edipo sofoclea rappresenta: Edipo figlio della Tyche, figlio di quella “Sorte” che, insieme alla pretesa del valore individuale, rappresenta la democrazia stessa e le modalità con cui essa regola l’accesso al potere. Edipo, re salvatore e impuro assoluto, come difficoltà insuperabile di pensare la differenza costitutiva del potere in uno spazio ove tutti nominalmente sono uguali. Edipo, nato dall’orrore, come rivelazione che nessun potere sulla città può in alcun modo dirsi fondato o legittimo, che nessuna sovranità si impone, ma solo fragili e precarie forme di primato. Edipo, collerico e maledicente, come prolungamento di un orrore che non viene in alcun modo sanato, ma diventa la realtà ultima della città. Edipo che decide il destino delle figlie come sintomo di un’organizzazione patriarcale dove il traffico delle donne e dei matrimoni è funzionale alla ricchezza e al prestigio economico della case e dei maschi in intrecci talora mostruosi38. Edipo, che nel testo sofocleo non viene affatto cacciato da Tebe come un capro espiatorio, ma rimane dentro le mura, come manifestazione di un “mondo che sa di non poter espellere la propria ferita [...] un mondo che è violento, come lo era la democrazia ateniese, e sa di esserlo”39. In questo senso si parlato dell’incesto che caratterizza la famiglia edipica come di un incesto “politico” che riguarda la città in generale come il manifestarsi di un impasse che riguarda le forme istituzionali e le dinamiche stesse della politica: “Edipo è l’insieme di tutte le trasformazioni possibili [...] è l’unico grande possibile corpo politico. Ma proprio per questo, paradossalmente, proprio perché unico possibile corpo politico, Edipo è anche il simbolo dell’impossibilità della politica nella città”40.

Questa Antigone che appartiene al mondo della morte, questa Antigone che alla fine piange su se stessa e sul suo destino, questa Antigone che in punto di morte ostenta il privilegio della sua nobile origine, assomiglia, per certi versi, ai “giovani infelici” di cui parlava Pasolini: figli “mostri”, figli “criminali”, figli che non si sono “liberati dalle colpe dei loro padri”, figli per nulla “innocenti” nelle loro parole e nei loro gesti41. Che fare dunque dell’indignazione? Occorre incoraggiarla tout court come suggerisce Hessel? O occorre interrogarne la natura, osservarne gli sviluppi? Assicurarsi che l’emozione non sia il vicolo cieco in cui Antigone e Creonte finiscono per precipitare? Se ci si ferma alla mera indignazione – osserva Luciana Castellina proprio a commento dello scritto di Hessel – “è facile cadere nell’”antipolitica” o nella ‘rassegnazione’ perché “si ritiene che non ci sia un altro mondo possibile”42. E allora tutto diventa destino, disegno del fato, catastrofe di cui nessuno è responsabile, disgrazia di cui piangere tutti insieme. Ci si indigna, ci si commuove, ci si perde magari in vagheggiamenti nostalgici alla ricerca di una verginità già da tempo stuprata. Dopo le urla sdegnate e la piena delle lacrime tutto rischia di essere uguale o peggiore. Nulla muta e la contraddizione resta dentro la cerchia delle mura e delle istituzioni. La drammaturgia di Sofocle riproduce costantemente questa dinamica. Mostra il conflitto delle opinioni divergenti, esibisce il marcio della città e degli uomini, esaspera, fino all’estremo, il linguaggio conflittuale della politica. I personaggi urlano, imprecano, si scontrano in una stásis di parole, in una “sedizione verbale”43; uccidono e si uccidono. La drammaturgia rappresenta il conflitto, lo riproduce, ma non lo analizza nel senso etimologico del termine. Ovvero non offre né fa intravedere soluzioni sia pure esterne al tempo scenico. La drammaturgia solleva il velo e mostra il corpo putrescente della politica, il corpo mostruosamente devastato del padre – come avviene nel caso di Eracle nelle Trachinie (1278) –, ma poi questo velo viene nuovamente disteso. Dopo l’indignazione e lo scontro mortale, i personaggi si arrendono alla semplice constatazione: κοὐδὲν τούτων ὅ τι μὴ Ζεύς, “Tutto questo è stato voluto da Zeus”44 o piangono su quel nulla che è “stirpe degli uomini”:

ἰὼ γενεαὶ βροτῶν,
ὡς ὑμᾶς ἴσα καὶ τὸ μη-
δὲν ζώσας ἐναριθμῶ.
τίς γάρ, τίς ἀνὴρ πλέον
τᾶς εὐδαιμονίας φέρει
ἢ τοσοῦτον ὅσον δοκεῖν
καὶ δόξαντ᾽ ἀποκλῖναι;
τὸν σόν τοι παράδειγμ᾽ ἔχων,
τὸν σὸν δαίμονα, τὸν σόν, ὦ
τλᾶμον Οἰδιπόδα, βροτῶν
οὐδὲν μακαρίζω·

Ah, generazioni dei mortali, io considero la vostra vita pari al nulla. Quale, quale uomo raggiunge una felicità più consistente di una mera illusione che appare e subito declina? Se prendo a esempio, povero Edipo, il tuo destino, la tua sorte, allora non posso considerare felice nessun mortale45.

La drammaturgia di Sofocle è, per così dire, un meccanismo, un dispositivo che rimane sempre interno al sistema politico: è lo sguardo di chi è dentro alle camere del potere, è lo sguardo di un insider che denuncia e insieme occulta, che mostra e insieme opacizza la realtà46. Per questo non si arriva mai ad una reale rottura, non si arriva mai ad una indignazione “sana” che si trasformi in progetto e in alternativa. Il modello sofocleo è il modello di un sistema dove anche l’autonomia dei soggetti – l’autonomia di Antigone – è finta e inesistente. È un sistema che sfrutta l’autonomia e l’indignazione dei soggetti per riprodurre se stesso. I soggetti che si credono autonomi e indignati – come Antigone – sono, in realtà, utili a mantenere tutto immobile. Per questo la “peste” rimane sempre all’interno della città, perpetuandone la malattia47. Ad ogni crisi, il sistema implode in se stesso, ma, di fatto, sopravvive e si perpetua, riavvitandosi sulle stesse logiche e sulle stesse dinamiche. Cambiano solo le vittime che si fanno sacrificare in nome della loro indignazione. Ma al potere resta sempre Creonte. Un Creonte indebolito dalle sue colpe e dai suoi errori. Ma proprio per questo ancora più utile. Cosa c’è di meglio di un capo indebolito e ricattabile? Di capo che viene lasciato al suo posto e può essere manovrato, a piacere, dai poteri occulti, dai poteri antidemocratici.

Ci vuole un altro sguardo per assegnare all’indignazione una traiettoria e un risultato differente. Un altro sguardo o, forse meglio, lo sguardo dell’Altro, lo sguardo di chi arriva – o sembra arrivare – da fuori: l’estraneo, lo strano che scompagina con diversa lucidità tutti i giochi, l’altro che gioca con le proprie e le altrui emozioni, che trasforma l’indignazione in una trappola per topi, in uno spettacolo sapientemente orchestrato. Al modello sofocleo dell’implosione infinita si oppone il modello euripideo, il modello dove il sistema esplode e va in frantumi per sempre. Penso all’indignazione sofisticata della Medea di Euripide. Indignazione sofisticata perché Medea, la barbara, la straniera, la maga inquietante e pericolosa, sulla scena di Euripide, funziona e si muove come l’avatar dell’intellettuale non organico, per giocare con le parole di Gramsci48. Dentro le pareti della sua casa, Medea urla di dolore, impreca contro Giasone che l’ha tradita, invoca distruzione e morte sui suoi nemici, a gran voce chiama gli dei a testimoni dell’ingiustizia subita. Da fuori il coro e l’allarmata nutrice sentono queste urla disperate e si allarmano. Ma quando Medea esce dalla casa, quando si mostra in pubblico, la nostra eroina è completamente diversa. È calma, composta, lucida e raziocinante. Disquisisce sulla cattiva fama che circonda i sapienti – gli intellettuali appunto – e insiste sul fatto che questa fama è ingiusta e immotivata (291-304). Ma si affretta anche a dire: εἰμὶ δ΄ οὐκ ἄγαν σοφή, “Io non sono poi così sapiente” (305). In altre parole: “Io non sono un intellettuale così pericoloso” per il sistema, “non sono uno straniero venuto qui a farvi del male”. Medea cerca la simpatia e la complicità delle donne del coro. Blandisce il re di Corinto per avere il tempo necessario a attuare i suoi piani. Inganna il re di Atene per ottenere asilo politico dopo il delitto. Nel primo colloquio con Giasone, è vero, si abbandona, ancora una volta, alla rabbia e all’indignazione: inveisce contro il fedifrago, lo accusa. Ma questa indignazione è, per così dire, un lusso che ella si concede con piena consapevolezza. Non agisce con semplice irruenza, ma con il mirato proposito di concedersi uno sfogo:

εὖ δ΄ ἐποίησας μολών·
ἐγώ τε γὰρ λέξασα κουφισθήσομαι
ψυχὴν κακῶς σε καὶ σὺ λυπήσῃ κλύων.

Hai fatto bene a venire: insultandoti, mi alleggerirò il cuore e tu, ascoltandomi, soffrirai (472-4).

Subito dopo accetta di replicare in tono più pacato ai discorsi di Giasone, ma lo fa con uno scopo preciso, con l’intento di mettere in cattiva luce il fedifrago:

ὡς φίλῳ γὰρ ὄντι σοι κοινώσομαι
[...] ἐρωτηθεὶς γὰρ αἰσχίων φανῇ

Ti parlerò come fossi un amico: di fronte alle mie domande apparirai peggiore (499-501).

Signora della mêtis, dell’intelligenza astuta, Medea coincide totalmente con la finzione del teatro e con il gioco delle maschere che esso implica: ne è forse la cifra più perturbante. Medea, passo dopo passo, manipola, con effetto quasi ipnotico, la mente e le reazioni di coloro che si presentano dinanzi a lei. Simulando e dissimulando, proponendo “discorsi dolci ad udirsi” (314: λέγεις ἀκοῦσαι μαλθάκ’), vince resistenze, strappa fatali consensi e definisce le condizioni concrete della sua vendetta. Aspra nel criticare gli inganni della retorica, Medea è tuttavia maestra della parola e della comunicazione. Non solo in rapporto alle circostanze, ma anche in relazione al sesso degli interlocutori, ella calibra i propri interventi: alle donne del coro parla in un modo, ai maschi che vuole colpire in un altro.

Al momento giusto, ogni volta che è necessario e strategico, Medea nasconde la sua indignazione e i suoi reali propositi. Medea è la regista perfetta di un dramma ove i suoi interlocutori sono degli attori inconsapevoli ed accecati. Medea costruisce, passo dopo passo, la trama della sua vendetta che è la trama della tragedia stessa: finge e inganna, suscita reazioni, disegna prospettive, determina i tempi e il ritmo della propria azione. Così la sua indignazione diviene efficace: ha successo e non lascia nessuno scampo ai suoi nemici. Non ci sono dei, non c’è conflitto con un fato imperscrutabile, non c’è un orizzonte trascendente cui attribuire gli eventi che si consumano sulla scena. La tragedia è tutta nella mente di Medea: il dramma è la sua mechané, il suo sapiente “artificio” (1010). E di questa mechané Medea sa assumersi la piena responsabilità. È tutto opera sua. Medea gioca e specula sulle emozioni altrui. Ma gioca anche con le proprie, le trasforma in spettacolo.

Quando sulla scena rimane sola, quando solo il coro delle donne è presente e può sentirla, Medea sembra, in alcuni momenti, dire la verità: sembra, di nuovo, mostrare la verità della sua atroce indignazione, la rabbia che aveva echeggiato nel privato della casa, nel suo “closet”. In questi momenti, Medea si mostra come un personaggio lacerato: parla con se stessa, con le parti del proprio sé; parla al proprio animo, al proprio cuore, alla propria mano. Si incita a continuare, a proseguire l’azione. Nel celebre monologo che precede l’infanticidio, Medea mostra un’oscillazione. Si chiede se compiere il delitto, se uccidere o andarsene senza aver compiuto l’orrore della vendetta (1042 ss.). Il monologo sembra un momento di verità, uno squarcio tra lucidità e delirio, uno sguardo diretto sulla ferita aperta del suo animo, una lotta tra la sua indignazione e i sussulti di una residua pietà. Ma siamo sicuri che anche questo non sia spettacolo? Uno spettacolo che Medea vuole offrire al suo pubblico, alle donne del coro, prima di compiere l’ultimo passo della sua efferata vendetta? Siamo sicuri che questa lacerazione interiore non sia semplicemente un gioco retorico? Un espediente per catturare ancora una volta chi la ascolta e la guarda? La retorica dell’animo diviso tra soluzioni opposte, tra il bene e il male, tra la violenza e la pietà, è un tratto squisitamente tragico. Ma le alternative sono vere o, in realtà, tutto si è già consumato? Tutto forse è già deciso sin dall’inizio, quando Medea urlava per “eccitare il suo cuore” – come dice il testo (99: κινεῖ κραδίαν) –, per caricare la bomba a orologeria che deve esplodere nel tempo della scena. Il monologo è verità o un effetto di verità? Non dimentichiamoci che poco prima Medea aveva finto un altro monologo. Per ingannare Giasone, aveva finto di essersi ravveduta, aveva finto di essere d’accordo con lui. E per essere più credibile, gli aveva riferito il discorso che aveva fatto tra sé e sé (870-82). Aveva esibito un monologo che in realtà non era mai avvenuto, gli aveva offerto lo spettacolo di una falsa psicologia. Così Medea arriva al punto in cui vuole arrivare e inganna tutti invocando la “necessità” fatale del suo agire. Ma “necessità” in verità è solo un suo parto. Medea pronuncia, ad un certo punto, una battuta che ha fatto discutere i critici: θυμὸς δὲ κρείσσων τῶν ἐμῶν βουλευμάτων (1079)49. Come si deve intendere questa sentenza? “La collera, la passione, è più forte della mia ragione”? Oppure: “La mia collera dirige le mie decisioni, i miei propositi”? Entrambe le letture sono vere, ma su piani drammaturgici diversi. “La mia passione è più forte della ragione” appartiene al piano dello spettacolo, della recita che Medea offre al suo pubblico. Anche lei vuole fare pietà. Anche lei vuole apparire un personaggio tragico, un personaggio tragicamente scisso e dominato da qualcosa che la agisce, che la domina. Ma è questa davvero Medea? La realtà che si intravede dietro le quinte, la verità del “closet” è l’altra. “Il mio animo, la mia indignazione governa i miei piani, governa il teatro che sto costruendo”50. In politica – ci possiamo chiedere – è davvero utile che le passioni siano autentiche? È davvero utile mostrare le proprie intime passioni? La collera di Medea è efficace e ha successo proprio perché si sdoppia e non si lascia prendere in contropiede, non si lascia cogliere sul fatto. L’indignazione di Medea – lo abbiamo visto – è l’indignazione consapevole di un intellettuale che opera da fuori, che fa saltare tutto perché non appartiene al sistema malato: perché non ne è contaminata né compromessa. È l’indignazione potente di un soggetto queer, di un soggetto inclassificabile e sfuggente:

ἦ πολλὰ πολλοῖς εἰμι διάφορος βροτῶν.

Io sono diversa dalla maggior parte dei mortali (597).

Medea dice: “Noi donne” (231: γυναῖκές ἐσμεν), ma si avventa sui suoi nemici con la furia di un guerriero. Come l’Aiace sofocleo, la donna della Colchide consuma la sua vendetta e compie una strage per l’ossessione di essere derisa dai suoi nemici (384, 404, 805-6, 1049, 1355)51. Come un eroe ferito nel suo onore e nelle sue prerogative, ella reagisce, in modo collerico, all’offesa che ha colpito il suo letto. Come un eroe omerico, Medea parla al suo cuore e al suo braccio per prepararsi a sferrare il colpo fatale (496-7, 1056, 1242-4) (249-51) (1358) (1343) (1320-1). Giunge persino ad evocare il campo di battaglia, le armi maschili e il mestiere della guerra come contesto preferibile e desiderabile rispetto alla condizione femminile (249-51). Medea è straniera, ma compiutamente “greca” quando ritorce contro i suoi nemici le loro categorie e i loro dispositivi mentali. Essere umano, ma anche fiera e mostro mitico: una leonessa (1358) o la crudele Scilla (1343). Essere umano, ma anche divinità quando appare sul carro celeste che il dio Sole le ha dato in ragione della loro parentela. Uccide i suoi figli e così compie fino in fondo la sua vendetta contro la città e contro il maschile. Ma questi bambini trucidati non sono forse anche la metafora di un nodo tagliato per sempre? Un nodo che bisogna tagliare per eliminare in via definitiva le pastoie e le contraddizioni di un sistema malato e chiuso in se stesso52?

L’indignazione queer di Medea è la prova generale che anticipa il Dioniso delle Baccanti euripidee. Anche lì, Dioniso fa teatro: si finge uno straniero, si finge un altro, gioca con le passioni altrui, le eccita, le guida verso la catastrofe. Anche Dioniso è queer: maschio e femmina. Una bellezza androgina che inquieta ed affascina. Una bellezza che confondendo i tratti dei sessi fa di lui l’incarnazione perfetta del seduttore “perturbante”:

ἀτὰρ τὸ μὲν σῶμ᾽ οὐκ ἄμορφος εἶ, ξένε,
ὡς ἐς γυναῖκας, ἐφ᾽ ὅπερ ἐς Θήβας πάρει·
πλόκαμός τε γάρ σου ταναός, οὐ πάλης ὕπο, 455
γένυν παρ᾽ αὐτὴν κεχυμένος, πόθου πλέως·
λευκὴν δὲ χροιὰν ἐκ παρασκευῆς ἔχεις,
οὐχ ἡλίου βολαῖσιν, ἀλλ᾽ ὑπὸ σκιᾶς,
τὴν Ἀφροδίτην καλλονῇ θηρώμενος.

Però... non sei mica brutto, straniero... almeno così direbbero le donne... non è per questo che sei venuto a Tebe?... Che capelli lunghi! Di sicuro non sei uno che va in palestra a fare la lotta, con quei riccioli giù fino alle guance... ti danno fascino! E che pelle bianca! Di sicuro non stai al sole apposta: vai a caccia di amori, nell’ombra, con la tua bellezza! (454-9).

Dioniso, figlio di un dio e di una donna mortale, mescola e confonde in sé i tratti del divino e dell’umano. Appartiene alla Grecia, ma appare come lo straniero, come il barbaro che arriva da un altrove. È immagine dell’Altro da sé e insieme figura di una prossimità inquietante53.

Dioniso è offeso, è indignato con Tebe: la città non accoglie il suo culto; infanga la memoria di sua madre Semele; chi governa la città nega il sacro o lo manipola in mala fede come strumento di potere, come menzogna politica. Cadmo invita suo nipote Penteo, sovrano della città, a proclamare la divinità di Dioniso a prescindere alla verità o dalle convinzioni personali. Ciò che importa è che il re faccia questa pubblica dichiarazione nell’interesse della famiglia regnante e per il prestigio del suo stesso potere:

κεἰ μὴ γὰρ ἔστιν ὁ θεὸς οὗτος, ὡς σὺ φῄς,
παρὰ σοὶ λεγέσθω· καὶ καταψεύδου καλῶς
ὡς ἔστι, Σεμέλη θ᾽ ἵνα δοκῇ θεὸν τεκεῖν,
ἡμῖν τε τιμὴ παντὶ τῷ γένει προσῇ.

Dioniso non è un dio, come sostieni tu? Fa lo stesso, tu dichiara che è un dio: è una bugia utile! La gente crederà che Semele ha messo al mondo un dio e sarà un grande onore per tutta la nostra stirpe (333-6).

Tiresia, il rappresentante delle sacre tradizioni e la voce mantica del divino, allegorizza e, di fatto, riscrive il mito stesso di Dioniso. Parla come un sofista e usa l’armamentario concettuale di un intellettuale contemporaneo, offrendo un’interpretazione che deliberatamente si stacca da qualsiasi adesione alla letteralità del racconto tradizionale:

[...] δύο γάρ, ὦ νεανία,
τὰ πρῶτ᾽ ἐν ἀνθρώποισι· Δημήτηρ θεά-
γῆ δ᾽ ἐστίν, ὄνομα δ᾽ ὁπότερον βούλῃ κάλει·
αὕτη μὲν ἐν ξηροῖσιν ἐκτρέφει βροτούς·
ὃς δ᾽ ἦλθ᾽ ἔπειτ᾽, ἀντίπαλον ὁ Σεμέλης γόνος
βότρυος ὑγρὸν πῶμ᾽ ηὗρε [...]

Due principi [...] sono fondamentali per gli uomini. Prima c’è la dea Demetra cioè la terra, puoi chiamarla in entrambi i modi [...], ella ci nutre con l’elemento secco ovvero con i cereali. Poi è venuto il figlio di Semele con l’elemento opposto: lui ha inventato l’umido succo estratto dai grappoli (275-80)54.

E allora Tebe merita di essere distrutta, di essere liquidata. Dioniso è il dio che punisce l’empietà, ma è, allo stesso tempo, il figlio illegittimo che ritorna a reclamare i suoi diritti da una famiglia che lo ha negato ed escluso: è il “bastardo” che agisce in difesa della madre vilipesa, il “ba-stardo” che, con accorta e sapiente strategia, elimina i suoi stessi parenti, distruggendo la loro vita e il loro potere55.

Dioniso costruisce il suo teatro, stordisce le sue vittime, crea effetti speciali ed illusioni, spoglia il suo nemico della propria identità e del proprio genere sessuale56. Tutto si trasforma in magia e inganno. Il suo antagonista, il giovane Penteo, signore di Tebe, va su tutte le furie, va in collera, reagisce con violenza verbale e fisica alle provocazioni dello straniero. Dioniso lascia fare. Dioniso – il testo lo ricorda più volte – rimane ἥσυχος, “tranquillo”, sorride (439 636). La sua collera è nascosta. Sulla scena, lascia che siano gli altri a indignarsi. Questo Dioniso queer si trasforma nel demone della casa, nel fantasma che spettrifica l’élite di potere: mostra l’insufficienza e l’indegnità di questa élite, agisce sulla sua cecità e sui suoi pregiudizi.

Per effetto dei giochi di Dioniso, per effetto del suo teatro nel teatro, Penteo ripete l’esperienza della totale inconsapevolezza di Edipo, come anche lo scambio dialogico in un punto sottolinea con efficace recupero memoriale dell’archivio tragico. Se Edipo è accusato da Tiresia di non sapere chi è, che cosa fa e con chi vive57, il re viene tacciato da Dioniso di analoga cecità:

οὐκ οἶσθ᾽ ὅ τι ζῇς, οὐδ᾽ὁρᾷς, οὐδ᾽ ὅστις εἶ

Tu non sai come vivi, non sai cosa vedi, non sai neanche chi sei! (506).

A differenza di Edipo, Penteo non ha indagini da compiere e indizi da interrogare, non ha una storia e un passato da ricostruire e in cui ricono-scersi. Il nipote di Cadmo può anzi, con ingenua baldanza, rispondere di sapere benissimo chi egli sia:

Πενθεύς, Ἀγαύης παῖς, πατρὸς δ᾽ Ἐχίονος

Io sono Penteo, il figlio di Agave ed Echione (507).

Ma tale sapere non può salvarlo, così come non è la conoscenza di sé il problema che sta a monte della trama, se non nella misura in cui il sé e lo Straniero si inscrivono in un’unica famiglia. Qui il modello edipico è solo un segnale di sventura, il significante topico della delegittimazione del sovrano. Qui tutto corre veloce e con perfetta puntualità verso un esito esiziale che è, nella sostanza, un déjà vu. Dioniso, il “bastardo” queer, evoca la fatalità dell’incesto, la maledizione di Edipo, come significante di distruzione per il rigido potere maschile del sovrano della città.

Dioniso tenta Penteo con l’idea di spiare le menadi. Il re sarebbe disposto a pagare “oro” (811) per poter godere di tale spettacolo che è “doloroso” eppure “piacevole” (815) come il genere tragico stesso. Penteo immagina il monte Citerone come una sorte di bordello a cielo aperto: le donne della città scomposte e ubriache, acquattate tra i cespugli come animali per dare sfogo ad una bestiale voglia di sesso. Egli è ossessionato dalla fantasia androcratica che fa coincidere il femminile con il disordine e con l’insaziabilità genitale. A complicare il quadro si aggiunge il fatto che il re non vuole solo osservare la licenziosità delle baccanti, ma, più in particolare, vorrebbe spiare la propria madre e coglierla in uno stato di abbandono sessuale. Penteo sogna una sorta di scena primaria, regredendo alla posizione di un bimbo che spia i segreti della madre, che vuole scoprire quello che la madre fa con il suo corpo, quello che ella desidera in una sfera altra dal rapporto con il figlio. Un desiderio sconvolgente ed originario, una fantasia onirica che ora, per azione di Dioniso, arriva a tradursi in azione. La forza dell’éros, i fantasmi della sessualità che abitano e sconvolgono Penteo costituiscono il perno su cui il disegno di Dioniso insiste per annullare ogni resistenza, per trasformare l’aggressività del nemico in sottomissione: per effetto dei suoi stessi spettri mentali, il padrone di Tebe diventa schiavo arrendevole, pronto a subire quanto gli viene imposto. Al di là di quanto sia possibile – e forse lecito – speculare sul carattere e sulla psicologia del personaggio – sulle sue inibizioni e sulla sua incapacità di padroneggiare l’affioramento di opposte spinte –, si impone la rilevanza di un gioco in cui la dimensione oscura del desiderio si installa nel cuore della politica e del potere. Se la lussuria delle donne, la loro fame di sesso sono emblemi di un disordine assoluto e di una pulsionalità che la città deve esorcizzare – per esistere e per essere una e coesa con se stessa –, il desiderio che turba e cattura Penteo è la cifra e insieme la trappola mortale della spirale distruttiva.

Sulla scena, l’éros opera così contemporaneamente su due versanti. Da un lato, la dimensione di un’ambigua seduzione omoerotica che avvince Penteo a Dioniso: un faccia a faccia tra due maschi, che, con sorprendente capovolgimento della situazione iniziale, diviene forma di intimità, evento di una resa completa, affidamento all’altro del proprio corpo. Dall’altro, la trasformazione di Penteo in una baccante per poter diventare voyeur della madre e delle donne sul monte. Il travestimento sembra un accorto espediente per occultarsi e non farsi scoprire. Ma, come il prosieguo della vicenda dimostra, il travestimento non ha alcun effettivo valore tattico né viene giocato per potersi mescolare alle menadi. È solo una transizione simbolica che conduce alla dissoluzione. Il re deve spogliarsi della sua identità virile per diventare l’alterità che gli fa paura e lo attrae: deve diventare una “donna” (822: ἐς γυναῖκας ἐξ ἀνδρὸς τελῶ;). Anziché vestirsi da guerriero, egli deve indossare la veste lunga delle menadi e la cuffia delle donne d’Asia; deve agitare il tirso e danzare. Dioniso lo abbiglia, gli sistema le pieghe dell’abito, gli aggiusta i capelli con le sue mani. Dioniso si occupa del corpo e dell’aspetto di Penteo in una vicinanza che sembra sempre più stretta ed affettuosa: il dio rassicura il suo interlocutore sull’effetto e sulla riuscita di quella trasformazione che ha avuto dalla follia la sua spinta finale. Il desiderio di vedere la madre si traduce nel voler essere come la madre. Penteo, vestito da donna, trasformato in baccante, si preoccupa di avere l’aspetto di Agave e delle sue zie, di assomigliare a loro, di imitarne l’incedere e la postura (925 ss.). E il dio lo rassicura sul conseguimento di tale perfetta somiglianza:

πρέπεις δὲ Κάδμου θυγατέρων μορφὴν μιᾷ
[...]
αὐτὰς ἐκείνας εἰσορᾶν δοκῶ σ᾽ ὁρῶν

Tu sembri proprio una delle figlie di Cadmo [...] ti guardo e mi sembra di vedere loro (917, 927).

Se l’assunzione di un genere sessuale è questione di performance, la scena euripidea esibisce tale logica in tutte le sue conseguenze. Vestire i panni del sesso opposto rientra nella mitobiografia di diversi eroi – da Achille ad Eracle – così come in svariati riti di passaggio58. Ma qui l’assunzione della veste dionisiaca non coincide con alcuna positiva iniziazione. Il re – che come figlio dovrebbe imitare il modello del maschile paterno – compie una stravolta transizione al femminile: diventa baccante, donna e madre in un procedimento mimetico che il dio perfidamente sorveglia. I fantasmi della sessualità liberati dalla suadente strategia di Dioniso sono il sudario in cui Penteo si avvolge: perdita di identità che raggiunge il suo culmine nello smembramento. Se la luminosa regalità di Edipo rovinava nella scoperta orrenda del parricidio e dell’incesto, per liquidare Penteo è sufficiente l’identificazione simbolica con la madre cattiva, con Agave baccante, feroce e assetata di sangue: ultima delle eroine furenti e delle madri infanticide portate ripetutamente in scena dal teatro tragico attico. Nel momento in cui il re della città, il detentore maschile del potere coincide con il volto cruento della regina omicida, con la maschera della madre notturna, tutto l’ordine collassa, implodendo su se stesso. E questo è anche il punto più lontano in cui l’intera grammatica tragica, spendendo le sue topiche, si può spingere prima di estinguersi. Il vendicatore queer ha rivolto il modello edipico contro la città per distruggerla dalle fondamenta59.

Nel dramma euripideo, il teatro di Dioniso non consente di piangere sulla fragilità degli uomini, non consente di commuoversi sulla stirpe dei mortali. Niente resta in piedi. È il trionfo della distruzione Tebe diviene una città aperta: un vuoto assoluto. Il cerchio della maledizione, il cerchio della politica malata è infranto per sempre e senza residui. Quando Euripide scriveva le Baccanti, non era più Atene: era migrato in Macedonia. Da questo altrove il suo teatro intellettuale, il suo teatro queer poteva mostrare un’indignazione trionfante e una condanna senza appelli. Ma cosa resta nel vuoto così prodotto? Dioniso predice che Tebe sarà invasa dai barbari, che diventerà terra di conquista. Non sarà più la Grecia di prima. È lo stesso destino di Atene: svanito il sogno dell’impero, dissolto il miraggio dell’espansione e della conquista, Atene diviene una città di periferia, il satellite di un altro impero, l’impero di Alessandro Magno. Nel vuoto che la vendetta e l’indignazione di Dioniso hanno creato resta la paura e lo sgomento dei superstiti: la paura dell’impoverimento, la paura della perdita di prestigio, la paura di diventare schiavi di altri popoli, schiavi dei barbari; schiavi di quei popoli che fino a un momento prima essi avevano guardato con disprezzo, considerandoli inferiori. L’indignazione attiva di Dioniso, l’indignazione autonoma di Medea producono un panorama di macerie.

Medea e Dioniso funzionano come una sorta di radicali troubleshooters. Liquidano un sistema corrotto e la rete di affiliazioni che esso implica: sono liquidatori di un’élite oscena. Il teatro offre così al suo pubblico – alla sua componente forse più debole e vulnerabile – l’appagante visione di una rivalsa: il sogno di una perfetta pulizia che elimina la “peste” della città. Allo stesso tempo, la catastrofe tragica pare costituirsi come una sorta di incubo spaventoso, una sorta di terrificante monito a coloro che hanno avuto una responsabilità politica e culturale nella parabola discendente della pólis. Ma una volta che lo spettacolo è terminato, quali opzioni e quali possibilità si aprono per gli spettatori che tornano a casa dopo aver assistito a questa “Apocalypse now” dionisiaca. Cosa può nascere da queste macerie, da questa paura? Il sogno di un nuovo patto, di una nuova comunità che giocherà con altre regole? Una comunità che farà un uso più autentico e più libero delle passioni? Una comunità dove le passioni sono davvero autonome e producono forme sempre più larghe di inclusione? Le Baccanti e le Medee riscritte o ri-rappresentate negli anni ’70 facevano balenare questa prospettiva60. Ma nel vuoto della paura e dell’indignazione si apre anche un’altra possibilità: quella di consegnarsi a chiunque, di consegnarsi ad un nuovo e più feroce padrone, di sottomettersi ad un potere carismatico più lucido e illiberale. Lo sguardo sorridente di Dioniso, la sua calma indignazione possono nascondere anche questo. Non basta indignarsi a dire “Io non voglio più abitare in questa città”, come fanno Edipo61 e Antigone. In questo modo si resta prigionieri del sistema. Ma anche il successo dell’indignazione di Dioniso è una strada pericolosa. Apre la via a soluzioni autoritarie: è un modo più efficace per assoggettare gli altri. In un orizzonte di crisi, l’indignazione ha un senso positivo solo se si trasforma in un appello comune e inclusivo alla politica perché tutti si mobilitino attivamente, con responsabile intelligenza e meno emozioni, per la “casa” comune. L’indignazione deve essere il primo passo verso un diverso e diffuso impegno che sappia mediare tra globalizzazione e istanze di un orizzonte glocal. Non a caso il secondo, altrettanto fortunato pamphlet di Hessel si intitola: Engagez-vous 62.

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Notes

1 Butler 1993. Return to text

2 Sedgwick 1993. Return to text

3 Loraux 2005: 132. Return to text

4 Butler 2000. Return to text

5 Butler 2000: 78. Return to text

6 Butler 2000: 72. Return to text

7 Butler 2000: 76. Return to text

8 Butler 2000: 82. Return to text

9 Butler 2000: 78. Return to text

10 Si veda per tale dibattito soprattutto Loraux 1999. Return to text

11 Si vedano, per questo, a titolo esemplificativo i contributi raccolti in Diano 1968. Return to text

12 Paradigmatica la lettura sulla rappresentazione del potere nell’Edipo re presente in Serra 1994. Al di fuori del confini italiani, la compresenza e l’accostamento di nomi come quelli Schmitt e Strauss a Foucault e ai queer studies può sembrare alquanto singolare. Tuttavia, nel contesto culturale italiano, sono stati propri i settori più produttivi del pensiero di sinistra a confrontarsi con Schmitt e Strauss e a portarli al centro di un discorso filosofico politico di interesse generale. E va osservato che nel particolare laboratorio storico-politico italiano le posizioni radicali di destra e di sinistra si sono più volte confrontate in un dialogo produttivo al di là e contro le ampie zone grigie del “centro” e delle sue presunte mediazioni. Return to text

13 Per questo si vedano i lavori di Beltrametti e Stella citati nel lavoro. Return to text

14 Cf. Susanetti 2012: 9 ss. Return to text

15 Basti vedere Deleuze-Guattari 1975. Return to text

16 Su Antigone come agente morale cf. Foley 1996. Return to text

17 Hessel 2011: 16. Return to text

18 Butler 2000: 8. Return to text

19 Butler 2000: 9. Return to text

20 Sul lavoro di Cavani cf. Buscemi 1990. Sulle riscritture contemporanee del mito cf. Fornaro 2012 e Susanetti 2005: 167-88. Return to text

21 All’orgé di Antigone fanno, per converso, da pendant le astynómoi orgaí – l’“impulso a costituire leggi e città” – evocate dal coro nello stasimo sul progresso (354 ss.) cf. Susanetti 2012. Return to text

22 Il rilievo è formulato dal Coro che ovviamente non rappresenta una voce autoriale (e sarebbe assurdo porsi in tale prospettiva). Ma ciò non significa che la battuta sia da intendersi come common sense. È l’identità stessa del Coro, precisata accuratamente dalla drammaturgia, ha rendere rilevante il commento: i Vecchi del coro non sono un anonimo gruppo di Tebani, ma un consiglio di Anziani da sempre contigui al potere e ad esso solidali, testimoni delle passate stagioni e insieme del presente. Per questo è interessante che siano loro per primi a esplicitare la “presenza” di Edipo in Antigone. Return to text

23 Sull’opposizione tra “selvaggio” e “civilizzato” nel dramma cf. Segal 1998: 152 ss. Return to text

24 Su questo verso cf. Petrovic 2001 e Susanetti 2012: 259. Return to text

25 Per questa ossessione dell’autós nel dramma cf. Loraux 1986. Return to text

26 Sull’Edipo re sofocleo e la sua rappresentazione del politico cf. Stella 2010b. Return to text

27 Sulla dinamica sofoclea del passato che ritorna e rifluisce cf. Bollack 1999: 113-5. Return to text

28 Cf. anche Beltrametti 2002 che mostra in modo persuasivo come la questione della sepoltura sia un “magistrale pretesto”, un inciampo che mette in questione il tema della sovranità politica di Creonte e dei problemi ad essa connessi (a cominciare dalla questione del consenso) e che vede in anticipo una serie di nodi del potere in democrazia destinati a coagularsi nella drammaturgia dell’Edipo re. Per tali ragioni e per quanto si dirà di seguito sull’Edipo sofocleo occorre anche resistere alla tentazione di adeguare semplicemente la figura di Creonte a quella di un ‘tiranno’ davanti a cui Antigone si ergerebbe. Ogni potere, quale che sia la sua forma istituzionale, tende, se sfidato, a difendere se stesso: il che non comporta evidentemente che si realizzi un regime di tirannia o che sia in senso proprio tiranno il detentore del potere. Come è stato osservato (Serra 1994: 29), tirannide è “l’ombra inseparabile che accompagna chiunque lotti per il potere nella città democratica: questo è il fantasma che ossessiona gli Ateniesi [...] ‘tiranno’ è il fratello che prevarica” nel cerchio comune dei cittadini-fratelli. Che Creonte non sia in alcun modo identificabile con un ‘tiranno’ lo aveva per altro ampiamente dimostrato, con altra prospettiva, anche Di Benedetto (1983: 16 ss.), il quale faceva per altro osservare come l’opposizione spesso evocata per l’Antigone tra legge non scritta aristocratica e legge scritta della città democratica trovi un limite nel fatto che nella tragedia non vi è alcuna menzione della legge scritta. Per l’insieme di tali considerazioni è del pari poco plausibile fare di Creonte l’astratta incarnazione della città democratica. Il problema è semmai la configurazione stessa della sovranità di Creonte in quanto soggetto aristocratico che si pone a guida della città in ragione anche del suo stesso lignaggio e si scontra con l’altrettanto aristocratica Antigone. Return to text

29 Per un approfondimento di questa prospettiva cf. Susanetti 2011: 143 ss. Return to text

30 Ibidem. Return to text

31 Stella 2010a: 41. Return to text

32 Sull’incesto come simbolo della città democratica e della sua stásis endemica cf. Stella 2010b: 38-9. Return to text

33 Si veda ancora Stella 2010a: 41. Return to text

34 Ibid. Return to text

35 Ibid. Return to text

36 Stella 2010a: 42. Return to text

37 Ibid. Return to text

38 Cf. Andocide, Sui misteri 127-8. Cf. inoltre Susanetti 2011: 174-4: “Se il «primo» degli uomini, il padre e il salvatore della patria, è un omicida e un incestuoso, se chi ha voluto e perseguito il bene del paese – a rischio della sua personale disfatta – è un impuro, allora non vi è speranza neppure per il resto della città e nessuno potrà più dirsi o pensarsi come legittimo detentore del potere. L’impurità di Edipo, l’abominio che egli finisce per rappresentare è l’abominio di tutti, l’oscena impurità della città e della democrazia che – sotto il velo della favola drammaturgica – emerge. In questo finale della tragedia, non vi è più parola della peste che divorava Tebe. Ma ciò non corrisponde ad una casuale dimenticanza o – ipotesi ancor debole – ad un’eclissi della pólis e al ripiegamento del focus scenico sulla famiglia e sulla casa di Edipo. La peste mitica non viene più menzionata solo perché si è risolta nella peste universale della finitudine umana e della convivenza democratica. «Nozze, nozze, voi mi avete messo al mondo e, dopo avermi generato, avete ancora procreato dallo stesso seme – grida Edipo pensando al matrimonio dei suoi genitori e ancora al proprio con Giocasta – avete rivelato padri, fratelli, figli, sangue dello stesso sangue, e spose mogli e madri tutt’insieme, la peggiore vergogna che vi può essere al mondo» (vv. 1403-1409). Ma la «vergogna», il «turpe» intreccio del sangue e della parentela è, fuori di finzione, la cifra di quell’universo stravolto e lacerato che è Atene stessa ove tutti i cittadini si pensano e si vogliono come «fratelli» di un’unica madre, ove la fratellanza non si risolve nell’unità armonica, ma nella disputa senza fine [...]. Edipo urla dinanzi a tutti: «Che questa città, la città di mio padre, non debba mai più considerarmi tra i suoi abitanti finché vivo» (vv. 1448-1449). Il che equivale a dire: «Non voglio più abitare in questa città». Edipo è un «flagello», è una contaminazione e, come tale, non dovrebbe più essere accolto nella cerchia dei cittadini tebani. Chiede di essere portato via, allontanato per sempre dai confini della patria. Ma la reazione di chi si è scoperto portatore delle peggiori atrocità non è solo un gesto di autonoma esclusione, la dichiarazione dell’impossibilità di vivere nel luogo dei propri orrori. Quel grido è, allo stesso tempo, il rifiuto assoluto della pólis dove tutto questo è potuto accadere: la sconfessione nei riguardi della città segnata dalle rimozioni e dai silenzi, dalle omertà e dalle insinuazioni, la condanna senza appello di un universo politico ove la disfatta del migliore è la negazione dell’intero sistema dell’abitare insieme. È l’orizzonte malato della democrazia ove, nei fatti, a governare non è il sapere fondato dell’«arte regia», ma il «caso» o l’insipienza; ove i leaders non sono veri politikoí, «uomini della città», bensì, più spesso, stasiotikoí, violenti «agitatori di fazioni» e «ciarlatani» che incantano il popolo; ove chiunque, senza competenza e senza fondamento, può accusare e portare nel fango chi ha ricoperto cariche e responsabilità. È la pólis – come insegna Platone (Politico 291 a ss., 300 a ss.) – dove allignano i mostri del mito e le belve che precipitano tutto nell’anomía [...]. Se la peste e la contaminazione che Edipo incarna – al di là della sua mitobiografia – rinviano ad una generale illegittimità del potere e del politico, la pólis non può liberarsi di Edipo e dei suoi «mali» se non negando, allo stesso tempo, se stessa e la propria storia. Se non ridisegnandosi nell’utopia filosofica o invocando il governo diretto della divinità, come accadeva nell’era felice di Crono. Nella disillusa – anche complice – drammaturgia sofoclea, il male non è e non può essere espulso. Resta, sempre e comunque, all’interno delle mura ove si è condannati a vivere”. Return to text

39 Cf. per questo e quanto immediatamente precede Serra 1994: 127-8. Return to text

40 Stella 2010a: 42. Return to text

41 Pasolini 1999: 541. Return to text

42 Castellina 2011: 18. Return to text

43 Sofocle, Edipo re 635. Return to text

44 Sofocle, Trachinie 1278. Return to text

45 Sofocle, Edipo re 1186-8. Return to text

46 Cf. Susanetti 2011: 10-11. Return to text

47 Cf. Serra 1994: 127-8. Return to text

48 Per il carattere intellettuale di Medea e sul fatto che esso evochi in più punti il contorno dei portatori di nuovi saperi con le reazioni critiche e la paura che ciò innesca cf. l’ampia e documentata disamina di Paduano 1968: 297 ss.; il personaggio di Medea presenta, senza dubbio, una stratificazione di piani evocati dal testo, ma non tutti e non allo stesso modo messi in risalto e operativi nella drammaturgia. Come hanno osservato Di Benedetto – Medda (1997: 323), “Le capacità di maga non appaiono come messe in atto nella tragedia. A esse si accenna come a un dato reale, ma non immediatamente effettuale. L’accento batte sulla sophia [...] una saggezza fatta di lucida consapevolezza e di grande capacità nell’organizzare la vendetta”. Return to text

49 Susanetti-Ciani 1997: 202-3. Return to text

50 I versi considerati pongono senza dubbio, a un livello generale, il problema della violenza devastante delle passioni. Ma problematizzano del pari come la passione non coincida semplicemente con l’irrazionale. Ed è proprio la passione di Medea che consente la disarticolazione del sistema e dell’ordine valoriale che l’ha “offesa”. Certo a dei costi altissimi di cui il personaggio è consapevole. Ma altrimenti non vi sarebbe nulla di “tragico”. Return to text

51 Cf. Sofocle, Aiace 37, 454, 961 e Susanetti 2007: 48. Return to text

52 Sulla maternità di Medea e la scelta dell’infanticidio cf. anche Beltrametti 2000. Return to text

53 Sulla “queerness” di Dioniso cf. Fusillo 2006. Return to text

54 Cf. Stella 2007, Susanetti 2010: 15-20. Return to text

55 Sul ritorno di Dioniso come ritorno di un parente vendicativo cf. anche Beltrametti 2007. Return to text

56 Sulla dimensione metateatrale del dramma cf. Segal 1997: 215 ss. Return to text

57 Sofocle, Edipo re 413-4. Return to text

58 Sui rituali di gender-crossing cf. Gallino 1963. Return to text

59 Il richiamo al “modello edipico” va inteso ovviamente non sulla base di alcuna somiglianza strutturale delle vicende, né di letterale ripresa dell’una nell’altra. Ma nel senso precisato in precedenza parlando di Antigone ed Edipo re. Edipo come significante di una “peste” politica con la fenomenologia che ad essa si connette. Un significante riattivato scenicamente dalla battuta sulla inconsapevolezza di Penteo che, come si è visto, pensa ingenuamente che la certezza della genealogia basti a risolvere la questione del suo potere e del suo ruolo nella città. Come se la rovina di Penteo richiamasse la liquidazione edipica e insieme la compisse quando ha ormai raggiunto uno stato di simulacro appannato ed evanescente. Per tutto questo si veda anche l’analisi di Segal (1997: 282 ss.), il quale, per l’appunto rileva: “Pentheus becomes a kind of second Oedipus”. Inoltre, per il rapporto Edipo – Dioniso anche Zeitlin 1986:130 ss. e 2011. Return to text

60 Cf. Susanetti 2005: 95-9, 234-40. Return to text

61 Sofocle, Edipo re 1449-50. Return to text

62 Hessel 2011. Return to text

References

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Davide Susanetti, « Collera, crisi politica e soggetti queer. Da Antigone a Dioniso », Eugesta [Online], 4 | 2014, Online since 01 janvier 2014, connection on 20 mai 2024. URL : http://www.peren-revues.fr/eugesta/804

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Davide Susanetti

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