Baliatico, αἰδώς e malocchio: capire l’allattamento nella Grecia di epoca arcaica e classica anche con l’aiuto delle fonti romane

DOI : 10.54563/eugesta.1195

Abstract

In passato alcuni studiosi hanno sostenuto che le donne greche, come quelle romane descritte da Sorano, non allattassero personalmente i loro figli, preferendo assumere nutrici a questo scopo. Sorano, però, parlava di una “moda” in voga soltanto nella Roma imperiale. Da un’attenta analisi delle fonti greche, infatti, si può intuire che le madri nella Grecia di epoca arcaica e classica tendenzialmente allattassero. Probabilmente per questa ragione le fonti greche non si sono mai soffermate su problemi al contrario molto dibattuti a Roma, come le conseguenze che poteva avere un latte alieno sul bambino, e, di conseguenza, sull’intero genos. Scandagliano però con attenzione le testimonianze greche possiamo cogliere anche in esse qualche riferimento, seppure meno esplicito, all’esistenza di latti con caratteristiche diverse e in grado di veicolare determinati caratteri genetici.

Una volta stabilito che le donne elleniche allattavano, si è cercato di dare una spiegazione alla rarità di immagini di donne che allattano nella Grecia continentale, individuando principalmente tre motivi: il concetto molto radicato nella cultura greca di aidós, la teoria dell’emogenesi dal latte materno dal sangue mestruale e un più generico sentimento di “scaramanzia” e paura connessi con alcuni momenti molto delicati della vita della donna e del bambino (si pendi a esempio al malocchio). Contemporaneamente, si è cercato di prendere le distanze da concetti molto abusati in passato, come tabù, magia e misoginia.

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Introduzione

L’allattamento è un argomento straordinariamente controverso. Lo è oggi, come testimoniano il moltiplicarsi di iniziative a livello mondiale i gruppi di sostegno pro-allattamento, le banche del latte, il latte acquistabile quasi senza controlli on-line, le teorie a favore del cosiddetto “allattamento estremo”, ma anche leggi e polemiche contro l’allattamento in pubblico, nonostante il cosiddetto Occidente abbia ormai ampiamente sdoganato il nudo e dimostri una certa tendenza a combattere ogni forma di inibizione1. Lo era già nel mondo antico, sia in quello greco che in quello romano, nonostante ci sia una non piccola differenza fra il modo di approcciare la questione in Grecia e a Roma: nel primo caso se ne parlava molto poco, essenzialmente soltanto nei testi “specialistici” (medici e biologici), mentre nel secondo caso se ne parlava decisamente di più2. Di conseguenza non possiamo prescindere dalle fonti latine, nel tentativo di meglio comprendere quelle greche. Per quanto concerne le fonti archeologiche, soprattutto in Grecia ma anche a Roma si tendeva a non raffigurare scene di allattamento. In passato ci si è domandati come mai questo gesto non venisse rappresentato, mentre lo era in Etruria e in altre zone dell’Italia antica, ma, a nostro avviso, l’approccio al problema deve essere ribaltato: perché in Etruria e in altre zone dell’Italia antica l’allattamento veniva raffigurato con una certa (non poi così eccessiva) disinvoltura e frequenza? Una prima riflessione può essere fatta: precedentemente all’avvento del latte artificiale, dall’allattamento al seno dipendeva la vita stessa del bambino3 e mostrarsi in un momento così delicato avrebbe potuto significare esporre a invidie da parte di donne senza figli o senza latte ed a inutili rischi la mamma e il piccolo da nutrire, come vedremo parlando del malocchio. Inoltre l’allattamento rappresenta un momento di profonda intimità. Allattare è una cosa da donne, per donne, fra donne: rappresentava un gesto cui gli uomini erano poco abituati e verosimilmente poco interessante. In una certa misura ancora oggi è così: le scene di allattamento sono tendenzialmente l’eccezione e non la regola oppure vogliono essere apertamente provocatorie. Una donna che allatta in pubblico, infatti, di solito cerca di farlo in maniera discreta.

Inoltre, restringendo il campo alla Grecia di epoca arcaica e classica, è necessario non dimenticare il sentimento di αἰδώς, da connettere probabilmente con la teoria dell’emogenesi del latte, che andremo immediatamente ad analizzare.

1. Τὰ γάλακτα ἀδελφὰ τῶν ἐπιμηνίων

Nei trattati medici antichi troviamo idee piuttosto precise circa la natura del latte umano4, che viene considerato un succedaneo del sangue, con cui il feto è stato nutrito durante la gravidanza e che, prima della gestazione, veniva periodicamente espulso dal corpo femminile grazie al ciclo mestruale. Aristotele (La generazione degli animali IV, 8, 776a-b) spiega che le secrezioni di natura ematica costituenti nell’uomo il seme e nella donna il sangue mestruale5, se uniti con la fecondazione, producono, grazie all’impulso generatore dell’elemento maschile, una materia attiva che serve sia per la formazione dell’embrione sia per il suo nutrimento, destinato all’uno e all’altro uso in quantità variabili secondo le diverse fasi della gestazione. Lo Stagirita afferma, infatti, che la stessa materia procura nutrimento e costituisce la base naturale della generazione, specificando subito dopo che il latte è sangue cotto, ma non corrotto6. Il latte umano era considerato, pertanto, un’ulteriore trasformazione, per cottura7, di quel sangue mestruale che, modificandosi sotto l’impulso del seme maschile, ha dato prima origine all’embrione, poi al suo nutrimento intra-uterino. Le teorie aristoteliche sono confermate in linea di massima da quelle ippocratiche8 e successivamente in parte da Plutarco9.

2. La non scontata scelta di allattare

Le ragioni che spingono una donna ad allattare o non allattare il figlio sono ancora oggi molto complesse e non spetta a noi indagarle10. Possiamo, però, cercare di individuare alcune tendenze che, citando la Maher11, potremmo definire “transculturali” e che, di conseguenza, potrebbero aiutarci a comprendere anche l’atteggiamento greco nei confronti dell’allattamento materno.

Cerchiamo di analizzare i principali motivi che possono spingere una donna a non allattare, fermo restando che, soprattutto in una realtà come quella greca e romana, non possiamo dare per scontato che la scelta spettasse necessariamente alla donna. Anzi, è stato messo in evidenza che probabilmente era l’uomo a scegliere o a influenzare la scelta, cercando di imporre il suo volere in un campo d’azione di estrema importanza e rispetto al quale fisiologicamente ed emotivamente sarebbe stato escluso12. Detto ciò, non possiamo mai dimenticare che, quando cerchiamo di far parlare direttamente le donne antiche, a parte rarissimi casi, la loro “voce” è il prodotto di una “vetriloquizzazione”.

Torniamo alle motivazione che possono influire sulla scelta di allattare. Una prima, quasi banale, ragione può essere connessa con la paura di rovinarsi seno, silhouette e salute13. Per quanto concerne la Grecia, però, non abbiamo fonti che insistono particolarmente su questi aspetti, se escludiamo alcuni indiretti riferimenti all’invecchiamento precoce che la gravidanza (e il successivo allattamento?) comporta14. Anzi, in generale l’allattamento viene indicato come positivo per la salute della donna15. Le fonti archeologiche, però, tendono a raffigurare la nutrice come anziana, brutta e deformata, soprattutto nei seni16.

Un altro motivo può essere il notevole prestigio sociale connesso con il baliatico sin dall’antichità17, che implicherebbe anche la verosimile percezione dell’allattamento come un lavoro vero e proprio, quindi come un’attività decisamente poco adatta alle persone di alto rango18.

L’emancipazione rispetto alle mere, per molti versi imbarazzanti, necessità del corpo, che avvicinano la natura dell’uomo a quella ferina, può, inoltre, essere percepita come un segno di “civilizzazione” per una donna. Non mancano nelle fonti latine testimonianze che, parlando di popoli barbari, sottolineano il costume delle donne di allattare i figli al seno19. Nelle fonti iconografiche osserviamo, in antitesi rispetto alle immagini della donna aristocratica con balia, da un lato l’immagine umile della madre che allatta il proprio figlio, molto frequente nell’arte provinciale, dall’altro immagini di bambini allattati da animali, ninfe o centauresse20. Anche in questo caso le testimonianze per il mondo greco non sono particolarmente numerose e significative, ma, dalle poche che abbiamo, possiamo intuire che l’allattamento al seno venisse, almeno in parte, considerato un gesto primitivo e “selvaggio”, come testimoniato soprattutto dal cospicuo numero di bambini allattati da animali e ninfe nel mito21.

Trattandosi di antichità classica, è stata avanzata un’ulteriore ipotesi, a nostro avviso non del tutto condivisibile, per motivare l’assenza di scene di allattamento: il “tabù” della nudità, in particolare della nudità femminile, percepita come privata, straordinaria, vergognosa e pericolosa a un tempo (soprattutto quando la parte esposta è il seno22), su cui torneremo.

La scelta di allattare, oltre a ciò, può rivelarsi in vario modo una questione maschile. Lungi dall’essere un comportamento solamente naturale, l’allattamento al seno va indagato anche come «un’azione [...] culturale, un atto deliberato e significativo»23. L’uomo ha cercato nei secoli di imporre una sorta di controllo sull’allattamento materno, dal quale era evidentemente escluso. Anche nella concezione del latte umano l’impronta maschile è palese24. La credenza, già presente presso i Greci, e che grande fortuna ebbe nei secoli successivi25, che i rapporti sessuali “guastassero” il latte e che non si potesse rimanere incinte in assenza di mestruazioni, certamente deve aver spinto molti mariti ad assumere balie sia per non rinunciare al piacere26 che per non rinunciare ad avere altri eredi in tempi brevi.

Un ultimo dettaglio può aver significativamente influito forse non tanto sulla scelta di allattare al seno, quanto sull’opportunità di farlo in pubblico: il latte materno nel mondo antico era pur sempre considerato sangue mestruale cotto. Secondo Empedocle, addirittura, si sarebbe trattato di una sorta di sangue putrefatto: il filosofo gioca, infatti, con il significato di πύον (pus, intendendo il latte) e πυός (il primo latte dopo la nascita, cioè il colostro)27. Dalle leggi sacre che regolamentavano l’accesso ai santuari e la partecipazione ai riti, a possibile conferma di ciò, sappiamo che esistevano restrizioni riguardanti le donne mestruate, le donne incinte e quelle che allattano28.

Abbiamo fin qui accennato ad alcune ragioni che possono aver spinto le donne greche a non allattare, non privilegiandone nessuna, in quanto un’operazione di questo tipo, senza il supporto delle fonti, implicherebbe una non lecita intromissione nella vita privata di persone vissute millenni fa. Quali che fossero le motivazioni personali, e fermo restando che, come vedremo, il baliatico in Grecia era l’eccezione, sappiamo che esistevano nutrici da latte, quindi cerchiamo di approfondire questo argomento.

3. Il baliatico in Grecia e a Roma

Fino all’invenzione del latte artificiale, chi non poteva o non voleva allattare doveva ricorrere a balie da latte. Questa diffusissima usanza era, come abbiamo già accennato, ovviamente presente anche nel mondo antico, ma, stando alla documentazione in nostro possesso le differenze fra i costumi greci (perlomeno della Grecia di epoca arcaica e classica) e quelli romani (perlomeno di epoca imperiale)29 per quanto concerne la pratica dell’allattamento sono significative.

Da un lato abbiamo le matrone romane di Sorano e Galeno, la cui abitudine a non allattare personalmente i figli era ben nota e spesso criticata; dall’altro abbiamo i testi ippocratici, in cui, per quanto concerne l’allattamento al seno, troviamo non soltanto diversi rimedi contro l’ipogalattia e l’agalattia (che, per quel che ne sappiamo noi, potevano essere rivolti sia alla madre che alla balia)30, ma anche (e soprattutto) la costruzione ideale di corpo femminile fatto per sua stessa natura per allattare, ovvia conseguenza dell’essere fatto per concepire, essere gravido, partorire. E, cosa ancora più importante, troviamo l’idea che l’allattamento, così come la gravidanza e il parto, sia qualcosa di positivo per la salute della donna31.

Che l’allattamento materno fosse la scelta migliore, quantomeno per il bambino, probabilmente era un pensiero condiviso anche dai medici che vivevano a Roma; ma, come nota la Rouselle, «l’affidamento di un bambino alla nutrice non è una teoria che viene dai medici; è un costume sociale e ai medici è richiesto piuttosto di mostrare che tale usanza non nuoce alla salute del bambino»32. Il costume, chiaramente descritto da Sorano33, di affidare il bambino romano a una balia era talmente diffuso da essere ancora ampiamente attestato alla fine del IV secolo d.C., come testimonia, fra le altre cose, la traduzione in latino da pare di Muscio dei capitoli sulla scelta della nutrice34 nel sunto della Ginecologia.

Niente del genere sembra riscontrabile nelle fonti greche di epoca arcaica e classica. In primo luogo, “eroine” come Ecuba35, Andromaca36 e Giocasta37 allattano.

E Clitemnestra, la madre ἀμήτωρ (letteralmente privo di madre, ma anche privo di maternità, quindi, in questo contesto, si potrebbe tradurre “madre-non madre”)38, allatta? La risposta sembrerebbe positiva39. Clitemnestra allatta nelle tragedie di Euripide40. Anche nella versione eschilea il sogno del parto del serpente, cui Clitemnestra porge il seno pensando che fosse un bambino, sembra confermare il fatto che la donna allattasse personalmente. Il dettaglio del grumo di sangue succhiato con il latte (vv. 533, 546) anticipa e prepara la negazione della parentela che verrà esplicitata nelle Eumenidi (vv. 606sq.): alla domanda di Oreste «e io sarei dello stesso sangue di mia madre?», il coro risponde «e come, dunque, ti nutrì? Tu rinneghi il dolcissimo sangue di tua madre?»41. Il legame fra latte e sangue è qui particolarmente evidente.

Ma è il grido di dolore di Creusa alla notizia che non potrà mai stringere fra le braccia un figlio né attaccarlo al suo seno42 che vale più di mille parole: «Ah, vorrei morire [...]. Me infelice, che disgrazia, il dolore che provo, amiche, mi toglie il gusto della vita. Sono perduta [...]. Ahimè! Un dolore acuto mi trafigge il petto»43.

Sempre dalla medesima tragedia apprendiamo quali erano considerati gli attributi tipici della maternità in Grecia: il latte, il seno e la cura dei bagni44. Troviamo conferma di ciò nelle commedie di Aristofane: nella Lisitrata, Mirrina è costretta dalle lamentele del figlio, che dietro istigazione del padre la chiama ripetutamente, ad avvicinarsi suo malgrado al marito Cinesia, che, per impietosirla, le dice che il bambino è senza bagno e senza latte da una settimana. L’aggettivo ἄθηλος (privo di seno, non allattato) non lascia adito a dubbi circa l’interpretazione del passo45. Nelle Tesmoforiazuse, Mnesiloco, strappa a una madre la figlia dal seno e si rifugia sull’altare, minacciando di non permettere più alla donna di nutrire la bambina se non verrà liberato. La disperazione della donna è notevole, ma la bambina alla fine si rivelerà essere un otre di vino (vv. 690-738).

L’oratore Lisia afferma che la moglie aveva iniziato ad allattare il figlio dopo la nascita, e che di notte scendeva – dove il bambino dormiva con le ancelle – per dargli la poppa46; mentre Demostene (57, 35sq.) ci informa che la madre, come molte altre donne libere, in tempi difficili aveva fatto la balia.

Nella Samia di Menandro, in un complesso intreccio di vicende di legittimità filiale, il bambino non è allattato dall’anziana nutrice (v. 237) del padre, ma è allattato da due donne, entrambe madri (una madre legittima, l’altra madre di un figlio morto appena nato, che si vuol far passare per legittima). In tutti e due i casi lespressione è “porgere il seno” (vv. 266, 534).

Teocrito nell’Idillio 24 ci presenta un’insolita Alcmena madre affettuosa e premurosa sia di Eracle, cui porge il seno per allattarlo (v. 2), sia del suo gemello Ificle.

Analizziamo, infine, una fonte particolarmente importante per il suo porsi “a metà strada” sia geograficamente sia, in un certo senso, cronologicamente, fra Grecia (classica) e Roma (imperiale): Plutarco. Ne L’educazione dei figli (I, 5, 3CD), egli scrive: «è assolutamente necessario, secondo me, che le madri stesse nutrano i loro figli e porgano loro il seno. Così nel dare il nutrimento ci sarà come una sofferenza comune con essi, una più grande sollecitudine, come se così sentissero di amare i figli dal di dentro, o, come si usa dire, dalla radice delle unghie»47.

Un’altra testimonianza di Plutarco (Questioni convivali 640f) va menzionata: qui egli afferma che bisogna dare a una donna con latte in eccesso un altro bambino da nutrire (per non sprecare il latte? Per aiutare chi ne ha meno? Per evitare che si accumuli troppo latte dentro le mammelle, rischiando che vada a male?48).

Non dimentichiamo che una madre può anche essere impossibilitata ad allattare personalmente i propri figli per motivi di salute o per mancanza di latte: in questi casi sicuramente chi poteva permetterselo ricorreva a balie da latte (negli altri casi presumiamo si provasse l’impiego di latte animale, anche se Aristofane da Bisanzio attesta l’esistenza di balie da latte anche fra i ceti meno abbienti della popolazione49). Di poco più recente la testimonianza di Clemente Alessandrino (Protrettico X, 1), in cui si lascia intendere che tutti i bambini venissero allattati dalle nutrici.

Abbiamo fin qui analizzato fonti di autori greci assai diverse per epoca e per valore. In generale, però, se confrontate con le fonti di epoca romana, in esse si parla poco di allattamento. Tenendo ben presenti i limiti impliciti in argomentazioni e deduzioni ex silentio, ci sembra di poter affermare che lo scarso interesse per l’allattamento materno potrebbe indicare la naturalezza e l’ovvietà (salvo casi particolari e forse patologici) di esso: trattandosi di una cosa “scontata”, non occorre forse parlarne più di tanto. Quando i medici dei trattati ippocratici offrono diete, rimedi per curare l’ipogalattia e l’agalattia, contrariamente a Sorano, non specificano a chi siano rivolti: forse banalmente non lo fanno perché non avvertono il bisogno di farlo50. I fiumi di parole spesi, per contro, da medici come Galeno e Sorano e dagli autori latini confermerebbero, a nostro avviso, la verosimiglianza di quest’ipotesi. L’anomalia risiede nel non allattare personalmente il figlio, e come tale va giustificata oppure criticata.

Personalmente ritengo che la “verità” – come spesso succede – stia nel mezzo, ovvero che sia verosimile ipotizzare che il “co-allattamento”, cioè l’allattamento sia da parte della madre che da parte di una o più nutrici, fosse la forma di allattamento più diffusa: è difficile, infatti, immaginare che le madri, a parte forse quelle di epoca imperiale, e di certo non tutte, si rifiutassero di allattare aprioristicamente i figli, ma, d’altro canto, è anche difficile pensare che intendessero sobbarcarsi il compito di allattare da sole bambini per 2-3 anni ciascuno. Una diversa forma di co-allattamento, per inciso, è verosimilmente ipotizzabile fra i ceti più poveri della popolazione, quando per varie ragioni alcune madri erano impossibilitate ad allattare, magari soltanto per breve periodi: in questi casi nella campagne italiane dell’Ottocento ci creava una sorta di “gara di solidarietà” fra madri, e chi poteva allattava il bambino temporaneamente rimasto senza latte materno51. Pur con le riserve del caso, non è difficile immaginare situazioni analoghe per il mondo antico.

4. La scelta della nutrice e le parentele di latte

Di sicuro la scelta della nutrice era un problema connesso con la necessità di preservare la purezza del sangue della gens a Roma, dal momento che il latte, come il sangue, è veicolo di caratteri genetici, e le fonti ne danno ampia e puntuale testimonianza. Lo scopo di questo paragrafo è cercare di dimostrare l’esistenza in filigrana di diversi tipi di latte anche nei testi ippocratici. Questa differenza, da cui deriva la necessità di grande attenzione nella scelta della nutrice, era posta particolarmente in evidenza dai medici a Roma, ma non doveva essere assente in Grecia, dove, però, essendo verosimilmente il baliatico molto meno frequente, soprattutto in epoca arcaica e classica, emergeva con minore insistenza. Partiamo di conseguenza dalle fonti romane.

Plinio (Storia naturale XXVIII, 21, 72sq.) afferma che, per ogni impiego curativo, è più efficace il latte di una donna che ha dato alla luce un maschio e di gran lunga più efficace quello di una donna che ha partorito due gemelli. Egli, inoltre, fa riferimento al diverso utilizzo del latte di una donna che ha partorito un maschio rispetto al latte di una donna che ha partorito una femmina, e in particolare parla dell’impiego contemporaneo del latte di una madre e di una figlia, evidentemente entrambe con figli neonati52.

Se il latte prodotto per un figlio maschio (o ancor meglio per due gemelli maschi) ha un potere diverso da quello prodotto per una figlia femmina, allora non tutto il latte umano ha le stesse qualità e uno dei fattori determinanti per la sua caratterizzazione è il sesso del bambino per cui è stato prodotto. Ma non soltanto: se le virtù medicamentose si accrescono a dismisura nel caso in cui si impieghi contemporaneamente il latte di due donne che hanno lo stretto legame di sangue di madre e figlia, è evidente che questo umore trae la sua forza dal rispecchiare in sé la linea generazionale che lega genitori e figli appartenenti alla stessa stirpe. Da tutto ciò possiamo dedurre che il latte prodotto da una puerpera è fatto “su misura” per l’individuo al quale è naturalmente destinato, contenendo in sé alcuni caratteri genetici fondamentali.

Sulla base di ragionamenti simili vanno interpretate anche le numerose raccomandazioni fatte alle balie di non rimanere incinte durante l’allattamento53. Plinio (Storia naturale XXVIII, 33, 123) ci informa del fatto che i bambini nutriti da donne rimaste di nuovo incinte vengono detti colostrati, perché il loro latte si addensa come una sorta di formaggio. Ma per quale ragione una nuova gravidanza durante l’allattamento comprometterebbe la qualità del latte tanto da trasformarlo in colostro denso come il formaggio?

Abbiamo appena visto che il latte ha delle caratteristiche che lo legano geneticamente all’individuo per cui è stato prodotto, soprattutto perché omogeneo al suo sangue. Se dunque la nutrice dovesse ricevere il seme di un altro uomo, questo, in caso di fecondazione, provocherebbe la formazione di un nuovo individuo e di un altro sangue, disomogeneo a quello che, sotto forma di latte, nutre ancora il neonato. Nel corpo della donna si creerebbero in questo modo due linee di sangue differenti54, in quanto il sangue/latte con cui viene nutrito il bambino a lei affidato scelto in base a determinate caratteristiche, si mescolerebbe con il sangue che alimenta il feto, che potrebbe avere caratteristiche differenti, con una conseguente turbatio sanguinis (ovvero lactis), che renderebbe inutilizzabile il nutrimento emesso dal seno.

La dipendenza della qualità del latte dal rispetto della linea genetica che lega i genitori al figlio risulta anche da alcune osservazioni di Mnesiteo (in Oribasio, Libri incerti XXXII, 5, 125 Raeder), medico di Cizico vissuto nel IV secolo a.C., sulla scelta delle nutrici. Secondo il medico, la balia deve essere continente nel frequentare gli uomini, deve aver allattato più bambini e il suo ultimo figlio deve avere la stessa età e lo stesso sesso di quello che le viene affidato. Qui troviamo conferma della credenza che il latte avesse caratteristiche tali da renderlo adatto soltanto all’individuo dal cui sangue era derivato e per il quale era prodotto; perciò, se proprio si era costretti a ricorrere al latte di una balia prezzolata, si doveva avere l’accortezza di scegliere quello che somigliasse di più al lattante e cioè che fosse stato prodotto per un bimbo della stessa età e dello stesso sesso (ulteriore conferma della convinzione che ci fosse un latte “maschile” e uno “femminile”). In un altro passo (in Oribasio, Libri incerti XXXII, 7, 125 Raeder) il medico aggiunge che preferibilmente i bambini dovrebbero essere allattati dalle madri, ma, se ciò non è possibile, dovrebbero allattarli donne che siano di casa o parenti o donne che somiglino loro nell’aspetto fisico: è preferibile, cioè, che la balia sia una persona di famiglia, perché il suo sangue è quasi lo stesso; se, però, non è possibile trovare in famiglia una nutrice, bisogna cercarne una che assomigli almeno fisicamente alla madre o a qualcuno della famiglia perché, fra i caratteri trasmessi attraverso il sangue e il latte del bambino, uno dei più evidenti e importanti è appunto la somiglianza fisica con i genitori55.

Plutarco (Catone il censore 20, 5), narrando della nascita del figlio di Catone il censore, riporta un curioso comportamento della moglie, la quale nutriva il bambino con il suo latte, e, lasciando avvicinare i bambini degli schiavi al proprio seno, ne plasmava i buoni sentimenti verso il figlio grazie alla condivisione del nutrimento. Da questo episodio apprendiamo in primo luogo che, nel mondo romano, si pensava che la fratellanza di latte stabilisse un’affinità biologica e anche morale fra persone non appartenenti alla stessa stirpe: sono i cosiddetti collactanei, la cui stretta relazione affettiva è ampiamente testimoniata nelle epigrafi56. Secondariamente, deduciamo da esso la convinzione che la trasmissione del latte da una stirpe di provata integrità a una di rango servile avesse potere “nobilitante”, in quanto, assieme al nutrimento, passavano anche quelle peculiarità dell’indole che sono innate nel sangue delle grandi famiglie. Si tratterebbe di una sorta di baliatico d’alto rango, implicitamente opposto a quello più comune che prevedeva balie di bassa condizione e che in linea di principio era sconsigliato57.

Difatti se, come sostiene Plutarco, poteva essere di giovamento per i figli degli schiavi bere il latte della loro padrona, di modo che essi acquisissero un’affinità etica con il loro padroncino altrimenti irraggiungibile; non era affatto consigliabile, secondo Favorino58, il contrario, dal momento che un rampollo di buona famiglia allattato da una balia di basso rango e di bassa levatura morale ne avrebbe sicuramente ereditato i difetti genetici e caratteriali59. Non a caso le nutrici greche a Roma erano particolarmente apprezzate per la loro lingua, che il piccolo aristocratico romano, futuro bilingue, avrebbe iniziato ad apprendere già al seno della balia60.

Nei testi medici di epoca imperiale troviamo inoltre una lunga serie di verifiche e di controlli da effettuare sulla nutrice, non soltanto per quanto concerne i problemi di concomitanza fra allattamento, atto sessuale e gravidanza. Plinio, Galeno, e, prima di loro, Mnesiteo: tutti si sono preoccupati di dare indicazioni per la scelta della nutrice. Sorano dedica al problema addirittura un’intera parte della sua opera (Ginecologia II, 19)61.

Invano cercheremmo qualcosa del genere in Grecia, dove il problema della scelta della nutrice non era apparentemente così sentito. Da alcune informazioni sparse, però, possiamo provare a ricostruire un quadro d’insieme relativo alla natura del latte materno in Grecia, per quanto parziale e non sempre ricco, coerente e articolato come nel caso del mondo romano.

Partiamo dai testi teatrali: Andromaca allatta i figli bastardi di Ettore (il suo latte ha potere “nobilitante” e può rendere questi bambini illegittimi collactanei di Astianatte?); Giocasta allatta il nipote (il suo latte, in quanto sorella della defunta, è più adatto di altri?)62. Da questo episodio, analizzato sulla base delle altre fonti raccolte, si può a nostro avviso intuire l’esistenza di una parentela di latte anche in Grecia63.

Anche in Aristotele e nei testi ippocratici si può leggere fra le righe la distinzione fra un latte “maschile” e uno “femminile” (presente anche nei testi egizi), con tutte le implicazione che una simile diversificazione comporta64.

Pensiamo in particolare a un testo in cui si parla di singolari capacità “divinatorie” del latte materno. Una delle più curiose funzioni che vengono attribuite al latte di donna è, infatti, quella di predire il sesso del nascituro. In Donne sterili 216 (Littré VIII, 416), abbiamo la seguente indicazione: prendere il latte di una donna, impastarlo con della farina, formare un panino e cuocerlo a fuoco lento: se si solidifica, la donna è incinta di un maschio, diversamente di una femmina. Lo stesso latte può essere messo sul fuoco: se con il calore si coagula, la donna è incinta di un maschio, diversamente di una femmina.

In Donne sterili 214 (Littré VIII, 414), invece troviamo, fra i vari e bizzarri metodi per sapere se una donna riuscirà a concepire, la seguente indicazione: far bere la mattina a digiuno del burro e del latte di una donna che allatta un maschio. Dopo aver bevuto, se la donna rutta, sarà in grado di concepire, altrimenti no.

In quest’ultimo passo riscontriamo non soltanto l’utilizzo del latte di donna a scopo “divinatorio”, ma anche la distinzione fra latte prodotto per una femmina e latte prodotto per un maschio, che vorremmo ulteriormente approfondire. A tal fine analizziamo alcuni passi di Plinio: in Storia naturale XXVIII, 21, 72, si afferma che, per ogni impiego, è più efficace il latte di una donna che ha messo al mondo un figlio maschio e di gran lunga più efficace è quello di colei che ha generato due gemelli maschi. Il latte di una donna che aveva partorito un maschio viene utilizzato anche per evitare che i cani contraggano la rabbia65; mentre quello di una donna che aveva generato una femmina è preferibile soltanto per curare le affezioni cutanee del viso (Storia naturale XXVIII, 21, 75).

Uno dei fattori più caratterizzanti del latte sembra, dunque, il sesso del bambino per cui esso è stato prodotto: come, secondo Aristotele, c’è un seme maschile attivo e uno inerte; così, secondo Plinio, c’è un latte “maschile” più efficace e un latte “femminile” meno efficace. Come osserva Danese66, se esistesse un rapporto fra le tesi aristoteliche e le notizie riportate da Plinio67, si potrebbe allora dire che il latte “maschile” è più valido perché deriva dal sangue che, al momento del concepimento, ha ricevuto dal seme paterno quella maggiore quantità di calore e quell’impulso più forte capaci di provocare la formazione di un individuo di sesso maschile. Quindi il latte, come il sangue che lega i membri della stirpe, porta in sé e trasmette, secondo i vari usi che se ne fanno, l’intensità dell’impronta formatrice del genitore quale si rivela nei caratteri acquisiti dal figlio, traducendosi anche in potenziale forza fecondatrice. In effetti è probabile che gli antichi ritenessero che la “virilità” impressa dal seme paterno nella materia femminile, in modo da generare un figlio maschio, continuasse ad essere presente e attiva anche nel sangue destinato a trasformarsi in latte e quindi nel latte stesso. In questo modo si spiegherebbe la curiosa pratica indicata in Donne sterili: il latte maschile mantiene, in un certo modo, una continuità con il seme da cui è stato generato, riuscendo ad avere una capacità di testare la fertilità femminile: per gli antichi la fecondazione comportava una sorta di “cottura” o “digestione”68 della materia fertile femminile da parte del seme maschile; se allora la donna, ingerendo del latte “maschile”, riusciva a digerire, come prova l’eruttazione, ciò garantiva la sua positiva reattività al calore, quindi la sua fecondità69.

Che il latte sia in grado di veicolare caratteri genetici da un individuo a un altro è, a nostro avviso, confermato anche dall’episodio mitico in cui Eracle adulto può accedere a pieno titolo all’Olimpo grazie a una sorta di procedura di adozione che si realizza attraverso, appunto, l’allattamento simbolico da parte della moglie di Zeus, cioè Hera70.

Il passo, però, per noi forse più significativo è quello in cui Clitemnestra sogna di partorire un serpente, che ella poi avvolge nelle fasce come un bambino e che cerca nutrimento al suo seno. Ma al latte, che il piccolo serpente beve al seno della madre, si mescola un grumo di sangue, generato dal serpente stesso e causa per la donna di doloroso spavento (Coefore 533: «succhiò anzi nel latte un grumo di sangue». Trad. V. Di Benedetto, Milano 1995).

Oreste comprende senza difficoltà il significato del sogno della madre: egli è il serpente allevato e nutrito da Clitemnestra ed è questo a fare di lui l’unico attore possibile della sua uccisione. È certo il figlio vendicatore di Agamennone, ma al tempo stesso è – come si coglie in maniera lampante in questo passo – il figlio di Clitemnestra: lei lo ha partorito, lei lo ha nutrito. Il verbo utilizzato è τρέφω. E, dettaglio ancora più intrigante, quello che succhia è un θρόμβον, termine che, come ci insegna Chantraine, deriva «de la même base que τρέφω», che «avant de signifier “nourrir” a exprimé l’idée de “faire grossir”»71. Il sangue, il latte, lo sperma e il processo di formazione di un individuo emergono qui, con un sottile gioco lessicale e semantico, intrecciati in maniera magistrale72.

Nel complesso ci pare di poter concludere che anche i Greci avessero ben presente che il latte era in grado di veicolare caratteri genetici (e non soltanto) da un individuo all’altro, con tutte le conseguenze che ciò poteva implicare, ma il problema li preoccupava meno, essendo il baliatico estremamente più raro.

5. Allattamento e αἰδώς

Passiamo ora ad analizzare alcuni episodi in cui appaiono madri che mostrano il seno ai figli. Lo scopo è mettere in discussione la teoria dell’esistenza di un tabù del nudo femminile, soprattutto quando la parte scoperta è il seno materno, percepito come privato, imbarazzante, fuori dalla norma e pernicioso73, a causa del quale le immagini di allattamento erano così rare. A nostro avviso non si tratta di un tabù del nudo materno, ma piuttosto di αἰδώς.

Siamo nel canto 22 dell’Iliade (vv. 80-83), Ettore sta partendo per andare a combattere contro Achille, affrontando il suo ineluttabile destino di morte. A lungo Priamo ha parlato gemendo su se stesso, abbandonato alla sciagura della morte del figlio. Ecuba geme e fa scorrere lacrime, si apre la veste e con l’altra mano solleva il seno e ricorda al figlio, che va a morire, il tempo in cui lei gli offriva il rifugio della mammella λαθικηδέα (che fa scordare le pene)74. Giocasta compie il medesimo gesto per convincere Eteocle e Polinice a cessare la loro lotta fratricida (Euripide, Le fenicie 1567sq.), nel tentativo di suscitare la compassione dei figli nei suoi confronti75. La stessa scena viene per molti aspetti anticipata da due frammenti stesicorei76, in cui troviamo, oltre a Giocasta, un’altra figura di madre il cui pensiero è costantemente rivolto ai figli: Calliroe. Per dissuadere il figlio Gerione dall’affrontare Eracle, Calliroe fa appello – come scrive Enzo Degani – «agli aspetti più viscerali dell’amore materno»: i dolori del parto e la mammella che lo ha nutrito.

Questi episodi ne richiamano un altro: di fronte al figlio che impugna la spada grondante del sangue di Egisto, Clitemnestra si apre il peplo e grida: «fermati, figlio, abbi ritegno, figlio mio, di questo seno, su cui tu spesso ti addormentavi succhiando con le gengive il latte che ben ti nutriva»77. Al gesto della regina segue lo smarrimento e il dubbio di Oreste, che si rivolge, turbato e titubante, all’amico Pilade, per chiedergli consiglio.

Come osserva Lanza78, la maternità di Clitemnestra ripercorre i tratti della maternità di Ecuba non soltanto nel gesto, ma anche nelle parole. Dal quasi intraducibile αἴδεo/αἴδεσαι, “abbi rispetto”, “abbi timore”, al vocativo “figlio”, in Eschilo duplicato dall’iniziale ὦ παῖ, fino al pregnante omerico λαθικηδέα, sciolto e quasi spiegato da Eschilo nell’enunciazione delle due funzioni del seno materno: la protezione rasserenante e la provvida nutrizione.

L’allusione – «troppo nota la rapsodia omerica perché il pubblico non se ne accorgesse»79 – acquista una particolare coloritura nel contrasto delle due situazioni: la paura di Ecuba è per la morte del figlio, quella di Clitemnestra per la propria, della quale proprio il figlio si accinge a essere l’artefice.

La maternità di Clitemnestra non si esaurisce, peraltro, nel gesto di scoprirsi il seno. I riferimenti al rapporto madre-figlio in questa scena sono continui: altri quattro vocativi si susseguono, dopo i due iniziali, in una ventina di versi, quasi sempre in posizione enfatica, e altrettante enunciazioni del termine “madre”. Tanto più significativa questa concentrazione se si osserva che, prima dell’annuncio del matricidio, Clitemnestra non ricorre ad alcuna espressione che ne riveli la condizione materna. Ed è qui che possiamo cogliere con chiarezza la contrapposizione fra maternità e sensualità da analizzare principalmente in relazione al concetto di αἰδώς80.

Vediamo un altro episodio gravido di significati in cui il seno viene esposto. In questo caso le protagoniste sono entrambe donne, e sono madre e figlia. Siamo nell’Ecuba di Euripide, ai versi 558sq.: Polissena di fronte all’altare sembra una splendida statua con il petto e il seno scoperto81, appoggiata con un ginocchio al suolo. Ecuba fa sua la postura della figlia adottandola a sua volta. L’ambiguo status di Polissena di “sposa-non sposa” carica di significati particolarmente pregnanti il suo gesto, che sottintende l’intrinseca identificazione fra il corpo della madre e il corpo della figlia definita τιθήνη (nutrice, balia da latte, v. 280sq.). Sono i seni che nutrono e il petto (cf. vv. 142, 281) le parti del corpo che la fanciulla enfatizza nel suo addio alla madre (v. 424)82.

Il legame fra esposizione del seno e morte o, comunque, violenza fisica è, del resto, molto forte. Si pensi soprattutto alle scene di stupro in cui il seno femminile è di solito esposto. È tipicamente il caso di Cassandra, incalzata da Aiace ovvero uccisa da Clitemnestra83. Si può notare che, anche in quest’ultimo caso, lo svelamento del seno avviene di fronte a un’altra donna. C’è, inoltre, una donna non madre, cioè una donna socialmente “morta”, una donna-non donna, o, se si preferisce, una madre ἄπαις (priva di figli)84, che si scopre il petto e, colpendosi al seno, dichiara il suo intento di uccidersi (o, in alternativa, di impiccarsi, altra tipica morte femminile): è l’Ermione dell’Andromaca euripidea (vv. 832, 843).

Non dimentichiamo, infine, la centralità del denudamento, della percussione e della lacerazione di questa parte del corpo nei rituali funebri, ambito in cui il ruolo della madre si dimostra peraltro primario. La presenza della madre è, dunque, rilevabile nei due più significativi momenti nell’esistenza di un individuo: la nascita e la morte; parallelamente, il seno della donna veniva esposto al figlio all’inizio (attraverso l’allattamento, nel caso in cui fosse la madre ad allattarlo) e alla fine (attraverso il rito funebre) della sua vita85. La straziante memoria dell’intimità dei corpi costituisce un sovrappiù di dolore insostenibile per la madre, che si esterna nel momento dell’addio fisico, dal momento che la maternità è in primo luogo una questione fisica, letteralmente corporale, carnale. L’idea di nutrire il morto con il latte potrebbe non essere stata secondaria in un simile contesto, dal momento che il latte, bevanda estremamente ambigua dal punto di vista culturale e ovviamente associata all’infanzia, faceva parte delle sostanze nutritive offerte ai defunti86.

L’esposizione del petto femminile nella Grecia antica era dunque, al di fuori di un contesto erotico, quasi esclusivamente riservata a momenti di grande pericolo e di estremo pathos87. Non crediamo, però, come abbiamo detto in partenza, all’esistenza di un tabù connesso con il nudo femminile. Vorremmo, piuttosto, rintracciare nell’episodio della morte di Polissena le origini di quello che Renato Raffaelli chiama il motivo letterario dell’ “estremo pudore”88, presente, con varianti secondarie, ancora in un racconto di Stendhal intitolato Les Cenci. Il gesto della fanciulla, al di là della possibile valenza simbolica, lungi dall’indicare esibizionismo, rappresenterebbe una sorta di “male minore”, una necessità, scelta da Polissena stessa, per evitare di essere toccata e spogliata dai nemici. La straordinaria ed esemplare pudicizia che la contraddistingue viene, infatti, mostrata dalla fanciulla subito dopo, nell’istante supremo della morte, sottraendosi agli sguardi degli Argivi proprio nel momento in cui sarebbe dovuta essere, invece, del tutto indifesa e in loro completa balìa.

In un’altra tragedia euripidea è Macaria (Gli Eraclidi 561sq.), che, avendo ormai scelto di morire, chiede al vecchio Iolao di starle vicino per coprire, subito dopo la morte, il suo corpo con pepli. Questa richiesta rivela in lei lo stesso pudore tutto femminile manifestato da Polissena nel cadere ed è espressione del suo desiderio di lasciare la vita nella gloria (v. 534).

Il motivo dell’estremo pudore trova una testimonianza straordinaria in Plinio il Vecchio (Storia naturale VII, 77), in cui si afferma che i cadaveri degli uomini galleggiano sulla schiena, mentre quelli delle donne sul ventre, come se la natura volesse rispettare il pudore (pudor) di quest’ultime persino dopo la morte.

Menzioniamo, per concludere, il racconto erodoteo relativo alla richiesta fatta a Gige da parte del re Candalue di guardare la regina nuda, per aver prova tangibile della sua straordinaria bellezza: Gige gli risponde esterrefatto e sgomento che una donna, nel momento stesso in cui si spoglia dei vestiti, si spoglia anche del suo αἰδώς89.

Questo sentimento di αἰδώς, così fortemente presente nella letteratura in relazione al denudamento di parti del corpo femminile, potrebbe aver influito, breviter, sulla reticenza nel mostrare e rappresentare l’allattamento.

6. Allattamento e malocchio

Veniamo all’ultimo aspetto che, a nostro avviso, può aver condizionato la scelta di non mostrare scene di allattamento: il malocchio90.

Il malocchio è particolarmente potente nei confronti dei neonati e colpisce soprattutto la produzione del latte materno, per questa ragione è la principale preoccupazione delle donne che allattano, le quali si premuniscono di tutti i mezzi necessari per allontanarlo. La particolare attrazione del malocchio verso il latte si troverebbe addirittura in un testo sumerico del IV-III secolo a.C. Il malocchio colpisce il latte, e allo stesso tempo il latte è il liquido par excellence in grado di trasmettere il malocchio91.

Il motore è sempre l’invidia, la vittima sempre una donna con molto latte. Proprio per evitare la gelosia delle altre donne, è raccomandabile la massima riservatezza e la massima umiltà: una madre o una nutrice che si vanta dell’abbondanza del suo latte potrebbe vedersi seccare velocemente la causa di tanto orgoglio.

Ernesto de Martino ha studiato il comportamento delle donne durante l’allattamento in Lucania a metà del secolo scorso, constatando come esse evitassero con grande attenzione di esporsi in pubblico mentre allattavano: i seni turgidi, infatti, potevano essere il naturale oggetto di invidia da parte di altre madri, e questo sguardo invidioso in grado di rubare il latte e seccare le mammelle è malocchio più o meno intenzionale in una delle sue più tipiche accezioni92. Considerando l’estrema importanza del latte materno in un ambiente in cui tale mancanza significava per l’infante deperimento, malattia e morte, si comprende con facilità una delle principali ragioni che spingeva le donne ad allattare in privato, lontano da sguardi indiscreti. Troviamo qui ulteriore conferma della tendenza a considerare l’allattamento al seno come un’azione che trova la sua sede più opportuna all’interno delle mura domestiche. Pur non avendo testimonianze dirette di credenze di questo tipo nel mondo antico, a parte un passo di Plinio (Storia naturale XXVIII, 7, 39) in cui allude all’usanza di sputare per tre volte a terra per difendere il bambino dal malocchio, quest’ultima è una pratica talmente diffusa in epoche e luoghi straordinariamente diversi, da poter indurci a pensare che qualcosa del genere con verosimiglianza esistesse anche nella Grecia antica. Oltre a ciò, anche se nelle fonti non abbiamo testimonianze esplicite di un’associazione fra latte e malocchio, proprio in riferimento all’episodio che vede di fronte Clitemnestra e Oreste è stato osservato che l’esposizione del seno (un seno finto, dato che l’attore era maschio: un dettaglio su cui si solito non viene spontaneo riflettere!) sul palcoscenico poteva facilmente evocare l’idea del malocchio, a causa dell’associazione assai diffusa fra capezzolo e occhio e del potere di infliggere il male semplicemente fissando qualcuno. Che l’invidia, sentimento alla base del malocchio, passi attraverso la vista di qualcosa di desiderato, ma non posseduto, va da sé ed è reso ancora più evidente dall’etimologia stessa della parola, che contiene video al suo interno93.

Conclusioni

Dall’insieme delle fonti analizzate, che spaziano da quelle mediche a quelle letterarie, da cui emerge che le donne greche tendenzialmente allattavano, possiamo in primo luogo notare che il disagio di fronte alla donna che allatta può essere spiegato soprattutto in relazione con la teoria dell’emogenesi del latte umano. Non dimentichiamo, infatti, che il latte materno nel mondo greco e anche romano era considerato sangue mestruale cotto e che questa credenza potrebbe essere stata una delle principali cause del comprensibile disagio di fronte alla visione di bambini allattati al seno (disagio che, per quanto concerne l’arte, si traduce soprattutto nell’assenza di questo soggetto dal repertorio artistico “tradizionale”). Secondariamente abbiamo osservato che l’esposizione del seno, in contesti non erotici, evoca sentimenti da connettere principalmente con il concetto di αἰδώς94. A questo si aggiunge verosimilmente la paura che il mostrare pubblicamente il bambino allattato al seno potesse suscitare l’invidia di chi non aveva figli o non aveva latte per nutrirli, con la possibile conseguenza di pratiche come il malocchio ai danni sia del piccolo che della madre.

Gesto che crea imbarazzo, estremamente privato e “femminile”, nonché ai confini con l’animalesco, spesso relegato nel mito a figure marginali e per certi versi selvatiche, l’allattamento al seno è stato ed è ancora un argomento straordinariamente controverso.

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Notes

1 Pedrucci (2013b), pp. 218sq. Return to text

2 Si pone in questo modo un problema non trascurabile relativo alle fonti primarie e fonti secondarie. Le principali fonti a nostra disposizione, infatti, risultano appartenere a un’epoca e a una cultura differente, quindi non possiamo metterle sullo stesso piano rispetto a quelle greche. La cultura successivamente sviluppatasi nel nostro caso, però, con quella più antica ha rapporti diretti, analogie, continuità, o, meglio, risemantizzazioni. Come possiamo comportarci, allora? Possiamo usare un testo di Plinio oppure un testo di Sorano per cercare di ricostruire, di ipotizzare credenze analoghe nel mondo greco? Considerando la coerenza e il carattere tendenzialmente conservativo – nel loro impianto generale – delle teorie ginecologiche nel mondo antico e considerando la coerenza e la verosimiglianza delle ricostruzioni ipotizzate rispetto a un meglio noto quadro di insieme, con le dovute cautele ci pare che la risposta possa essere positiva. Questo non significa in nessun modo affermare l’esistenza di un unico mondo greco-romano, né appiattire le differenze, né tantomeno ritenere un’operazione di questo tipo sempre possibile e/o auspicabile. Utilizzare, a esempio, Sorano per sostenere che le donne greche di epoca arcaica e classica non allattavano, per contro non ci pare corretto, dal momento che abbiamo un numero relativamente elevato di fonti greche che sembrano testimoniarci il contrario (e, d’altronde, gli stessi autori latini ci informano che anche a Roma non era sempre stato così). Un’ulteriore precisazione è necessaria: trattandosi di storia antica, il “lusso” di avvalersi soltanto di documentazione scritta è mera utopia. L’essenziale è, a nostro avviso, cercare di fare “dialogare” fonti scritte e fonti non scritte, ma senza ritenere le une il fedele specchio delle altre, e viceversa. Silenzio (e, ancor di più, assenza) possono valere di più di mille parole, se opportunamente contestualizzati. Superfluo sottolineare che il rischio è alto, dal momento che silenzio e assenza possono essere soltanto fittizi, cioè dovuti alla perdita del materiale. È necessario, quindi, procedere con estrema cautela e “maneggiare” le fonti con cura. Return to text

3 Si ricorda che, prima della scoperta del latte artificiale, l’allattamento al seno durava almeno fino a due anni, vd. Pedrucci (2013b), p. 222. È vero che sono stati ritrovati “biberon” e che si poteva tentare in alternativa lo svezzamento precoce e/o l’uso di latte animale, ma non ci è dato sapere quale percentuale effettivamente utilizzasse questi biberon e a che scopo, mentre i rischi legati all’uso di altri alimenti per i lattanti sono sempre ben evidenziati. Vd. Garsney (1991). Return to text

4 Epidemie II, 17 (Littré V, 118). Questa frase ippocratica, che significa che il latte è fratello delle mestruazioni, riassume in maniera emblematica la teoria della formazione del latte materno a partire dal sangue mestruale. Return to text

5 Eccesso e difetto sono i due parametri con cui la medicina greca costruisce il corpo delle donne. La diversità del corpo muliebre, rispetto al paradigma di salute e di “normalità” incarnato per i medici dei trattati ippocratici dal corpo maschile, si manifesta principalmente attraverso un’eccedenza di liquidi prodotti (sangue, latte, umori, lochi) che devono essere periodicamente espulsi. Durante la gravidanza e nel puerperio questa “meccanica dei fluidi”, che è alla base della fisiologia della donna e del suo benessere, è assicurato dai lochi e dal latte, connessi entrambi con il sangue mestruale (da questi brevi accenni già intuiamo che l’allattamento si configura nei trattati ippocratici come qualcosa di positivo per la salute della donna, vd. n. 31). Return to text

6 La generazione degli animali IV, 8, 777a. Il medesimo concetto è espresso più volte nel quarto Libro, come, a esempio, in La generazione degli animali IV, 1, 766a. Cf. n. 27. Vd. Danese 1997. Return to text

7 Bodiou (2006), pp. 162sq. La donna, «cuisinière de l’enfant», lo fa maturare all’interno del suo utero e lo nutre del suo sangue. Lo sbiancamento dovuto al riscaldamento, stando allopinione di Clemente Alessandrino (Pedagogo I, 39. Cf. n. 71), eviterebbe al bambino di prendersi spavento di fronte alla visione del sangue. Return to text

8 Gli argomenti in questione sono trattati principalmente nel La natura del bambino. Si vedano, a titolo di esempio: 14 (Littré VII, 492); 21 (Littré VII, 510sq.). Return to text

9 Nel L’amore della prole 495 e-f. Vd. Pedrucci 2013b, p. 23, n. 59. Per le fonti latine sull’argomento, vd. infra. Return to text

10 Si rimanda principalmente a: Maher (1992a); Rosin (2009). Return to text

11 Maher (1992b). Return to text

12 Sull’allattamento come scelta “maschile”, vd.: Maher (1992b), pp. 42sq.; Maher (1992d); Pedrucci (2013b), p. 224. Vd. n. 23. Return to text

13 L’idea che l’allattamento implichi conseguenze negative per la salute (ad esempio forme di isteria) e per il corpo è una credenza ancora oggi diffusa, e il baliatico è sopravvissuto fino all’invenzione del latte artificiale. In Epidemie II, 16 (Littré V, 90), si afferma che, durante l’allattamento, la donna si ricopre di pustole, che poi spariscono quando ella smette di allattare, durante l’estate. Allattare al seno, inoltre, può risultare pratica molto faticosa per una donna già provata dal parto e anche assai dolorosa (ragadi, mastiti, capezzoli rovinati dai denti del bambino), e forse per questa ragione si riteneva che allattare causasse invecchiamento precoce, come potrebbero testimoniare le raffigurazioni di vecchie balie, vd. Pedrucci (2013b), pp. 84-93. Si veda anche la testimonianza di Oribasio, cui rimanda la n. seguente. Return to text

14 Secondo Oribasio (Libri incerti VII Ateneo) le donne che concepiscono spesso compromettono il nutrimento del proprio corpo, ne guastano la linea e mettono al mondo figli che assomigliano a loro. Return to text

15 Vd. n. 5. Return to text

16 Dettaglio, però, non da trascurare in una società con certi ideali estetici come la Grecia, dove erano amati i corpi mascolini e i seni non eccessivi, vd. Pedrucci (2013b), pp. 84sq. Return to text

17 Ancora soprattutto a Roma: Fildes (1986), p. 73; Bradley (1986); Bradley (1994) (l’autore parla più esattamente del baliatico come norma culturale); Mencacci (1995). Return to text

18 Pedrucci (2013b), p. 63, n. 240. Return to text

19 Sono gli stessi popoli che si cibano di latticini anche da adulti, mentre in Grecia i maschi adulti in salute evitavano di cibarsi di latte e derivati, v.: Pedrucci (2013b), pp. 177-190; Pedrucci (2013c.) Varrone (La vita rustica II, 11.1) nella descrizione dei costumi delle popolazioni dell’Illyricum, dopo aver detto che le donne di queste terre allattano personalmente, spiega che l’alimentazione a base di latticini è tipica di popolazioni selvagge e barbare; Tacito (Germania 20, 23) scrive la stessa cosa dei Germani (va detto che Tacito dimostra ammirazione per i corpi vigorosi di coloro che sono stati allevati in questo modo). Return to text

20 Vd. il quadro di Zeusi in cui una centauressa allatta i suoi piccoli descritto da Luciano, 63 3. Véronique Dasen, in occasione della Journée internationale de recherche, Mères et maternités en Grèce ancienne ha presentato due gemme raffigurante centauresse nell’atto di allattare (Paris, 6 octobre 2012. Tematica successivamente sviluppata dalla studiosa e di prossima pubblicazione nell’ambito del progetto FNS Sinergia, Lactation in History). Il motivo dei bambini esposti e allattati da un animale è molto amato nella glittica, v., a esempio, LIMC, s.v. Amaltheia e Thelephos. Sulla “animalità” della nutrice, vd. Pedrucci (c.d.s.). Return to text

21 Il numero di antiche leggende che parlano di bambini lasciati nel deserto e nutriti da animali è smisurato e non si limita di certo al mondo antico, vd. Bettini-Borghini (1979). La figura che salva il bambino ha un ruolo fondamentale e merita un’analisi attenta: può trattarsi di un animale domestico (capra, vacca, cane, api, eccetera), di un animale selvaggio (lupa, picchio...), oppure di un personaggio umano, anche se di un tipo ben definito: pastori, guardiani di porci, lavandaie, schiave, persino prostitute (ricordando che lupa in latino significa anche “prostituta”). Oppure può essere una ninfa, creatura che abita, insieme agli animali, dei luoghi dove tipicamente avviene l’esposizione. Non soltanto il bambino esposto, ma il bambino in generale per i Greci è un petit animal, e all’“animalità” del bambino spesso corrisponde lo stato marginale, talvolta servile, di chi si occupa di lui, magari nutrendolo con il proprio latte. Il gesto di allattare avvicina innegabilmente la natura umana a quella animale. Cf.: Pedrucci (2013b), pp. 250sq.; Pedrucci (c.d.s.). Return to text

22 Vd. infra. Return to text

23 Hastrup (1992), p. 102. Cf. n. 12. Era l’uomo a Roma che sceglieva la nutrice, vd. nn. 61. Return to text

24 Danese (1997), p. 46, n. 23, «se dunque soltanto il seme maschile possiede la capacità di attivare il processo di generazione, potendo cuocere la materia femminile, farla coagulare e formarla secondo la propria impronta genetica, mentre il cosiddetto seme femminile, cioè il sangue mestruale che costituisce la materia inerte, non può produrre nulla senza l’impulso maschile, allora anche tutti gli altri processi di spostamento, somministrazione, cozione e secrezione di materia che avvengono nel corpo della donna in seguito alla gravidanza, ivi compresa la produzione di latte, dipendono totalmente dall’input formativo del seme maschile». Sull’allattamento come scelta “maschile”, con particolare riferimento all’Italia a fine anni Settanta, v.: Maher (1992b), pp. 42sq.; Maher (1992d). Return to text

25 Soprattutto nell’Europa tra il XVI e XIX secolo, vd. Fildes (1986), pp. 79sq. Return to text

26 Vd. nn. 53sq. Return to text

27 Cf. n. 6. Return to text

28 Per quanto concerne gravidanza e allattamento, stando alla documentazione in nostro possesso l’unica attestazione riguarda un culto di Despoina a Licosura: Guettel Cole (1992), p. 111. Il dato veramente interessante è che questo culto era probabilmente aperto sia a donne che a uomini, ai quali le donne incinte o con bambini al seno avrebbero potuto creare disagio. Return to text

29 Non dobbiamo mai perdere di vista il fatto che abbiamo a disposizione soltanto fonti limitate nel tempo e riguardanti determinate classi sociali. Nel caso specifico di Roma, Sorano e Galeno ci parlano di una sorta di “moda” di epoca tardo-repubblicana e imperiale, ma verosimilmente la situazione sotto la Repubblica era diversa e le donne di quell’epoca probabilmente allattavano, in linea di massima, personalmente (cf. Gourevitch (2000), p. 48). Oltre a ciò, condividiamo pienamente l’osservazione di Dasen (2012), p. 43, che «le recours à une (ou plusieurs) nourrice(s) n’implique cependant pas que la mère ait renoncé à allaiter son enfant». Return to text

30 Le malattie delle donne I, 44 (Littré VIII, 102sq.); La natura delle donne 93 (Littré VII, 410sq.). Cf. Le malattie delle donne II, 7 (Littré VIII, 154). Per alcuni rimedi legati alla medicina popolare, riportati soprattutto da Plinio, vd. Pedrucci (2013b), 238sq. Return to text

31 Cf. n. 5. Return to text

32 Rousselle (1983), p. 55. Cf. n. 61. Return to text

33 Il medico efesino ci offre un parallelo molto eloquente con il giardinaggio: la semina è la gestazione materna, il trapianto è l’allattamento da parte della balia. Per Sorano (Ginecologia II, 18) è naturale essere nutriti dalla propria madre, ma è più importante lasciare che la madre si riprenda dalle fatiche della gravidanza e del parto, le quali, d’altro canto, alterano la qualità nutritiva del latte durante i primi venti giorni. In seguito Sorano ammette che il latte materno è il migliore e che l’allattamento con questo latte favorisce l’amore della madre per i suoi bambini, ma sottolinea anche il fatto che le fatiche dell’allattamento possono causare alla madre invecchiamento precoce. Che la nutrice sia a sua volta madre significativamente non emerge in alcun testo, a conferma del “target” cui il medico si rivolgeva. Return to text

34 Pedrucci (2013b), p. 232. Return to text

35 Omero, Iliade XXII, 83; XXIV, 58. Hera, che sta parlando, non specifica da chi fu nutrito Achille, ma afferma di aver allevato essa stessa Teti. Per i verbi relativi all’allattamento in greco (τρέφω, τιθήνη, θῆσυαι), vd. Pedrucci (2013b), pp. 272sq. Τρέφω, in particolare, non significa tanto allattare, quanto far crescere, allevare. Return to text

36 Euripide, Le troiane 757; Andromaca 224sq. (Andromaca afferma di aver dato il seno anche ai figli illegittimi di Ettore). Return to text

37 Non soltanto Edipo, ma anche il nipote che ha perso la madre: Euripide, Le fenicie 987, 1527. Cf. 1603. L’allattamento di Giocasta evidentemente complica quel «corto circuito genetico» di cui parlano Bettini-Guidorizzi (2004), cf. Pedrucci (2013b), p. 46, n. 159, pp. 240sq. Return to text

38 Cf. Pedrucci (2013b), p. 49, n. 171. Return to text

39 Contra Loraux (1990), pp. 23sq. Return to text

40 Euripide, Ifigenia in Tauride 231; Ifigenia in Aulide 1152. Return to text

41 Trad. V. Di Benedetto, Milano (1995). Vd. infra per il sogno. Return to text

42 Euripide, Ione 762. Return to text

43 Euripide, Ione 763sq. Cf. Euripide, Ione (1370-1379), 1492sq. Return to text

44 Euripide, Ione 1492sq. Return to text

45 Aristofane, Lisistrata 881sq. Cf. 18sq. Return to text

46 Lisia, 1, 9sq. Aristotele (Storia degli animali VIII, 1, 608a-b), d’altronde, afferma che le femmine di tutte le specie animali per natura dovrebbero essere più preoccupate dei maschi di nutrire i figli. Va inoltre detto che il maggiore amore per la prole è l’unica cosa in cui, sempre secondo Aristotele (Etica nicomachea VIII, 14, 1161b), la donna eccelle rispetto all’uomo. Cf. Pedrucci (2013b), pp. 23sq. Return to text

47 Trad. da Faranda (1996), p. 108. Cf. Plutarco, De amore prolis 496a. L’associazione fra maternità e seno è palese anche in un passo di Artemidoro (V, 38) «una donna sognò di avere un occhio sul seno destro: costei aveva un figlio amatissimo, di cui non molto tempo dopo pianse la morte, in quanto, per la stessa ragione per cui quell’uomo che una volta aveva sognato di avere un occhio sulla spalla destra perse il fratello (in qualche modo, infatti, questo sogno gli diceva: “guarda la tua spalla, stai attento proprio a questa spalla”), la donna non perse il seno, ma il figlio, che corrispondeva al seno». Trad. A. Giardino, Milano (2006). Cf. I, 41. Return to text

48 Quest’usanza è attestata in Sorano e, forse, anche in Plinio. Plinio, in particolare, parla di catulos lactantes che forse venivano utilizzati a questo scopo. Vd. Pedrucci (2014). Vd. qui nn. 65, 91. Return to text

49 Fr. 295-297B de Gruyter. Cf. Herfst (1979), p. 57. La testimonianza di Aristofane da Bisanzio, che attesta un diffuso impiego delle nutrici in tutti gli strati della società, è molto interessante, ma appartiene a un’epoca profondamente diversa da quella che ci interessa. Return to text

50 Cf. n. 2. Return to text

51 Kertzer (2010). Una donna, infatti, poteva decidere di offrire il latte a un bambino non suo non soltanto per denaro, ma anche per buon cuore. Le nutrici hanno sicuramente salvato molte vite umane nell’arco della storia, a volte in maniera del tutto disinteressata, eppure come figura sociale (non come singole nutrici realmente esistite, per le quali abbiamo diverse testimonianze di stima e affetto) sono più sovente connesse con sentimenti di sospetto e diffidenza che di ammirazione e ringraziamento (per l’antichità basti pensare alla figura della strix, cui la balia da latte era associata): siamo di fronte a un paradosso che meriterebbe sicuramente un approfondimento. Cf. Fildes (1997). Qui n. 59. Si segnala anche un nostro intervento dal titolo Mothers who work using the Body: The Case of the Wet-Nurse in the Ancient World, presentato in occasione del convegno Maternal Subjectivities: Psychology/Psychoanalysis, Literature, Culture and the Arts, Rome, April 23-24, 2015, di prossima pubblicazione. Return to text

52 Cf. Pedrucci (2013b), p. 176. Return to text

53 Per la fortuna di questa teoria nei secoli, raramente messa in discussione prima delle grandi innovazioni, empiriche e teoriche, che rivoluziona l’immagine del corpo nel Seicento: la scoperta della circolazione e, soprattutto, dei vasi linfatici, vd. Pomata (1995). Return to text

54 A questo proposito è interessante notare che esisteva il divieto per la donna di risposarsi nei primi dieci mesi dopo la morte del marito: nel caso in cui la donna avesse portato in grembo un figlio del defunto, l’eventuale ricezione del seme di un altro uomo avrebbe creato nel corpo della gestante una seconda e diversa linea di sangue, che avrebbe reso incerto il sangue del nascituro. Vd. Bettini (1984), p. 155. Return to text

55 Mencacci (1996), pp. 108-125. Return to text

56 Mencacci (1996), p. 93, nn. 91sq.; Mencacci (c.d.s), p. 65; Dasen (2012), pp. 48sq. Si tende in generale a utilizzare il termine latino per indicare la fratellanza di latte, anche se esiste il vocabolo greco σύντροφοι, con il quale, però, con ogni evidenza si pone meno l’accento sull’elemento che crea la pseudo-parentela, cioè il latte. Il greco conosce anche i termini ὁμογάλακτοι, ἁγάλακτοι e συγγάλακτοι (vd. TLG, s.v.). Uno studio approfondito sull’uso di questi termini è sicuramente auspicabile. Return to text

57 Danese (1997), p. 56. Return to text

58 Fr. 38 Barigazzi=156 Amato, anche in Gellio, Notti attiche XII, 1, 14-20. Il passo è ripreso e rielaborato da Macrobio (Saturnali V, 11, 15-18). Return to text

59 La nutrice può inoltre trasmettere un bagaglio culturale talvolta giudicato sospetto, poiché trasmette credenze che possono sfuggire al controllo dei genitori, come nel caso fabulis nutricularum, vd. Dasen (2010). Esiste in particolare la figura della “nutrice-strega”, Vd. Pedrucci (2013b), pp. 255sq. Return to text

60 Sorano, Ginecologia II, 19. Cf. Plutarco, Licurgo 16, 4, in cui si parla dell’impiego, da parte non di cittadini romani, di balie spartane. Come si deduce dagli epitaffi, le nutrici sono spesso straniere. In Grecia provenivano principalmente dalla Tracia, dalla Frigia, dalla Macedonia e della Cilicia, e nei loro confronti si esprime di solito profondo affetto. Le tracie erano particolarmente apprezzate per le loro qualità morali e fisiche. vd.: Rühfel (1988), pp. 44sq.; Schulze (1998), pp. 64sq. (le stesse qualità saranno riconosciute a Roma alle nutrici d’Oltralpe, vd. Dasen (2010)). Return to text

61 Il cibo, le bevande, il sonno della nutrice; la sua costituzione, il suo spirito di abnegazione e le sue capacità di dimostrare affetto: tutto è preso in considerazione al fine di effettuare la scelta migliore per il bambino. Dopodiché era necessario tirare il latte e analizzarlo. Il padre eseguiva personalmente queste analisi, oppure le esigeva e le controllava. Return to text

62 Euripide, Andromaca 224sq.; Euripide, Le fenicie 1527. Ricordiamo soltanto in nota un epigramma di Ericio di Cizico (Antologia Greca VII, 230), in cui una madre spartana afferma di avere nutrito codardi con il suo latte: quest’affermazione (I a.C.) potrebbe far pensare alla possibilità di trasmettere vizi e virtù col latte materno. Cf. Auberger (2010), p. 98. Return to text

63 Vd. n. 56. Return to text

64 Lefebvre (1960), pp. 64sq.; Laskaris (2008). L’uso del latte di una donna che ha partorito un maschio, mischiato con miele, per guarire malattie degli occhi è attestato anche in un testo buddhista appartenente ai Mahāyāna, tradotto in cinese a partire da un originale sanscrito scritto prima del 650 d.C. In esso si specifica che il latte di una donna che ha partorito una femmina non ha alcun effetto. Vd. Triplett (2010), p. 490. Il fatto di ritrovare la medesima indicazione in testi prodotti da culture così diverse (Egitto, Grecia, Roma e India), ma non così distanti, ci sembra un dato di straordinario interesse. Return to text

65 Storia naturale XXVIII, 21, 75. Plinio allude forse all’usanza, descritta da Sorano (Ginecologia II, 8), di far succhiare il latte in eccesso delle nutrici ad altri bambini o ad animali, per evitare di dare al poppante del latte non fresco. Vd. nn. 48, 91. Return to text

66 Danese (1997), p. 51 n. 38. Return to text

67 E alcuni piccoli dettagli presenti nel Corpus hippocraticum, per il quali si rimanda a Pedrucci (2013b), p. 21, n. 57. Return to text

68 Il verbo greco πέσσω, con cui Aristotele indica di solito la cozione, significa sia “cuocere” che “digerire”. Return to text

69 Aggiungiamo una fonte di solito trascurata: Alimentazione 40 (Littré IX, 112). Troviamo in questo passo l’indicazione dell’esistenza di un sangue alieno utile, di un sangue proprio inutile, di un sangue alieno nocivo, di un sangue proprio nocivo; così come dell’esistenza di umori diversi e, in particolare, di un latte alieno di buona qualità, di un latte proprio nocivo, di un latte alieno nocivo, di un latte proprio utile. Questa indicazione, pur nell’assenza di dettagli esplicativi, suggerisce l’idea che esistessero diversi tipi di latte con “destinatari” specifici. Che il latte della nutrice potesse essere dannoso (nella fattispecie potrebbe causare litiasi al bambini) è confermato in Malattie IV, 55 (Littré VII, 600sq.). Return to text

70 Si rimanda al nostro paper intitolato Motherhood, Breastfeeding and Adoption: The case of Hera suckling Herakles, presentato in occasione di Hera and Juno: The Functions of the Goddesses in Prehistoric and Historic Greece, Budapest, June 16-19, 2015, di prossima pubblicazione. Return to text

71 Chantraine (1999), s.v. θρόμβον. Cf. Demont (1978), p. 359. Un verbo formato da θρόμβον è utilizzato anche da Clemente Alessandrino (Pedagogo I, 48) per indicare la teoria del concepimento e della formazione del feto, come osserva Demont (1978), pp. 381sq. Clemente conosceva (e condivideva) la teoria dell’emogenesi del latte, vd. n. 7. Per l’allattamento del serpente da parte di Clitemnestra, si veda anche Whallon (1953). Il sangue mestruale è notoriamente più “grumoso” di quello normale, vd. D’Onofrio (2014), p. 53. Return to text

72 Che latte e sperma condividessero la stessa natura sembra suggerito anche da Apollonio Rodio (IV, 1733-45) che chiama lo sperma gala, cioè latte. Return to text

73 Quest’idea nasce da Larissa Bonfante, vd. Bonfante (1989); Bonfante (1997); Pedrucci (2013a), pp. 119-124. Successivamente: Gualerzi (2005), pp. 84sq.; Laskaris (2008); Salzman-Mitchell (2012) che arriva a parlare di incesto. Return to text

74 Trad. R. Calzecchi Onesti, Torino 1950. Per il gesto di Ecuba, vd.: Lanza (1995), pp. 34sq.; Loraux (1990), pp. 39sq.; Gualerzi (2005), pp. 84sq. Return to text

75 Cf. Aristotele, Etica nicomachea 1161b-1162a. Per il gesto di Giocasta, vd. Gualerzi (2005), pp. 84sq. Return to text

76 P. Oxy. 2617 frr. 4sq.; P. Lille 76a. Vd. Degani (1987), p. 77. Return to text

77 Eschilo, Coefore 896-98. Trad. V. Di Benedetto, Milano 1995. Al v. 908 Clitemnestra insiste: «sono io che ti ho allevato, e con te voglio invecchiare». Return to text

78 Lanza (1995), p. 35. Return to text

79 Lanza (1995), p. 35. Return to text

80 Loraux (1985) (che, fra le altre cose, evidenzia, partendo da Eschilo, Coefore 827-32, alcuni interessanti paragoni fra Clitemnestra/Medusa e Oreste/Perseo); Gualerzi (2005), pp. 84sq. Per quanto concerne αἰδώς, si può certamente dire che fra gli studiosi c’è accordo sul fatto che sia un termine pressoché intraducibile. Cairns (1993), ha dedicato un corposo volume all’analisi di αἰδώς, incentrando la riflessione sull’etica e psicologia dell’onore e giungendo alla conclusione che questo termine indica «a prospective, inhibitory emotion focusing on one’s idea of oneself, especially as that idea is effected by or comes into contact with others, and, despite the changes which take place in usage, in values, in social forms, this focus on the vis-à-vis others remains constant. From the earliest period, too, Greek ideas of selfhood are mediated through the concept of honour, and at every stage development of the sense of self on which αἰδώς rests is promoted and maintained by focus on the status of self and others as bearers of honour [...] the crucial point is that αἰδώς includes concern both for one’s own τιμή and for that of others. As a result, part of the function of αἰδώς is to recognize the point at which self-assertion encroaches illegitimately upon the τιμή of others, as this means that αἰδώς, while always responding to a situation in which τιμή is relevant, is concerned not only with one’s one prestige, but also with the concepts of moderation and appropriateness in the pursuit of prestige» (p. 432). Più precisamente a proposito dell’episodio contenuto dell’Orestesa, Lanza (1995), p. 41, scrive: «contro il matricidio sta l’ostacolo di quella che per mancanza di un termine moderno più adeguatamente ho qui tradotto “vergogna”, come altrove “rispetto”, e che in greco è αἰδώς, cioè dovere di reverenza, senso del sacro, paura di infrangere un grave interdetto». Per αἰδέομαι, vd. anche: Aprile (1997), p. 38; Cairns (1993) (che subito a p. 2 mette in guardia sul fatto che i significati di verbo e sostantivo non coincidono perfettamente). Return to text

81 Loraux (1985), p. 59. Return to text

82 Zeitlin (1996), p. 205. Return to text

83 Cohen (1997). Return to text

84 Essere prive di figli rappresentava la massima condanna sociale per una donna, vd. Pedrucci (2013b), pp. 41sq. Per la morte per impiccagione, tipica, peraltro, delle vergini, vd. Malattie delle vergini (Littré VIII, 466-470). Cf.: Loraux (1985), pp. 71-91 (oppressa dal basso, la donna cercherebbe una via di uscita verso l’alto impiccandosi); Andò (1990); Guidorizzi (1995). Return to text

85 Gualerzi (2005), pp. 85sq. Return to text

86 A questo proposito abbiamo presentato un contributo intitolato L’ambiguità del latte, bevanda dei morti nel mondo greco, in occasione di Archeologia e antropologia della morte. III incontro di archeologia e antropologia a confronto. Roma, 20-22 maggio 2015, di prossima pubblicazione. Return to text

87 Ricordiamo a questo proposito anche le donne descritte da Tacito nella Germania (8) che mostravano il seno davanti agli uomini soccombenti in battaglia. Si può, inoltre, ricordare l’episodio descritto in Ovidio, Metamorfosi III, 173-185, a proposito di Atteone, in cui le ninfe, nude come d’abitudine, spaventate alla vista di un uomo, urlano e si battono il petto per avvertire la dea del pericolo. Return to text

88 Raffaelli (1995). «Alors elle se leva, fit la prière, laissa ses mules au bas de l’escalier, et, montée sur l’échafaud, elle passa lestement la jambe sur la planche, posa le cou sous la mannaja, es s’arrangea parfaitement bien elle-même pour éviter d’être touchée par le bourreau. Par la rapidité de ses mouvements, elle évita qu’au moment où son voile de taffetas lui fut ôte le public aperçût ses épaules et sa poitrine»: Stendhal, Romans et Nouvelles, II, Bibl. de la Pléiade, Paris 1952, 706. Il pudore, peraltro, non era soltanto femminile: anche Odisseo nudo di fronte a Nausicaa o di fronte a Circe esprime forte disagio e αἰδώς: Omero, Odissea VI, 127sq., 221sq.; X, 339sq. Vd. Aprile (1997). Return to text

89 Erodoto, I, 8. Return to text

90 Djéribi (1988). Return to text

91 Presso una popolazione nella Valle dello Yaghnob in Tajikistan è documentata l’usanza, basata su principi “simpatici”, di allattare un cucciolo di cane per trasmettere il malocchio a madri che hanno già perso più figli. Vd. Delaini, p. 162. Per il possibile nesso fra cuccioli di cani e allattamento, vd. nn. 48, 65. Return to text

92 De Martino (1959), pp. 41-48. Per il malocchio, vd. Dundes (1992). Return to text

93 De Forest (1993). Personalmente non condivido tutte le idee esposte dall’autrice, ma trovo estremamente interessante l’ipotesi che Eschilo credesse in questa associazione e che Plutarco (Questioni conviviali 682f-683a) offrisse la spiegazione scientifica del malocchio basandosi sulla teoria dei simulacra di Democrito (pp. 131sq.). Per l’etimologia di invidia, vd. Odelstierna (1949). Return to text

94 Vd. n. 80. Return to text

References

Electronic reference

Giulia Pedrucci, « Baliatico, αἰδώς e malocchio: capire l’allattamento nella Grecia di epoca arcaica e classica anche con l’aiuto delle fonti romane », Eugesta [Online], 5 | 2015, Online since 01 janvier 2015, connection on 11 décembre 2024. URL : http://www.peren-revues.fr/eugesta/1195

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Giulia Pedrucci

Università di Bologna
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