Introduzione
L’allattamento è un argomento straordinariamente controverso. Lo è oggi, come testimoniano il moltiplicarsi di iniziative a livello mondiale i gruppi di sostegno pro-allattamento, le banche del latte, il latte acquistabile quasi senza controlli on-line, le teorie a favore del cosiddetto “allattamento estremo”, ma anche leggi e polemiche contro l’allattamento in pubblico, nonostante il cosiddetto Occidente abbia ormai ampiamente sdoganato il nudo e dimostri una certa tendenza a combattere ogni forma di inibizione1. Lo era già nel mondo antico, sia in quello greco che in quello romano, nonostante ci sia una non piccola differenza fra il modo di approcciare la questione in Grecia e a Roma: nel primo caso se ne parlava molto poco, essenzialmente soltanto nei testi “specialistici” (medici e biologici), mentre nel secondo caso se ne parlava decisamente di più2. Di conseguenza non possiamo prescindere dalle fonti latine, nel tentativo di meglio comprendere quelle greche. Per quanto concerne le fonti archeologiche, soprattutto in Grecia ma anche a Roma si tendeva a non raffigurare scene di allattamento. In passato ci si è domandati come mai questo gesto non venisse rappresentato, mentre lo era in Etruria e in altre zone dell’Italia antica, ma, a nostro avviso, l’approccio al problema deve essere ribaltato: perché in Etruria e in altre zone dell’Italia antica l’allattamento veniva raffigurato con una certa (non poi così eccessiva) disinvoltura e frequenza? Una prima riflessione può essere fatta: precedentemente all’avvento del latte artificiale, dall’allattamento al seno dipendeva la vita stessa del bambino3 e mostrarsi in un momento così delicato avrebbe potuto significare esporre a invidie da parte di donne senza figli o senza latte ed a inutili rischi la mamma e il piccolo da nutrire, come vedremo parlando del malocchio. Inoltre l’allattamento rappresenta un momento di profonda intimità. Allattare è una cosa da donne, per donne, fra donne: rappresentava un gesto cui gli uomini erano poco abituati e verosimilmente poco interessante. In una certa misura ancora oggi è così: le scene di allattamento sono tendenzialmente l’eccezione e non la regola oppure vogliono essere apertamente provocatorie. Una donna che allatta in pubblico, infatti, di solito cerca di farlo in maniera discreta.
Inoltre, restringendo il campo alla Grecia di epoca arcaica e classica, è necessario non dimenticare il sentimento di αἰδώς, da connettere probabilmente con la teoria dell’emogenesi del latte, che andremo immediatamente ad analizzare.
1. Τὰ γάλακτα ἀδελφὰ τῶν ἐπιμηνίων
Nei trattati medici antichi troviamo idee piuttosto precise circa la natura del latte umano4, che viene considerato un succedaneo del sangue, con cui il feto è stato nutrito durante la gravidanza e che, prima della gestazione, veniva periodicamente espulso dal corpo femminile grazie al ciclo mestruale. Aristotele (La generazione degli animali IV, 8, 776a-b) spiega che le secrezioni di natura ematica costituenti nell’uomo il seme e nella donna il sangue mestruale5, se uniti con la fecondazione, producono, grazie all’impulso generatore dell’elemento maschile, una materia attiva che serve sia per la formazione dell’embrione sia per il suo nutrimento, destinato all’uno e all’altro uso in quantità variabili secondo le diverse fasi della gestazione. Lo Stagirita afferma, infatti, che la stessa materia procura nutrimento e costituisce la base naturale della generazione, specificando subito dopo che il latte è sangue cotto, ma non corrotto6. Il latte umano era considerato, pertanto, un’ulteriore trasformazione, per cottura7, di quel sangue mestruale che, modificandosi sotto l’impulso del seme maschile, ha dato prima origine all’embrione, poi al suo nutrimento intra-uterino. Le teorie aristoteliche sono confermate in linea di massima da quelle ippocratiche8 e successivamente in parte da Plutarco9.
2. La non scontata scelta di allattare
Le ragioni che spingono una donna ad allattare o non allattare il figlio sono ancora oggi molto complesse e non spetta a noi indagarle10. Possiamo, però, cercare di individuare alcune tendenze che, citando la Maher11, potremmo definire “transculturali” e che, di conseguenza, potrebbero aiutarci a comprendere anche l’atteggiamento greco nei confronti dell’allattamento materno.
Cerchiamo di analizzare i principali motivi che possono spingere una donna a non allattare, fermo restando che, soprattutto in una realtà come quella greca e romana, non possiamo dare per scontato che la scelta spettasse necessariamente alla donna. Anzi, è stato messo in evidenza che probabilmente era l’uomo a scegliere o a influenzare la scelta, cercando di imporre il suo volere in un campo d’azione di estrema importanza e rispetto al quale fisiologicamente ed emotivamente sarebbe stato escluso12. Detto ciò, non possiamo mai dimenticare che, quando cerchiamo di far parlare direttamente le donne antiche, a parte rarissimi casi, la loro “voce” è il prodotto di una “vetriloquizzazione”.
Torniamo alle motivazione che possono influire sulla scelta di allattare. Una prima, quasi banale, ragione può essere connessa con la paura di rovinarsi seno, silhouette e salute13. Per quanto concerne la Grecia, però, non abbiamo fonti che insistono particolarmente su questi aspetti, se escludiamo alcuni indiretti riferimenti all’invecchiamento precoce che la gravidanza (e il successivo allattamento?) comporta14. Anzi, in generale l’allattamento viene indicato come positivo per la salute della donna15. Le fonti archeologiche, però, tendono a raffigurare la nutrice come anziana, brutta e deformata, soprattutto nei seni16.
Un altro motivo può essere il notevole prestigio sociale connesso con il baliatico sin dall’antichità17, che implicherebbe anche la verosimile percezione dell’allattamento come un lavoro vero e proprio, quindi come un’attività decisamente poco adatta alle persone di alto rango18.
L’emancipazione rispetto alle mere, per molti versi imbarazzanti, necessità del corpo, che avvicinano la natura dell’uomo a quella ferina, può, inoltre, essere percepita come un segno di “civilizzazione” per una donna. Non mancano nelle fonti latine testimonianze che, parlando di popoli barbari, sottolineano il costume delle donne di allattare i figli al seno19. Nelle fonti iconografiche osserviamo, in antitesi rispetto alle immagini della donna aristocratica con balia, da un lato l’immagine umile della madre che allatta il proprio figlio, molto frequente nell’arte provinciale, dall’altro immagini di bambini allattati da animali, ninfe o centauresse20. Anche in questo caso le testimonianze per il mondo greco non sono particolarmente numerose e significative, ma, dalle poche che abbiamo, possiamo intuire che l’allattamento al seno venisse, almeno in parte, considerato un gesto primitivo e “selvaggio”, come testimoniato soprattutto dal cospicuo numero di bambini allattati da animali e ninfe nel mito21.
Trattandosi di antichità classica, è stata avanzata un’ulteriore ipotesi, a nostro avviso non del tutto condivisibile, per motivare l’assenza di scene di allattamento: il “tabù” della nudità, in particolare della nudità femminile, percepita come privata, straordinaria, vergognosa e pericolosa a un tempo (soprattutto quando la parte esposta è il seno22), su cui torneremo.
La scelta di allattare, oltre a ciò, può rivelarsi in vario modo una questione maschile. Lungi dall’essere un comportamento solamente naturale, l’allattamento al seno va indagato anche come «un’azione [...] culturale, un atto deliberato e significativo»23. L’uomo ha cercato nei secoli di imporre una sorta di controllo sull’allattamento materno, dal quale era evidentemente escluso. Anche nella concezione del latte umano l’impronta maschile è palese24. La credenza, già presente presso i Greci, e che grande fortuna ebbe nei secoli successivi25, che i rapporti sessuali “guastassero” il latte e che non si potesse rimanere incinte in assenza di mestruazioni, certamente deve aver spinto molti mariti ad assumere balie sia per non rinunciare al piacere26 che per non rinunciare ad avere altri eredi in tempi brevi.
Un ultimo dettaglio può aver significativamente influito forse non tanto sulla scelta di allattare al seno, quanto sull’opportunità di farlo in pubblico: il latte materno nel mondo antico era pur sempre considerato sangue mestruale cotto. Secondo Empedocle, addirittura, si sarebbe trattato di una sorta di sangue putrefatto: il filosofo gioca, infatti, con il significato di πύον (pus, intendendo il latte) e πυός (il primo latte dopo la nascita, cioè il colostro)27. Dalle leggi sacre che regolamentavano l’accesso ai santuari e la partecipazione ai riti, a possibile conferma di ciò, sappiamo che esistevano restrizioni riguardanti le donne mestruate, le donne incinte e quelle che allattano28.
Abbiamo fin qui accennato ad alcune ragioni che possono aver spinto le donne greche a non allattare, non privilegiandone nessuna, in quanto un’operazione di questo tipo, senza il supporto delle fonti, implicherebbe una non lecita intromissione nella vita privata di persone vissute millenni fa. Quali che fossero le motivazioni personali, e fermo restando che, come vedremo, il baliatico in Grecia era l’eccezione, sappiamo che esistevano nutrici da latte, quindi cerchiamo di approfondire questo argomento.
3. Il baliatico in Grecia e a Roma
Fino all’invenzione del latte artificiale, chi non poteva o non voleva allattare doveva ricorrere a balie da latte. Questa diffusissima usanza era, come abbiamo già accennato, ovviamente presente anche nel mondo antico, ma, stando alla documentazione in nostro possesso le differenze fra i costumi greci (perlomeno della Grecia di epoca arcaica e classica) e quelli romani (perlomeno di epoca imperiale)29 per quanto concerne la pratica dell’allattamento sono significative.
Da un lato abbiamo le matrone romane di Sorano e Galeno, la cui abitudine a non allattare personalmente i figli era ben nota e spesso criticata; dall’altro abbiamo i testi ippocratici, in cui, per quanto concerne l’allattamento al seno, troviamo non soltanto diversi rimedi contro l’ipogalattia e l’agalattia (che, per quel che ne sappiamo noi, potevano essere rivolti sia alla madre che alla balia)30, ma anche (e soprattutto) la costruzione ideale di corpo femminile fatto per sua stessa natura per allattare, ovvia conseguenza dell’essere fatto per concepire, essere gravido, partorire. E, cosa ancora più importante, troviamo l’idea che l’allattamento, così come la gravidanza e il parto, sia qualcosa di positivo per la salute della donna31.
Che l’allattamento materno fosse la scelta migliore, quantomeno per il bambino, probabilmente era un pensiero condiviso anche dai medici che vivevano a Roma; ma, come nota la Rouselle, «l’affidamento di un bambino alla nutrice non è una teoria che viene dai medici; è un costume sociale e ai medici è richiesto piuttosto di mostrare che tale usanza non nuoce alla salute del bambino»32. Il costume, chiaramente descritto da Sorano33, di affidare il bambino romano a una balia era talmente diffuso da essere ancora ampiamente attestato alla fine del IV secolo d.C., come testimonia, fra le altre cose, la traduzione in latino da pare di Muscio dei capitoli sulla scelta della nutrice34 nel sunto della Ginecologia.
Niente del genere sembra riscontrabile nelle fonti greche di epoca arcaica e classica. In primo luogo, “eroine” come Ecuba35, Andromaca36 e Giocasta37 allattano.
E Clitemnestra, la madre ἀμήτωρ (letteralmente privo di madre, ma anche privo di maternità, quindi, in questo contesto, si potrebbe tradurre “madre-non madre”)38, allatta? La risposta sembrerebbe positiva39. Clitemnestra allatta nelle tragedie di Euripide40. Anche nella versione eschilea il sogno del parto del serpente, cui Clitemnestra porge il seno pensando che fosse un bambino, sembra confermare il fatto che la donna allattasse personalmente. Il dettaglio del grumo di sangue succhiato con il latte (vv. 533, 546) anticipa e prepara la negazione della parentela che verrà esplicitata nelle Eumenidi (vv. 606sq.): alla domanda di Oreste «e io sarei dello stesso sangue di mia madre?», il coro risponde «e come, dunque, ti nutrì? Tu rinneghi il dolcissimo sangue di tua madre?»41. Il legame fra latte e sangue è qui particolarmente evidente.
Ma è il grido di dolore di Creusa alla notizia che non potrà mai stringere fra le braccia un figlio né attaccarlo al suo seno42 che vale più di mille parole: «Ah, vorrei morire [...]. Me infelice, che disgrazia, il dolore che provo, amiche, mi toglie il gusto della vita. Sono perduta [...]. Ahimè! Un dolore acuto mi trafigge il petto»43.
Sempre dalla medesima tragedia apprendiamo quali erano considerati gli attributi tipici della maternità in Grecia: il latte, il seno e la cura dei bagni44. Troviamo conferma di ciò nelle commedie di Aristofane: nella Lisitrata, Mirrina è costretta dalle lamentele del figlio, che dietro istigazione del padre la chiama ripetutamente, ad avvicinarsi suo malgrado al marito Cinesia, che, per impietosirla, le dice che il bambino è senza bagno e senza latte da una settimana. L’aggettivo ἄθηλος (privo di seno, non allattato) non lascia adito a dubbi circa l’interpretazione del passo45. Nelle Tesmoforiazuse, Mnesiloco, strappa a una madre la figlia dal seno e si rifugia sull’altare, minacciando di non permettere più alla donna di nutrire la bambina se non verrà liberato. La disperazione della donna è notevole, ma la bambina alla fine si rivelerà essere un otre di vino (vv. 690-738).
L’oratore Lisia afferma che la moglie aveva iniziato ad allattare il figlio dopo la nascita, e che di notte scendeva – dove il bambino dormiva con le ancelle – per dargli la poppa46; mentre Demostene (57, 35sq.) ci informa che la madre, come molte altre donne libere, in tempi difficili aveva fatto la balia.
Nella Samia di Menandro, in un complesso intreccio di vicende di legittimità filiale, il bambino non è allattato dall’anziana nutrice (v. 237) del padre, ma è allattato da due donne, entrambe madri (una madre legittima, l’altra madre di un figlio morto appena nato, che si vuol far passare per legittima). In tutti e due i casi l’espressione è “porgere il seno” (vv. 266, 534).
Teocrito nell’Idillio 24 ci presenta un’insolita Alcmena madre affettuosa e premurosa sia di Eracle, cui porge il seno per allattarlo (v. 2), sia del suo gemello Ificle.
Analizziamo, infine, una fonte particolarmente importante per il suo porsi “a metà strada” sia geograficamente sia, in un certo senso, cronologicamente, fra Grecia (classica) e Roma (imperiale): Plutarco. Ne L’educazione dei figli (I, 5, 3CD), egli scrive: «è assolutamente necessario, secondo me, che le madri stesse nutrano i loro figli e porgano loro il seno. Così nel dare il nutrimento ci sarà come una sofferenza comune con essi, una più grande sollecitudine, come se così sentissero di amare i figli dal di dentro, o, come si usa dire, dalla radice delle unghie»47.
Un’altra testimonianza di Plutarco (Questioni convivali 640f) va menzionata: qui egli afferma che bisogna dare a una donna con latte in eccesso un altro bambino da nutrire (per non sprecare il latte? Per aiutare chi ne ha meno? Per evitare che si accumuli troppo latte dentro le mammelle, rischiando che vada a male?48).
Non dimentichiamo che una madre può anche essere impossibilitata ad allattare personalmente i propri figli per motivi di salute o per mancanza di latte: in questi casi sicuramente chi poteva permetterselo ricorreva a balie da latte (negli altri casi presumiamo si provasse l’impiego di latte animale, anche se Aristofane da Bisanzio attesta l’esistenza di balie da latte anche fra i ceti meno abbienti della popolazione49). Di poco più recente la testimonianza di Clemente Alessandrino (Protrettico X, 1), in cui si lascia intendere che tutti i bambini venissero allattati dalle nutrici.
Abbiamo fin qui analizzato fonti di autori greci assai diverse per epoca e per valore. In generale, però, se confrontate con le fonti di epoca romana, in esse si parla poco di allattamento. Tenendo ben presenti i limiti impliciti in argomentazioni e deduzioni ex silentio, ci sembra di poter affermare che lo scarso interesse per l’allattamento materno potrebbe indicare la naturalezza e l’ovvietà (salvo casi particolari e forse patologici) di esso: trattandosi di una cosa “scontata”, non occorre forse parlarne più di tanto. Quando i medici dei trattati ippocratici offrono diete, rimedi per curare l’ipogalattia e l’agalattia, contrariamente a Sorano, non specificano a chi siano rivolti: forse banalmente non lo fanno perché non avvertono il bisogno di farlo50. I fiumi di parole spesi, per contro, da medici come Galeno e Sorano e dagli autori latini confermerebbero, a nostro avviso, la verosimiglianza di quest’ipotesi. L’anomalia risiede nel non allattare personalmente il figlio, e come tale va giustificata oppure criticata.
Personalmente ritengo che la “verità” – come spesso succede – stia nel mezzo, ovvero che sia verosimile ipotizzare che il “co-allattamento”, cioè l’allattamento sia da parte della madre che da parte di una o più nutrici, fosse la forma di allattamento più diffusa: è difficile, infatti, immaginare che le madri, a parte forse quelle di epoca imperiale, e di certo non tutte, si rifiutassero di allattare aprioristicamente i figli, ma, d’altro canto, è anche difficile pensare che intendessero sobbarcarsi il compito di allattare da sole bambini per 2-3 anni ciascuno. Una diversa forma di co-allattamento, per inciso, è verosimilmente ipotizzabile fra i ceti più poveri della popolazione, quando per varie ragioni alcune madri erano impossibilitate ad allattare, magari soltanto per breve periodi: in questi casi nella campagne italiane dell’Ottocento ci creava una sorta di “gara di solidarietà” fra madri, e chi poteva allattava il bambino temporaneamente rimasto senza latte materno51. Pur con le riserve del caso, non è difficile immaginare situazioni analoghe per il mondo antico.
4. La scelta della nutrice e le parentele di latte
Di sicuro la scelta della nutrice era un problema connesso con la necessità di preservare la purezza del sangue della gens a Roma, dal momento che il latte, come il sangue, è veicolo di caratteri genetici, e le fonti ne danno ampia e puntuale testimonianza. Lo scopo di questo paragrafo è cercare di dimostrare l’esistenza in filigrana di diversi tipi di latte anche nei testi ippocratici. Questa differenza, da cui deriva la necessità di grande attenzione nella scelta della nutrice, era posta particolarmente in evidenza dai medici a Roma, ma non doveva essere assente in Grecia, dove, però, essendo verosimilmente il baliatico molto meno frequente, soprattutto in epoca arcaica e classica, emergeva con minore insistenza. Partiamo di conseguenza dalle fonti romane.
Plinio (Storia naturale XXVIII, 21, 72sq.) afferma che, per ogni impiego curativo, è più efficace il latte di una donna che ha dato alla luce un maschio e di gran lunga più efficace quello di una donna che ha partorito due gemelli. Egli, inoltre, fa riferimento al diverso utilizzo del latte di una donna che ha partorito un maschio rispetto al latte di una donna che ha partorito una femmina, e in particolare parla dell’impiego contemporaneo del latte di una madre e di una figlia, evidentemente entrambe con figli neonati52.
Se il latte prodotto per un figlio maschio (o ancor meglio per due gemelli maschi) ha un potere diverso da quello prodotto per una figlia femmina, allora non tutto il latte umano ha le stesse qualità e uno dei fattori determinanti per la sua caratterizzazione è il sesso del bambino per cui è stato prodotto. Ma non soltanto: se le virtù medicamentose si accrescono a dismisura nel caso in cui si impieghi contemporaneamente il latte di due donne che hanno lo stretto legame di sangue di madre e figlia, è evidente che questo umore trae la sua forza dal rispecchiare in sé la linea generazionale che lega genitori e figli appartenenti alla stessa stirpe. Da tutto ciò possiamo dedurre che il latte prodotto da una puerpera è fatto “su misura” per l’individuo al quale è naturalmente destinato, contenendo in sé alcuni caratteri genetici fondamentali.
Sulla base di ragionamenti simili vanno interpretate anche le numerose raccomandazioni fatte alle balie di non rimanere incinte durante l’allattamento53. Plinio (Storia naturale XXVIII, 33, 123) ci informa del fatto che i bambini nutriti da donne rimaste di nuovo incinte vengono detti colostrati, perché il loro latte si addensa come una sorta di formaggio. Ma per quale ragione una nuova gravidanza durante l’allattamento comprometterebbe la qualità del latte tanto da trasformarlo in colostro denso come il formaggio?
Abbiamo appena visto che il latte ha delle caratteristiche che lo legano geneticamente all’individuo per cui è stato prodotto, soprattutto perché omogeneo al suo sangue. Se dunque la nutrice dovesse ricevere il seme di un altro uomo, questo, in caso di fecondazione, provocherebbe la formazione di un nuovo individuo e di un altro sangue, disomogeneo a quello che, sotto forma di latte, nutre ancora il neonato. Nel corpo della donna si creerebbero in questo modo due linee di sangue differenti54, in quanto il sangue/latte con cui viene nutrito il bambino a lei affidato scelto in base a determinate caratteristiche, si mescolerebbe con il sangue che alimenta il feto, che potrebbe avere caratteristiche differenti, con una conseguente turbatio sanguinis (ovvero lactis), che renderebbe inutilizzabile il nutrimento emesso dal seno.
La dipendenza della qualità del latte dal rispetto della linea genetica che lega i genitori al figlio risulta anche da alcune osservazioni di Mnesiteo (in Oribasio, Libri incerti XXXII, 5, 125 Raeder), medico di Cizico vissuto nel IV secolo a.C., sulla scelta delle nutrici. Secondo il medico, la balia deve essere continente nel frequentare gli uomini, deve aver allattato più bambini e il suo ultimo figlio deve avere la stessa età e lo stesso sesso di quello che le viene affidato. Qui troviamo conferma della credenza che il latte avesse caratteristiche tali da renderlo adatto soltanto all’individuo dal cui sangue era derivato e per il quale era prodotto; perciò, se proprio si era costretti a ricorrere al latte di una balia prezzolata, si doveva avere l’accortezza di scegliere quello che somigliasse di più al lattante e cioè che fosse stato prodotto per un bimbo della stessa età e dello stesso sesso (ulteriore conferma della convinzione che ci fosse un latte “maschile” e uno “femminile”). In un altro passo (in Oribasio, Libri incerti XXXII, 7, 125 Raeder) il medico aggiunge che preferibilmente i bambini dovrebbero essere allattati dalle madri, ma, se ciò non è possibile, dovrebbero allattarli donne che siano di casa o parenti o donne che somiglino loro nell’aspetto fisico: è preferibile, cioè, che la balia sia una persona di famiglia, perché il suo sangue è quasi lo stesso; se, però, non è possibile trovare in famiglia una nutrice, bisogna cercarne una che assomigli almeno fisicamente alla madre o a qualcuno della famiglia perché, fra i caratteri trasmessi attraverso il sangue e il latte del bambino, uno dei più evidenti e importanti è appunto la somiglianza fisica con i genitori55.
Plutarco (Catone il censore 20, 5), narrando della nascita del figlio di Catone il censore, riporta un curioso comportamento della moglie, la quale nutriva il bambino con il suo latte, e, lasciando avvicinare i bambini degli schiavi al proprio seno, ne plasmava i buoni sentimenti verso il figlio grazie alla condivisione del nutrimento. Da questo episodio apprendiamo in primo luogo che, nel mondo romano, si pensava che la fratellanza di latte stabilisse un’affinità biologica e anche morale fra persone non appartenenti alla stessa stirpe: sono i cosiddetti collactanei, la cui stretta relazione affettiva è ampiamente testimoniata nelle epigrafi56. Secondariamente, deduciamo da esso la convinzione che la trasmissione del latte da una stirpe di provata integrità a una di rango servile avesse potere “nobilitante”, in quanto, assieme al nutrimento, passavano anche quelle peculiarità dell’indole che sono innate nel sangue delle grandi famiglie. Si tratterebbe di una sorta di baliatico d’alto rango, implicitamente opposto a quello più comune che prevedeva balie di bassa condizione e che in linea di principio era sconsigliato57.
Difatti se, come sostiene Plutarco, poteva essere di giovamento per i figli degli schiavi bere il latte della loro padrona, di modo che essi acquisissero un’affinità etica con il loro padroncino altrimenti irraggiungibile; non era affatto consigliabile, secondo Favorino58, il contrario, dal momento che un rampollo di buona famiglia allattato da una balia di basso rango e di bassa levatura morale ne avrebbe sicuramente ereditato i difetti genetici e caratteriali59. Non a caso le nutrici greche a Roma erano particolarmente apprezzate per la loro lingua, che il piccolo aristocratico romano, futuro bilingue, avrebbe iniziato ad apprendere già al seno della balia60.
Nei testi medici di epoca imperiale troviamo inoltre una lunga serie di verifiche e di controlli da effettuare sulla nutrice, non soltanto per quanto concerne i problemi di concomitanza fra allattamento, atto sessuale e gravidanza. Plinio, Galeno, e, prima di loro, Mnesiteo: tutti si sono preoccupati di dare indicazioni per la scelta della nutrice. Sorano dedica al problema addirittura un’intera parte della sua opera (Ginecologia II, 19)61.
Invano cercheremmo qualcosa del genere in Grecia, dove il problema della scelta della nutrice non era apparentemente così sentito. Da alcune informazioni sparse, però, possiamo provare a ricostruire un quadro d’insieme relativo alla natura del latte materno in Grecia, per quanto parziale e non sempre ricco, coerente e articolato come nel caso del mondo romano.
Partiamo dai testi teatrali: Andromaca allatta i figli bastardi di Ettore (il suo latte ha potere “nobilitante” e può rendere questi bambini illegittimi collactanei di Astianatte?); Giocasta allatta il nipote (il suo latte, in quanto sorella della defunta, è più adatto di altri?)62. Da questo episodio, analizzato sulla base delle altre fonti raccolte, si può a nostro avviso intuire l’esistenza di una parentela di latte anche in Grecia63.
Anche in Aristotele e nei testi ippocratici si può leggere fra le righe la distinzione fra un latte “maschile” e uno “femminile” (presente anche nei testi egizi), con tutte le implicazione che una simile diversificazione comporta64.
Pensiamo in particolare a un testo in cui si parla di singolari capacità “divinatorie” del latte materno. Una delle più curiose funzioni che vengono attribuite al latte di donna è, infatti, quella di predire il sesso del nascituro. In Donne sterili 216 (Littré VIII, 416), abbiamo la seguente indicazione: prendere il latte di una donna, impastarlo con della farina, formare un panino e cuocerlo a fuoco lento: se si solidifica, la donna è incinta di un maschio, diversamente di una femmina. Lo stesso latte può essere messo sul fuoco: se con il calore si coagula, la donna è incinta di un maschio, diversamente di una femmina.
In Donne sterili 214 (Littré VIII, 414), invece troviamo, fra i vari e bizzarri metodi per sapere se una donna riuscirà a concepire, la seguente indicazione: far bere la mattina a digiuno del burro e del latte di una donna che allatta un maschio. Dopo aver bevuto, se la donna rutta, sarà in grado di concepire, altrimenti no.
In quest’ultimo passo riscontriamo non soltanto l’utilizzo del latte di donna a scopo “divinatorio”, ma anche la distinzione fra latte prodotto per una femmina e latte prodotto per un maschio, che vorremmo ulteriormente approfondire. A tal fine analizziamo alcuni passi di Plinio: in Storia naturale XXVIII, 21, 72, si afferma che, per ogni impiego, è più efficace il latte di una donna che ha messo al mondo un figlio maschio e di gran lunga più efficace è quello di colei che ha generato due gemelli maschi. Il latte di una donna che aveva partorito un maschio viene utilizzato anche per evitare che i cani contraggano la rabbia65; mentre quello di una donna che aveva generato una femmina è preferibile soltanto per curare le affezioni cutanee del viso (Storia naturale XXVIII, 21, 75).
Uno dei fattori più caratterizzanti del latte sembra, dunque, il sesso del bambino per cui esso è stato prodotto: come, secondo Aristotele, c’è un seme maschile attivo e uno inerte; così, secondo Plinio, c’è un latte “maschile” più efficace e un latte “femminile” meno efficace. Come osserva Danese66, se esistesse un rapporto fra le tesi aristoteliche e le notizie riportate da Plinio67, si potrebbe allora dire che il latte “maschile” è più valido perché deriva dal sangue che, al momento del concepimento, ha ricevuto dal seme paterno quella maggiore quantità di calore e quell’impulso più forte capaci di provocare la formazione di un individuo di sesso maschile. Quindi il latte, come il sangue che lega i membri della stirpe, porta in sé e trasmette, secondo i vari usi che se ne fanno, l’intensità dell’impronta formatrice del genitore quale si rivela nei caratteri acquisiti dal figlio, traducendosi anche in potenziale forza fecondatrice. In effetti è probabile che gli antichi ritenessero che la “virilità” impressa dal seme paterno nella materia femminile, in modo da generare un figlio maschio, continuasse ad essere presente e attiva anche nel sangue destinato a trasformarsi in latte e quindi nel latte stesso. In questo modo si spiegherebbe la curiosa pratica indicata in Donne sterili: il latte maschile mantiene, in un certo modo, una continuità con il seme da cui è stato generato, riuscendo ad avere una capacità di testare la fertilità femminile: per gli antichi la fecondazione comportava una sorta di “cottura” o “digestione”68 della materia fertile femminile da parte del seme maschile; se allora la donna, ingerendo del latte “maschile”, riusciva a digerire, come prova l’eruttazione, ciò garantiva la sua positiva reattività al calore, quindi la sua fecondità69.
Che il latte sia in grado di veicolare caratteri genetici da un individuo a un altro è, a nostro avviso, confermato anche dall’episodio mitico in cui Eracle adulto può accedere a pieno titolo all’Olimpo grazie a una sorta di procedura di adozione che si realizza attraverso, appunto, l’allattamento simbolico da parte della moglie di Zeus, cioè Hera70.
Il passo, però, per noi forse più significativo è quello in cui Clitemnestra sogna di partorire un serpente, che ella poi avvolge nelle fasce come un bambino e che cerca nutrimento al suo seno. Ma al latte, che il piccolo serpente beve al seno della madre, si mescola un grumo di sangue, generato dal serpente stesso e causa per la donna di doloroso spavento (Coefore 533: «succhiò anzi nel latte un grumo di sangue». Trad. V. Di Benedetto, Milano 1995).
Oreste comprende senza difficoltà il significato del sogno della madre: egli è il serpente allevato e nutrito da Clitemnestra ed è questo a fare di lui l’unico attore possibile della sua uccisione. È certo il figlio vendicatore di Agamennone, ma al tempo stesso è – come si coglie in maniera lampante in questo passo – il figlio di Clitemnestra: lei lo ha partorito, lei lo ha nutrito. Il verbo utilizzato è τρέφω. E, dettaglio ancora più intrigante, quello che succhia è un θρόμβον, termine che, come ci insegna Chantraine, deriva «de la même base que τρέφω», che «avant de signifier “nourrir” a exprimé l’idée de “faire grossir”»71. Il sangue, il latte, lo sperma e il processo di formazione di un individuo emergono qui, con un sottile gioco lessicale e semantico, intrecciati in maniera magistrale72.
Nel complesso ci pare di poter concludere che anche i Greci avessero ben presente che il latte era in grado di veicolare caratteri genetici (e non soltanto) da un individuo all’altro, con tutte le conseguenze che ciò poteva implicare, ma il problema li preoccupava meno, essendo il baliatico estremamente più raro.
5. Allattamento e αἰδώς
Passiamo ora ad analizzare alcuni episodi in cui appaiono madri che mostrano il seno ai figli. Lo scopo è mettere in discussione la teoria dell’esistenza di un tabù del nudo femminile, soprattutto quando la parte scoperta è il seno materno, percepito come privato, imbarazzante, fuori dalla norma e pernicioso73, a causa del quale le immagini di allattamento erano così rare. A nostro avviso non si tratta di un tabù del nudo materno, ma piuttosto di αἰδώς.
Siamo nel canto 22 dell’Iliade (vv. 80-83), Ettore sta partendo per andare a combattere contro Achille, affrontando il suo ineluttabile destino di morte. A lungo Priamo ha parlato gemendo su se stesso, abbandonato alla sciagura della morte del figlio. Ecuba geme e fa scorrere lacrime, si apre la veste e con l’altra mano solleva il seno e ricorda al figlio, che va a morire, il tempo in cui lei gli offriva il rifugio della mammella λαθικηδέα (che fa scordare le pene)74. Giocasta compie il medesimo gesto per convincere Eteocle e Polinice a cessare la loro lotta fratricida (Euripide, Le fenicie 1567sq.), nel tentativo di suscitare la compassione dei figli nei suoi confronti75. La stessa scena viene per molti aspetti anticipata da due frammenti stesicorei76, in cui troviamo, oltre a Giocasta, un’altra figura di madre il cui pensiero è costantemente rivolto ai figli: Calliroe. Per dissuadere il figlio Gerione dall’affrontare Eracle, Calliroe fa appello – come scrive Enzo Degani – «agli aspetti più viscerali dell’amore materno»: i dolori del parto e la mammella che lo ha nutrito.
Questi episodi ne richiamano un altro: di fronte al figlio che impugna la spada grondante del sangue di Egisto, Clitemnestra si apre il peplo e grida: «fermati, figlio, abbi ritegno, figlio mio, di questo seno, su cui tu spesso ti addormentavi succhiando con le gengive il latte che ben ti nutriva»77. Al gesto della regina segue lo smarrimento e il dubbio di Oreste, che si rivolge, turbato e titubante, all’amico Pilade, per chiedergli consiglio.
Come osserva Lanza78, la maternità di Clitemnestra ripercorre i tratti della maternità di Ecuba non soltanto nel gesto, ma anche nelle parole. Dal quasi intraducibile αἴδεo/αἴδεσαι, “abbi rispetto”, “abbi timore”, al vocativo “figlio”, in Eschilo duplicato dall’iniziale ὦ παῖ, fino al pregnante omerico λαθικηδέα, sciolto e quasi spiegato da Eschilo nell’enunciazione delle due funzioni del seno materno: la protezione rasserenante e la provvida nutrizione.
L’allusione – «troppo nota la rapsodia omerica perché il pubblico non se ne accorgesse»79 – acquista una particolare coloritura nel contrasto delle due situazioni: la paura di Ecuba è per la morte del figlio, quella di Clitemnestra per la propria, della quale proprio il figlio si accinge a essere l’artefice.
La maternità di Clitemnestra non si esaurisce, peraltro, nel gesto di scoprirsi il seno. I riferimenti al rapporto madre-figlio in questa scena sono continui: altri quattro vocativi si susseguono, dopo i due iniziali, in una ventina di versi, quasi sempre in posizione enfatica, e altrettante enunciazioni del termine “madre”. Tanto più significativa questa concentrazione se si osserva che, prima dell’annuncio del matricidio, Clitemnestra non ricorre ad alcuna espressione che ne riveli la condizione materna. Ed è qui che possiamo cogliere con chiarezza la contrapposizione fra maternità e sensualità da analizzare principalmente in relazione al concetto di αἰδώς80.
Vediamo un altro episodio gravido di significati in cui il seno viene esposto. In questo caso le protagoniste sono entrambe donne, e sono madre e figlia. Siamo nell’Ecuba di Euripide, ai versi 558sq.: Polissena di fronte all’altare sembra una splendida statua con il petto e il seno scoperto81, appoggiata con un ginocchio al suolo. Ecuba fa sua la postura della figlia adottandola a sua volta. L’ambiguo status di Polissena di “sposa-non sposa” carica di significati particolarmente pregnanti il suo gesto, che sottintende l’intrinseca identificazione fra il corpo della madre e il corpo della figlia definita τιθήνη (nutrice, balia da latte, v. 280sq.). Sono i seni che nutrono e il petto (cf. vv. 142, 281) le parti del corpo che la fanciulla enfatizza nel suo addio alla madre (v. 424)82.
Il legame fra esposizione del seno e morte o, comunque, violenza fisica è, del resto, molto forte. Si pensi soprattutto alle scene di stupro in cui il seno femminile è di solito esposto. È tipicamente il caso di Cassandra, incalzata da Aiace ovvero uccisa da Clitemnestra83. Si può notare che, anche in quest’ultimo caso, lo svelamento del seno avviene di fronte a un’altra donna. C’è, inoltre, una donna non madre, cioè una donna socialmente “morta”, una donna-non donna, o, se si preferisce, una madre ἄπαις (priva di figli)84, che si scopre il petto e, colpendosi al seno, dichiara il suo intento di uccidersi (o, in alternativa, di impiccarsi, altra tipica morte femminile): è l’Ermione dell’Andromaca euripidea (vv. 832, 843).
Non dimentichiamo, infine, la centralità del denudamento, della percussione e della lacerazione di questa parte del corpo nei rituali funebri, ambito in cui il ruolo della madre si dimostra peraltro primario. La presenza della madre è, dunque, rilevabile nei due più significativi momenti nell’esistenza di un individuo: la nascita e la morte; parallelamente, il seno della donna veniva esposto al figlio all’inizio (attraverso l’allattamento, nel caso in cui fosse la madre ad allattarlo) e alla fine (attraverso il rito funebre) della sua vita85. La straziante memoria dell’intimità dei corpi costituisce un sovrappiù di dolore insostenibile per la madre, che si esterna nel momento dell’addio fisico, dal momento che la maternità è in primo luogo una questione fisica, letteralmente corporale, carnale. L’idea di nutrire il morto con il latte potrebbe non essere stata secondaria in un simile contesto, dal momento che il latte, bevanda estremamente ambigua dal punto di vista culturale e ovviamente associata all’infanzia, faceva parte delle sostanze nutritive offerte ai defunti86.
L’esposizione del petto femminile nella Grecia antica era dunque, al di fuori di un contesto erotico, quasi esclusivamente riservata a momenti di grande pericolo e di estremo pathos87. Non crediamo, però, come abbiamo detto in partenza, all’esistenza di un tabù connesso con il nudo femminile. Vorremmo, piuttosto, rintracciare nell’episodio della morte di Polissena le origini di quello che Renato Raffaelli chiama il motivo letterario dell’ “estremo pudore”88, presente, con varianti secondarie, ancora in un racconto di Stendhal intitolato Les Cenci. Il gesto della fanciulla, al di là della possibile valenza simbolica, lungi dall’indicare esibizionismo, rappresenterebbe una sorta di “male minore”, una necessità, scelta da Polissena stessa, per evitare di essere toccata e spogliata dai nemici. La straordinaria ed esemplare pudicizia che la contraddistingue viene, infatti, mostrata dalla fanciulla subito dopo, nell’istante supremo della morte, sottraendosi agli sguardi degli Argivi proprio nel momento in cui sarebbe dovuta essere, invece, del tutto indifesa e in loro completa balìa.
In un’altra tragedia euripidea è Macaria (Gli Eraclidi 561sq.), che, avendo ormai scelto di morire, chiede al vecchio Iolao di starle vicino per coprire, subito dopo la morte, il suo corpo con pepli. Questa richiesta rivela in lei lo stesso pudore tutto femminile manifestato da Polissena nel cadere ed è espressione del suo desiderio di lasciare la vita nella gloria (v. 534).
Il motivo dell’estremo pudore trova una testimonianza straordinaria in Plinio il Vecchio (Storia naturale VII, 77), in cui si afferma che i cadaveri degli uomini galleggiano sulla schiena, mentre quelli delle donne sul ventre, come se la natura volesse rispettare il pudore (pudor) di quest’ultime persino dopo la morte.
Menzioniamo, per concludere, il racconto erodoteo relativo alla richiesta fatta a Gige da parte del re Candalue di guardare la regina nuda, per aver prova tangibile della sua straordinaria bellezza: Gige gli risponde esterrefatto e sgomento che una donna, nel momento stesso in cui si spoglia dei vestiti, si spoglia anche del suo αἰδώς89.
Questo sentimento di αἰδώς, così fortemente presente nella letteratura in relazione al denudamento di parti del corpo femminile, potrebbe aver influito, breviter, sulla reticenza nel mostrare e rappresentare l’allattamento.
6. Allattamento e malocchio
Veniamo all’ultimo aspetto che, a nostro avviso, può aver condizionato la scelta di non mostrare scene di allattamento: il malocchio90.
Il malocchio è particolarmente potente nei confronti dei neonati e colpisce soprattutto la produzione del latte materno, per questa ragione è la principale preoccupazione delle donne che allattano, le quali si premuniscono di tutti i mezzi necessari per allontanarlo. La particolare attrazione del malocchio verso il latte si troverebbe addirittura in un testo sumerico del IV-III secolo a.C. Il malocchio colpisce il latte, e allo stesso tempo il latte è il liquido par excellence in grado di trasmettere il malocchio91.
Il motore è sempre l’invidia, la vittima sempre una donna con molto latte. Proprio per evitare la gelosia delle altre donne, è raccomandabile la massima riservatezza e la massima umiltà: una madre o una nutrice che si vanta dell’abbondanza del suo latte potrebbe vedersi seccare velocemente la causa di tanto orgoglio.
Ernesto de Martino ha studiato il comportamento delle donne durante l’allattamento in Lucania a metà del secolo scorso, constatando come esse evitassero con grande attenzione di esporsi in pubblico mentre allattavano: i seni turgidi, infatti, potevano essere il naturale oggetto di invidia da parte di altre madri, e questo sguardo invidioso in grado di rubare il latte e seccare le mammelle è malocchio più o meno intenzionale in una delle sue più tipiche accezioni92. Considerando l’estrema importanza del latte materno in un ambiente in cui tale mancanza significava per l’infante deperimento, malattia e morte, si comprende con facilità una delle principali ragioni che spingeva le donne ad allattare in privato, lontano da sguardi indiscreti. Troviamo qui ulteriore conferma della tendenza a considerare l’allattamento al seno come un’azione che trova la sua sede più opportuna all’interno delle mura domestiche. Pur non avendo testimonianze dirette di credenze di questo tipo nel mondo antico, a parte un passo di Plinio (Storia naturale XXVIII, 7, 39) in cui allude all’usanza di sputare per tre volte a terra per difendere il bambino dal malocchio, quest’ultima è una pratica talmente diffusa in epoche e luoghi straordinariamente diversi, da poter indurci a pensare che qualcosa del genere con verosimiglianza esistesse anche nella Grecia antica. Oltre a ciò, anche se nelle fonti non abbiamo testimonianze esplicite di un’associazione fra latte e malocchio, proprio in riferimento all’episodio che vede di fronte Clitemnestra e Oreste è stato osservato che l’esposizione del seno (un seno finto, dato che l’attore era maschio: un dettaglio su cui si solito non viene spontaneo riflettere!) sul palcoscenico poteva facilmente evocare l’idea del malocchio, a causa dell’associazione assai diffusa fra capezzolo e occhio e del potere di infliggere il male semplicemente fissando qualcuno. Che l’invidia, sentimento alla base del malocchio, passi attraverso la vista di qualcosa di desiderato, ma non posseduto, va da sé ed è reso ancora più evidente dall’etimologia stessa della parola, che contiene video al suo interno93.
Conclusioni
Dall’insieme delle fonti analizzate, che spaziano da quelle mediche a quelle letterarie, da cui emerge che le donne greche tendenzialmente allattavano, possiamo in primo luogo notare che il disagio di fronte alla donna che allatta può essere spiegato soprattutto in relazione con la teoria dell’emogenesi del latte umano. Non dimentichiamo, infatti, che il latte materno nel mondo greco e anche romano era considerato sangue mestruale cotto e che questa credenza potrebbe essere stata una delle principali cause del comprensibile disagio di fronte alla visione di bambini allattati al seno (disagio che, per quanto concerne l’arte, si traduce soprattutto nell’assenza di questo soggetto dal repertorio artistico “tradizionale”). Secondariamente abbiamo osservato che l’esposizione del seno, in contesti non erotici, evoca sentimenti da connettere principalmente con il concetto di αἰδώς94. A questo si aggiunge verosimilmente la paura che il mostrare pubblicamente il bambino allattato al seno potesse suscitare l’invidia di chi non aveva figli o non aveva latte per nutrirli, con la possibile conseguenza di pratiche come il malocchio ai danni sia del piccolo che della madre.
Gesto che crea imbarazzo, estremamente privato e “femminile”, nonché ai confini con l’animalesco, spesso relegato nel mito a figure marginali e per certi versi selvatiche, l’allattamento al seno è stato ed è ancora un argomento straordinariamente controverso.