Il rapporto tra potere, genere ed eros nella poesia latina è stato indagato in ambiti specifici, come l’elegia d’amore e la tragedia senecana, ma uno sguardo più ampio su una questione così complessa nella cultura romana manca ancora1: non c’è un equivalente, nei nostri studi, della vivace discussione su Eros e discorso politico in Grecia2 – il che non sorprende, visto che non c’è un analogo della teoria erotica di Platone o della relazione omosessuale maschile come fondante per la polis –, mentre un’indagine sulle interconnessioni tra emozioni o affetti, ruoli di genere e politica è ancora da impostare3. Vorrei proporre qui alcune osservazioni e riflessioni iniziali su questo tema in Ovidio e in Stazio, concentrandomi su testi epici ed elegiaci. Oggetto del mio contributo sarà il linguaggio della politica o del potere, il suo uso in relazione al genere e il suo rapporto con idee, linguaggio ed immagini, e codificazioni letterarie dell’amore; intendo qui ‘amore’ nel senso più ampio, che va dal casto affetto familiare, alla passione sublimata, al desiderio perverso. Una retorica dell’amore e della politica agisce in questi testi, ma la retorica spesso presuppone la teoria, che si tratti dell’ombra della teorizzazione platonica, mediata da modelli letterari greci, o della filosofia stoica delle emozioni impressa nel pensiero politico romano. Analizzerò, in primo luogo, una declinazione al femminile del linguaggio dell’ambizione politica nelle Epistulae ex Ponto di Ovidio, nella Consolatio ad Helviam matrem di Seneca e nella Tebaide di Stazio (il modello di una donna ambiziosa pro – a favore di – un uomo amato); in secondo luogo, l’amore del potere attribuito alla dea dell’amore nella rappresentazione ovidiana di una Venere imperialista nelle Metamorfosi; infine, la matrice elegiaca del desiderio maschile di potere come desiderio erotico nella Tebaide, dove il ritratto platonico del tiranno come schiavo si trasforma nel servitium amoris del tiranno.
1. Genere e linguaggio politico: l’‘ambizione’ al femminile
Ex Ponto 3, 1 è la più lunga delle elegie dall’esilio di Ovidio (a parte Tristia 2) e l’ultima indirizzata alla moglie4. I trenta versi di apertura, un inno rovesciato alla terra del Ponto (Pontica tellus, v. 7), descrivono una situazione sempre più disperata; in tono amaro, quindi, il poeta rimprovera la moglie perché finora non ha ottenuto per lui un luogo d’esilio migliore: non igitur mirum, finem quaerentibus horum / altera si nobis usque rogatur humus. / te magis est mirum non hoc evincere, coniunx, / inque meis lacrimas posse tenere malis (“Non è pertanto strano se, cercando per tutto questo una fine, continuo sempre a chiedere un’altra terra. È invece più strano che tu, sposa mia, non raggiunga l’obiettivo e che nei miei mali tu possa trattenere le lacrime”, Pont. 3, 1, 29-32)5.
Attraverso una persuasione attentamente graduata, nei successivi centotrentaquattro versi l’esule invita la moglie a un’impresa a suo favore. Inizia esortandola a “darsi da fare notte e giorno” per lui, a superare l’aiuto dei suoi amici e a “eseguire la sua parte” primaria (vv. 39-42); le ricorda il grande ruolo che le sue poesie le hanno assegnato, come exemplum di una buona moglie, e la ammonisce a non venir meno ad esso (magna tibi imposita est nostris persona libellis: / coniugis exemplum diceris esse bonae. / hanc cave degeneres, “I miei libri ti hanno reso un grande personaggio: vi si dice che tu sei un modello di buona moglie. Bada a non risultarvi inferiore”, vv. 43-45). La sorte lo “ha esposto agli occhi di tutti” e gli “ha dato maggiore notorietà di prima” (come a Capaneo, Ulisse, Filottete), e la sua poesia, a sua volta, “fa avere” a lei “un nome non inferiore a quello di Bittide di Coo”, la donna cantata da Filita (vv. 49-58). Quidquid ages igitur, scaena spectabere magna, / et pia non parvis testibus uxor eris [...] quarum tu praesta ne livor dicere possit: / «haec est pro miseri lenta salute viri», “Qualunque cosa pertanto farai, sarai vista su una grande scena, e testimoni non da poco ti diranno moglie devota [...]. Tu fa’ sì che la loro invidia non possa dire: «Costei è indolente per la salvezza dell’infelice marito»” (vv. 59-60; 65-66).
Come fa con amici e patroni in tutta la raccolta, qui Ovidio ricorda alla moglie i suoi doveri sociali, chiamandola ad un aiuto attivo in un tono ufficiale: le chiede di portare da sola un giogo malcerto e di soccorrere un uomo malato (vv. 67-72), come lui stesso farebbe per lei. Questo è richiesto dal loro “amore coniugale” e dal “patto nuziale”, dai suoi stessi mores, e dalla casa nella quale è annoverata, quella di Fabio Massimo: la moglie di Fabio, Marcia (una figlia di Azia, la zia di Augusto) è sua patrona, e questo rapporto deve essere dimostrato dalla moglie del poeta, non solo con gli officia, ma anche con la probitas (hoc domui debes, de qua censeris, ut illam / non magis officiis quam probitate colas. / cuncta licet facias, nisi eris laudabilis uxor, / non poterit credi Marcia culta tibi, “Questo lo devi alla casa, nella quale tu sei annoverata, per coltivarla con la rettitudine non meno che con i servigi. Fa’ pure di tutto, ma se non sarai una moglie degna di lode, non si potrà credere che Marcia sia da te onorata”, vv. 75-78). La moglie di Ovidio è, davvero, una laudabilis uxor: gli elogi del suo sposo la proteggono dal rumor. E tuttavia, da lei si attende ora un’impresa ulteriore6.
Il verso 83 segna una frattura e introduce una richiesta, formulata inizialmente in termini generali:
sed tamen hoc factis adiunge prioribus unum,
pro nostris ut sis ambitiosa malis.
(Pont. 3, 1, 83-84)
Ma tuttavia aggiungi quest’unico gesto a ciò che hai già fatto: sii insistente per alleviare i miei mali.
Non tutte le traduzioni esplicitano la valenza specifica di ambitiosa7. In questo punto di svolta dell’epistola, il poeta incarica la moglie di un’azione propriamente politica, da rappresentare sulla scena pubblica: essa deve ottenere consenso, procurare favore, o addirittura brigare per lui, come si andrebbe in giro per sollecitare voti o opinioni, per raccomandare – in una parola, per fare propaganda8. Quella che viene richiesta alla moglie dell’esule è una mediazione politica: l’equivalente femminile della mediazione con l’imperatore richiesta a Fabio Massimo in Ex Ponto 1, 2. Nella nostra lettera, tuttavia, bisogna arrivare molto avanti a leggere prima che Ovidio riveli gradualmente come l’impresa sia niente meno che supplicare la moglie dell’imperatore. Questa missione diplomatica affidata a una donna è così eccezionale, il suo obiettivo così alto, che è necessaria una preparazione meticolosa: il marito deve motivare, incoraggiare e istruire accuratamente la moglie. In precedenza, nella poesia dell’esilio, una simile impresa era stata prefigurata due volte. La prima parte di Tristia 5, 2, senza nominarla, rimprovera probabilmente la stessa moglie per non aver osato l’azione a lei richiesta, accostarsi al dio Cesare e pregarlo (accede rogaque, trist. 5, 2, 37), per cui il poeta si rivolge direttamente a lui nella seconda parte dell’elegia; e ancora, alla fine di Ex Ponto 1, 2, l’immagine della moglie di Ovidio in preghiera agli altari della casa di Fabio Massimo, così che le preghiere della famiglia di lui possano a loro volta placare Cesare, è un preludio al suo approccio diretto alla casa imperiale nella nostra epistola9.
Che in Ex Ponto 3, 1 sia in gioco un impegno ‘politico’ è confermato dal lessico dei versi successivi, dove labora, officii... tui, roganti, e specialmente repulsa, ribadiscono l’immagine di un’impresa politica. Repulsa significa in primo luogo “insuccesso elettorale” (“Failure to secure office, electoral defeat”, OLD s.v. 1)10; a Roma questa è solitamente una fonte di ignominia e di stigma sociale, che, tuttavia, sono qui risparmiati a chi fa una campagna a favore di qualcun altro:
ut minus infesta iaceam regione, labora,
clauda nec officii pars erit ulla tui.
magna peto, sed non tamen invidiosa roganti,
utque ea non teneas tuta repulsa tua est.
(Pont. 3, 1, 85-88)
Impegnati perché io mi trovi in un paese meno ostile e nessuna parte dei tuoi doveri sarà monca. Ti domando qualcosa di grande, ma non ti viene discredito a chiederlo, e anche se non lo ottieni, il rifiuto non ti arreca danno11.
Segue il motivo topico secondo cui l’ammonimento del poeta è in realtà un riconoscimento di ciò che il destinatario già fa (il motivo del ‘currentem incitare’, “incitare chi corre”); qui, tuttavia, la scelta degli exempla militari ha una rilevanza speciale:
nec mihi suscense, totiens si carmine nostro,
quod facis, ut facias teque imitere, rogo.
fortibus adsuevit tubicen prodesse, suoque
dux bene pugnantis incitat ore viros.
(Pont. 3, 1, 89-92)
E non adirarti con me se tante volte nei miei carmi ti chiedo di fare ciò che fai e di imitare te stessa. Il trombettiere di solito giova ai valorosi e il comandante con le sue parole incita i bravi guerrieri.
Collocando il termine viros alla fine del v. 92, Ovidio prende lo slancio per incitare la moglie a dar prova di una virtus maschile, in aggiunta alla sua nota probitas (qualità tradizionale di una donna, e di una moglie)12:
nota tua est probitas testataque tempus in omne:
sit virtus etiam non probitate minor.
(Pont. 3, 1, 93-94)
La tua rettitudine è nota e sperimentata per tutto il tempo a venire: sia anche il tuo ardimento non inferiore alla rettitudine.
La connotazione di virtus, qui, è così distintamente maschile e guerriera che occorre un’avvertenza: il poeta assicura alla moglie che non dovrà prendere le armi come un’Amazzone; e, proprio a questo punto, inizia a spiegare che il suo compito sarà implorare una divinità, perché la sua ira contro di lui possa essere mitigata:
nec tibi Amazonia est pro me sumenda securis
aut excisa levi pelta gerenda manu.
numen adorandum est, non ut mihi fiat amicum,
sed sit ut iratum, quam fuit ante, minus.
(Pont. 3, 1, 95-98)
Ma per me tu non devi brandire la scure delle Amazzoni e non devi portare con il braccio agile la pelta a mezzaluna. Devi adorare il nume, non perché mi divenga amico, ma perché sia meno irato di quanto non sia stato finora.
Non è neppure necessario che la moglie metta a rischio la propria vita per lui, o osi un inganno: in questo, essa è molto lontana dalle più coraggiose tra le eroine mitiche della fedeltà maritale, a cui egli l’ha spesso paragonata (Alcesti, Laodamia, o l’ingannatrice Penelope):
si mea mors redimenda tua (quod abominor) esset,
[...]
morte nihil opus est, nihil Icariotide tela:
Caesaris est coniunx ore precanda tuo...
(Pont. 3, 1, 105; 113-114)
Se tu dovessi riscattare la mia morte con la tua (non voglio pensarlo) [...]. Non c’è bisogno della morte, non c’è bisogno della tela della figlia di Icario: devi pregare con le tue labbra la sposa di Cesare...
L’azione coraggiosa che Ovidio chiede alla moglie, dunque, pertiene a una sfera maschile che non è la guerra, né un virile sprezzo della morte, ma la politica: un’iniziativa politica audace, da parte di una donna, in un contesto imperiale. Il ruolo di spicco assegnato alla moglie dell’esule corrisponde allo status straordinario della consorte dell’imperatore, Livia, la cui autorità morale, statura pubblica e influenza politica sono messi in rilievo nell’ultima parte dell’epistola13. Di fatto, l’accresciuta visibilità conferita alla moglie di Ovidio dalla disgrazia del marito, e lo status esemplare che le è garantito dalla sua poesia, sono paralleli alla prominenza eccezionale riconosciuta a Livia nella cultura visuale e nel discorso politico augusteo, ed eguagliano la sua metaforica esposizione allo sguardo di molti, esaltata dalla Consolatio ad Liviam14. Il forte impulso all’apparire delle matrone sulla scena pubblica, determinato dal ruolo di Livia come first lady, e documentato dalle testimonianze storiche, ha una conseguenza letteraria inattesa in questa celebrazione poetica della consorte esemplare di un esiliato.
Nell’impartire alla moglie precetti minuti su come condurre l’approccio all’imperatrice, Ovidio riconverte la sua Ars amatoria (come è noto) in un manuale di cerimoniale cortigiano, e svela così, a posteriori, il retroterra culturale della sua precedente poesia di corteggiamento: la didascalica sociale del De officiis, del De amicitia e di altre opere di Cicerone, o l’arte di trattare con i ‘grandi’ delineata nelle Epistole di Orazio15. Il poeta esiliato aveva già applicato quei precetti nel suo appello ad Augusto in Tristia 2. La lezione di etichetta politica è ora mirata a una destinataria femminile, che osa appellarsi alla metà femminile dell’imperatore, una femina princeps (v. 125). In contrasto con la missione assegnata all’avvocato Fabio Massimo in Ex Ponto 1, 2, qui la “cattiva causa” di Ovidio “va taciuta”, le parole devono essere sostituite dalle lacrime, e i gesti della donna sono quelli di una supplice: la sua unica richiesta sarà una preghiera, perché il marito sia allontanato da nemici crudeli (vv. 145-158)16.
L’incarico politico assegnato alla moglie di Ovidio, dunque, non si distingue da un atto religioso compiuto nella divina casa imperiale, come è reso evidente dall’uso insistito di immagini e linguaggio sacrali. Non solo la donna deve affrontare direttamente la maiestas della dea (vultum Iunonis adire, “accostarti al volto di Giunone”, v. 145; cf. 155-156 sentiet illa / te maiestatem pertimuisse suam, “lei avvertirà che davanti alla sua maestà tu hai provato timore”), ma è invitata a rivolgere prima una preghiera agli dèi – innanzi tutto, per paradosso, Augustum numen... progeniemque piam participemque tori (“il nume di Augusto, il suo devoto figlio e la compagna del suo talamo”): Augusto, Tiberio, e Livia stessa, che va adorata all’altare prima ancora che di persona. Persino la raccomandazione di scegliere un giorno e un’ora opportuna, e specialmente di osservare un auspicio favorevole (auspiciumque favens: il sostantivo solo qui nelle Ex Ponto), suggerisce un’impresa ufficiale, che deve essere preceduta da una cerimonia sacra; e può non essere un caso che la matrice verbale del v. 161 sed prius imposito sacris altaribus igni sia molto simile a Pont. 2, 1, 32 tura prius sanctis imposuisse focis, una descrizione dei preparativi di Tiberio per il suo trionfo17:
lux etiam coepto facito bona talibus adsit
horaque conveniens auspiciumque favens.
sed prius imposito sanctis altaribus igni
tura fer ad magnos vinaque pura deos,
e quibus ante omnis Augustum numen adora
progeniemque piam participemque tori.
sint utinam mites solito tibi more, tuasque
non duris lacrimas vultibus aspiciant.
(Pont. 3, 1, 159-166)
Guarda ora che per una simile impresa ci sia un giorno buono, un’ora adatta e un auspicio propizio. Ma prima accendi il fuoco sui santi altari e offri incenso e vino puro ai grandi dei: di essi in primo luogo adora il nume di Augusto, il suo devoto figlio e la compagna del suo talamo. Possano essere clementi con te secondo il loro solito e guardare le tue lacrime con un volto privo di severità.
Torniamo, infine, al punto da cui siamo partiti: sed tamen hoc factis adiunge prioribus unum, / pro nostris ut sis ambitiosa malis (vv. 83-84 citt.). Ai suoi precedenti facta, la moglie di Ovidio deve ora aggiungere un’azione politica, mostrandosi ambitiosa “a favore” del marito. Ambire, ambitio, ambitiosus, e naturalmente ambitus, di rado sono termini neutrali in latino18; una sfumatura negativa spesso li connota – e questo è quasi invariabilmente il caso quando si tratta dell’ambizione di una donna. Non c’è quasi bisogno di ricordare l’atteggiamento di Tacito verso le donne che usurpano il potere maschile, come Agrippina Maggiore e Agrippina Minore, o la stessa Livia: è un tema ben studiato19. Quanto al lessico dell’ambizione, l’avverbio ambitiose è riferito ad Agrippina Maggiore “in the opaque mutterings of Tiberius, who appreciates the redundancy of an imperator when a woman takes charge of the army”20 (ann. 1, 69, 4 nihil relictum imperatoribus, ubi femina manipulos intervisat, signa adeat, largitionem temptet, tamquam parum ambitiose filium ducis gregali habitu circumferat Caesaremque Caligulam appellari velit. potiorem iam apud exercitus Agrippinam quam legatos, quam duces; conpressam a muliere seditionem, cui nomen principis obsistere non quiverit)21; l’aggettivo ambitiosus qualifica l’intero genere femminile nel discorso di Severo Cecina in Senato, contro le donne che accompagnano i mariti nelle province (ann. 3, 33, 3 non imbecillum tantum et imparem laboribus sexum, sed, si licentia adsit, saevum, ambitiosum, potestatis avidum; incedere inter milites, habere ad manum centuriones; praesedisse nuper feminam exercitio cohortium, decursu legionum)22; e ambitus descrive la competizione delle donne per il titolo di consorte imperiale di Claudio, dopo l’uccisione di Messalina (ann. 12, 1, 1 nec minore ambitu feminae exarserant: suam quaeque nobilitatem formam opes contendere ac digna tanto matrimonio ostentare)23.
C’è, tuttavia, un’eccezione significativa a questa caratterizzazione, quasi standard, da parte di scrittori (e personaggi) maschili. La coloritura negativa dell’“ambizione” femminile si muta nel suo opposto – un segno di distinzione – quando una donna si dimostra ambitiosa non per se stessa, ma ‘unicamente’ per un maschio della famiglia, che si tratti di un consanguineo o del congiunto più stretto: il figlio, o, come qui, il marito.
Nella Consolatio ad Helviam matrem, Seneca definisce nitidamente due paradigmi di donne “ambiziose” tra loro antitetici; al §14, dopo aver elogiato il ritegno altruistico di sua madre verso le risorse, le cariche e l’influenza politica dei figli, accusa la muliebris impotentia di quelle madri che sfruttano la potentia dei loro figli, e “visto che alle donne non è permesso rivestire cariche, ripongono in loro le proprie ambizioni”, per illos [sc. liberos] ambitiosae sunt24:
viderint ille matres quae potentiam liberorum muliebri inpotentia exercent, quae, quia feminis honores non licet gerere, per illos ambitiosae sunt, quae patrimonia filiorum et exhauriunt et captant, quae eloquentiam commodando aliis fatigant: [3] tu liberorum tuorum bonis plurimum gavisa es, minimum usa; tu liberalitati nostrae semper inposuisti modum, cum tuae non inponeres; tu filia familiae locupletibus filiis ultro contulisti; tu patrimonia nostra sic administrasti ut tamquam in tuis laborares, tamquam alienis abstineres; tu gratiae nostrae, tamquam alienis rebus utereris, pepercisti, et ex honoribus nostris nihil ad te nisi voluptas et inpensa pertinuit. numquam indulgentia ad utilitatem respexit; non potes itaque ea in erepto filio desiderare quae in incolumi numquam ad te pertinere duxisti.
(Sen. cons.Helv. 14, 2-3)
Se la vedano quelle madri le quali, con l’incapacità di controllo tipica delle donne, adoperano il potere di cui i figli sono detentori; le quali, visto che alle donne non è permesso rivestire cariche, ripongono in loro le proprie ambizioni; le quali prosciugano e cercano di accaparrarsi i patrimoni dei figli; le quali ne logorano l’eloquenza a furia di metterla a disposizione di altri: [3] tu, diversamente, dei successi dei tuoi figli ti sei rallegrata moltissimo, ma te ne sei avvalsa pochissimo; tu hai sempre messo un freno alla nostra generosità, mentre non lo mettevi alla tua, tu, per quanto figlia di famiglia, hai voluto fare donazioni a dei figli benestanti; tu hai amministrato i nostri patrimoni in modo tale da impegnarti come se fossero tuoi e da astenertene come fossero di altri; tu hai evitato di approfittare del nostro prestigio, come se per te si trattasse di usare beni altrui, e delle nostre cariche non ti ha riguardato altro se non la soddisfazione e le spese. Il tuo affetto non ha mai tenuto in considerazione l’interesse; non è dunque possibile che tu rimpianga, nel figlio che ti è stato strappato, quello che in lui, quando ancora non aveva subito alcun danno, non hai mai ritenuto che ti riguardasse.
[Trad. di A. Cotrozzi]
Questo prototipo di matres ambitiosae per liberos, “per mezzo dei loro figli”, è messo in contrasto, più avanti nel testo (§ 19), con l’exemplum della zia materna di Seneca, che è stata per lui una madre surrogata; per indulgentia (“benvolere”, affetto familiare), essa ha vinto il suo ritegno femminile ed è divenuta addirittura capace di brigare “per” lui, pro me etiam ambitiosa – il pro, opposto al per, fa la differenza:
maximum adhuc solacium tuum tacueram, sororem tuam, illud fidelissimum tibi pectus, in quod omnes curae tuae pro indiviso transferuntur, illum animum nobis maternum. cum hac tu lacrimas tuas miscuisti, in huius primum respirasti sinu. [2] illa quidem adfectus tuos semper sequitur; in mea tamen persona non tantum pro te dolet. illius manibus in urbem perlatus sum, illius pio maternoque nutricio per longum tempus aeger convalui; illa pro questura mea gratiam suam extendit et, quae ne sermonis quidem aut clarae salutationis sustinuit audaciam, pro me vicit indulgentia verecundiam. nihil illi seductum vitae genus, nihil modestia in tanta feminarum petulantia rustica, nihil quies, nihil secreti et ad otium repositi mores obstiterunt quominus pro me etiam ambitiosa fieret.
(Sen. cons.Helv. 19, 1-2)
Non avevo fatto parola, fino a questo momento, di quella che è per te la più grande fonte di conforto, tua sorella, quel cuore a te fedelissimo, in cui si riversano tutte le tue pene come se foste una sola persona, quell’animo materno verso noi tutti. È con lei che hai mescolato le tue lacrime, stretta al seno di lei hai cominciato a riaverti. [2] Lei, è vero, condivide sempre quello che provi: ma, per quanto riguarda la mia persona, non soffre solo per te. In braccio a lei sono stato portato a Roma; grazie alle sue cure affettuose e materne, malato per lungo tempo, mi rimisi in salute; fu lei, per farmi ottenere la carica di questore, ad adoperare al massimo il credito di cui godeva; e questa donna, che non trovava l’ardire per conversare o salutare a voce alta, per me, a causa del bene che mi voleva, vinse la timidezza. Né il suo modo di vivere appartato, né la sua riservatezza, che in mezzo a tanta sfacciataggine femminile risultava scontrosa, né il suo desiderio di pace, né il suo carattere schivo e portato alla vita tranquilla le furono in alcun modo d’ostacolo impedendole di diventare addirittura capace di brigare per me.
I meriti di questa donna non finiscono qui. Nella sua posizione di moglie del praefectus Aegypti, la zia di Seneca ha mostrato una lodevole mancanza di ambitio, oltre che di avaritia. Lei stessa, quando il marito morì durante un naufragio, vinse dolore e paura e mise a rischio la propria vita, per portare il cadavere a riva e dargli sepoltura25:
haec non ideo refero ut laudes eius exequar, quas circumscribere est tam parce transcurrere, sed ut intellegas magni animi esse feminam quam non ambitio, non avaritia, comites omnis potentiae et pestes, vicerunt, non metus mortis iam exarmata nave naufragium suum spectantem deterruit quominus exanimi viro haerens non quaereret quemadmodum inde exiret sed quemadmodum efferret. huic parem virtutem exhibeas oportet et animum a luctu recipias et id agas ne quis te putet partus tui paenitere.
(Sen. cons.Helv. 19, 7)
Non riferisco queste cose allo scopo di passare in rassegna i suoi meriti, che sfiorare con così brevi accenni equivale a sminuire, ma perché tu comprenda che è di animo grande una donna su cui né l’ambizione né l’avidità, compagne e flagelli di ogni posizione di potere, ebbero la meglio, e che la paura della morte – quando, con la nave ormai rimasta priva delle attrezzature, aveva davanti agli occhi il proprio naufragio – non distolse dal rimanere attaccata al marito senza vita, e dal cercare non come scampare lei al naufragio, ma come portarne fuori il marito per seppellirlo. Bisogna che tu dia prova di un coraggio pari a quello di lei, riprendendoti dal tuo cordoglio e comportandoti in modo da non far pensare a qualcuno che ti rammarichi di aver partorito tuo figlio.
Per questa altruistica prova di coraggio (virtutem), la sorella di Elvia è commemorata da Seneca in un paragrafo enfatico e autocosciente, dove il paradigma mitico di Alcesti è evocato solo per essere superato26:
o quam multarum egregia opera in obscuro iacent! si huic illa simplex admirandis virtutibus contigisset antiquitas, quanto ingeniorum certamine celebraretur uxor quae oblita inbecillitatis, oblita metuendi etiam firmissimis maris, caput suum periculis pro sepultura obiecit et, dum cogitat de viri funere, nihil de suo timuit! nobilitatur carminibus omnium quae se pro coniuge vicariam dedit: hoc amplius est, discrimine vitae sepulcrum viro quaerere; maior est amor qui pari periculo minus redimit.
(Sen. cons.Helv. 19, 5)
Di quante donne gli straordinari eroismi giacciono nel buio dell’ignoto! Se a questa donna fosse toccato di vivere nei tempi antichi, spontaneamente inclini ad ammirare le virtù, da che gara di talenti poetici sarebbe stata celebrata una moglie che, dimentica della propria debolezza, dimentica del mare che fa paura anche ai più determinati, mise a rischio la propria vita per dare sepoltura a un morto e, mentre pensava al funerale del marito, non ebbe timori riguardo al proprio!
È celebrata nei versi di tutti l’eroina che, per salvare il marito, diede in cambio se stessa: ma questo, volere un sepolcro per il marito a costo di mettere a repentaglio la propria vita, è di più; è più grande l’amore che a parità di rischio ottiene in cambio di meno.
In privato come in pubblico, dunque, a favore della carriera politica del nipote-quasi-figlio, o della sepoltura del marito, la zia di Seneca ha dimostrato eccezionalmente una ambitio e una virtus maschili del tutto appropriate, trasgredendo il proprio ritegno femminile a vantaggio di un maschio. Lei che “durante i sedici anni in cui il marito governò l’Egitto […] non fu mai vista in pubblico”, e neppure fu mai oggetto di conversazione27, ottiene ora fama letteraria per mezzo del nipote che ha beneficato: per aver salvato il cadavere del marito, e per aver promosso la carriera politica di un ‘figlio’28.
Torniamo a Ovidio. L’“ambizioso” ruolo femminile delineato dal poeta in Ex Ponto 3, 1 (pro nostris ut sis ambitiosa malis, v. 84) non era destinato ad avere successo, o addirittura ad essere intrapreso. La moglie può non essere stata, infine, all’altezza del compito. Il suo fallimento è in parte responsabile della totale disillusione espressa in Ex Ponto 3, 7, 9-12 quod bene de vobis speravi, ignoscite, amici, / talia peccandi iam mihi finis erit. / nec gravis uxori dicar, quae scilicet in me, / quam proba, tam timida est experiensque parum (“Perdonatemi, amici, per aver riposto in voi le mie speranze: ormai ho finito di commettere simili errori. E non si dica che sono un peso per mia moglie, che quanto è onesta verso di me, tanto è timorosa e poco capace”).
Per trovare un altro, più eclatante, e questa volta efficace, esempio di ambitio in una donna, a favore di un uomo, dobbiamo guardare al mondo del mito, e alle altezze dell’epos. Il sublime mitologico dell’epica flavia, modellato sulle tragedie di Seneca, è un terreno favorevole a iperboli come questa. Nel dodicesimo libro della Tebaide, la moglie di Polinice, Argia, e la sorella di lui, Antigone, danno sepoltura al cadavere dell’eroe, sfidando il divieto di Creonte. Di fronte al tiranno, rivendicano la responsabilità dell’azione, e competono per il castigo come se fosse un onore. Per cogliere il paradosso della situazione, Stazio conia un’espressione audace: ambitur saeva de morte (12, 456), “aspiravano a una fine crudele” [trad. L. Micozzi]. L’invenzione linguistica, per una gara il cui premio è la morte, anticipa il nesso ambitiosa mors, la celebre definizione polemica data da Tacito del suicidio stoico, come gesto ostentato e politicamente sterile29. La ribellione al regime tirannico è in effetti un ruolo tradizionale per le donne in politica, fin dal teatro attico, ed è una fonte di fama per donne esemplari della tradizione romana, da Lucrezia alle “martiri della libertà repubblicana”30.
Sulla scena della Tebaide, le due donne agiscono come competitori politici, in nome dell’amore rispettivamente per il fratello e per il marito – in nome di pietas e amor31:
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L’eccezionale comparsa di una donna sulla scena pubblica e politica è un successo, quando l’amore per un uomo giustifica l’eccezione. In quel caso, la rottura delle norme sociali è legittimata dall’affetto familiare, o dall’amore coniugale. La variante di questo ruolo femminile che si può definire “La moglie eroica dell’eroe sventurato” ha avuto una lunga fortuna nella cultura occidentale. Nella chiusa del Fidelio di Beethoven, Leonore si spoglia degli abiti maschili e rivela la sua identità, mentre si lascia cadere sul marito Florestano per proteggerlo col suo corpo, pistola in pugno; persino Pizarro, governatore della prigione di Stato, è ammirato di fronte al coraggio inaudito della donna, che stava fronteggiando come fosse un uomo; e il Singspiel termina con le lodi de “L’amore alleato al coraggio” (Liebe... im Bunde / mit Mute) e di Leonore “la gloria delle donne” (der Frauen Zierde), “la donna che ha salvato lo sposo” (Retterin des Gatten).
Le parole della stessa Leonore, nella Scena Quinta del Secondo Atto, suonano come un commento a un’intera tradizione letteraria di donne rese coraggiose dall’amore coniugale32:
Nichts, mein Florestan!
Meine Seele war mit dir:
wie hätte der Körper sich nicht stark gefühlt,
indem er für sein besseres Selbst stritt?
(L. van Beethoven, Fidelio, libretto di J. F.
Sonnleithner e G. F. Treitschke)
Nulla, mio Florestano!
La mia anima era con te:
poteva il corpo non sentirsi forte
a lottare per la parte migliore di sé?
[Trad. di O. Cescatti]
Per una gran parte della cultura antica e moderna, questo è ciò che permette a una donna di oltrepassare il confine di genere: l’amore per un uomo la rende pari alla metà migliore di se stessa33.
2. Impero dell’amore, amore dell’impero: l’imperialismo di Venere e Amore
Lo spazio del mito permette di esplorare l’ambizione femminile anche proiettandola nel mondo immaginato dei rapporti di potere tra gli dèi, e tra dèi e uomini: una rappresentazione favolosa che può assumere i tratti di una riflessione sui ruoli di genere e sulla storia contemporanea. In nessun luogo della letteratura latina la natura erotica della brama di potere è espressa con più efficacia che nel ritratto ovidiano di una Venere ‘imperialista’ nel quinto libro delle Metamorfosi. In una fase iniziale della storia del mondo, la prima comparsa della dea dell’amore è una climax narrativa agli amori degli dèi, che hanno spinto il poema nella prima pentade con la forza del desiderio erotico34. La pulsione sessuale delle supreme divinità maschili, detentrici del potere sui tre regni dell’universo, viene ricondotta qui al potere supremo – davvero universale – rivendicato dalla dea del desiderio35. Nell’epos di Ovidio, Venere rappresenta una “femminilizzazione della grande politica”36, e impersona il nesso profondo tra eros e potere – quasi un simbolo dell’identità tra il desiderio, erotico o politico, di conquista e di possesso37.
Prima di soffermarci su quel passo, leggiamo un po’ più avanti. Verso la fine dell’ultima pentade, dove il mito si muta nella storia di Roma, Venere riapparirà nel suo ruolo nazionale di Aeneadum genetrix, o meglio, di Aeneae genetrix (met. 15, 762; cf. 14, 605 genetrix), con una personalizzazione significativa del suo patronato, ristretto dal popolo romano a una gens e ai suoi individui d’eccezione: il figlio Enea, il suo discendente Cesare, e il figlio adottivo di quest’ultimo, Ottaviano Augusto. Alla fine delle Metamorfosi, in un Olimpo stilizzato come il Senato di Roma, con Giove come princeps, Venere replica il suo ruolo di supplice a favore della sua discendenza: reclama la divinizzazione di Enea, che il padre Giove le aveva profetizzato nel primo libro dell’Eneide38. Ovidio aggiorna la scena al suo epos post-virgiliano, accentuandone la connotazione politica, e fa di Venere una madre ‘ambitiosa pro’, “intrigante in favore di”, suo figlio39:
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Una volta che il potere di suo nipote Iulo si è consolidato, Venere chiede agli dèi, e a suo padre, di rendere Enea un dio. Al verso 585, ambieratque Venus superos, Philip Hardie commenta: “Ambio, «fare propaganda politica», parla la lingua della vita politica di Roma”40. Si può aggiungere che anche la richiesta della dea al padre di mostrarsi mitissimus (v. 587) è connotata politicamente: proietta sul re degli dèi la clementia attesa dall’imperatore romano, ‘padre’ metaforico del suo popolo, ed equivalente di Giove in terra.
Un libro più avanti, tocca a Giulio Cesare essere divinizzato, così che suo figlio Ottaviano Augusto possa essere figlio di un dio. Venere è di nuovo attiva sulla scena politica, fin dalle prime avvisaglie della congiura – e, se non può mutare il fato, fa di tutto per sfruttarlo a favore della sua discendenza. Come nota Feeney, “her concern manifests itself in ‘canvassing’ (ambitus is what she is up to at 15.764, just as at the apotheosis of Aeneas, 14.585)”; così anche Hardie: “Venere fa una campagna elettorale per trovare aiuto; cf. la scena parallela a XIV 585-6...”41. Ecco il passo:
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In una continuazione dell’Eneide, Venere appare ora inserita in una struttura di potere divina che garantisce – e allo stesso tempo riflette – la struttura dell’impero romano. Per il “suo” Enea, e i discendenti, è venuto il tempo di vedere compiute le profezie di Virgilio, e di ricevere un culto di stato ufficiale, sotto il patronato di Venus Genetrix. Le Metamorfosi mostrano così finalmente realizzata la politica di potere della Venere virgiliana – quasi anticipando il ruolo storico delle madri nella successione imperiale, e con un cenno al potere delle donne nelle monarchie ellenistiche42.
C’è, tuttavia, un altro senso – più irriverente – in cui il poema di Ovidio commenta il ruolo politico giocato da Venere nell’Eneide. Molto è stato detto sulla scena del quinto libro in cui la dea chiede al figlio Cupido di far innamorare Plutone di Proserpina43:
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In contrasto col piano di Zeus nell’Inno a Demetra, qui il ratto è attribuito “to the sole agency of Venus and Cupid”, “as the Empress and Commander in Chief of an empire” (Johnson 1996, 125-126)45: la proposta che la dea fa al figlio è di espandere il loro imperium condiviso, conquistando un’altra parte dell’universo (vv. 371-372); questo significa anche sopraffare una potenziale ribelle nel suo regno celeste (vv. 373-377)46.
Questa Venere ri-formula l’appello da lei rivolto ad Amore in Eneide 1, per far innamorare Didone (e garantire a Enea un soggiorno sicuro)47:
‘nate, meae vires, mea magna potentia, solus,
nate, patris summi qui tela Typhoëa temnis,
ad te confugio et supplex tua numina posco.
(Verg. Aen. 1, 664-666)
«Figlio, mia forza, mia grande potenza, tu figlio che solo
non hai paura dei dardi tifèi del padre supremo,
tu mio rifugio, il tuo nume io supplice invoco in aiuto».
[Trad. di A. Fo]
L’allusione virgiliana risulta ancora più pungente, perché Ovidio distorce l’incipit del discorso di Venere nell’incipit dell’Eneide stessa – con arma manusque che riecheggia arma virumque (Verg. Aen. 1, 1): ‘arma manusque meae, mea, nate, potentia’ dixit, / ‘illa, quibus superas omnes, cape tela, Cupido...’ (met. 5, 365-366 cit.). Gli arma di Cupido sostitui-scono qui gli arma dell’altro figlio di Venere, in un incontro provocante fra epica ed elegia, come ha mostrato Stephen Hinds (1987, 133).
La pulsione per il potere, politico o ‘erotico’, ovvero politico per mezzo dell’eros, appare identica. Un effetto così brillante è un commento non privo di irriverenza sull’imperialismo romano, ed è allo stesso tempo una riflessione sulla natura ‘imperialista’ dell’amore. Qui come altrove, Ovidio crea un cortocircuito tra Venere come dea dell’amore e come antenata di Augusto. La città di Enea è ora la città di Venere, si dice nell’Ars amatoria: mater in Aeneae constitit urbe sui (“Venere ha posto la sua sede nella città del figlio Enea”, Ov. ars 1, 60); e, nella città di suo figlio, Venere ora “regna”: at Venus Aeneae regnat in urbe sui (“ma Venere regna nella città del suo Enea”, am. 1, 8, 42). Nell’elegia erotica di Ovidio, la missione virgiliana del figlio di Venere, compiuta con l’aiuto della madre, viene fatta coincidere, provocatoriamente, con l’affermazione su Roma della dea dell’amore. Qui nelle Metamorfosi, come nelle parole della ruffiana Dipsas negli Amores, il telos politico dell’Eneide – l’istituzione del potere di Enea, quindi di Augusto – trova un parallelo nell’istituzione da parte di Venere del proprio potere erotico, che qui viene proiettato su scala mondiale.
Dea imperialista, o meglio, ‘imperialista sessuale’ (come l’ha definita Patricia Johnson), questa Venere vuole che il re dell’Ade si innamori, e che la figlia di Cerere sia vittima del suo rapimento: un dominio tirannico sulla mente e sul corpo dei suoi sudditi. Non dovremmo dimenticare (o forse dovremmo?) che questo non è un ritratto imparziale di Venere: stiamo ascoltando il canto di Calliope, nella gara con le Pieridi, di fronte a una giuria di ninfe – le vittime più frequenti della violenza erotica nel poema – 48; e quel canto viene ora riferito da una Musa a Minerva, la dea vergine, una delle ribelli esplicitamente elencate da Venere49. Ma, appunto, la narrazione polifonica delle Metamorfosi permette a punti di vista molteplici di rivendicare la propria parte di verità.
Di fatto, nell’attribuire agli dèi dell’amore una pulsione imperialistica ed espansionistica, Ovidio sta aggiornando la rappresentazione greca di Eros tyrannos all’età di Augusto: mentre enuncia un piano di conquista degli Inferi, Venere si appropria di uno slogan della propaganda augustea, imperium proferre, come formulato nell’Eneide (met. 5, 371-372 cit. cur non matrisque tuumque / imperium profers?; cf. Verg. Aen. 6, 794-795 super et Garamantas et Indos / proferet imperium, “e al di sopra dei Garamanti e degli Indi / estenderà il suo dominio”)50. C’è ironia in questo ritratto di una genetrix persino più megalomane del suo discendente: e l’estensione davvero cosmica di un impero erotico che si espande fino agli Inferi suona come una caricatura delle pretese ecumeniche dell’Impero Romano51.
Vi è un ulteriore effetto ironico. Ovidio combina le rappresentazioni parallele del potere universale di Eros e di Afrodite, offerte a ritmo alterno dalla tradizione greco-romana52, nell’immagine politica di un socium regnum. O, almeno, questa è la retorica di Venere nel persuadere il figlio; in realtà, qui Venere è la mente, Amore il suo braccio armato. Con uno stacco rispetto al tono espressamente supplichevole della Venere di Virgilio (ad te confugio et supplex tua numina posco, Aen. 1, 666 cit.), questa dea madre lusinga il suo potente figlio al tempo stesso in cui esalta il proprio potere: lo apostrofa con movenze innologiche (vv. 369-370), per poi virare su un tono impaziente e imperioso (vv. 371-372); si associa all’imperium di Amore (matrisque tuumque... imperium... patientia nostra... spernimur... mecum vires... Amoris, vv. 371-374), ma fa della repressione dei ribelli un suo cruccio personale (nonne vides... abscessisse mihi?, vv. 375-376); e insiste sul regno condiviso, mentre sottolinea con affettata modestia il favore di cui gode (pro socio, si qua est mea gratia, regno, v. 378). Così, quando il fanciullo obbedisce con prontezza alla madre (non diversamente che nell’Eneide)53, l’espressione arbitrio matris rivela l’effettivo rapporto di potere tra i due (dixit Venus; ille pharetram / solvit et arbitrio matris de mille sagittis / unam seposuit, vv. 379-381). Come osserva Mairéad McAuley nel suo libro recente sulla rappresentazione della maternità a Roma, “Ovid’s Venus acts unashamedly like the archetypal ‘ambitious mothers’ reviled by Roman moralists like Seneca (Helv. 14.2) and reflected in Tacitus’ portraits of Livia and Agrippina, mothers who use their son’s political career to fulfil their own insatiable thirst for power”54.
Ecco, dunque, un’altra mater ambitiosa per liberum suum, ambiziosa ‘per mezzo di’ suo figlio, in contrapposizione alla Venere ambitiosa pro, ‘per’ la sua prole, che trama a favore della sua dinastia storica alla fine del poema – ma le due sono davvero così distanti fra loro? Come ha mostrato Barchiesi, nel testo di Ovidio “the goddess’ masterplot suggests a reading of the Metamorphoses as ‘from Chaos, to Venus’ takeover of Rome’55.
Le radici di questo intreccio erotico-politico che connota la dea dell’amore affondano in una tradizione letteraria illustre. L’Ippolito di Euripide (non confrontato dai critici ovidiani, per quanto ho potuto vedere) è un presupposto rilevante, credo, per comprendere l’invenzione di Ovidio – anche se non presenta una relazione madre-figlio (là Eros è figlio di Zeus, un caso unico). Le formule del potere universale di Afrodite ed Eros si avvicendano per tutta la tragedia56, ma, a un certo punto, convergono in una sinergia, in cui Eros appare piuttosto subordinato, e viene messa in risalto la preminenza della dea. È così nelle parole del coro verso la fine del dramma:
σὺ τὰν θεῶν ἄκαμπτον φρἐνα καὶ βροτῶν
ἄγεις, Κύπρι, σὺν
δ᾽ὁ ποικιλόπτερος ἀμφιβαλὼν
ὠκυτάτωι πτερῶι·
ποτᾶται δὲ γαῖαν εὐάχητόν
θ᾽ἁλμυρὸν ἐπὶ πόντον
θέλγει δ᾽᾽Ἔρως ὧι μαινομέναι κραδίαι
πτανὸς ἐφορμάσηι χρυσοφαής,
φύσιν ὀρεσκόων σκύμνων πελαγίων
θ᾽ὅσα τε γᾶ τρέφει
τά τ᾽αἰθόμενος ἅλιος δέρκεται
ἄνδρας τε· συμπάντων βασιληίδα τιμάν,
Κύπρι, τῶνδε μόνα κρατύνεις.
(Eur. Hipp. 1268-1281)
Trascini l’animo inflessibile degli dèi e quello degli uomini, Afrodite, e con te Amore dalle ali variopinte, che li avvolge nel volo velocissimo. Vola sulla terra e sul mare sonoro, e incanta i cuori folli assaltandoli in volo con la sua luce dorata – le bestie dei monti e del mare, e tutte quelle che nutre la terra percorsa dal sole cocente, e gli uomini. Su tutti, Afrodite, tu sola eserciti un potere sovrano.
[Trad. G. Paduano]
È così, inoltre, nel famoso primo stasimo, in cui Eros tyrannos è di fatto il braccio militare di Afrodite, lui che scaglia il dardo di lei con le sue mani (βέλος... τὸ τᾶς Ἀφροδίτας ἵησιν ἐκ χερῶν / Ἔρως) – ecco un precedente di ‘arma manusque meae’ (met. 5, 365), la presuntuosa metafora impiegata dalla Venere di Ovidio nel rivolgersi al figlio:
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Nelle parole di Venere, Ovidio usa Euripide contro Virgilio, per declassare Amore da “forza e grande potenza” della madre (Aen. 1, 664 ‘nate, meae vires, mea magna potentia’) a strumento, e dunque emanazione, della sua potenza (met. 5, 365 ‘arma manusque meae, mea, nate, potentia’): con l’avallo di un’autorità letteraria greca in fatto di eros, questa Venere manipola il testo virgiliano e inverte i rapporti di forza tra sé e la sua creatura.
L’Ippolito offre inoltre un modello per la politica della dea in tema di insubordinazione. Nel testo di Ovidio, com’è noto, l’ostilità di Venere contro i ribelli al suo regno prende spunto dall’Inno omerico ad Afrodite, con l’elenco delle dee vergini Atena, Artemide e Hestia – la terza è sostituita qui dalla figlia di Cerere57. Tuttavia, il piano operativo per sottomettere un oppositore ‘politico’, delineato in questo ‘prologo’ all’episodio di Proserpina, richiama piuttosto il prologo della tragedia di Euripide. Là Afrodite annuncia la sua vendetta contro Ippolito – il giovane, refrattario a sesso e nozze, che la disprezza e le preferisce la vergine Artemide – dichiarando il suo progetto di potere:
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Il manifesto dei vv. 5-6 è quanto di più vicino al programma imperiale romano, come formulato da Virgilio: parcere subiectis et debellare superbos, “ai sottomessi usare clemenza e schiacciare i superbi” (Aen. 6, 853)58. L’immagine greca di una Afrodite ‘politicizzata’ è un analogo perfetto del potere assoluto dell’imperatore romano – il poeta delle Metamorfosi conosce bene il suo Euripide. La poesia d’amore latina aveva già tradotto la tradizione greca su Ἔρως ἀνίκητος (“Amore invincibile”) nel linguaggio dell’imperialismo romano. La romanizzazione del dio dell’amore, nel suo aspetto ‘politico’, era sfruttata da Ovidio per effetti giocosi nell’elegia erotica: il trionfo di Amore in am. 1, 2 è costruito con gli slogan dell’ideologia augustea, e l’elegia si chiude su un parallelo provocatorio tra gli arma e la politica di Cupido e quelli del suo consanguineo Caesar (am. 1, 2, 51-52 aspice cognati felicia Caesaris arma: / qua vicit, victos protegit ille manu, “Guarda le armi fortunate del tuo consanguineo Cesare: con la mano con cui vinse protegge i vinti” [trad. L. Canali])59; così, in am. 2, 9 il poeta-amante, assoggettato da Cupido, invita il dio a volgere le sue armi contro i suoi veri nemici, e ad espandere il suo dominio sull’esempio di Roma.
Quanto a Venere, l’aggressiva versione imperiale della dea nelle Metamorfosi ha un prototipo nell’Afrodite imperiosa e autocosciente di Euripide. Nell’epos di Ovidio il colorito politico, accentuato e aggiornato, che suggerisce l’espansionismo imperiale e la repressione dei ribelli, adatta non solo clichés augustei, ma forse persino formule repubblicane: l’autoaccusa di Venere, che rimprovera se stessa – e Amore con lei – di essere troppo tollerante (...(quae iam patientia nostra est!), met. 5, 374), poteva ricordare a orecchie romane il più famoso pronunciamento contro un ribelle nel discorso politico della Repubblica: quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra? (“Fino a quando abuserai, Catilina, della nostra pazienza?”, Cic. Cat. 1, 1)60.
Che la dea che impersona la passione erotica possa personificare in modo così efficace la passione politica non è solo un effetto divertente, o uno sberleffo en passant all’ideologia augustea. Questa è anche una riflessione acuta sulla natura tirannica dell’amore, e sulla profonda affinità e implicazione reciproca tra desiderio erotico e desiderio di potere. Ovidio dà quasi una dimostrazione narrativa della teoria di Platone sul potere tirannico. Nel nono libro della Repubblica, l’“uomo tirannico” (τυραννικὸς ἀνήρ) è descritto come dominato da Eros, che agisce come un tiranno nella sua anima: “E non è detto forse perciò ab antico”, chiede Socrate, “tiranno l’Amore?” (Plat. Resp. 573b Ἆρ᾽οὖν, ἦν δ᾽ἐγώ, καὶ τὸ πάλαι διὰ τὸ τοιοῦτον τύραννος ὁ Ἔρως λέγεται; [trad. F. Gabrieli])61. Quel ‘tiranno interiore’ – il desiderio, prima di tutto il desiderio sessuale – è trasformato da Ovidio in un tiranno in persona: qui nelle Metamorfosi, Venere e Amore insieme sono come lo Eros tyrannos della poesia greca, rimodellato sul discorso politico di Platone e aggiornato all’età di Augusto. In questa versione imperialistica romana, la connotazione politica degli dèi dell’amore è più forte che mai.
3. L’eros del potere: il tiranno e il suo servitium amoris
Con un paradosso, la teoria di Platone sul tiranno lo equipara a uno schiavo; la sua anima è tiranneggiata dai suoi stessi desideri (ἔρωτες ed ἐπιθυμίαι) e specialmente da Ἔρως stesso62: Τὶ οὖν; δούλην ἤ ἐλευθέραν τὴν τοιαύτην φήσεις εἶναι ψυχήν; Δούλην δήπου ἔγωγε (“Ebbene, schiava o libera dirai tu essere una anima siffatta?” “Schiava di sicuro”, Plat. Resp. 577d)63. Quel paradosso è prominente anche nel pensiero etico-politico stoico, per cui il tiranno è un paradigma dell’uomo schiavo delle passioni64. La poesia romana elabora questi concetti. In tutta la tradizione antica, il desiderio sessuale è al primo posto tra le passioni di un tiranno65; nella poesia e nella prosa latina sarebbe facile citare esempi di monarchi adulteri o incestuosi, e del topos del ‘vincitore vinto’, o ‘dominatore dominato’66; per tutti, può valere la battuta della Furia nel prologo del Tieste di Seneca: supraque magnos gentium exultet duces / Libido victrix (“e sopra grandi duci di popoli / danzi il suo trionfo vincitrice la Libidine”, Sen. Thy. 45-46 [trad. di F. Nenci]).
Ma c’è di più. Nella poesia imperiale romana, sesso e potere mostrano di condividere la stessa natura e le stesse dinamiche: un’intera fenomenologia del desiderio. Le tragedie di Seneca indagano le analogie tra libido amandi e libido regnandi (“brama d’amore” e “brama di potere”), e la loro patologia comune. I parallelismi tra queste due manifestazioni del furor sono stati indicati in uno studio importante67: entrambe queste passioni non hanno misura (modus), non tollerano un rivale, guidano il soggetto come una forza trainante; entrambe sono totalizzanti e, se soddisfatte, fanno sì che un uomo si senta un dio; tutte e due sono indifferenti alla fama e all’opinione dei più, ignorano le leggi, non sono soggette alla morale comune; impiegano l’inganno (fraus) e appartengono alla vita corrotta della città (o della corte); entrambe sono eccessive e comportano il nefas (“empietà”). Eros e Kratos, due ‘oggetti del desiderio’, implicano una ‘logica della concupiscenza’: e i discorsi del Sesso e del Potere, queste due forme dell’affermazione di sé, sono l’una lo specchio dell’altra.
Nell’esplorare le connessioni tra discorso politico ed erotico, Seneca applica il linguaggio amatorio ed elegiaco alla sfera del potere – addirittura, adatta l’Ars amandi di Ovidio alla ars regnandi di Atreo (Rosati 1996, 95). L’espressione lucreziana per il desiderio sessuale, dira libido, viene riusata dalla nutrice di Fedra per definire i desideri insani di individui potenti e ricchi: Sen. Phaedr. 206-207 illa magnae dira fortunae comes / ...libido (“Allora subentra il compagno rovinoso di ogni grande fortuna, il desiderio insaziabile” [trad. A. Traina])68. E questa quasi-identificazione di sesso e potere è “riprodotta icasticamente nell’immagine dell’adultero che ‘regna’” (Rosati 1996, 103): Phaedr. 986-987 castos sequitur mala paupertas / vitioque potens regnat adulter (“agli onesti è compagna la miseria, e l’adultero trionfa grazie ai suoi vizi”).
L’acuta diagnosi senecana69 è la variante filosofica di una visione comune. Nella tradizione antica sugli eccessi dei re, l’amore è una delle passioni associate al potere assoluto – la principale, e forse quella considerata più affine alla sua essenza70. Anche nella storiografia moralistica romana, l’ambitio politica è accompagnata spesso, non solo da avaritia e luxuria, ma soprattutto dall’eros sfrenato, come conferma Sallustio: il Bellum Catilinae esemplifica la teoria platonica della tirannia nella storia del declino di Roma, e modella Catilina sul tipo del tiranno anche per i suoi crimini sessuali71.
Esiste, tuttavia, una variante della brama di potere ancora più radicale: una rappresentazione della passione sessuale come non concomitante, né coessenziale, ma coincidente con la passione del potere; il potere assoluto può essere, per un tiranno, l’oggetto esclusivo di un vero e proprio eros – un desiderio unico e totalizzante. Il mito dei ‘Sette contro Tebe’ si presta a questo sviluppo. Nelle Fenicie di Euripide, Eteocle si dichiarava pronto a tutto per ottenere la Τυραννίς, personificata come la divinità più grande (Eur. Phoen. 504-506 ἄστρων ἄν ἔλθοιμ᾽αἰθέρος πρὸς ἀντολὰς / καὶ γῆς ἔνερθε, δυνατὸς ὤν δρᾶσαι τάδε, / τὴν θεῶν μεγίστην ὥστ᾽ἔχειν Τυραννίδα, “Sarei disposto ad andare fin dove sorgono gli astri dell’etere, e sotto terra, se potessi farlo, per avere il Potere, il più grande degli dèi” [trad. E. Medda]); e teorizzava con cinismo: “Se è necessario agire ingiustamente, la cosa migliore è farlo per il potere: e gli dèi si rispettino per il resto” (εἴπερ γὰρ ἀδικεῖν χρή, τυραννίδος πέρι / κάλλιστον ἀδικεῖν, τἄλλα δ᾽εὐσεβεῖν χρεών, vv. 524-525). Cesare, ricorda Cicerone, era solito ripetere le parole di Eteocle (nam si violandum est ius, regnandi gratia / violandum est; aliis rebus pietatem colas, “Se la giustizia si deve violare, si violi per regnare: / per il resto rispetta i santi doveri”, Cic. off. 3, 82 [trad. A. Resta Barrile]); e una sentenza analoga sigla la parte compiuta delle Phoenissae di Seneca (Sen. Phoen. 664 imperia pretio quolibet constant bene, “Qualsiasi prezzo è buono se si tratta del potere” [trad. A. Barchiesi]).
Partendo da quella assolutizzazione del Potere, la Tebaide porta all’estremo la riflessione senecana sull’analogia tra passione politica ed erotica: Stazio rappresenta il desiderio totalizzante del potere come desiderio sessuale, ed esprime l’ossessione patologica per il dominio con il linguaggio della poesia d’amore, in particolare dell’elegia. Il carattere equivoco di questa caratterizzazione è persino commentato, in un punto della Tebaide, da una nota autoriflessiva. Nel secondo libro, i pianti e sospiri di Polinice nel letto nuziale sono interpretati dalla sposa, elegiacamente gelosa, come sintomi elegiaci di amore per una rivale, e l’eroe sorride di quell’ingenuità (2, 351-353): una rivale in effetti c’è, ma è la corona di Tebe72.
Non è questa la sede per mostrare quanto quel motivo sia pervasivo nella Tebaide e rilevante per il discorso politico di Stazio, o come la natura incestuosa della casa di Edipo renda il quadro ancora più complesso e perturbante73. Qualche esempio dal primo libro basterà per concludere il mio discorso.
Il regno di Tebe è un regno povero, eppure i figli di Edipo si fanno la guerra per possederlo: sed nuda potestas / armavit fratres, pugna est de paupere regno (“era semplice bramosia di potere ad armare i fratelli. Oggetto della contesa non è che un povero regno”, Stat. Theb. 1, 150-151); la personificazione di Potestas ricorda l’ipostasi astratta ‘divinizzata’ da Eteocle in Euripide74. L’arrivo di Tisifone, poco prima, ha ispirato il furor nei fratelli, mettendo in moto il poema:
atque ea Cadmeo praeceps ubi culmine primum
constitit adsuetaque infecit nube penates,
protinus attoniti fratrum sub pectore motus,
gentilisque animos subiit furor aegraque laetis
invidia atque parens odii metus, inde regendi
saevus amor, ruptaeque vices iurisque secundi
ambitus impatiens, et summo dulcius unum
stare loco, sociisque comes discordia regnis.
(Stat. Theb. 1, 123-130)
Non appena la Furia si fu avventata a precipizio sulle torri del palazzo di Cadmo, infettandone la dimora con la solita nube, subito un tumulto di passioni si insinuò nel petto dei due fratelli: penetrò loro nell’animo la follia propria della loro famiglia, l’invidia che si affligge della gioia altrui e il sospetto che genera l’odio; poi la spietata bramosia del potere, la violazione dei turni pattuiti, l’ambizione che non tollera il secondo posto e la dolcezza incomparabile di occupare da soli la posizione più elevata: la discordia, insomma, eterna compagna dei regni condivisi.
In questa descrizione della ‘genesi dell’uomo tirannico’, che si può confrontare con quella di Platone nel nono libro della Repubblica (Plat. Resp. 572e-573b)75, odio e amore hanno un ruolo cruciale: parens odii metus, inde regendi / saevus amor (vv. 127-128). “L’ odio generato dal timore” è il marchio della tirannia (oderint dum metuant, “mi odino, purché mi temano”, Acc. tr. 203 R2 = 168 W = 47 Dangel)76, ed è una perversione dell’amore reciproco fra sovrano e sudditi predicato dall’ideologia imperiale romana77. L’“amore” sublimato che assimila il buon re a un padre dei suoi sottoposti è pervertito qui in un amore esclusivo e morboso del potere: una passione devastante, come Eros può essere.
Sull’espressione regendi / saevus amor (1, 127-128) mi sono soffermata altrove78. Con una quasi-citazione da un contesto virgiliano non epico, il poeta flavio aggiunge una nota nuova alla brama di potere che porta al conflitto. Queste parole possono richiamare l’effetto della Furia su Turno79, ma il furore di guerra è sostituito qui da una furia di potere che ha una connotazione erotica ancora più forte. Stazio ottiene questo effetto di erotizzazione citando un famoso incipit delle Bucoliche, che descrive l’“amore crudele” di Medea – un altro saevus amor, all’origine di un’altra tragedia intrafamiliare: saevus Amor docuit natorum sanguine matrem / commaculare manus (“Amore crudele insegnò a una madre a macchiare le sue mani del sangue dei figli”, Verg. ecl. 8, 47-48). La iunctura compariva nel prologo della Medea di Ennio e tornava in quella di Seneca80, ma è dalla forma del testo di Virgilio che Stazio trae la forza della sua espressione. L’effetto di sorpresa, qui, è frutto di una progressione calcolata: regendi in clausola – con la sospensione dell’enjambement – anticipa la natura diversa, e diversamente pervertita, di questo saevus amor, che è una sorta di ‘eros del potere’81.
Anche dulcius, al v. 129 (et summo dulcius unum / stare loco), diventa marcato82: Stazio connota in senso erotico la scelta di regnare “da solo”. Un confronto è interessante: Cicerone, nel De officiis, interpreta quella scelta, compiuta da Romolo, come un falso giudizio di utilità: cui cum visum esset utilius solum quam cum altero regnare, fratrem interemit (“il quale, spinto dall’apparenza dell’utile, uccise il fratello Remo, perché gli parve più vantaggioso regnare da solo che insieme ad un altro”, Cic. de off. 3, 41). A utilius solum... (utilius solum... regnare) si contrappone qui dulcius unum (summo dulcius unum / stare loco); Cicerone critica un errore di giudizio83, Stazio condanna un trasporto erotico: una brama di potere che non si distingue dal furor amoroso. Una grande distanza separa questo dulcius dal γλυκίων di Omero (Il. 11, 13), che qualificava l’ardore di guerra ispirato da Ἔρις – modello della Discordia enniana, di Alletto, e di questa Tisifone84. Qui, la seduzione della discordia è divenuta la passione del potere: un trasporto simile alle dulces furiae di Edipo, l’“empio erede del padre”, il figlio salito – allo stesso tempo – al letto di Giocasta e al trono di Tebe85. Infine, la riflessione proverbiale sulla discordia ‘compagna’ dei regni condivisi, che sigla questo passo (v. 130), è una formula che Ovidio aveva già riferito, in parallelo, al potere e all’amore (non bene cum sociis regna Venusque manent, “in società con altri non resiste né un regno né un amore”, Ov. ars 3, 564 [trad. di E. Pianezzola]): un’associazione che, richiamata qui, assume un rilievo speciale.
Sotto il segno del paradosso, la Tebaide esplora le connessioni profonde tra passioni estreme – tra potere dell’eros ed eros del potere –, investendo la costruzione dei ruoli di genere e le loro relazioni reciproche. Ancora una volta, nella tradizione letteraria romana come in quella greca, linguaggio politico ed erotico si intrecciano. Lo abbiamo visto: l’amore per un uomo può fare di una donna disinteressata un essere ambizioso, e la passione del potere può rendere la femmina ambiziosa quanto un maschio86; gli dèi dell’amore – madre e figlio – programmano l’espansione del loro dominio col piglio di un imperatore, e del suo generale; e, in un uomo che aspira al trono, il desiderio totalizzante del potere si confonde col trasporto erotico87: nella poesia imperiale romana, come in Platone, Eros tyrannos è il potere assoluto che trasforma un tiranno in uno schiavo – e un amante in un mostro di empietà.