Stili di potere. Linguaggio politico, genere ed eros nella poesia imperiale romana

DOI : 10.54563/eugesta.454

Abstract

L’articolo offre alcune riflessioni sul rapporto tra potere, genere ed eros nella poesia imperiale romana: interpretando testi elegiaci ed epici di Ovidio e di Stazio, indaga il linguaggio della politica e del potere, il suo uso in relazione al genere e il suo rapporto con idee, linguaggio ed immagini, e codificazioni letterarie dell’amore. Si analizza in primo luogo una declinazione al femminile del linguaggio dell’ambizione politica nelle Epistulae ex Ponto di Ovidio, nella Consolatio ad Helviam matrem di Seneca e nella Tebaide di Stazio (il modello di una donna ambitiosa pro – a favore di – un uomo amato, opposto al paradigma della donna ambitiosa per – per mezzo di – un congiunto); in secondo luogo, l’amore del potere attribuito alla dea dell’amore nella rappresentazione ovidiana di una Venere imperialista nelle Metamorfosi; infine, la matrice elegiaca del desiderio maschile di potere come desiderio erotico nella Tebaide, dove il ritratto platonico del tiranno come schiavo si trasforma nel servitium amoris del tiranno.

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Il rapporto tra potere, genere ed eros nella poesia latina è stato indagato in ambiti specifici, come l’elegia d’amore e la tragedia senecana, ma uno sguardo più ampio su una questione così complessa nella cultura romana manca ancora1: non c’è un equivalente, nei nostri studi, della vivace discussione su Eros e discorso politico in Grecia2 – il che non sorprende, visto che non c’è un analogo della teoria erotica di Platone o della relazione omosessuale maschile come fondante per la polis –, mentre un’indagine sulle interconnessioni tra emozioni o affetti, ruoli di genere e politica è ancora da impostare3. Vorrei proporre qui alcune osservazioni e riflessioni iniziali su questo tema in Ovidio e in Stazio, concentrandomi su testi epici ed elegiaci. Oggetto del mio contributo sarà il linguaggio della politica o del potere, il suo uso in relazione al genere e il suo rapporto con idee, linguaggio ed immagini, e codificazioni letterarie dell’amore; intendo qui ‘amore’ nel senso più ampio, che va dal casto affetto familiare, alla passione sublimata, al desiderio perverso. Una retorica dell’amore e della politica agisce in questi testi, ma la retorica spesso presuppone la teoria, che si tratti dell’ombra della teorizzazione platonica, mediata da modelli letterari greci, o della filosofia stoica delle emozioni impressa nel pensiero politico romano. Analizzerò, in primo luogo, una declinazione al femminile del linguaggio dell’ambizione politica nelle Epistulae ex Ponto di Ovidio, nella Consolatio ad Helviam matrem di Seneca e nella Tebaide di Stazio (il modello di una donna ambiziosa pro – a favore di – un uomo amato); in secondo luogo, l’amore del potere attribuito alla dea dell’amore nella rappresentazione ovidiana di una Venere imperialista nelle Metamorfosi; infine, la matrice elegiaca del desiderio maschile di potere come desiderio erotico nella Tebaide, dove il ritratto platonico del tiranno come schiavo si trasforma nel servitium amoris del tiranno.

1. Genere e linguaggio politico: l’‘ambizione’ al femminile

Ex Ponto 3, 1 è la più lunga delle elegie dall’esilio di Ovidio (a parte Tristia 2) e l’ultima indirizzata alla moglie4. I trenta versi di apertura, un inno rovesciato alla terra del Ponto (Pontica tellus, v. 7), descrivono una situazione sempre più disperata; in tono amaro, quindi, il poeta rimprovera la moglie perché finora non ha ottenuto per lui un luogo d’esilio migliore: non igitur mirum, finem quaerentibus horum / altera si nobis usque rogatur humus. / te magis est mirum non hoc evincere, coniunx, / inque meis lacrimas posse tenere malis (“Non è pertanto strano se, cercando per tutto questo una fine, continuo sempre a chiedere un’altra terra. È invece più strano che tu, sposa mia, non raggiunga l’obiettivo e che nei miei mali tu possa trattenere le lacrime”, Pont. 3, 1, 29-32)5.

Attraverso una persuasione attentamente graduata, nei successivi centotrentaquattro versi l’esule invita la moglie a un’impresa a suo favore. Inizia esortandola a “darsi da fare notte e giorno” per lui, a superare l’aiuto dei suoi amici e a “eseguire la sua parte” primaria (vv. 39-42); le ricorda il grande ruolo che le sue poesie le hanno assegnato, come exemplum di una buona moglie, e la ammonisce a non venir meno ad esso (magna tibi imposita est nostris persona libellis: / coniugis exemplum diceris esse bonae. / hanc cave degeneres, “I miei libri ti hanno reso un grande personaggio: vi si dice che tu sei un modello di buona moglie. Bada a non risultarvi inferiore”, vv. 43-45). La sorte lo “ha esposto agli occhi di tutti” e gli “ha dato maggiore notorietà di prima” (come a Capaneo, Ulisse, Filottete), e la sua poesia, a sua volta, “fa avere” a lei “un nome non inferiore a quello di Bittide di Coo”, la donna cantata da Filita (vv. 49-58). Quidquid ages igitur, scaena spectabere magna, / et pia non parvis testibus uxor eris [...] quarum tu praesta ne livor dicere possit: / «haec est pro miseri lenta salute viri», “Qualunque cosa pertanto farai, sarai vista su una grande scena, e testimoni non da poco ti diranno moglie devota [...]. Tu fa’ sì che la loro invidia non possa dire: «Costei è indolente per la salvezza dell’infelice marito»” (vv. 59-60; 65-66).

Come fa con amici e patroni in tutta la raccolta, qui Ovidio ricorda alla moglie i suoi doveri sociali, chiamandola ad un aiuto attivo in un tono ufficiale: le chiede di portare da sola un giogo malcerto e di soccorrere un uomo malato (vv. 67-72), come lui stesso farebbe per lei. Questo è richiesto dal loro “amore coniugale” e dal “patto nuziale”, dai suoi stessi mores, e dalla casa nella quale è annoverata, quella di Fabio Massimo: la moglie di Fabio, Marcia (una figlia di Azia, la zia di Augusto) è sua patrona, e questo rapporto deve essere dimostrato dalla moglie del poeta, non solo con gli officia, ma anche con la probitas (hoc domui debes, de qua censeris, ut illam / non magis officiis quam probitate colas. / cuncta licet facias, nisi eris laudabilis uxor, / non poterit credi Marcia culta tibi, “Questo lo devi alla casa, nella quale tu sei annoverata, per coltivarla con la rettitudine non meno che con i servigi. Fa’ pure di tutto, ma se non sarai una moglie degna di lode, non si potrà credere che Marcia sia da te onorata”, vv. 75-78). La moglie di Ovidio è, davvero, una laudabilis uxor: gli elogi del suo sposo la proteggono dal rumor. E tuttavia, da lei si attende ora un’impresa ulteriore6.

Il verso 83 segna una frattura e introduce una richiesta, formulata inizialmente in termini generali:

sed tamen hoc factis adiunge prioribus unum,
   pro nostris ut sis ambitiosa malis.
                                                                      (Pont. 3, 1, 83-84)

Ma tuttavia aggiungi quest’unico gesto a ciò che hai già fatto: sii insistente per alleviare i miei mali.

Non tutte le traduzioni esplicitano la valenza specifica di ambitiosa7. In questo punto di svolta dell’epistola, il poeta incarica la moglie di un’azione propriamente politica, da rappresentare sulla scena pubblica: essa deve ottenere consenso, procurare favore, o addirittura brigare per lui, come si andrebbe in giro per sollecitare voti o opinioni, per raccomandare – in una parola, per fare propaganda8. Quella che viene richiesta alla moglie dell’esule è una mediazione politica: l’equivalente femminile della mediazione con l’imperatore richiesta a Fabio Massimo in Ex Ponto 1, 2. Nella nostra lettera, tuttavia, bisogna arrivare molto avanti a leggere prima che Ovidio riveli gradualmente come l’impresa sia niente meno che supplicare la moglie dell’imperatore. Questa missione diplomatica affidata a una donna è così eccezionale, il suo obiettivo così alto, che è necessaria una preparazione meticolosa: il marito deve motivare, incoraggiare e istruire accuratamente la moglie. In precedenza, nella poesia dell’esilio, una simile impresa era stata prefigurata due volte. La prima parte di Tristia 5, 2, senza nominarla, rimprovera probabilmente la stessa moglie per non aver osato l’azione a lei richiesta, accostarsi al dio Cesare e pregarlo (accede rogaque, trist. 5, 2, 37), per cui il poeta si rivolge direttamente a lui nella seconda parte dell’elegia; e ancora, alla fine di Ex Ponto 1, 2, l’immagine della moglie di Ovidio in preghiera agli altari della casa di Fabio Massimo, così che le preghiere della famiglia di lui possano a loro volta placare Cesare, è un preludio al suo approccio diretto alla casa imperiale nella nostra epistola9.

Che in Ex Ponto 3, 1 sia in gioco un impegno ‘politico’ è confermato dal lessico dei versi successivi, dove labora, officii... tui, roganti, e specialmente repulsa, ribadiscono l’immagine di un’impresa politica. Repulsa significa in primo luogo “insuccesso elettorale” (“Failure to secure office, electoral defeat”, OLD s.v. 1)10; a Roma questa è solitamente una fonte di ignominia e di stigma sociale, che, tuttavia, sono qui risparmiati a chi fa una campagna a favore di qualcun altro:

ut minus infesta iaceam regione, labora,
   
clauda nec officii pars erit ulla tui.
magna peto, sed non tamen invidiosa roganti,
   utque ea non teneas tuta repulsa tua est.
                                                                      (Pont. 3, 1, 85-88)

Impegnati perché io mi trovi in un paese meno ostile e nessuna parte dei tuoi doveri sarà monca. Ti domando qualcosa di grande, ma non ti viene discredito a chiederlo, e anche se non lo ottieni, il rifiuto non ti arreca danno11.

Segue il motivo topico secondo cui l’ammonimento del poeta è in realtà un riconoscimento di ciò che il destinatario già fa (il motivo del ‘currentem incitare’, “incitare chi corre”); qui, tuttavia, la scelta degli exempla militari ha una rilevanza speciale:

nec mihi suscense, totiens si carmine nostro,
   quod facis, ut facias teque imitere, rogo.
fortibus adsuevit tubicen prodesse, suoque
   dux bene pugnantis incitat ore viros.
                                                                      (Pont. 3, 1, 89-92)

E non adirarti con me se tante volte nei miei carmi ti chiedo di fare ciò che fai e di imitare te stessa. Il trombettiere di solito giova ai valorosi e il comandante con le sue parole incita i bravi guerrieri.

Collocando il termine viros alla fine del v. 92, Ovidio prende lo slancio per incitare la moglie a dar prova di una virtus maschile, in aggiunta alla sua nota probitas (qualità tradizionale di una donna, e di una moglie)12:

nota tua est probitas testataque tempus in omne:
   sit virtus etiam non probitate minor.
                                                                      (Pont. 3, 1, 93-94)

La tua rettitudine è nota e sperimentata per tutto il tempo a venire: sia anche il tuo ardimento non inferiore alla rettitudine.

La connotazione di virtus, qui, è così distintamente maschile e guerriera che occorre un’avvertenza: il poeta assicura alla moglie che non dovrà prendere le armi come un’Amazzone; e, proprio a questo punto, inizia a spiegare che il suo compito sarà implorare una divinità, perché la sua ira contro di lui possa essere mitigata:

nec tibi Amazonia est pro me sumenda securis
   
aut excisa levi pelta gerenda manu.
numen adorandum est, non ut mihi fiat amicum,
   sed sit ut iratum, quam fuit ante, minus.
                                                                      (Pont. 3, 1, 95-98)

Ma per me tu non devi brandire la scure delle Amazzoni e non devi portare con il braccio agile la pelta a mezzaluna. Devi adorare il nume, non perché mi divenga amico, ma perché sia meno irato di quanto non sia stato finora.

Non è neppure necessario che la moglie metta a rischio la propria vita per lui, o osi un inganno: in questo, essa è molto lontana dalle più coraggiose tra le eroine mitiche della fedeltà maritale, a cui egli l’ha spesso paragonata (Alcesti, Laodamia, o l’ingannatrice Penelope):

si mea mors redimenda tua (quod abominor) esset,
   [...]
morte nihil opus est, nihil Icariotide tela:
   Caesaris est coniunx ore precanda tuo...
                                                                      (Pont. 3, 1, 105; 113-114)

Se tu dovessi riscattare la mia morte con la tua (non voglio pensarlo) [...]. Non c’è bisogno della morte, non c’è bisogno della tela della figlia di Icario: devi pregare con le tue labbra la sposa di Cesare...

L’azione coraggiosa che Ovidio chiede alla moglie, dunque, pertiene a una sfera maschile che non è la guerra, né un virile sprezzo della morte, ma la politica: un’iniziativa politica audace, da parte di una donna, in un contesto imperiale. Il ruolo di spicco assegnato alla moglie dell’esule corrisponde allo status straordinario della consorte dell’imperatore, Livia, la cui autorità morale, statura pubblica e influenza politica sono messi in rilievo nell’ultima parte dell’epistola13. Di fatto, l’accresciuta visibilità conferita alla moglie di Ovidio dalla disgrazia del marito, e lo status esemplare che le è garantito dalla sua poesia, sono paralleli alla prominenza eccezionale riconosciuta a Livia nella cultura visuale e nel discorso politico augusteo, ed eguagliano la sua metaforica esposizione allo sguardo di molti, esaltata dalla Consolatio ad Liviam14. Il forte impulso all’apparire delle matrone sulla scena pubblica, determinato dal ruolo di Livia come first lady, e documentato dalle testimonianze storiche, ha una conseguenza letteraria inattesa in questa celebrazione poetica della consorte esemplare di un esiliato.

Nell’impartire alla moglie precetti minuti su come condurre l’approccio all’imperatrice, Ovidio riconverte la sua Ars amatoria (come è noto) in un manuale di cerimoniale cortigiano, e svela così, a posteriori, il retroterra culturale della sua precedente poesia di corteggiamento: la didascalica sociale del De officiis, del De amicitia e di altre opere di Cicerone, o l’arte di trattare con i ‘grandi’ delineata nelle Epistole di Orazio15. Il poeta esiliato aveva già applicato quei precetti nel suo appello ad Augusto in Tristia 2. La lezione di etichetta politica è ora mirata a una destinataria femminile, che osa appellarsi alla metà femminile dell’imperatore, una femina princeps (v. 125). In contrasto con la missione assegnata all’avvocato Fabio Massimo in Ex Ponto 1, 2, qui la “cattiva causa” di Ovidio “va taciuta”, le parole devono essere sostituite dalle lacrime, e i gesti della donna sono quelli di una supplice: la sua unica richiesta sarà una preghiera, perché il marito sia allontanato da nemici crudeli (vv. 145-158)16.

L’incarico politico assegnato alla moglie di Ovidio, dunque, non si distingue da un atto religioso compiuto nella divina casa imperiale, come è reso evidente dall’uso insistito di immagini e linguaggio sacrali. Non solo la donna deve affrontare direttamente la maiestas della dea (vultum Iunonis adire, “accostarti al volto di Giunone”, v. 145; cf. 155-156 sentiet illa / te maiestatem pertimuisse suam, “lei avvertirà che davanti alla sua maestà tu hai provato timore”), ma è invitata a rivolgere prima una preghiera agli dèi – innanzi tutto, per paradosso, Augustum numen... progeniemque piam participemque tori (“il nume di Augusto, il suo devoto figlio e la compagna del suo talamo”): Augusto, Tiberio, e Livia stessa, che va adorata all’altare prima ancora che di persona. Persino la raccomandazione di scegliere un giorno e un’ora opportuna, e specialmente di osservare un auspicio favorevole (auspiciumque favens: il sostantivo solo qui nelle Ex Ponto), suggerisce un’impresa ufficiale, che deve essere preceduta da una cerimonia sacra; e può non essere un caso che la matrice verbale del v. 161 sed prius imposito sacris altaribus igni sia molto simile a Pont. 2, 1, 32 tura prius sanctis imposuisse focis, una descrizione dei preparativi di Tiberio per il suo trionfo17:

lux etiam coepto facito bona talibus adsit
   
horaque conveniens auspiciumque favens.
sed prius imposito sanctis altaribus igni
   tura fer ad magnos vinaque pura deos,
e quibus ante omnis Augustum numen adora
   progeniemque piam participemque tori.
sint utinam mites solito tibi more, tuasque
   non duris lacrimas vultibus aspiciant.
                                                                      (Pont. 3, 1, 159-166)

Guarda ora che per una simile impresa ci sia un giorno buono, un’ora adatta e un auspicio propizio. Ma prima accendi il fuoco sui santi altari e offri incenso e vino puro ai grandi dei: di essi in primo luogo adora il nume di Augusto, il suo devoto figlio e la compagna del suo talamo. Possano essere clementi con te secondo il loro solito e guardare le tue lacrime con un volto privo di severità.

Torniamo, infine, al punto da cui siamo partiti: sed tamen hoc factis adiunge prioribus unum, / pro nostris ut sis ambitiosa malis (vv. 83-84 citt.). Ai suoi precedenti facta, la moglie di Ovidio deve ora aggiungere un’azione politica, mostrandosi ambitiosa “a favore” del marito. Ambire, ambitio, ambitiosus, e naturalmente ambitus, di rado sono termini neutrali in latino18; una sfumatura negativa spesso li connota – e questo è quasi invariabilmente il caso quando si tratta dell’ambizione di una donna. Non c’è quasi bisogno di ricordare l’atteggiamento di Tacito verso le donne che usurpano il potere maschile, come Agrippina Maggiore e Agrippina Minore, o la stessa Livia: è un tema ben studiato19. Quanto al lessico dell’ambizione, l’avverbio ambitiose è riferito ad Agrippina Maggiore “in the opaque mutterings of Tiberius, who appreciates the redundancy of an imperator when a woman takes charge of the army”20 (ann. 1, 69, 4 nihil relictum imperatoribus, ubi femina manipulos intervisat, signa adeat, largitionem temptet, tamquam parum ambitiose filium ducis gregali habitu circumferat Caesaremque Caligulam appellari velit. potiorem iam apud exercitus Agrippinam quam legatos, quam duces; conpressam a muliere seditionem, cui nomen principis obsistere non quiverit)21; l’aggettivo ambitiosus qualifica l’intero genere femminile nel discorso di Severo Cecina in Senato, contro le donne che accompagnano i mariti nelle province (ann. 3, 33, 3 non imbecillum tantum et imparem laboribus sexum, sed, si licentia adsit, saevum, ambitiosum, potestatis avidum; incedere inter milites, habere ad manum centuriones; praesedisse nuper feminam exercitio cohortium, decursu legionum)22; e ambitus descrive la competizione delle donne per il titolo di consorte imperiale di Claudio, dopo l’uccisione di Messalina (ann. 12, 1, 1 nec minore ambitu feminae exarserant: suam quaeque nobilitatem formam opes contendere ac digna tanto matrimonio ostentare)23.

C’è, tuttavia, un’eccezione significativa a questa caratterizzazione, quasi standard, da parte di scrittori (e personaggi) maschili. La coloritura negativa dell’“ambizione” femminile si muta nel suo opposto – un segno di distinzione – quando una donna si dimostra ambitiosa non per se stessa, ma ‘unicamente’ per un maschio della famiglia, che si tratti di un consanguineo o del congiunto più stretto: il figlio, o, come qui, il marito.

Nella Consolatio ad Helviam matrem, Seneca definisce nitidamente due paradigmi di donne “ambiziose” tra loro antitetici; al §14, dopo aver elogiato il ritegno altruistico di sua madre verso le risorse, le cariche e l’influenza politica dei figli, accusa la muliebris impotentia di quelle madri che sfruttano la potentia dei loro figli, e “visto che alle donne non è permesso rivestire cariche, ripongono in loro le proprie ambizioni”, per illos [sc. liberos] ambitiosae sunt24:

viderint ille matres quae potentiam liberorum muliebri inpotentia exercent, quae, quia feminis honores non licet gerere, per illos ambitiosae sunt, quae patrimonia filiorum et exhauriunt et captant, quae eloquentiam commodando aliis fatigant: [3] tu liberorum tuorum bonis plurimum gavisa es, minimum usa; tu liberalitati nostrae semper inposuisti modum, cum tuae non inponeres; tu filia familiae locupletibus filiis ultro contulisti; tu patrimonia nostra sic administrasti ut tamquam in tuis laborares, tamquam alienis abstineres; tu gratiae nostrae, tamquam alienis rebus utereris, pepercisti, et ex honoribus nostris nihil ad te nisi voluptas et inpensa pertinuit. numquam indulgentia ad utilitatem respexit; non potes itaque ea in erepto filio desiderare quae in incolumi numquam ad te pertinere duxisti.
                                                                      (Sen. cons.Helv. 14, 2-3)

Se la vedano quelle madri le quali, con l’incapacità di controllo tipica delle donne, adoperano il potere di cui i figli sono detentori; le quali, visto che alle donne non è permesso rivestire cariche, ripongono in loro le proprie ambizioni; le quali prosciugano e cercano di accaparrarsi i patrimoni dei figli; le quali ne logorano l’eloquenza a furia di metterla a disposizione di altri: [3] tu, diversamente, dei successi dei tuoi figli ti sei rallegrata moltissimo, ma te ne sei avvalsa pochissimo; tu hai sempre messo un freno alla nostra generosità, mentre non lo mettevi alla tua, tu, per quanto figlia di famiglia, hai voluto fare donazioni a dei figli benestanti; tu hai amministrato i nostri patrimoni in modo tale da impegnarti come se fossero tuoi e da astenertene come fossero di altri; tu hai evitato di approfittare del nostro prestigio, come se per te si trattasse di usare beni altrui, e delle nostre cariche non ti ha riguardato altro se non la soddisfazione e le spese. Il tuo affetto non ha mai tenuto in considerazione l’interesse; non è dunque possibile che tu rimpianga, nel figlio che ti è stato strappato, quello che in lui, quando ancora non aveva subito alcun danno, non hai mai ritenuto che ti riguardasse.
                                                                      [Trad. di A. Cotrozzi]

Questo prototipo di matres ambitiosae per liberos, “per mezzo dei loro figli”, è messo in contrasto, più avanti nel testo (§ 19), con l’exemplum della zia materna di Seneca, che è stata per lui una madre surrogata; per indulgentia (“benvolere”, affetto familiare), essa ha vinto il suo ritegno femminile ed è divenuta addirittura capace di brigare “per” lui, pro me etiam ambitiosa – il pro, opposto al per, fa la differenza:

maximum adhuc solacium tuum tacueram, sororem tuam, illud fidelissimum tibi pectus, in quod omnes curae tuae pro indiviso transferuntur, illum animum nobis maternum. cum hac tu lacrimas tuas miscuisti, in huius primum respirasti sinu. [2] illa quidem adfectus tuos semper sequitur; in mea tamen persona non tantum pro te dolet. illius manibus in urbem perlatus sum, illius pio maternoque nutricio per longum tempus aeger convalui; illa pro questura mea gratiam suam extendit et, quae ne sermonis quidem aut clarae salutationis sustinuit audaciam, pro me vicit indulgentia verecundiam. nihil illi seductum vitae genus, nihil modestia in tanta feminarum petulantia rustica, nihil quies, nihil secreti et ad otium repositi mores obstiterunt quominus pro me etiam ambitiosa fieret.
                                                                      (Sen. cons.Helv. 19, 1-2)

Non avevo fatto parola, fino a questo momento, di quella che è per te la più grande fonte di conforto, tua sorella, quel cuore a te fedelissimo, in cui si riversano tutte le tue pene come se foste una sola persona, quell’animo materno verso noi tutti. È con lei che hai mescolato le tue lacrime, stretta al seno di lei hai cominciato a riaverti. [2] Lei, è vero, condivide sempre quello che provi: ma, per quanto riguarda la mia persona, non soffre solo per te. In braccio a lei sono stato portato a Roma; grazie alle sue cure affettuose e materne, malato per lungo tempo, mi rimisi in salute; fu lei, per farmi ottenere la carica di questore, ad adoperare al massimo il credito di cui godeva; e questa donna, che non trovava l’ardire per conversare o salutare a voce alta, per me, a causa del bene che mi voleva, vinse la timidezza. Né il suo modo di vivere appartato, né la sua riservatezza, che in mezzo a tanta sfacciataggine femminile risultava scontrosa, né il suo desiderio di pace, né il suo carattere schivo e portato alla vita tranquilla le furono in alcun modo d’ostacolo impedendole di diventare addirittura capace di brigare per me.

I meriti di questa donna non finiscono qui. Nella sua posizione di moglie del praefectus Aegypti, la zia di Seneca ha mostrato una lodevole mancanza di ambitio, oltre che di avaritia. Lei stessa, quando il marito morì durante un naufragio, vinse dolore e paura e mise a rischio la propria vita, per portare il cadavere a riva e dargli sepoltura25:

haec non ideo refero ut laudes eius exequar, quas circumscribere est tam parce transcurrere, sed ut intellegas magni animi esse feminam quam non ambitio, non avaritia, comites omnis potentiae et pestes, vicerunt, non metus mortis iam exarmata nave naufragium suum spectantem deterruit quominus exanimi viro haerens non quaereret quemadmodum inde exiret sed quemadmodum efferret. huic parem virtutem exhibeas oportet et animum a luctu recipias et id agas ne quis te putet partus tui paenitere.
                                                                      (Sen. cons.Helv. 19, 7)

Non riferisco queste cose allo scopo di passare in rassegna i suoi meriti, che sfiorare con così brevi accenni equivale a sminuire, ma perché tu comprenda che è di animo grande una donna su cui né l’ambizione né l’avidità, compagne e flagelli di ogni posizione di potere, ebbero la meglio, e che la paura della morte – quando, con la nave ormai rimasta priva delle attrezzature, aveva davanti agli occhi il proprio naufragio – non distolse dal rimanere attaccata al marito senza vita, e dal cercare non come scampare lei al naufragio, ma come portarne fuori il marito per seppellirlo. Bisogna che tu dia prova di un coraggio pari a quello di lei, riprendendoti dal tuo cordoglio e comportandoti in modo da non far pensare a qualcuno che ti rammarichi di aver partorito tuo figlio.

Per questa altruistica prova di coraggio (virtutem), la sorella di Elvia è commemorata da Seneca in un paragrafo enfatico e autocosciente, dove il paradigma mitico di Alcesti è evocato solo per essere superato26:

o quam multarum egregia opera in obscuro iacent! si huic illa simplex admirandis virtutibus contigisset antiquitas, quanto ingeniorum certamine celebraretur uxor quae oblita inbecillitatis, oblita metuendi etiam firmissimis maris, caput suum periculis pro sepultura obiecit et, dum cogitat de viri funere, nihil de suo timuit! nobilitatur carminibus omnium quae se pro coniuge vicariam dedit: hoc amplius est, discrimine vitae sepulcrum viro quaerere; maior est amor qui pari periculo minus redimit.
                                                                      (Sen. cons.Helv. 19, 5)

Di quante donne gli straordinari eroismi giacciono nel buio dell’ignoto! Se a questa donna fosse toccato di vivere nei tempi antichi, spontaneamente inclini ad ammirare le virtù, da che gara di talenti poetici sarebbe stata celebrata una moglie che, dimentica della propria debolezza, dimentica del mare che fa paura anche ai più determinati, mise a rischio la propria vita per dare sepoltura a un morto e, mentre pensava al funerale del marito, non ebbe timori riguardo al proprio!

È celebrata nei versi di tutti l’eroina che, per salvare il marito, diede in cambio se stessa: ma questo, volere un sepolcro per il marito a costo di mettere a repentaglio la propria vita, è di più; è più grande l’amore che a parità di rischio ottiene in cambio di meno.

In privato come in pubblico, dunque, a favore della carriera politica del nipote-quasi-figlio, o della sepoltura del marito, la zia di Seneca ha dimostrato eccezionalmente una ambitio e una virtus maschili del tutto appropriate, trasgredendo il proprio ritegno femminile a vantaggio di un maschio. Lei che “durante i sedici anni in cui il marito governò l’Egitto […] non fu mai vista in pubblico”, e neppure fu mai oggetto di conversazione27, ottiene ora fama letteraria per mezzo del nipote che ha beneficato: per aver salvato il cadavere del marito, e per aver promosso la carriera politica di un ‘figlio’28.

Torniamo a Ovidio. L’“ambizioso” ruolo femminile delineato dal poeta in Ex Ponto 3, 1 (pro nostris ut sis ambitiosa malis, v. 84) non era destinato ad avere successo, o addirittura ad essere intrapreso. La moglie può non essere stata, infine, all’altezza del compito. Il suo fallimento è in parte responsabile della totale disillusione espressa in Ex Ponto 3, 7, 9-12 quod bene de vobis speravi, ignoscite, amici, / talia peccandi iam mihi finis erit. / nec gravis uxori dicar, quae scilicet in me, / quam proba, tam timida est experiensque parum (“Perdonatemi, amici, per aver riposto in voi le mie speranze: ormai ho finito di commettere simili errori. E non si dica che sono un peso per mia moglie, che quanto è onesta verso di me, tanto è timorosa e poco capace”).

Per trovare un altro, più eclatante, e questa volta efficace, esempio di ambitio in una donna, a favore di un uomo, dobbiamo guardare al mondo del mito, e alle altezze dell’epos. Il sublime mitologico dell’epica flavia, modellato sulle tragedie di Seneca, è un terreno favorevole a iperboli come questa. Nel dodicesimo libro della Tebaide, la moglie di Polinice, Argia, e la sorella di lui, Antigone, danno sepoltura al cadavere dell’eroe, sfidando il divieto di Creonte. Di fronte al tiranno, rivendicano la responsabilità dell’azione, e competono per il castigo come se fosse un onore. Per cogliere il paradosso della situazione, Stazio conia un’espressione audace: ambitur saeva de morte (12, 456), “aspiravano a una fine crudele” [trad. L. Micozzi]. L’invenzione linguistica, per una gara il cui premio è la morte, anticipa il nesso ambitiosa mors, la celebre definizione polemica data da Tacito del suicidio stoico, come gesto ostentato e politicamente sterile29. La ribellione al regime tirannico è in effetti un ruolo tradizionale per le donne in politica, fin dal teatro attico, ed è una fonte di fama per donne esemplari della tradizione romana, da Lucrezia alle “martiri della libertà repubblicana”30.

Sulla scena della Tebaide, le due donne agiscono come competitori politici, in nome dell’amore rispettivamente per il fratello e per il marito – in nome di pietas e amor31:

                                                             at ipsae
ante rogum saevique palam sprevisse Creontis
imperia et furtum claro plangore fatentur
securae, quippe omne vident fluxisse cadaver.
ambitur saeva de morte animosaque leti
spes furit: haec fratris rapuisse, haec coniugis artus
contendunt vicibusque probant: ‘ego corpus’, ‘ego ignes’,
‘me pietas’, ‘me duxit amor’. deposcere saeva
supplicia et dextras iuvat insertare catenis.
nusquam illa alternis modo quae reverentia verbis,
iram odiumque putes; tantus discordat utrimque
clamor, et ad regem qui deprendere trahuntur.
                                                                      (Theb. 12, 452-463)

 
 
 
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Le donne invece ferme davanti al rogo ostentavano di sprezzare gli ordini del crudele Creonte, denunciando col loro acuto pianto l’impresa compiuta di nascosto, tranquille perché vedevano che il cadavere si era interamente consumato. Aspiravano a una fine crudele e le animava la folle, coraggiosa speranza di morte; si contendevano così la colpa di aver sottratto l’una il corpo del fratello, l’altra quello dello sposo, e a vicenda ne adducevano le prove: «Sono stata io a rubare il cadavere», «Io ho acceso il rogo», «L’affetto mi ha spinto», «Mi ha spinto l’amore». Erano felici di implorare il supplizio spietato e di introdurre le braccia nelle catene. Il reciproco rispetto che poco prima era nei loro dialoghi, si sarebbe detto allora odio o collera; tale era il clamore del loro diverbio. Erano loro a trascinare dal re chi le aveva sorprese.

L’eccezionale comparsa di una donna sulla scena pubblica e politica è un successo, quando l’amore per un uomo giustifica l’eccezione. In quel caso, la rottura delle norme sociali è legittimata dall’affetto familiare, o dall’amore coniugale. La variante di questo ruolo femminile che si può definire “La moglie eroica dell’eroe sventurato” ha avuto una lunga fortuna nella cultura occidentale. Nella chiusa del Fidelio di Beethoven, Leonore si spoglia degli abiti maschili e rivela la sua identità, mentre si lascia cadere sul marito Florestano per proteggerlo col suo corpo, pistola in pugno; persino Pizarro, governatore della prigione di Stato, è ammirato di fronte al coraggio inaudito della donna, che stava fronteggiando come fosse un uomo; e il Singspiel termina con le lodi de “L’amore alleato al coraggio” (Liebe... im Bunde / mit Mute) e di Leonore “la gloria delle donne” (der Frauen Zierde), “la donna che ha salvato lo sposo” (Retterin des Gatten).

Le parole della stessa Leonore, nella Scena Quinta del Secondo Atto, suonano come un commento a un’intera tradizione letteraria di donne rese coraggiose dall’amore coniugale32:

Nichts, mein Florestan!
Meine Seele war mit dir:
wie hätte der Körper sich nicht stark gefühlt,
indem er für sein besseres Selbst stritt?
                                               (L. van Beethoven, Fidelio, libretto di J. F.
                                                           Sonnleithner e G. F. Treitschke)

Nulla, mio Florestano!
La mia anima era con te:
poteva il corpo non sentirsi forte
a lottare per la parte migliore di sé?
                                                                      [Trad. di O. Cescatti]

Per una gran parte della cultura antica e moderna, questo è ciò che permette a una donna di oltrepassare il confine di genere: l’amore per un uomo la rende pari alla metà migliore di se stessa33.

2. Impero dell’amore, amore dell’impero: l’imperialismo di Venere e Amore

Lo spazio del mito permette di esplorare l’ambizione femminile anche proiettandola nel mondo immaginato dei rapporti di potere tra gli dèi, e tra dèi e uomini: una rappresentazione favolosa che può assumere i tratti di una riflessione sui ruoli di genere e sulla storia contemporanea. In nessun luogo della letteratura latina la natura erotica della brama di potere è espressa con più efficacia che nel ritratto ovidiano di una Venere ‘imperialista’ nel quinto libro delle Metamorfosi. In una fase iniziale della storia del mondo, la prima comparsa della dea dell’amore è una climax narrativa agli amori degli dèi, che hanno spinto il poema nella prima pentade con la forza del desiderio erotico34. La pulsione sessuale delle supreme divinità maschili, detentrici del potere sui tre regni dell’universo, viene ricondotta qui al potere supremo – davvero universale – rivendicato dalla dea del desiderio35. Nell’epos di Ovidio, Venere rappresenta una “femminilizzazione della grande politica”36, e impersona il nesso profondo tra eros e potere – quasi un simbolo dell’identità tra il desiderio, erotico o politico, di conquista e di possesso37.

Prima di soffermarci su quel passo, leggiamo un po’ più avanti. Verso la fine dell’ultima pentade, dove il mito si muta nella storia di Roma, Venere riapparirà nel suo ruolo nazionale di Aeneadum genetrix, o meglio, di Aeneae genetrix (met. 15, 762; cf. 14, 605 genetrix), con una personalizzazione significativa del suo patronato, ristretto dal popolo romano a una gens e ai suoi individui d’eccezione: il figlio Enea, il suo discendente Cesare, e il figlio adottivo di quest’ultimo, Ottaviano Augusto. Alla fine delle Metamorfosi, in un Olimpo stilizzato come il Senato di Roma, con Giove come princeps, Venere replica il suo ruolo di supplice a favore della sua discendenza: reclama la divinizzazione di Enea, che il padre Giove le aveva profetizzato nel primo libro dell’Eneide38. Ovidio aggiorna la scena al suo epos post-virgiliano, accentuandone la connotazione politica, e fa di Venere una madre ‘ambitiosa pro’, “intrigante in favore di”, suo figlio39:

iamque deos omnes ipsamque Aeneia virtus
Iunonem veteres finire coegerat iras,
cum, bene fundatis opibus crescentis Iuli,
tempestivus erat caelo Cythereius heros.
ambieratque Venus superos colloque parentis
circumfusa sui ‘numquam mihi’ dixerat ‘ullo
tempore dure pater, nunc sis mitissimus, opto,
Aeneaeque meo, qui te de sanguine nostro
fecit avum, quamvis parvum des, optime, numen,
dummodo des aliquod. satis est inamabile regnum
aspexisse semel, Stygios semel isse per amnes’.
adsensere dei, nec coniunx regia vultus
immotos tenuit placatoque adnuit ore.
tum pater ‘estis’ ait ‘caelesti munere digni,
quaeque petis pro quoque petis; cape, nata, quod optas’.
fatus erat. gaudet gratesque agit illa parenti...
                                                                      (Ov. met. 14, 581-596)

 
 
 
 
585
 
 
 
 
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Il valore di Enea aveva ormai costretto gli dèi tutti, e soprattutto Giunone, a deporre l’antica ira, giacché, posta su solide basi l’autorità di Iulo diventato uomo, l’eroe figlio della dea di Citera era pronto per il cielo. Venere sollecitò gli dèi superi, e gettando le braccia al collo di suo padre, «O padre, che mai un solo istante fosti duro con me, questa volta ti prego di essere buonissimo, e al mio Enea, che tramite il suo sangue ti ha fatto nonno, concedi, o buonissimo, un titolo divino: piccolo quanto vuoi, ma divino. È già abbastanza che abbia visto una volta l’odioso regno, che abbia navigato una volta i fiumi stigi». Gli dèi acconsentirono, e anche la sposa di Giove non se ne restò con lo sguardo impassibile, ma annuì con volto pacificato. Allora il padre «Siete degni» disse «di un dono celeste, sia tu che chiedi sia colui per cui chiedi: prendi, o figlia, ciò che vuoi». Così disse. Gioisce Venere e ringrazia il padre...
                                                                      [Trad. di G. Chiarini]

Una volta che il potere di suo nipote Iulo si è consolidato, Venere chiede agli dèi, e a suo padre, di rendere Enea un dio. Al verso 585, ambieratque Venus superos, Philip Hardie commenta: “Ambio, «fare propaganda politica», parla la lingua della vita politica di Roma”40. Si può aggiungere che anche la richiesta della dea al padre di mostrarsi mitissimus (v. 587) è connotata politicamente: proietta sul re degli dèi la clementia attesa dall’imperatore romano, ‘padre’ metaforico del suo popolo, ed equivalente di Giove in terra.

Un libro più avanti, tocca a Giulio Cesare essere divinizzato, così che suo figlio Ottaviano Augusto possa essere figlio di un dio. Venere è di nuovo attiva sulla scena politica, fin dalle prime avvisaglie della congiura – e, se non può mutare il fato, fa di tutto per sfruttarlo a favore della sua discendenza. Come nota Feeney, “her concern manifests itself in ‘canvassing’ (ambitus is what she is up to at 15.764, just as at the apotheosis of Aeneas, 14.585)”; così anche Hardie: “Venere fa una campagna elettorale per trovare aiuto; cf. la scena parallela a XIV 585-6...”41. Ecco il passo:

ne foret hic igitur mortali semine cretus,
ille deus faciendus erat; quod ut aurea vidit
Aeneae genetrix, vidit quoque triste parari
pontifici letum et coniurata arma moveri,
palluit et cunctis, ut cuique erat obvia, divis
‘aspice’ dicebat ‘quanta mihi mole parentur
insidiae quantaque caput cum fraude petatur,
quod de Dardanio solum mihi restat Iulo.
      [...]
            quid nunc antiqua recordor
damna mei generis? timor hic meminisse priorum
non sinit; en acui sceleratos cernitis enses!
quos prohibete, precor, facinusque repellite, neve
caede sacerdotis flammas extinguite Vestae’.
talia nequiquam toto Venus anxia caelo
verba iacit superosque movet
; qui rumpere quamquam
ferrea non possunt veterum decreta sororum,
signa tamen luctus dant haud incerta futuri...
      [...]
‘hic sua complevit
pro quo, Cytherea, laboras
tempora, perfectis quos terrae debuit annis.
ut deus accedat caelo templisque colatur
tu facies natusque suus, qui nominis heres
impositum feret unus onus caesique parentis
nos in bella suos fortissimus ultor habebit’.
                                           (Ov. met. 15.760-767; 774-782; 816-821)

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Ma perché questo non fosse di stirpe umana, quello bisognava che fosse fatto dio. Quando l’aurea madre di Enea lo capì, e vide che si preparava al pontefice un’acerba morte, e le armi dei congiurati erano già pronte, impallidì, e a tutti gli dèi che incontrava «Guarda» diceva «quale tremenda insidia mi si sta preparando, con quanta perfidia si attenti all’unico che mi rimanga della stirpe di Iulo, discendente di Dardano [...].
Che bisogno ho di ricordare le antiche disgrazie della mia stirpe? Il timore presente mi vieta di ripensare a quelli passati: empie spade, vedete, si affilano contro di me. Vi prego, fermatele, impedite il delitto! non estinguete il fuoco di Vesta con l’uccisione del sacerdote!». Tali discorsi Venere angosciata sparge inutilmente per tutto il cielo, e commuove gli dèi. Questi, è vero, non possono infrangere i ferrei decreti delle antiche sorelle, ma inviano non incerti segni premonitori del lutto imminente [...].
[Giove] «Costui, per il quale, dea di Citera, ti affanni, ha compiuto il suo tempo, ha concluso gli anni dovuti alla terra. Tu e suo figlio farete che egli come dio salga al cielo e abbia il suo posto nei templi, suo figlio, erede del nome, sosterrà da solo il peso ricevuto, e, fortissimo vendicatore dell’uccisione del padre, ci avrà in guerra al suo fianco».

In una continuazione dell’Eneide, Venere appare ora inserita in una struttura di potere divina che garantisce – e allo stesso tempo riflette – la struttura dell’impero romano. Per il “suo” Enea, e i discendenti, è venuto il tempo di vedere compiute le profezie di Virgilio, e di ricevere un culto di stato ufficiale, sotto il patronato di Venus Genetrix. Le Metamorfosi mostrano così finalmente realizzata la politica di potere della Venere virgiliana – quasi anticipando il ruolo storico delle madri nella successione imperiale, e con un cenno al potere delle donne nelle monarchie ellenistiche42.

C’è, tuttavia, un altro senso – più irriverente – in cui il poema di Ovidio commenta il ruolo politico giocato da Venere nell’Eneide. Molto è stato detto sulla scena del quinto libro in cui la dea chiede al figlio Cupido di far innamorare Plutone di Proserpina43:

                                 videt hunc Erycina vagantem
monte suo residens natumque amplexa volucrem
‘arma manusque meae, mea, nate, potentia’ dixit,
‘illa, quibus superas omnes, cape tela, Cupido,
inque dei pectus celeres molire sagittas,
cui triplicis cessit fortuna novissima regni.
tu superos ipsumque Iovem, tu numina ponti    
victa domas ipsumque regit qui numina ponti.
Tartara quid cessant? cur non matrisque tuumque
imperium profers? agitur pars tertia mundi
.
et tamen in caelo
(quae iam patientia nostra est!)
spernimur ac mecum vires minuuntur Amoris.
Pallada nonne vides iaculatricemque Dianam
abscessisse mihi? Cereris quoque filia virgo,
si patiemur, erit; nam spes adfectat easdem.
at tu pro socio, si qua est mea44 gratia, regno
iunge deam patruo’. dixit Venus; ille pharetram
solvit et arbitrio matris de mille sagittis
unam seposuit, sed qua nec acutior ulla
nec minus incerta est nec quae magis audiat arcum,
oppositoque genu curvavit flexile cornum
inque cor hamata percussit harundine Ditem.
                                                                      (Ov. met. 5, 363-384)

 
 
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Ericina, dall’alto del suo monte, lo vede vagare e, a sé l’alato figliolo stringendo, ‘Mie armi e mie mani, mio potere, o figlio’ disse, ‘prendi quelle frecce con cui vinci tutto, Cupido, e lanciale svelto nel petto del dio a cui toccò in sorte l’ultimo dei tre reami. Tu gli dèi superni, tu lo stesso Giove, tu i numi del mare vinti costringi, tu persino il signore dei numi del mare. Perché il Tartaro non deve fare eccezione? Perché non estendi il dominio tuo e di tua madre? È la terza parte del mondo! Io, in cielo (che pazienza ho avuto sinora), sono disprezzata, e con me è sminuito anche il potere d’Amore. Pallade, ad esempio, e Diana saettatrice non mi tengono in conto. E anche la figlia di Cerere, se la lasciamo fare, resterà vergine: nutre le stesse aspirazioni. Ma tu, per il regno comune, se ho qualche potere, fa’ che la fanciulla s’unisca allo zio’. Disse Venere. Lui aprì la faretra e, assecondando la madre, tra mille frecce una ne scelse, la più appuntita, la più sicura, la più sensibile all’arco di tutte. Piegato il ginocchio, curvò il flessibile corno e colse Dite nel cuore col missile alato.

In contrasto col piano di Zeus nell’Inno a Demetra, qui il ratto è attribuito “to the sole agency of Venus and Cupid”, “as the Empress and Commander in Chief of an empire” (Johnson 1996, 125-126)45: la proposta che la dea fa al figlio è di espandere il loro imperium condiviso, conquistando un’altra parte dell’universo (vv. 371-372); questo significa anche sopraffare una potenziale ribelle nel suo regno celeste (vv. 373-377)46.

Questa Venere ri-formula l’appello da lei rivolto ad Amore in Eneide 1, per far innamorare Didone (e garantire a Enea un soggiorno sicuro)47:

‘nate, meae vires, mea magna potentia, solus,
nate, patris summi qui tela Typhoëa temnis,
ad te confugio et supplex tua numina posco.
                                                                      (Verg. Aen. 1, 664-666)

«Figlio, mia forza, mia grande potenza, tu figlio che solo
non hai paura dei dardi tifèi del padre supremo,
tu mio rifugio, il tuo nume io supplice invoco in aiuto».
                                                                      [Trad. di A. Fo]

L’allusione virgiliana risulta ancora più pungente, perché Ovidio distorce l’incipit del discorso di Venere nell’incipit dell’Eneide stessa – con arma manusque che riecheggia arma virumque (Verg. Aen. 1, 1): ‘arma manusque meae, mea, nate, potentia’ dixit, / ‘illa, quibus superas omnes, cape tela, Cupido...’ (met. 5, 365-366 cit.). Gli arma di Cupido sostitui-scono qui gli arma dell’altro figlio di Venere, in un incontro provocante fra epica ed elegia, come ha mostrato Stephen Hinds (1987, 133).

La pulsione per il potere, politico o ‘erotico’, ovvero politico per mezzo dell’eros, appare identica. Un effetto così brillante è un commento non privo di irriverenza sull’imperialismo romano, ed è allo stesso tempo una riflessione sulla natura ‘imperialista’ dell’amore. Qui come altrove, Ovidio crea un cortocircuito tra Venere come dea dell’amore e come antenata di Augusto. La città di Enea è ora la città di Venere, si dice nell’Ars amatoria: mater in Aeneae constitit urbe sui (“Venere ha posto la sua sede nella città del figlio Enea”, Ov. ars 1, 60); e, nella città di suo figlio, Venere ora “regna”: at Venus Aeneae regnat in urbe sui (“ma Venere regna nella città del suo Enea”, am. 1, 8, 42). Nell’elegia erotica di Ovidio, la missione virgiliana del figlio di Venere, compiuta con l’aiuto della madre, viene fatta coincidere, provocatoriamente, con l’affermazione su Roma della dea dell’amore. Qui nelle Metamorfosi, come nelle parole della ruffiana Dipsas negli Amores, il telos politico dell’Eneide – l’istituzione del potere di Enea, quindi di Augusto – trova un parallelo nell’istituzione da parte di Venere del proprio potere erotico, che qui viene proiettato su scala mondiale.

Dea imperialista, o meglio, ‘imperialista sessuale’ (come l’ha definita Patricia Johnson), questa Venere vuole che il re dell’Ade si innamori, e che la figlia di Cerere sia vittima del suo rapimento: un dominio tirannico sulla mente e sul corpo dei suoi sudditi. Non dovremmo dimenticare (o forse dovremmo?) che questo non è un ritratto imparziale di Venere: stiamo ascoltando il canto di Calliope, nella gara con le Pieridi, di fronte a una giuria di ninfe – le vittime più frequenti della violenza erotica nel poema – 48; e quel canto viene ora riferito da una Musa a Minerva, la dea vergine, una delle ribelli esplicitamente elencate da Venere49. Ma, appunto, la narrazione polifonica delle Metamorfosi permette a punti di vista molteplici di rivendicare la propria parte di verità.

Di fatto, nell’attribuire agli dèi dell’amore una pulsione imperialistica ed espansionistica, Ovidio sta aggiornando la rappresentazione greca di Eros tyrannos all’età di Augusto: mentre enuncia un piano di conquista degli Inferi, Venere si appropria di uno slogan della propaganda augustea, imperium proferre, come formulato nell’Eneide (met. 5, 371-372 cit. cur non matrisque tuumque / imperium profers?; cf. Verg. Aen. 6, 794-795 super et Garamantas et Indos / proferet imperium, “e al di sopra dei Garamanti e degli Indi / estenderà il suo dominio”)50. C’è ironia in questo ritratto di una genetrix persino più megalomane del suo discendente: e l’estensione davvero cosmica di un impero erotico che si espande fino agli Inferi suona come una caricatura delle pretese ecumeniche dell’Impero Romano51.

Vi è un ulteriore effetto ironico. Ovidio combina le rappresentazioni parallele del potere universale di Eros e di Afrodite, offerte a ritmo alterno dalla tradizione greco-romana52, nell’immagine politica di un socium regnum. O, almeno, questa è la retorica di Venere nel persuadere il figlio; in realtà, qui Venere è la mente, Amore il suo braccio armato. Con uno stacco rispetto al tono espressamente supplichevole della Venere di Virgilio (ad te confugio et supplex tua numina posco, Aen. 1, 666 cit.), questa dea madre lusinga il suo potente figlio al tempo stesso in cui esalta il proprio potere: lo apostrofa con movenze innologiche (vv. 369-370), per poi virare su un tono impaziente e imperioso (vv. 371-372); si associa all’imperium di Amore (matrisque tuumque... imperium... patientia nostra... spernimur... mecum vires... Amoris, vv. 371-374), ma fa della repressione dei ribelli un suo cruccio personale (nonne vides... abscessisse mihi?, vv. 375-376); e insiste sul regno condiviso, mentre sottolinea con affettata modestia il favore di cui gode (pro socio, si qua est mea gratia, regno, v. 378). Così, quando il fanciullo obbedisce con prontezza alla madre (non diversamente che nell’Eneide)53, l’espressione arbitrio matris rivela l’effettivo rapporto di potere tra i due (dixit Venus; ille pharetram / solvit et arbitrio matris de mille sagittis / unam seposuit, vv. 379-381). Come osserva Mairéad McAuley nel suo libro recente sulla rappresentazione della maternità a Roma, “Ovid’s Venus acts unashamedly like the archetypal ‘ambitious mothers’ reviled by Roman moralists like Seneca (Helv. 14.2) and reflected in Tacitus’ portraits of Livia and Agrippina, mothers who use their son’s political career to fulfil their own insatiable thirst for power”54.

Ecco, dunque, un’altra mater ambitiosa per liberum suum, ambiziosa ‘per mezzo di’ suo figlio, in contrapposizione alla Venere ambitiosa pro, ‘per’ la sua prole, che trama a favore della sua dinastia storica alla fine del poema – ma le due sono davvero così distanti fra loro? Come ha mostrato Barchiesi, nel testo di Ovidio “the goddess’ masterplot suggests a reading of the Metamorphoses as ‘from Chaos, to Venus’ takeover of Rome’55.

Le radici di questo intreccio erotico-politico che connota la dea dell’amore affondano in una tradizione letteraria illustre. L’Ippolito di Euripide (non confrontato dai critici ovidiani, per quanto ho potuto vedere) è un presupposto rilevante, credo, per comprendere l’invenzione di Ovidio – anche se non presenta una relazione madre-figlio (là Eros è figlio di Zeus, un caso unico). Le formule del potere universale di Afrodite ed Eros si avvicendano per tutta la tragedia56, ma, a un certo punto, convergono in una sinergia, in cui Eros appare piuttosto subordinato, e viene messa in risalto la preminenza della dea. È così nelle parole del coro verso la fine del dramma:

σὺ τὰν θεῶν ἄκαμπτον φρἐνα καὶ βροτῶν
ἄγεις, Κύπρι, σὺν
δ᾽ὁ ποικιλόπτερος ἀμφιβαλὼν
ὠκυτάτωι πτερῶι·
ποτᾶται δὲ γαῖαν εὐάχητόν
θ᾽ἁλμυρὸν ἐπὶ πόντον
θέλγει δ᾽᾽
Ἔρωςι μαινομέναι κραδίαι
πτανὸς ἐφορμάσηι χρυσοφαής,
φύσιν ὀρεσκόων σκύμνων πελαγίων
θ᾽ὅσα τε γᾶ τρέφει
τά τ᾽αἰθόμενος ἅλιος δέρκεται
ἄνδρας τε·
συμπάντων βασιληίδα τιμάν,
Κύπρι, τῶνδε μόνα κρατύνεις.
                                                                      (Eur. Hipp. 1268-1281)

Trascini l’animo inflessibile degli dèi e quello degli uomini, Afrodite, e con te Amore dalle ali variopinte, che li avvolge nel volo velocissimo. Vola sulla terra e sul mare sonoro, e incanta i cuori folli assaltandoli in volo con la sua luce dorata – le bestie dei monti e del mare, e tutte quelle che nutre la terra percorsa dal sole cocente, e gli uomini. Su tutti, Afrodite, tu sola eserciti un potere sovrano.
                                                                      [Trad. G. Paduano]

È così, inoltre, nel famoso primo stasimo, in cui Eros tyrannos è di fatto il braccio militare di Afrodite, lui che scaglia il dardo di lei con le sue mani (βέλος... τὸ τᾶς Ἀφροδίτας ἵησιν ἐκ χερῶν / Ἔρως) – ecco un precedente di ‘arma manusque meae’ (met. 5, 365), la presuntuosa metafora impiegata dalla Venere di Ovidio nel rivolgersi al figlio:

Ἔρως Ἔρως, κατ᾽ὀμμάτων
στάζεις
πόθον, εἰσάγων γλυκεῖαν
ψυχᾶι χάριν οὕς
ἐπιστρατεύσηι,
μή μοι ποτὲ σὺν κακι φανείης
μηδ᾽ἄρρυθμος ἔλθοις.
οὔτε γὰρ πυρὸς οὔτ᾽ἄστρων ὑπέρτερον
βέλος
οἷον τὸ τᾶς Ἀφροδίτας ἵησιν ἐκ χερῶν
Ἔρως
ὁ Διὸς παῖς.
ἄλλως ἄλλως παρά τ᾽Ἀλφεῶι
Φοίβου τ᾽ἐπὶ Πυθίοις τεράμνοις
βούταν φόνον Ἑλλὰς αἶ᾽ἀέξει
Ἔρωτα δέ, τὸν τύραννον ἀνδρῶν,
τὸν τᾶς Ἀφροδίτας
φιλτάτων θαλάμων κληιδοῦχον
, οὐ σεβίζομεν,
πέρθοντα καὶ διὰ πάσας ἱέντα συμφορᾶς
θνατοὺς ὅταν ἔλθηι
.
                                                                       (Eur. Hipp. 525-540)

 
 
 
 
 
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Amore, che stilli sugli occhi il desiderio, inducendo il dolce fascino nell’animo di quelli che assalti, non apparirmi assieme alla sventura, non venire in dissonanza. Né la fiamma del fuoco né i raggi delle stelle sono pari a quelli di Afrodite, che scaglia con le sue mani Amore, figlio di Zeus. Invano, presso l’Alfeo e nel tempio pitico di Apollo la Grecia accumula sacrifici di buoi, / e Amore, signore degli uomini, che tiene le chiavi delle stanze di Afrodite, non lo veneriamo, lui che quando arriva devasta gli uomini, scagliandoli in ogni rovina.

Nelle parole di Venere, Ovidio usa Euripide contro Virgilio, per declassare Amore da “forza e grande potenza” della madre (Aen. 1, 664 ‘nate, meae vires, mea magna potentia’) a strumento, e dunque emanazione, della sua potenza (met. 5, 365 arma manusque meae, mea, nate, potentia’): con l’avallo di un’autorità letteraria greca in fatto di eros, questa Venere manipola il testo virgiliano e inverte i rapporti di forza tra sé e la sua creatura.

L’Ippolito offre inoltre un modello per la politica della dea in tema di insubordinazione. Nel testo di Ovidio, com’è noto, l’ostilità di Venere contro i ribelli al suo regno prende spunto dall’Inno omerico ad Afrodite, con l’elenco delle dee vergini Atena, Artemide e Hestia – la terza è sostituita qui dalla figlia di Cerere57. Tuttavia, il piano operativo per sottomettere un oppositore ‘politico’, delineato in questo ‘prologo’ all’episodio di Proserpina, richiama piuttosto il prologo della tragedia di Euripide. Là Afrodite annuncia la sua vendetta contro Ippolito – il giovane, refrattario a sesso e nozze, che la disprezza e le preferisce la vergine Artemide – dichiarando il suo progetto di potere:

Πολλὴ μὲν ἐν βροτοῖσι καὶ οὐκ ἀνώνυμος
θεὰ κέκλημαι Κύπρις, οὐρανοῦ τ᾽ἔσω·
ὅσοι τε Πόντου τερμόνων τ᾽Ἀτλαντικῶν
ναίουσιν εἴσω, φῶς ὁρῶντες ἡλίου,
τοὺς μὲν σέβοντας τἀμὰ πρεσβεύω κράτη
σφάλλω δ᾽ὅσοι φρονοῦσιν εἰς ἡμᾶς μέγα.
ἔνεστι γὰρ δὴ κἀν θεῶν γένει τόδε·
τιμώμενοι χαίρουσιν ἀνθρώπων ὕπο.
δείξω δὲ μύθων τῶνδ᾽ἀλήθειαν τάχα.
ὁ γὰρ με Θησέως παῖς, Ἀμαζόνος τόκος,

Ἱππόλυτος, ἁγνοῦ Πιτθέως παιδεύματα,
μόνος πολιτῶν τῆσδε γῆς Τροζηνίας
λέγει κακίστην δαιμόνων πεφυκέναι·
ἀναίνεται δὲ λέκτρα κοὐ ψαύει γάμων
,
Φοίβου δ᾽ἀδελφὴν Ἄρτεμιν, Διὸς κόρην,
τιμᾶι, μεγίστην δαιμόνων ἡγούμενος,
χλωρὰν δ᾽ἀν ὕλην παρθένῳ ξυνὼν ἀεὶ
κυσὶν ταχείαις θῆρας ἐξαιρεῖ χθονός,
μείζω βροτείας προσπεσὼν ὁμιλίας
.
                                                                      (Eur. Hipp. 1-19)

 
 
 
 
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Potente e famosa tra gli uomini come in cielo, il mio nome è Afrodite. Tra tutti quelli che vivono fra il Ponto e le Colonne d’Eracle, rispetto chi venera il mio potere e distruggo chi si comporta superbamente verso di me. Anche nella stirpe degli dei, infatti, è innato il piacere di essere onorati dagli uomini. E mostrerò ben presto la verità di queste parole. Il figlio di Teseo e dell’Amazzone, che fu educato dal virtuoso Pitteo, solo fra i cittadini di Trezene mi proclama la peggiore delle divinità: rifiuta le nozze e non tocca le donne. Onora invece come massima divinità Artemide, la figlia di Zeus e sorella di Apollo, e passa tutto il suo tempo a sterminare le fiere nella foresta rigogliosa con l’aiuto dei cani veloci, stando assieme a lei, la dea vergine: una compagnia eccessiva per un mortale.

Il manifesto dei vv. 5-6 è quanto di più vicino al programma imperiale romano, come formulato da Virgilio: parcere subiectis et debellare superbos, “ai sottomessi usare clemenza e schiacciare i superbi” (Aen. 6, 853)58. L’immagine greca di una Afrodite ‘politicizzata’ è un analogo perfetto del potere assoluto dell’imperatore romano – il poeta delle Metamorfosi conosce bene il suo Euripide. La poesia d’amore latina aveva già tradotto la tradizione greca su Ἔρως ἀνίκητος (“Amore invincibile”) nel linguaggio dell’imperialismo romano. La romanizzazione del dio dell’amore, nel suo aspetto ‘politico’, era sfruttata da Ovidio per effetti giocosi nell’elegia erotica: il trionfo di Amore in am. 1, 2 è costruito con gli slogan dell’ideologia augustea, e l’elegia si chiude su un parallelo provocatorio tra gli arma e la politica di Cupido e quelli del suo consanguineo Caesar (am. 1, 2, 51-52 aspice cognati felicia Caesaris arma: / qua vicit, victos protegit ille manu, “Guarda le armi fortunate del tuo consanguineo Cesare: con la mano con cui vinse protegge i vinti” [trad. L. Canali])59; così, in am. 2, 9 il poeta-amante, assoggettato da Cupido, invita il dio a volgere le sue armi contro i suoi veri nemici, e ad espandere il suo dominio sull’esempio di Roma.

Quanto a Venere, l’aggressiva versione imperiale della dea nelle Metamorfosi ha un prototipo nell’Afrodite imperiosa e autocosciente di Euripide. Nell’epos di Ovidio il colorito politico, accentuato e aggiornato, che suggerisce l’espansionismo imperiale e la repressione dei ribelli, adatta non solo clichés augustei, ma forse persino formule repubblicane: l’autoaccusa di Venere, che rimprovera se stessa – e Amore con lei – di essere troppo tollerante (...(quae iam patientia nostra est!), met. 5, 374), poteva ricordare a orecchie romane il più famoso pronunciamento contro un ribelle nel discorso politico della Repubblica: quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra? (“Fino a quando abuserai, Catilina, della nostra pazienza?”, Cic. Cat. 1, 1)60.

Che la dea che impersona la passione erotica possa personificare in modo così efficace la passione politica non è solo un effetto divertente, o uno sberleffo en passant all’ideologia augustea. Questa è anche una riflessione acuta sulla natura tirannica dell’amore, e sulla profonda affinità e implicazione reciproca tra desiderio erotico e desiderio di potere. Ovidio dà quasi una dimostrazione narrativa della teoria di Platone sul potere tirannico. Nel nono libro della Repubblica, l’“uomo tirannico” (τυραννικὸς ἀνήρ) è descritto come dominato da Eros, che agisce come un tiranno nella sua anima: “E non è detto forse perciò ab antico”, chiede Socrate, “tiranno l’Amore?” (Plat. Resp. 573b Ἆρ᾽οὖν, ἦν δ᾽ἐγώ, καὶ τὸ πάλαι διὰ τὸ τοιοῦτον τύραννος Ἔρως λέγεται; [trad. F. Gabrieli])61. Quel ‘tiranno interiore’ – il desiderio, prima di tutto il desiderio sessuale – è trasformato da Ovidio in un tiranno in persona: qui nelle Metamorfosi, Venere e Amore insieme sono come lo Eros tyrannos della poesia greca, rimodellato sul discorso politico di Platone e aggiornato all’età di Augusto. In questa versione imperialistica romana, la connotazione politica degli dèi dell’amore è più forte che mai.

3. L’eros del potere: il tiranno e il suo servitium amoris

Con un paradosso, la teoria di Platone sul tiranno lo equipara a uno schiavo; la sua anima è tiranneggiata dai suoi stessi desideri (ἔρωτες ed ἐπιθυμίαι) e specialmente da Ἔρως stesso62: Τὶ οὖν; δούλην ἐλευθέραν τὴν τοιαύτην φήσεις εἶναι ψυχήν; Δούλην δήπου ἔγωγε (“Ebbene, schiava o libera dirai tu essere una anima siffatta?” “Schiava di sicuro”, Plat. Resp. 577d)63. Quel paradosso è prominente anche nel pensiero etico-politico stoico, per cui il tiranno è un paradigma dell’uomo schiavo delle passioni64. La poesia romana elabora questi concetti. In tutta la tradizione antica, il desiderio sessuale è al primo posto tra le passioni di un tiranno65; nella poesia e nella prosa latina sarebbe facile citare esempi di monarchi adulteri o incestuosi, e del topos del ‘vincitore vinto’, o ‘dominatore dominato’66; per tutti, può valere la battuta della Furia nel prologo del Tieste di Seneca: supraque magnos gentium exultet duces / Libido victrix (“e sopra grandi duci di popoli / danzi il suo trionfo vincitrice la Libidine”, Sen. Thy. 45-46 [trad. di F. Nenci]).

Ma c’è di più. Nella poesia imperiale romana, sesso e potere mostrano di condividere la stessa natura e le stesse dinamiche: un’intera fenomenologia del desiderio. Le tragedie di Seneca indagano le analogie tra libido amandi e libido regnandi (“brama d’amore” e “brama di potere”), e la loro patologia comune. I parallelismi tra queste due manifestazioni del furor sono stati indicati in uno studio importante67: entrambe queste passioni non hanno misura (modus), non tollerano un rivale, guidano il soggetto come una forza trainante; entrambe sono totalizzanti e, se soddisfatte, fanno sì che un uomo si senta un dio; tutte e due sono indifferenti alla fama e all’opinione dei più, ignorano le leggi, non sono soggette alla morale comune; impiegano l’inganno (fraus) e appartengono alla vita corrotta della città (o della corte); entrambe sono eccessive e comportano il nefas (“empietà”). Eros e Kratos, due ‘oggetti del desiderio’, implicano una ‘logica della concupiscenza’: e i discorsi del Sesso e del Potere, queste due forme dell’affermazione di sé, sono l’una lo specchio dell’altra.

Nell’esplorare le connessioni tra discorso politico ed erotico, Seneca applica il linguaggio amatorio ed elegiaco alla sfera del potere – addirittura, adatta l’Ars amandi di Ovidio alla ars regnandi di Atreo (Rosati 1996, 95). L’espressione lucreziana per il desiderio sessuale, dira libido, viene riusata dalla nutrice di Fedra per definire i desideri insani di individui potenti e ricchi: Sen. Phaedr. 206-207 illa magnae dira fortunae comes / ...libido (“Allora subentra il compagno rovinoso di ogni grande fortuna, il desiderio insaziabile” [trad. A. Traina])68. E questa quasi-identificazione di sesso e potere è “riprodotta icasticamente nell’immagine dell’adultero che ‘regna’” (Rosati 1996, 103): Phaedr. 986-987 castos sequitur mala paupertas / vitioque potens regnat adulter (“agli onesti è compagna la miseria, e l’adultero trionfa grazie ai suoi vizi”).

L’acuta diagnosi senecana69 è la variante filosofica di una visione comune. Nella tradizione antica sugli eccessi dei re, l’amore è una delle passioni associate al potere assoluto – la principale, e forse quella considerata più affine alla sua essenza70. Anche nella storiografia moralistica romana, l’ambitio politica è accompagnata spesso, non solo da avaritia e luxuria, ma soprattutto dall’eros sfrenato, come conferma Sallustio: il Bellum Catilinae esemplifica la teoria platonica della tirannia nella storia del declino di Roma, e modella Catilina sul tipo del tiranno anche per i suoi crimini sessuali71.

Esiste, tuttavia, una variante della brama di potere ancora più radicale: una rappresentazione della passione sessuale come non concomitante, né coessenziale, ma coincidente con la passione del potere; il potere assoluto può essere, per un tiranno, l’oggetto esclusivo di un vero e proprio eros – un desiderio unico e totalizzante. Il mito dei ‘Sette contro Tebe’ si presta a questo sviluppo. Nelle Fenicie di Euripide, Eteocle si dichiarava pronto a tutto per ottenere la Τυραννίς, personificata come la divinità più grande (Eur. Phoen. 504-506 ἄστρων ἄν ἔλθοιμαἰθέρος πρὸς ἀντολὰς / καὶ γῆς ἔνερθε, δυνατὸς ὤν δρᾶσαι τάδε, / τὴν θεῶν μεγίστην ὥστ᾽ἔχειν Τυραννίδα, “Sarei disposto ad andare fin dove sorgono gli astri dell’etere, e sotto terra, se potessi farlo, per avere il Potere, il più grande degli dèi” [trad. E. Medda]); e teorizzava con cinismo: “Se è necessario agire ingiustamente, la cosa migliore è farlo per il potere: e gli dèi si rispettino per il resto” (εἴπερ γὰρ ἀδικεῖν χρή, τυραννίδος πέρι / κάλλιστον ἀδικεῖν, τἄλλα δ᾽εὐσεβεῖν χρεών, vv. 524-525). Cesare, ricorda Cicerone, era solito ripetere le parole di Eteocle (nam si violandum est ius, regnandi gratia / violandum est; aliis rebus pietatem colas, “Se la giustizia si deve violare, si violi per regnare: / per il resto rispetta i santi doveri”, Cic. off. 3, 82 [trad. A. Resta Barrile]); e una sentenza analoga sigla la parte compiuta delle Phoenissae di Seneca (Sen. Phoen. 664 imperia pretio quolibet constant bene, “Qualsiasi prezzo è buono se si tratta del potere” [trad. A. Barchiesi]).

Partendo da quella assolutizzazione del Potere, la Tebaide porta all’estremo la riflessione senecana sull’analogia tra passione politica ed erotica: Stazio rappresenta il desiderio totalizzante del potere come desiderio sessuale, ed esprime l’ossessione patologica per il dominio con il linguaggio della poesia d’amore, in particolare dell’elegia. Il carattere equivoco di questa caratterizzazione è persino commentato, in un punto della Tebaide, da una nota autoriflessiva. Nel secondo libro, i pianti e sospiri di Polinice nel letto nuziale sono interpretati dalla sposa, elegiacamente gelosa, come sintomi elegiaci di amore per una rivale, e l’eroe sorride di quell’ingenuità (2, 351-353): una rivale in effetti c’è, ma è la corona di Tebe72.

Non è questa la sede per mostrare quanto quel motivo sia pervasivo nella Tebaide e rilevante per il discorso politico di Stazio, o come la natura incestuosa della casa di Edipo renda il quadro ancora più complesso e perturbante73. Qualche esempio dal primo libro basterà per concludere il mio discorso.

Il regno di Tebe è un regno povero, eppure i figli di Edipo si fanno la guerra per possederlo: sed nuda potestas / armavit fratres, pugna est de paupere regno (“era semplice bramosia di potere ad armare i fratelli. Oggetto della contesa non è che un povero regno”, Stat. Theb. 1, 150-151); la personificazione di Potestas ricorda l’ipostasi astratta ‘divinizzata’ da Eteocle in Euripide74. L’arrivo di Tisifone, poco prima, ha ispirato il furor nei fratelli, mettendo in moto il poema:

atque ea Cadmeo praeceps ubi culmine primum
constitit adsuetaque infecit nube penates,
protinus attoniti fratrum sub pectore motus,
gentilisque animos subiit furor aegraque laetis
invidia atque parens odii metus, inde regendi
saevus amor, ruptaeque vices iurisque secundi
ambitus impatiens, et summo dulcius unum
stare loco, sociisque comes discordia regnis.
                                                                      (Stat. Theb. 1, 123-130)

Non appena la Furia si fu avventata a precipizio sulle torri del palazzo di Cadmo, infettandone la dimora con la solita nube, subito un tumulto di passioni si insinuò nel petto dei due fratelli: penetrò loro nell’animo la follia propria della loro famiglia, l’invidia che si affligge della gioia altrui e il sospetto che genera l’odio; poi la spietata bramosia del potere, la violazione dei turni pattuiti, l’ambizione che non tollera il secondo posto e la dolcezza incomparabile di occupare da soli la posizione più elevata: la discordia, insomma, eterna compagna dei regni condivisi.

In questa descrizione della ‘genesi dell’uomo tirannico’, che si può confrontare con quella di Platone nel nono libro della Repubblica (Plat. Resp. 572e-573b)75, odio e amore hanno un ruolo cruciale: parens odii metus, inde regendi / saevus amor (vv. 127-128). “L’ odio generato dal timore” è il marchio della tirannia (oderint dum metuant, “mi odino, purché mi temano”, Acc. tr. 203 R2 = 168 W = 47 Dangel)76, ed è una perversione dell’amore reciproco fra sovrano e sudditi predicato dall’ideologia imperiale romana77. L’“amore” sublimato che assimila il buon re a un padre dei suoi sottoposti è pervertito qui in un amore esclusivo e morboso del potere: una passione devastante, come Eros può essere.

Sull’espressione regendi / saevus amor (1, 127-128) mi sono soffermata altrove78. Con una quasi-citazione da un contesto virgiliano non epico, il poeta flavio aggiunge una nota nuova alla brama di potere che porta al conflitto. Queste parole possono richiamare l’effetto della Furia su Turno79, ma il furore di guerra è sostituito qui da una furia di potere che ha una connotazione erotica ancora più forte. Stazio ottiene questo effetto di erotizzazione citando un famoso incipit delle Bucoliche, che descrive l’“amore crudele” di Medea – un altro saevus amor, all’origine di un’altra tragedia intrafamiliare: saevus Amor docuit natorum sanguine matrem / commaculare manus (“Amore crudele insegnò a una madre a macchiare le sue mani del sangue dei figli”, Verg. ecl. 8, 47-48). La iunctura compariva nel prologo della Medea di Ennio e tornava in quella di Seneca80, ma è dalla forma del testo di Virgilio che Stazio trae la forza della sua espressione. L’effetto di sorpresa, qui, è frutto di una progressione calcolata: regendi in clausola – con la sospensione dell’enjambement – anticipa la natura diversa, e diversamente pervertita, di questo saevus amor, che è una sorta di ‘eros del potere’81.

Anche dulcius, al v. 129 (et summo dulcius unum / stare loco), diventa marcato82: Stazio connota in senso erotico la scelta di regnare “da solo”. Un confronto è interessante: Cicerone, nel De officiis, interpreta quella scelta, compiuta da Romolo, come un falso giudizio di utilità: cui cum visum esset utilius solum quam cum altero regnare, fratrem interemit (“il quale, spinto dall’apparenza dell’utile, uccise il fratello Remo, perché gli parve più vantaggioso regnare da solo che insieme ad un altro”, Cic. de off. 3, 41). A utilius solum... (utilius solum... regnare) si contrappone qui dulcius unum (summo dulcius unum / stare loco); Cicerone critica un errore di giudizio83, Stazio condanna un trasporto erotico: una brama di potere che non si distingue dal furor amoroso. Una grande distanza separa questo dulcius dal γλυκίων di Omero (Il. 11, 13), che qualificava l’ardore di guerra ispirato da Ἔρις – modello della Discordia enniana, di Alletto, e di questa Tisifone84. Qui, la seduzione della discordia è divenuta la passione del potere: un trasporto simile alle dulces furiae di Edipo, l’“empio erede del padre”, il figlio salito – allo stesso tempo – al letto di Giocasta e al trono di Tebe85. Infine, la riflessione proverbiale sulla discordia ‘compagna’ dei regni condivisi, che sigla questo passo (v. 130), è una formula che Ovidio aveva già riferito, in parallelo, al potere e all’amore (non bene cum sociis regna Venusque manent, “in società con altri non resiste né un regno né un amore”, Ov. ars 3, 564 [trad. di E. Pianezzola]): un’associazione che, richiamata qui, assume un rilievo speciale.

Sotto il segno del paradosso, la Tebaide esplora le connessioni profonde tra passioni estreme – tra potere dell’eros ed eros del potere –, investendo la costruzione dei ruoli di genere e le loro relazioni reciproche. Ancora una volta, nella tradizione letteraria romana come in quella greca, linguaggio politico ed erotico si intrecciano. Lo abbiamo visto: l’amore per un uomo può fare di una donna disinteressata un essere ambizioso, e la passione del potere può rendere la femmina ambiziosa quanto un maschio86; gli dèi dell’amore – madre e figlio – programmano l’espansione del loro dominio col piglio di un imperatore, e del suo generale; e, in un uomo che aspira al trono, il desiderio totalizzante del potere si confonde col trasporto erotico87: nella poesia imperiale romana, come in Platone, Eros tyrannos è il potere assoluto che trasforma un tiranno in uno schiavo – e un amante in un mostro di empietà.

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Notes

1 Sull’elegia cf. Greene 1998; James 2003 (su Ovidio, discussione in Blanco Mayor 2017, 14-24); per Seneca vedi infra. Spunti di indagine anche in ambito latino offrono i contributi in Feichtinger / Kreuz 2010. Le relazioni sessuali degli imperatori sono oggetto del saggio di Vout 2007, che sfiora appena il discorso teorico su sesso e potere (6-7). Return to text

Una versione di questo lavoro è stata presentata al colloquio Political Cultures, Erotic Cultures. Gendered Politics in Ancient Societies, organizzato da Giulia Sissa (UCLA, 11-13 / 01 / 2016); ringrazio tutti gli intervenuti al dibattito, in particolare la respondent Diana Librandi, oltre agli anonimi referees della rivista per i loro suggerimenti.

2 Si vedano ad es. Newell 2000, Wohl 2002, Ludwig 2002, Scholtz 2007, Beneker 2012. Return to text

3—La rappresentazione di questi nessi in letteratura andrebbe inquadrata nel più vasto ambito di studi, non limitato all’antichità classica, sul ruolo delle emozioni nella politica (per cui cf. ad es. Hall 2005 e Kingston / Ferry 2008). Return to text

4 Della bibliografia su questa epistola, per cui rimando a Formicola 2017 e Larosa 2013, cf. in particolare Davisson 1984 e Colakis 1987, oltre a Labate 1987, 122-129 (fondamentale); sulle elegie alla moglie si vedano soprattutto Helzle 1989; Hinds 1999; Puccini-Delbey 2000; Citroni Marchetti 2004; sull’uso degli exempla mitici, indicazioni bibliografiche in Larosa 2014. Return to text

5 Trad. di L. Galasso (qui e in seguito, con piccole modifiche). Return to text

6 In una struttura chiastica, alla moglie di Ovidio si chiede, prima, di dimostrare la sua affiliazione con Marcia per mezzo della probitas, non solo di officia e azioni (75-77 ...ut illam / non magis officiis quam probitate colas. / cuncta licet facias...), poi di compiere fino in fondo il suo officium, aggiungendo un’azione a quelle precedenti (83-86 sed tamen hoc factis adiunge prioribus unum... clauda nec officii pars erit ulla tui [trad. infra nel testo]). Return to text

7 Tra i più espliciti, Wheeler / Goold 1988 (“be the canvasser for my misfortunes”), Gardini 1999 (“briga per liberarmi dalla disgrazia”) e ora Formicola 2017 (“briga di dar conforto ai nostri mali”). Return to text

8 L’agg. ambitiosus è usato con questa pregnanza in ars 2, 251-254 nec pudor ancillas, ut quaeque erit ordine prima, / nec tibi sit servos demeruisse pudor. / nomine quemque suo (nulla est iactura) saluta, / iunge tuis humiles, ambitiose, manus, “Non c’è vergogna a conciliarsi l’animo delle ancelle, cominciando dal grado più elevato, e l’animo dei servi: saluta ognuno col suo nome (non ci perdi nulla), stringi quelle umili mani tra le tue, come un candidato”; cf. Labate 1984, 224: “Il modello suggerito è quello dell’ambitio elettorale (il candidato corteggia la plebe)”; Janka 1997 ad loc. Per un altro esempio, riferito a Cupido, si veda am. 1, 1, 14, con McKeown 1989 ad loc. sull’uso in Ovidio e nei poeti augustei; inoltre am. 2, 4, 48 noster in has omnes ambitiosus amor, “a tutte si protende il mio ambizioso amore”, con Booth 1991 e McKeown 1998. Per un altro esempio ovidiano di donna ambitiosa pro un maschio della famiglia vedi infra, n. 39. Return to text

9 Cf. trist. 5, 2, 33-46; Pont. 1, 2, 145-150. Return to text

10 Cfr. ad es. Cic. off. 1, 71 videntur... offensionum et repulsarum quasi quandam ignominiam timere “sembrano... temere una certa ignominia e disonore derivanti dalle contrarietà e dagli insuccessi”; Hor. carm. 3, 2, 17 virtus repulsae nescia sordidae / intaminatis fulget honoribus (“il valore che non conosce l’ignobile sconfitta splende di onori senza macchia”), con Nisbet / Rudd 2004 ad loc.; Sen. epist. 71, 8 e 11. Il verso 88 ricalca ars 1, 346, di cui ripete identico il secondo emistichio (tuta repulsa tua est: il corteggiamento amoroso è meno impegnativo di quello politico); cf. Labate 1987, 124-125. Return to text

11 Anche qui la traduzione di Wheeler / Goold 1988 è efficace: “Toil that I may rest in a less hostile region and no part of thy duty will halt. Great is my request, yet not one that brings odium to the petitioner; shouldst thou not attain it, thy defeat involves no danger”, mentre Formicola 2017 lascia cadere l’immagine politica nel secondo dei due distici: “Che languisca io, sì, ma in una regione meno infesta, intriga, e il tuo dovere non avrai affatto trascurato. Reclamo un dono grande, che non rende inviso il supplice, e anche se non l’avessi, innocuo ti sarebbe il diniego”. Return to text

12 Per la probitas (di per sé virtù anche maschile: cf. Ov. Pont. 1, 9, 39-40 e Hellegouarc’ h’ 1963, 285-286) come requisito di una buona moglie ed elemento fisso delle sue lodi cf. ad es. Ov. trist. 1, 6, 19-20; 5, 5, 45-46; Luc. 8, 155-156; Stat. silv. 3, 5, 17-18; [Sen.] Oct. 547-548. Return to text

13 Su Livia in Ovidio, e sulle possibili ambiguità della sua rappresentazione in questa epistola (con sfumature diverse), cf. Johnson 1997, Koster 2012, Thakur 2014, 197-199, oltre a Luisi / Berrino 2010, 11-43, 74-78; sulla lettura ironica dei passi encomiastici di Pont. 3, 1 restano valide le osservazioni equilibrate di Labate 1987, 125-126, spec. n. 65. Tra gli studi storici recenti su Livia ricordo almeno Barrett 2002 e Braccesi 2016; per le rappresentazioni figurative, Bartmann 1999; Wood 1999, 75-141; sulle manifestazioni di un culto divino, McIntyre 2016, 94 n. 5, con bibliografia, e passim. Return to text

14 Barchiesi 2006, 104-107. Cf. cons. Liv. 349-356. Return to text

15 Labate 1984, spec. capp. 3 e 4; 1987, 109-129. Per la riformulazione dei precetti dell’Ars in Pont. 3, 1 cf. inoltre Nagle 1980, 44-46; Davisson 1984; Colakis 1987. Sul modello delle Epistole di Orazio nelle Epistulae ex Ponto si veda ora Fornero 2014. Return to text

16 Pont. 3, 1, 151-152 tum pete nil aliud, saevo nisi ab hoste recedam: / hostem Fortunam sit satis esse mihi, “Allora devi chiedere soltanto una cosa: che io sia posto lontano dai nemici crudeli: come nemico mi basti la Sorte”. Return to text

17 Pont. 2, 1, 31-34 (tu [= Fama] mihi narrasti... victorem...) claraque sumpturum pictas insignia vestes / tura prius sanctis imposuisse focis, / Iustitiamque sui caste placasse parentis, / illo quae templum pectore semper habet, “Tu questo mi hai narrato: ...e il vincitore... prima di indossare le vesti ricamate, il suo splendido paramento, ha posto sul sacro fuoco i grani di incenso e ha placato, in piena purezza, la Giustizia di suo padre, che in quel petto ha sempre un tempio”. Return to text

18 Per una panoramica sull’uso dei termini, tra linguaggio tecnico giuridico e uso comune, si veda Trisciuoglio 2017, 20-26. Per lo statuto ambiguo di ambitio, tra virtus e vitium, cf. ad es. Sall. Cat. 11, 1 sed primo magis ambitio quam avaritia animos hominum exercebat, quod tamen vitium propius virtutem erat, “Ma dapprima l’ambizione più che l’avidità tormentava l’animo degli uomini: e questo vizio tuttavia era assai prossimo alla virtù” (negativa invece la connotazione nelle parole di Catone in 52, 22; 52, 26); Quint. inst. 1, 2, 22 licet ipsa vitium sit ambitio, tamen frequenter causa virtutum est, “può darsi che l’ambizione in sé sia un vizio, ma spesso è causa di virtù”; per la valenza negativa in Seneca, cf. Borgo 1998, 25-27; Malaspina 2000; 2001, n. a clem. 1, 3, 5. Return to text

19 Si veda Santoro L’Hoir 1994. Sull’uso del sesso come strumento di influenza politica cf. ad es. Barrett 1999. Con termini diversi, la brama di potere – anche personale – di una donna, manifestata sia “a favore di” che “per mezzo di” un uomo, è anche quella attribuita da Livio a Tullia minore, figlia di Servio Tullio, che attraverso delitti intrafamiliari ottiene prima il matrimonio con Lucio Tarquinio, poi la sua ascesa al trono (Liv. 1, 46-48; cf. Ov. fast. 6, 585-610). Return to text

20 Santoro L’Hoir 1994, 12. Return to text

21 “Nulla rimaneva ai generali, quando una donna si metteva a passare in rassegna i manipoli, si accostava alle insegne, prendeva l’iniziativa delle elargizioni, come se non fosse già prova di ambizione il portare in giro il figlio del generale vestito da semplice soldato e tollerare che un Cesare si chiamasse Caligola. Ormai Agrippina aveva presso l’esercito più autorità dei legati e dei capitani; da una donna era stata soffocata una rivolta, contro la quale non aveva avuto forza il nome stesso di Tiberio” [trad. di B. Ceva]. Return to text

22 “La donna non solo è debole ed impari alle fatiche, ma, se è presa dalla sfrenatezza, è esigente, intrigante, assetata di potere; comincia a camminare fra i soldati, a tenere ai suoi ordini i centurioni; di recente una donna aveva diretto esercitazioni di coorti, e manovre di legioni”. Cf. la risposta di Valerio Messalino, 3, 34, 2-3 bella plane accinctis obeunda: sed revertentibus post laborem quod honestius quam uxorium levamentum? at quasdam in ambitionem aut avaritiam prolapsas. quid? ipsorum magistratuum nonne plerosque variis libidinibus obnoxios? (“Alla guerra, s’intende, devono andare uomini che possono agire liberamente; ma quale conforto è più dolce a chi ritorna affaticato di quello che la moglie può offrire? Ammettiamo pure che ve ne siano state alcune che si corruppero nell’ambizione e nella cupidigia; e che? non vi furono forse molti, fra gli stessi magistrati, che si resero colpevoli di varie dissolutezze?”). Return to text

23 “Da non minore bramosia erano accese le donne, ciascuna delle quali vantava in gara con le altre la sua nobiltà, la sua bellezza e le sue ricchezze e sfoggiava qualità degne di tanto matrimonio”. Cf. anche ann. 12, 59, 2 contra ambitum Agrippinae (“contro gli intrighi di Agrippina”). Return to text

24 Cf. Hallett 1989, 66. Sul ruolo influente delle madri nell’élite romana, Hallett 1984, cap. 5. Return to text

25 19, 4 sed si prudentiam perfectissimae feminae novi, non patietur te nihil profuturo maerore consumi et exemplum sibi suum, cuius ego etiam spectator fui, narrabit. carissimum virum amiserat, avunculum nostrum, cui virgo nupserat, in ipsa quidem navigatione; tulit tamen eodem tempore et luctum et metum evictisque tempestatibus corpus eius naufraga evexit (“Ma, se conosco la saggezza di questa donna assolutamente perfetta, lei non permetterà che ti consumi in un’afflizione destinata a non giovare aniente, e ti porterà l’esempio del suo comportamento, di cui sono stato personalmente testimone. Proprio durante la navigazione aveva perso il marito carissimo, nostro zio, a cui era andata in sposa da ragazza; tuttavia fece fronte contemporaneamente al lutto e alla paura e, naufraga, riuscì a portarne in salvo il cadavere, avendola vinta sulle acque in tempesta”). Return to text

26 Sfidare la morte per salvare, non il marito, ma il suo cadavere, è un tratto di nobiltà eccezionale, che ricompare nella storia di Argia (vedi infra nel testo); Stazio ne esalta l’amore coniugale, non verso un vivo, ma verso un morto: Theb. 12, 194-195 et, qui castissimus ardor, funus amat (“e ama lo sposo defunto del più casto degli affetti”). Return to text

27 Cf. Wilcox 2006, 78. Return to text

28 Sen. cons.Helv. 19, 6 post hoc nemo miretur quod per sedecim annos quibus Aegyptum maritus eius optinuit numquam in publico conspecta est, neminem provincialem domum suam admisit, nihil a viro petiit, nihil a se peti passa est. itaque loquax et in contumelias praefectorum ingeniosa provincia, in qua etiam qui vitaverunt culpam non effugerunt infamiam, velut unicum sanctitatis exemplum suspexit et, quod illi difficillimum est cui etiam periculosi sales placent, omnem verborum licentiam continuit et hodie similem illi, quamvis numquam speret, semper optat. multum erat, si per sedecim annos illam provincia probasset: plus est quod ignoravit (“Dopo di ciò, nessuno si meravigli del fatto che, durante i sedici anni in cui il marito governò l’Egitto, lei non fu mai vista in pubblico, non fece entrare in casa sua nessuno dei provinciali, non fece richieste al marito, non permise che le si facessero richieste. Fu così che una provincia portata alle chiacchiere e abile nell’escogitare insinuazioni offensive per i prefetti, nella quale anche i funzionari che non si sono macchiati di colpa non sono sfuggiti alla calunnia, guardò a lei come a un esempio impareggiabile di integrità e – cosa difficilissima per chi ama le battute anche azzardate – tenne a freno ogni eccesso nel parlare, e ancora oggi continua ad augurarsi una simile a lei, anche se non spera di poterla mai avere. Sarebbe stato molto, se per sedici anni la provincia avesse espresso approvazione per lei: è di più che l’abbia ignorata”). Return to text

29 Tac. Agr. 42, 4 sciant, quibus moris est inlicita mirari, posse etiam sub malis principibus magnos viros esse, obsequiumque ac modestiam, si industria ac vigor adsint, eo laudis excedere, quo plerique per abrupta sed in nullum rei publicae usum ambitiosa morte inclaruerunt, “Sappiano coloro che son soliti ammirare gli atti di illegalità, che anche sotto cattivi principi vi possono essere uomini grandi e che, con l’obbedienza e un giusto equilibrio accompagnati da un’energica attività, si può giungere a toccare quella fama, per la quale divennero celebri molti che, attraverso vie aspre e scoscese, cercarono una morte sensazionale, senza alcun vantaggio per la cosa pubblica” (trad. L. Lenaz). Return to text

30 Benoist 2015, 267-270. Return to text

31 Bessone 2010; 2011, 210-218; 2015. Return to text

32 Una tradizione che trova un fondamento teorico nella concezione platonica di Eros come origine della virtù (ἀρετή), persino nelle donne: cf. Bessone 2015, 119; 133-135. Return to text

33 Cf. Wilcox 2006, 74 sulle Consolationes di Seneca rivolte a donne: “In this respect, the female exemplars conform to Parker’s study [Parker 1998] of how Roman exemplum literature reaffirms the social status quo by depicting women who «in times of crisis become increasingly masculine» in order to reassert the masculine values on which the household and community are based [...]. the text, which both effaces gender differences and reasserts them”. Return to text

34 Rosati 2008, spec. 148-151 (cf. 150-151: “Ovidio indica quindi nell’eros la legge universale del desiderio, e gli ‘amori divini’ ne sono la rappresentazione più spettacolare... il percorso del desiderio... si tratta... di un atto di forza della divinità, che a sua volta subisce il dominio della passione, vale a dire è a sua volta vittima di un atto di forza di una potenza superiore, anzi della potenza suprema, quella di Eros. Il dio che domina uomini e dèi è quindi il punto di origine di una catena di potere che ha al suo estremo opposto un mortale, il bersaglio e vittima su cui si scarica questo incontrollabile flusso di energia, l’energia del desiderio. Che del resto il potenziale libidico, cioè la propensione all’eros, sia espressione diretta del potere in quanto tale lo conferma il fatto che è proprio Giove, vale a dire ‘il padre degli dèi e degli uomini’, il dio proverbialmente più coinvolto in avventure amorose, e subito dopo di lui il fratello Nettuno (cui nella spartizione del mondo era toccato in sorte il secondo regno, quello del mare, dopo quello celeste). E questa esibizione di potere da parte degli dèi (maschi) ha proprio nel teatro erotico del poema la sua manifestazione più spettacolare”). Return to text

35 La sovranità, non di Venere ma di Amore, sugli dèi sovrani del mondo è formulata da Ovidio per bocca di Fedra in epist. 4, 11-12 quidquid Amor iussit, non est contemnere tutum: / regnat et in dominos ius habet ille deos (“E quello che Amore comanda, non è prudente spregiarlo; egli regna e ha potere sugli dèi sovrani”): nell’esordio dell’epistola, il topos elegiaco allude al programma di vendetta contro il giovane ribelle enunciato da Afrodite nel prologo dell’Ippolito. Return to text

36 Barchiesi 1999, 119 (vedi infra, n. 44). Su Venere nelle Metamorfosi, oltre agli studi citati qui di seguito, cf. Stephens 1958; von Albrecht 1982. Return to text

37 Cf. Rosati 2009, 193: “si ha così una «erotizzazione» della politica, ossia un ricorso all’eros come strumento della politica, o se si vuole, una politicizzazione dell’eros, del quale si mostrano il carattere e le potenzialità politiche”. Return to text

38 Feeney 1991, 211-214 (spec. 213). Return to text

39 Ovidio usa qui non l’agg., ma il verbo ambire (v. 585), mentre pro compare al v. 595 (come a 15, 816, in una scena parallela): vedi infra nel testo. L’agg. ambitiosa è invece riferito a uno dei modelli di questa Venere ovidiano-virgiliana, una dea madre che diventa pro nato... ambitiosa suo: Teti, madre di Achille, che nell’Iliade ottiene da Efesto le armi per il figlio; cf. met. 13, 288-291 (discorso di Ulisse nell’armorum iudicium) scilicet idcirco pro nato caerula mater / ambitiosa suo fuit, ut caelestia dona, / artis opus tantae, rudis et sine pectore miles / indueret? (“Proprio per questo la cerulea madre trafficò tanto in favore del figlio, vale a dire perché queste armi, dono divino, opera d’arte di estrema raffinatezza, fossero indossate da un soldato rozzo e privo di cultura?”); si veda Hardie 2015 ad loc. per il gioco verbale nel definire ambitiosa la dea del mare, che “gira intorno” alla terra. Return to text

40 Hardie 2015 a 14, 585 (che cita inoltre met. 9, 432 ambitione). Cf. Feeney 1991, 207: “Venus ‘canvasses’ the gods, as does Hercules in the Apocolocyntosis... parody of senatorial procedure (Apoc. 9)”. Return to text

41 Feeney 1991, 211; Hardie 2015 a met. 15, 761-764. Return to text

42 Barchiesi 1999, 117-119 (cf. 119: “The echoes of Callimachus, Bion and Theocritus converge to define the change of political regime in Rome as an – unexpected – feminization of grand politics. The Alexandrian character of the passage is reinforced by the use of monarchic models of power”). Return to text

43 Schmitzer 1990, 212-213; Hinds 1987, 107-113 e 133-134; Johnson 1996 e 2008, 64-71 (interpretazione politica attualizzante); Barchiesi 1999; Zissos 1999; Rosati 2009 ad loc. Return to text

44 Rosati 2009 si discosta qui dall’edizione di Tarrant (che stampa il tràdito ea) per accogliere mea, proposto da Heinsius (e che doveva essere lezione di codici recenziori). Return to text

45 La formulazione della Johnson è anticipata da Labate 1984, 77 (non citato): “Venere parla nelle Metamorfosi come un principe, che, sollecito della grandezza e della solidità del suo impero, affida al proprio generale il compito di riaffermare prestigio ed egemonia, estendendo i confini del dominio. Linguaggio, temi, forme dell’argomentazione, sono sempre quelli dell’imperialismo di Roma”. Per il contrasto con l’Inno omerico a Demetra cf. Zissos 1999, 107. Return to text

46 Si veda Rosati 2009 al v. 376 per esempi di abscedo riferito a ribelli in Livio e Tacito. Return to text

47 Cf. Heinze 1919, 7 e n. 2 [= 19603, 312-313 e n. 4]. Return to text

48 Zissos 1999. Return to text

49 Johnson 2008, 47-52. Return to text

50 Schmitzer 1990, 213; Rosati 2009 ad loc. Return to text

51 Questa coloritura politica negativa non impedisce qui (a differenza che in met. 14 e 15) una valorizzazione del genere elegiaco come modello letterario e componente stilistico-narrativa del discorso epico delle Metamorfosi. Return to text

52 Il potere universale di Eros è già definito in Hes. Theog. 120-122 (cf. poi ad es. Soph. Trach. 441-448; Eur. fr. 433 Kannicht); per quello di Eros e Afrodite insieme cf. Soph. Ant. 787-800 (terzo stasimo: dall’esaltazione iniziale di Eros si passa a quella finale di Afrodite, nei vv. 799-800, su cui Griffith 1999: “Aphrodite and Eros (interchangeable here, as often)”); Eur. Hipp. 525-544 (primo stasimo) e 1268-1281, su cui vedi infra nel testo; per quello di Afrodite cf. hymn.Hom.Aphr. (5), 1-6; 34-37; Soph. fr. 941 Radt; Eur. Hipp. 443-450 (nutrice); Eur. fr. 898 Kannicht. Return to text

53 Cf. Aen. 1, 689 paret Amor dictis carae genetricis – ma il tono è del tutto diverso. Return to text

54 McAuley 2015, 146 e n. 89. Return to text

55 Barchiesi 1999, 125. Cf. anche McAuley 2015, 148 n. 95: “Johnson [1996] maintains that the Ovidian allusion highlights the difference between the two Venuses and the imperium each seeks – one is patriotically furthering the cause of Rome and her grandson, while the other seeks her own territory to rule. ‘Calliope’s version of the rape’s motivation becomes a commentary on the Aeneid’s patriotic and maternal Venus by replacing her with a sexual imperialist who lacks even the excuse of the glory of Rome to fall back upon for her behavior’ (1996: 135). But is the distinction so clear-cut? As is clear from my discussion, I see both Venuses as maternal in different but associated ways”. Return to text

56 “The poet uses the two as indifferent alternatives to personify the power of sexual passion”, Barrett 1964 a 1280-1282. Return to text

57 Barchiesi 1999, 115. Return to text

58 Labate 1984, 68-69 cita il passo in relazione ad Amores 1, 2 (e 2, 9, 11 ss.). La discussione di Labate (pp. 65-78) sulla assimilazione ovidiana del governo di Amore al governo imperiale di Roma è una lettura indispensabile; sul nostro episodio in met. 5 si vedano le pp. 77-78. Return to text

59 Cf. am. 1, 2, 17-18 acrius invitos multoque ferocius urget, / quam qui servitium ferre fatentur, Amor, “Con molto maggiore asprezza e crudeltà Amore incalza i restii, di quelli che riconoscono di esserne schiavi”, cui segue, ai vv. 19-22, l’immagine militare della resa al vincitore (si veda McKeown 1989 ad loc.); Tib. 1, 8, 7-8 con Smith 1913 ad loc. Return to text

60 Cf. Cat. 1, 1, 3 an vero... Catilinam orbem terrae caede atque incendiis vastare cupientem nos consules perferemus?, “...e noi consoli sopporteremo che Catilina si proponga di desolare l’universo intero con incendi e massacri?” [trad. L. Storoni Mazzolani]. Return to text

61 Cf. anche 572e-573a; 573d “Te lo dico: penso infatti che dopo ciò abbian luogo feste e bagordi e baldorie ed etère e tutte le cose consimili, presso coloro di cui il tiranno Amore, abitandoci dentro, governa tutte le facoltà dell’anima”; 573e “E quando tutto venga loro a mancare, non è forza che i desideri annidati nell’animo gridino fitti e violenti, e gli uomini quasi incalzati dai pungoli degli altri desideri, e in special modo di Amore medesimo, che capeggia tutti gli altri quasi suoi satelliti, infurino e vadan cercando se c’è chi abbia qualcosa che sia posibile togliergli per inganno o violenza?”; 574e-575a “...mentre poi, soggiaciuto egli alla tirannia d’Amore (τυραννευθεὶς δὲ ὑπὸ Ἔρωτος), e divenuto di continuo da sveglio tale quale sol di rado diveniva in sogno, non si asterrà da alcun atroce fatto di sangue né da cibo ed atto alcuno; ma Amore vivendo in lui tirannicamente in totale anarchia e assenza di legge, da unico sovrano assoluto qual è (τυραννικῶς ἐν αὐτῷ ὁ Ἔρως ἐν πάσῃ ἀναρχίᾳ καὶ ἀνομίᾳ ζῶν, ἅτε αὐτὸς ὤν μόναρχος), trarrà chi lo abbia in sé, come il tiranno conduce uno Stato, a osare ogni cosa da cui alimentare se stesso e la tumultuosa turba che gli sta intorno, sia quella entratagli dal di fuori per la cattiva compagnia, che quella sfrenata e liberata dal di dentro, da quegli stessi costumi e da se stesso... Non è forse tale la vita d’un tal uomo? – Tale appunto, diss’egli”. Si veda Wohl 2002, 221: “For Plato Eros is both the origin and the essence of tyranny”. Return to text

62 Cf. Ludwig 2007, 222-230. Interessante Newell 2013, che usa eros come “un prisma” per indagare diverse teorie della tirannia, fra antico e moderno, da Platone a Machiavelli a Hobbes; sulla centralità di eros e sulla sua ambivalenza nella filosofia politica di Platone cf. ad es. pp. 11-12 (“For Plato, eros, if left unguided, can be the source of spontaneous tyrannical ambition. However, as he presents it, eros also contains the potential for its own redirection toward a love of the beautiful and the good, entailing the rehabilitation and sublimation of those aggressive passions in the service of philosophy and a devotion to the common good... The kind of erotic longing for the beautiful and the good set forth in Plato’s Symposium...”), e passim. Return to text

63 Cf. 577d-e (“Se dunque l’uomo è simile alla città, non sarà necessario vi sia anche in lui quello stesso regime, e che la sua anima sia piena di molta schiavitù e ignobiltà, e che di essa sian schiave quelle parti che sono migliori, e una piccola parte invece, la più malvagia e folle, sia padrona? [...] È vero che la città schiava e retta a tirannia non può minimamente far ciò che vuole? [...] Quindi anche l’anima retta a tirannia non potrà minimamente far quel che voglia, per dire dell’anima nel suo complesso: e trascinata sempre a forza sotto un assillo, sarà piena di turbamento e pentimento [...] ...in quest’uomo tirannico, infuriante per desideri e passioni”); 579b; 580c. Return to text

64 Per la “schiavitù” alle passioni cf. ad es. Sen. de ira 1, 10, 2; de vita beata 4. Return to text

65 Cf. Catenacci 2012, 121-141. Per la libido come caratteristica del tiranno nella declamazione latina si veda Tabacco 1985, 116-125. Return to text

66 Cf. Casali 1995, 12-13 e n. ai vv. 1-2; Mantovanelli 2014 [= 1998], 150 n. 17. Return to text

67 Rosati 1996, 100-104 (§ Eros e regnum, ovvero la dinamica del desiderio). Return to text

68 Si veda Traina 1991 [= 1979], 17-18. Cf. Pers. 3, 35-38 magne pater divum, saevos punire tyrannos / haut alia ratione velis, cum dira libido / moverit ingenium ferventi tincta veneno: / virtutem videant intabescantque relicta (“O gran padre dei numi, punisci, ti prego, i crudeli tiranni, quando la feroce passione intrisa di bollente veleno li sconvolge, non altrimenti che facendo loro conoscere la virtù e straziandoli col rimorso d’averla tradita!” [trad. di E. Barelli]), con Kißel 1990 ad loc. Return to text

69 Un’elaborazione peculiare dello stoicismo, nutrita anche della personale esperienza e riflessione politica del precettore di Nerone e testimone del suo agire da princeps. Return to text

70 Cf. ad es. Xen. Hier. 1, 26; 1, 31, con Gray 2007 ad loc. Return to text

71 Si veda Seng 2010, 69-73. Return to text

72 Theb. 2, 332 ss.; 351-353 ‘ni conscius ardor / ducit et ad Thebas melior socer. hic breve tandem / risit Echionius iuvenis...’, “‘A meno che non siano un amore colpevole, o un suocero migliore ad attirarti a Tebe’. A questo punto il giovane echionio finalmente sorrise un poco”. Return to text

73 Posso rimandare per questo a Briguglio 2017a, 48-62; 2017b. Return to text

74 Qui, tuttavia, vi è quasi un cenno di erotizzazione della Potestas: il polisemico nuda, che vale ‘pura e semplice’ (e a livello superficiale si contrappone ad armavit per il senso accessorio di ‘senza armi’), potrebbe inoltre suggerire una sfumatura sessuale. Return to text

75 Plat. Resp. 572e-573b “Quando questi terribili maghi e fabbricatori di tiranni non abbian più altra speranza di rendersi padroni del giovane, gli ordiscono e insinuano nell’animo un amore che si metta a capo dei desideri oziosi e distributori di ricchezze, un grande e alato fuco – o cos’altro pensi che sia un amore di cose siffatte? – No, nient’altro che questo, diss’egli. – Or quando gli altri desideri ronzantigli attorno, pieni di aromi e unguenti e corone e vino, e dei rilassati piaceri che han luogo in tali compagnie, fomentandole e alimentandole all’estremo, infiggano a questo fuco il pungolo del desiderio, allora questo capopopolo dell’anima si fa scortare dai satelliti della pazzia, e infuria, e se trova in quell’uomo delle opinioni o desideri tenuti per buoni e ancor capaci di pudore, li ammazza e li caccia fuori da lui, sino a che non lo purghi di saggezza, e non lo riempia di importata pazzia. – Tu descrivi perfettamente la genesi dell’uomo tirannico (τυραννικοῦ ἀνδρὸς... γένεσιν). – E non è detto forse perciò ab antico tiranno l’Amore? – È probabile, disse. Return to text

76 La paura accomuna sudditi e tiranno: cf. già Plat. Resp. 578a “E che? Non è necessario che sia piena di paura e una tale città e un tale uomo?”; 579b “E non è forse avvinto in una simile prigione il tiranno, essendo per natura quale discorremmo, pieno cioè di molte e svariate paure e passioni?” (ὁ τύραννος... πολλῶν καὶ παντοδαπὼν φόβων καὶ ἐρώτων μεστός); Sen. clem. 1, 12, 3-4 con Malaspina 2001 ad loc.; Lanza 1977, 45, 198, 201-206; La Penna 1979 [= 1972], 127-129; 137; Tabacco 1985, 33-38. Return to text

77 Cf. ad es. Ov. trist. 2, 159-160 sic tibi... / reddatur gratae debitus Urbis amor (“possa tu ricevere tutto il devoto affetto che Roma piena di gratitudine ti deve” [trad. F. Lechi]); Sen. clem. 1, 13, 4 a tota civitate amatur (“è amato da tutta la cittadinanza”); per lo sviluppo in poesia flavia e nel Panegirico di Plinio di questo concetto, risalente a Isocrate e ripreso da Cicerone, si veda Rosati 2011; Bessone 2011, 42-43; 165. Return to text

78 Bessone c.d.s. Cf. Theb. 2, 399 ‘dulcis amor regni blandumque potestas’, “Ma poiché è cosa dolce la passione del regno e seducente il potere”, con Gervais 2017 ad loc. (altrove amor regni / regnandi solo in Liv. 40.8.18); 11, 655-656 pro blanda potestas / et sceptri malesuadus amor!, “Ah seduzione del potere, e amore dello scettro, che è così malvagio consigliere!”. Connotazione analoga ha dulcius in Theb. 5, 78; cf. anche 5, 162 dulce nefas (con Rosati 2005). Return to text

79 Verg. Aen. 7, 461 saevit amor ferri, “imperversa la brama del ferro” (si veda Horsfall 2000 ad loc.), già ripreso da Sen. Thy. 84-85. Return to text

80 Enn. Med. ex. 216 Joc.; Sen. Med. 849-851. Return to text

81 Qualcosa di simile alla regnandi... dira cupido del proemio delle Georgiche, una brama così terribile da far desiderare persino il regno degli Inferi, o una passione rovinosa per il titolo di rex in sé: cf. Verg. ge. 1, 36-37, con Thomas 1988 ad loc., che cita, per regni / regnandi cupido come “a political phrase of the utmost opprobrium”, Liv. 1, 6, 4; 1, 17, 1; 21, 10, 4 (e Bruto in Cic. ad Brut. 24, 3 cupiditatem regni); si aggiunga Sall. hist. 4, 69[= 4, 67 McG.], 5, 17 cupido profunda imperi et diuitiarum. Per la connotazione erotica di dira cupido (cf. Lucr. 4, 1090 dira cuppedine con Brown [1987]; 4, 1046 dira lubido) si veda Hardie 1994 a Aen. 9, 184-185. Return to text

82 I vv. 129-130 suonano come una risposta a Lucr. 2, 7-13: un’opposizione tra scelte di vita. Cf. Theb. 2, 339 cit. supra, n. 70. Return to text

83 Oltre alla mancanza di pietas e di humanitas, e alla fabbricazione di un pretesto da parte di Romolo. Return to text

84 Hom. Il. 11, 13-14 τοῖσι ­δ᾽ἄφαρ ­πόλεμος ­γλυκίων ­γένετ­᾽­ἠὲ ­νέεσθαι ­/ ­ἐν ­νηυσὶ ­γλαφυρῇσι ­φίλην ­ἐς ­πατρίδα ­γαῖαν­, “­subito ­per loro la guerra divenne più dolce / del ritorno alla patria sopra le navi” [trad. G. Paduano]. Return to text

85 Theb. 1, 68-69 si dulces furias et lamentabile matris / conubium gavisus ini (“se con piacere mi sono accostato alle dolci follie dell’amore e alle abominevoli nozze con mia madre”); 1, 233-235 scandere quin etiam thalamos hic impius heres / patris et inmeritae gremium incestare parentis / appetiit, proprios (monstrum!) revolutus in ortus (“ora quest’empio figlio ha desiderato persino entrare nel letto di suo padre e macchiare con l’incesto il grembo della madre incolpevole, ritornando (cosa mostruosa!) alle origini della sua stessa vita”): scandere è anche il verbo della salita al trono, cf. Briguglio 2017a ad loc. e Bessone 2018, 22-23. Return to text

86 Per l’amore come l’agente più potente di una metamorfosi dei ruoli di genere cf. Bessone 2015. Return to text

87 Per un altro esempio notevole cf. Briguglio c.d.s.; l’amore del potere, che a poco poco cancella in Creonte l’affetto per il figlio morto (Theb. 11, 659-660), è caratterizzato in senso erotico da Stazio mediante la ripresa di celebri versi dell’Eneide, quelli in cui Amore cancella a poco a poco in Didone il sentimento per Sicheo (Aen. 1, 719-722). Return to text

References

Electronic reference

Federica Bessone, « Stili di potere. Linguaggio politico, genere ed eros nella poesia imperiale romana », Eugesta [Online], 8 | 2018, Online since 01 janvier 2018, connection on 15 octobre 2024. URL : http://www.peren-revues.fr/eugesta/454

Author

Federica Bessone

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