1. Introduzione
A conclusione del XXXII libro della Biblioteca, Diodoro narra le vicende di Eraide, che divenne Diofanto (10.2-9), di Callò, che diventò Callon (11.1-4), e di altre figure protagoniste di avvenimenti analoghi occorsi fra la metà del II secolo a.C1. e il I a.C. (12.1-3); casi simili sono documentati, inoltre, nella Naturalis historia di Plinio e nel De rebus mirabilibus di Flegonte2. Il primo accenna brevemente, infatti, a una vergine divenuta fanciullo e deportata, per questo, su un’isola deserta; rievoca, quindi, la storia di Arescusa, che, sposatasi, divenne Aresconte, e quella di Consizio, divenuto uomo proprio nel giorno delle nozze (NH VII 36). Similmente Flegonte ricorda il prodigio di una fanciulla tramutatasi in uomo in occasione del matrimonio (Mir. 6.1-4) e richiama pure la vicenda affine di una certa Filotide (Mir. 7.1-2); a questa fa seguire la narrazione delle trasformazioni di Sinferusa e di Etete, che divennero rispettivamente Sinferonte (Mir. 8.1) ed Eteto (Mir. 9.1). Inoltre, Flegonte chiama androgini la maggior parte di questi individui (Mir. 6.1, 7.1, 8.1, 10.1), e sia Plinio (NH VII 34) sia Diodoro (XXXII 10.4, 12.2) fanno riferimento al fatto che i protagonisti degli avvenimenti narrati siano ritenuti androgini o ermafroditi dai più3.
In aggiunta, tutti e tre gli autori documentano le sorti riservate a tali figure che, da un lato, potevano rischiare di essere abbandonate alla nascita (Phleg. Mir. 2.4; Plin. NH VII 36) o di essere date alle fiamme (Diod. XXXII 12.2, cfr. Phleg. Mir. 2.4), e che, dall’altro, potevano essere riassegnate, in età adulta, alle file dell’altro sesso (Diod. XXXII 10-11; Plin. NH VII 36; Phleg. Mir. 6-9). Anche se Diodoro, Plinio e Flegonte rievocano, tutti, le vicende di donne divenute uomini4 – e mai di uomini diventati donne –, un passo di Ulpiano lascia comunque immaginare la possibilità che transizioni in senso opposto fossero quantomeno contemplate: il giurista fa riferimento al diritto di un ermafrodita a sposarsi e ad avere eredi previa verifica che in lui prevalgano gli organi maschili (ad Sab. 1.3, D. 28, 2, 6, 2), lasciando intendere, dunque, che casi di ermafrodite fossero verisimilmente noti5. Difatti, il diritto romano escludeva deliberatamente l’aporia, prevedendo l’assegnazione di questi individui a un determinato sesso (Thomas 2002, 133).
Diodoro, Plinio e Flegonte attestano, quindi, comportamenti ambivalenti nei confronti dei cosiddetti androgini o ermafroditi6. È anzi proprio sulla base di tali atteggiamenti che l’autore della Biblioteca motiva la necessità di rievocare le storie di Eraide e Callò. Per questo, a conclusione della sezione, Diodoro sottolinea l’esigenza di ammaestrare chi legge su avvenimenti come quelli narrati (XXXII 12.1), e impronta tale obiettivo alla volontà di rettificare le superstizioni (12.3) di cui tali persone sono spesso oggetti. Molti, infatti, considerano questi individui τέρατα (12.1), ‘mostri’ o ‘prodigi’, che nascerebbero raramente e che sarebbero in grado di presagire gli eventi (IV 6.5)7. Ciò nondimeno, alle superstizioni diffuse tanto fra i singoli quanto fra i popoli e le città (XXXII 12.1), Diodoro oppone un atteggiamento basato sulla ricerca della verità (12.2) e che appare in linea con altre considerazioni da lui espresse nei riguardi di qualsiasi tipo di scaramanzia (Langlands 2002, 91-2).
Lo storico documenta, inoltre, un’analoga duplicità di posizioni anche in un passo del IV libro, là dove fa riferimento ai racconti mitici intorno al dio Ermafrodito (6.5). Costui deriverebbe il proprio nome dai genitori – il dio Hermes e la dea Afrodite (cfr. Ov. Met. IV 290-1, 384) – e sarebbe nato con una ‘natura mista’ (6.5 φύσιν [...] μεμιγμένην): ‘L’avvenenza e la morbidezza del suo corpo’, spiega Diodoro, ‘erano somiglianti a quelle della donna, ma aveva la virilità e la capacità di agire dell’uomo’ (6.5 τὴν μὲν εὐπρέπειαν καὶ μαλακότητα τοῦ σώματος ἔχειν γυναικὶ παρεμφερῆ, τὸ δ’ ἀρρενωπὸν καὶ δραστικὸν ἀνδρὸς ἔχειν)8. L’autore, inoltre, contrappone a questo mito la posizione di chi considera delle mostruosità creature bisessuate quali, appunto, Ermafrodito (6.5), e anche se in questa occasione non esprime alcun parere al riguardo, l’accostamento del passo con i frammenti del XXXII libro (10-12) ne chiarisce la posizione a favore della verità e a discapito delle superstizioni (cfr. Goukowsky 2012, 282 n. 116)9.
Diodoro, infatti, rappresenta le vicende di Eraide e di Callò come un παράδοξον (XXXII 10.2, 3, 4, 5, 7, 11.2), un ‘fatto inaspettato/sorprendente/strano’, che, in quanto tale, suscita ora meraviglia ora incredulità10. L’autore, di fronte a sentimenti e a reazioni di questo tipo, si pone l’obiettivo di mostrare al pubblico che cosa si nasconda dietro al velo dell’apparenza: se popoli e città, con i loro atteggiamenti, si mostrano non in grado di comprendere avvenimenti di tal genere, il compito dello storico è guidarli oltre lo stupore e lo scetticismo iniziali, così da giungere alla percezione e alla comprensione della realtà celata dalla straordinarietà della natura (Langlands 2002, 91-2). Dunque, definendo παράδοξον la vicenda di Eraide e di Callò, Diodoro sembra dichiarare fin da subito la propria volontà di guidare il pubblico oltre l’apparenza.
Scopo di questo contributo è dunque proporre un’analisi delle rappresentazioni di Eraide/Diofanto e di Callò/Callon al fine, in primo luogo, di mettere in evidenza le voci che concorrono a delinearne i ritratti e, in secondo luogo, con lo scopo di estrapolare fra queste voci la posizione dell’autore stesso11. Nella prospettiva diodorea, infatti, i più appaiono imbrigliati in credenze che vedono Eraide e Callò come figure dalla doppia natura (10.2, 8) se non ermafrodite (10.4, cfr. 12.2), e che, in quanto tali, sarebbero caratterizzate da una compresenza di tratti considerati maschili e femminili. Per l’autore, invece, una coesistenza di tal genere non sarebbe possibile; per Diodoro, infatti, decodificare un fatto di tal tipo nel senso della verità implicherebbe la necessità di ricondurre Eraide e Callò nel solco del binarismo, negando la possibilità che corpi ibridi possano esistere (12.1). In questo, a mio parere, la posizione dello storico può essere accostata non tanto ai testi medici (come osservato, invece, da parte della critica [e.g. Goukowsky 2012, 195-6; Graumann 2013, 193-4]) quanto ai giuristi di epoca imperiale, i quali, come è noto, si richiamavano a una giurisprudenza ben più antica.
Diodoro, tuttavia, non nega che, ad Abe ed Epidauro, una qualche trasformazione sia avvenuta: l’analisi mostrerà come l’autore definisca περιπέτειαι (10.2, 4, 5, 11.1, cfr. 12.1, 2) – vale a dire ‘rovesciamenti delle parti’ o, pure, ‘avvenimenti imprevisti/straordinari’ (LSJ, s.v. περιπέτεια)12 – le vicende delle due protagoniste, rimandando così alle trasformazioni sociali – e, a suo avviso, tutt’altro che corporee – di entrambe le figure. In questa prospettiva, lo studio dei termini (in particolare γυνή, ‘donna’, νεανίσκος, ‘fanciullo’, e ἀνήρ, ‘uomo’) e della lingua (con il passaggio dal genere femminile al maschile) porterà alla luce una serie di aspetti funzionali, in prima battuta, a svelare il momento esatto in cui Diofanto e Callon sono riconosciuti come uomini, e utili, in seconda battuta, a contestualizzare le due vicende nei processi di costruzione dell’idea di maschilità nel mondo antico, e non solo. In linea con il concetto di hegemonic masculinity teorizzato da Connell (1987; 1995), si noterà come, nel passo della Biblioteca, la possibilità di essere riconosciuto come uomo passi per il possesso di un aspetto, di un comportamento e di un nome socialmente adeguati.
Inoltre, discernere la posizione binaria sostenuta dall’autore implica anche assumere una posizione critica nei confronti di tutti quegli studi che, nell’accostarsi a Eraide e Callò, hanno cercato spesso di definirle facendo riferimento ai concetti di intersessualità e di pseudoermafroditismo13. Con il termine intersessualità si indica la condizione di chi, per esempio, presenta organi genitali che, alla nascita, non sono stati ricondotti a un sesso/genere specifico, o ancora di chi, in fasi successive, ha sviluppato caratteristiche considerate opposte al sesso/genere assegnato14. Nel linguaggio medico questa condizione, determinata anche dal possesso di cromosomi sessuali reputati in contrasto con il sesso anagrafico, è nota anche come pseudoermafroditismo ed è stata considerata con frequenza (e non senza problematicità) una forma di disturbo dello sviluppo sessuale (Houk et al. 2006; Graumann 2013, 198-202; Rippon 2019, 327-45). Nella prospettiva di indagine di questo contributo, la volontà diodorea di ricondurre Eraide e Callò nel solco della dicotomia maschio/femmina – unita alle parole pronunciate dalla stessa Eraide in tribunale (10.6) e, pure, a quelle proferite dall’anonima vox loquens di un epigramma palatino (AP IX 602) – complica la possibilità di leggere e, soprattutto, definire tali vicende attraverso il solo concetto di intersessualità15. Si vedrà, infatti, come per Diodoro le condizioni di maschio e di femmina non possano coesistere nella medesima persona: se le ‘transizioni’ di Abe ed Epidauro sono accadute, è solo perché una verità a lungo nascosta sarebbe venuta alla luce e, in seguito a ciò, il processo di trasformazione e ‘normalizzazione’ sociale delle due figure avrebbe avuto luogo inevitabilmente.
2. Eraide che divenne Diofanto
La vicenda di Eraide/Diofanto è narrata da Diodoro nei frammenti conclusivi del XXXII libro, tramandati dalla testimonianza di Fozio e della sua Biblioteca (377-9 B)16. L’avvenimento risale all’epoca di Alessandro Balas, il quale fu sovrano dell’impero seleucide dal 150 al 145 a.C.17. Diodoro racconta, infatti, che Diofanto era fra i soldati di Alessandro ad Abe quando il re fu ucciso (10.8). Anzi, alla presenza di Diofanto nell’esercito è legata una profezia sulla morte del sovrano, il quale, a detta dell’oracolo di Apollo, avrebbe dovuto guardarsi dal luogo di nascita dell’essere dalla doppia natura18. Questo è lo spunto di cui lo storico si serve per narrare i fatti di Abe, i quali appaiono caratterizzati da una spiccata polifonia.
2.1. ‘[...] e con voce lamentosa chiese chi costringesse un uomo a coabitare con un altro uomo’ (Diod. XXXII 10.4)
Eraide era la figlia di un uomo di stirpe macedone di nome Diofanto e di una donna araba originaria di Abe (10.2); fu data in sposa a un certo Samiade il quale, dopo un anno al fianco della moglie, partì per un lungo viaggio (10.3)19. ‘Dicono’ (10.3 φασίν) che allora Eraide fu presa da ‘una malattia strana e veramente incredibile’ (10.3 ἀρρωστίᾳ [...] παραδόξῳ καὶ παντελῶς ἀπιστουμένῃ): comparvero febbri e un’infiammazione al basso ventre e, in ragione di questi sintomi, i medici sospettarono la presenza di un’esulcerazione al collo dell’utero (10.3); per questo le somministrarono le cure adatte20. ‘Al settimo giorno, tuttavia, la superficie del gonfiore si spaccò, e dagli organi femminili di Eraide venne fuori un organo maschile con attaccati i testicoli’ (10.3 ἑβδομαίας δ’ οὔσης ῥῆξιν ἐπιγενέσθαι τῆς ἐπιφανείας, καὶ προπεσεῖν ἐκ τῶν τῆς Ἡραΐδος γυναικείων αἰδοῖον ἀνδρεῖον ἔχον διδύμους προσκειμένους). All’evento erano presenti solo la madre e le ancelle, le quali mantennero il segreto su quanto era accaduto (10.4). ‘Guarita dalla malattia, Eraide continuò a portare vesti femminili, e a conservare ogni altro comportamento da donna di casa e soggetta al marito’21. Nondimeno, chi era a conoscenza del fatto suppose che fosse un ermafrodita (10.4) e che avesse avuto sempre col marito ‘rapporti alla maniera degli uomini’ (10.4 ταῖς ἀρρενικαῖς συμπεριφοραῖς).
Seppur guarita, inoltre, al rientro di Samiade, Eraide rifiutò di incontrarlo, sostenuta, in questo, dal padre. Il marito, allora, intenzionato a riaverla, citò in giudizio il suocero: ‘Così’, commenta Diodoro, ‘la sorte fece portare un evento straordinario in tribunale, proprio come avviene nelle commedie’ (10.5 τῆς τύχης ὥσπερ ἐν δράμασι τὸ παράδοξον τῆς περιπετείας ἀγούσης εἰς ἔγκλημα). Durante il processo, dunque, i giudici stabilirono che la sposa dovesse ubbidienza a Samiade, ma Eraide ‘rivelò la verità e, raccolto tutto il suo coraggio, sciolse la veste che traeva in inganno, e mostrò a tutti la mascolinità della sua natura, e con voce lamentosa chiese chi costringesse un uomo a coabitare con un altro uomo’22. La rivelazione suscitò stupore e meraviglia fra i presenti e, in seguito a essa, Eraide abbandonò gli ornamenti femminili per vestirsi alla maniera di un fanciullo (10.7). In aggiunta, sottoposta alle attenzioni dei medici, fu oggetto di una serie di interventi volti a sistemarne il pene (10.7). Quindi, cambiò nome in Diofanto (10.8), si arruolò fra i cavalieri di Alessandro e, dopo aver combattuto al suo fianco, si rifugiò ad Abe, dove appunto il re fu ucciso23.
Fin da una prima lettura, la narrazione diodorea offre un’immagine composita della figura di Eraide/Diofanto, che, a un’analisi attenta, appare come il risultato dell’intersezione di più voci non pienamente coerenti l’una con l’altra. Tale pluralità di posizioni testimonia, inoltre, l’ambivalenza degli atteggiamenti riservati a persone come Eraide intorno alla metà del II secolo a.C.: alla posizione di chi sembra definirle esseri dalla doppia natura ed ermafroditi è accostata, in una sorta di climax, la voce della stessa Eraide, a cui fa implicitamente da pendant il parere dello storico24. In questo contesto, come si sta per mostrare, la posizione di Diodoro mira a svolgere funzione dirimente, anche se, in un primo momento, ciò sembra accadere solo a livello implicito.
2.2. Polifonia, superstizioni e dicerie
La prima voce che, nella Biblioteca, contribuisce a delineare il ritratto di Eraide/Diofanto appartiene a un oracolo; difatti, secondo la profezia sulla morte del re Alessandro Balas, il sovrano avrebbe dovuto guardarsi dal luogo di nascita dell’‘essere dalla doppia natura’ (10.2 τὸν δίμορφον). L’aggettivo, sostantivato al maschile, ha due occorrenze nel passo (10.2, 8) – entrambe pertinenti alla profezia – e nella Biblioteca compare pure in altri luoghi: nel II libro gli ircocervi, che mescolano insieme la forma della capra e quella del cervo, sono definiti, appunto, ‘specie di animali dalla doppia natura’ (51.2 γένη δίμορφα ζῴων); e nel IV libro lo stesso termine è associato alla Sfinge, detta, lei pure, ‘bestia dalla doppia natura’ (64.3 δίμορφον θηρίον) per il fatto di combinare insieme il corpo umano e quello animale25. Da questa prospettiva, quindi, Eraide/Diofanto sarebbe un essere biforme perché unirebbe – come, almeno in parte, l’Ermafrodito del mito (Diod. IV 6.5) – la forma dell’uomo e quella della donna. Questo, quantomeno, è ciò che traspare dal linguaggio oracolare, che, tuttavia, era un linguaggio fondato sugli enigmi, non comprensibile immediatamente né interpretabile univocamente26.
Le parole dell’oracolo, però, non sono le sole a contribuire alla rappresentazione della protagonista. A questa voce ambigua per natura e non ascrivibile, peraltro, a un’esperienza diretta della corporalità del personaggio segue quella di chi ne avrebbe visto ed esperito la fisicità: la famiglia di origine considera e ritrae privatamente la figlia come un potenziale ermafrodita. Infatti, dopo la scoperta di un organo maschile sul suo corpo (scoperta tenuta nascosta proprio dai familiari [10.3-4]), dopo la guarigione (10.4) e dopo che Eraide ha continuato a portare vesti femminili e a comportarsi come una brava padrona di casa (10.4), scrive Diodoro, ‘coloro che ne avevano conosciuto le peripezie sospettarono che fosse un ermafrodito’ (10.4 καταδοξάζεσθαι δὲ ὑπὸ τῶν συνειδότων τὴν περιπέτειαν ἑρμαφρόδιτον εἶναι). Il greco presenta, ad apertura di questa frase, la particella δέ, ‘invece’, con funzione oppositiva: in questo modo il testo vuole significare che, nonostante i costumi e le abitudini da donna appena richiamate, Eraide è considerata un ermafrodita da chi è a conoscenza di quanto le è accaduto. Apparire come donna ed essere ermafrodita risulterebbero, quindi, due condizioni per certi versi opposte.
Su questa linea, inoltre, i familiari collegano la possibile condizione di ermafrodita di Eraide alla necessità che il matrimonio con Samiade sia stato caratterizzato sempre da ‘relazioni intime alla maniera degli uomini’ (10.4 ταῖς ἀρρενικαῖς συμπεριφοραῖς). Dunque, da questa prospettiva, la famiglia sembrerebbe retrodatare lo status di ermafrodita della figlia al periodo precedente ai fatti narrati. In aggiunta, tali convinzioni sugge-riscono la possibilità che questa condizione non sia semplicemente percepita come una compresenza di forme maschili e femminili – una condizione, questa, che sembrerebbe sottesa alla figura dalla doppia natura evocata dall’oracolo (10.2, 8) – ma, piuttosto, come una situazione fisica in cui, almeno a livello genitale e nonostante l’apparenza femminea, le forme maschili sarebbero state in qualche modo preminenti rispetto a quelle femminili27. Lo stato di ermafrodita è appaiato, infatti, alla diceria sui rapporti tra Eraide e il marito, immaginati appunto ‘alla maniera degli uomini’ (10.4), e all’apparente opposizione (rilevata sopra) fra l’aspetto femminile e lo status di ermafrodita (10.4). Tale possibilità appare in accordo, inoltre, con altre attestazioni del termine ἑρμαφρόδιτος, ‘ermafrodita’, nella letteratura greca antica, dove (lo si è ricordato sopra nella Sezione 1) denota in genere figure maschili più che femminili28.
Questa prima intersezione di voci che concorrono a delineare il ritratto di Eraide restituisce, quindi, un’immagine ambigua della figura protagonista, per quanto essa sembri anche tesa a una certa, progressiva, necessità di chiarezza. Il vago ritratto dell’essere dalla doppia natura, che unirebbe la forma dell’uomo a quella della donna – esattamente come, secondo il mito, Ermafrodito congiungerebbe l’avvenenza e la morbidezza delle donne al vigore e alla capacità di agire degli uomini (Diod. IV 6.5) –, sembrerebbe acquisire una – seppur vaga – intelligibilità attraverso il ricorso al termine ermafrodita. Questo, attribuito a chi avrebbe avuto esperienza diretta della fisicità di Eraide, parrebbe decretare la predominanza dell’elemento maschile su quello femminile29.
Su questa linea, il prosieguo del passo mostra, da parte dello storico, un impegno continuo nel definire il ritratto in maniera sempre più limpida e con l’intento di svelare la falsità delle apparenze propugnate da dicerie e superstizioni. Alla voce dei familiari che in privato hanno considerato Eraide un ermafrodita, segue la voce di chi, verisimilmente, può essere identificato con l’autore stesso: nel momento in cui la sposa di Samiade si presenta in tribunale, il testo la definisce la ‘persona’, se non addirittura il ‘corpo’ – il sostantivo σῶμα può avere entrambi i significati (DELG, s.v. σῶμα; LSJ, s.v. σῶμα) – ‘oggetto della contesa’ (10.5 τὸ ἀμφισβητούμενον σῶμα, cfr. Gal. De simp. medicament. XI 486.7; Posid. fr. 85.61). Questa espressione di genere neutro – là dove, invece, sia δίμορφος (10.2, 8) sia ἑρμαφρόδιτος (10.4) erano di genere maschile e là dove, inoltre, il testo continua a chiamare Eraide ‘donna’ (10.5 γυναικός, 9 γυναῖκα), e a riferirle aggettivi, pronomi e participi di genere femminile30 – dà un tocco inedito alla figura. L’intento dell’autore è richiamare l’attenzione sul suo corpo nel momento in cui questo si accinge a essere svelato, per la prima volta, in uno spazio pubblico. Questa fase coincide con la circostanza in cui Diodoro porta sulla scena la voce della stessa protagonista, la quale contribuisce a tratteggiare ulteriormente il proprio ritratto.
In tribunale (lo si è accennato sopra) i giudici sono chiamati a decidere chi, fra lo sposo e il padre, possa vantare ed esercitare la propria autorità sul corpo di Eraide (10.5), e poiché ‘ritennero che la sposa doveva ubbidire al marito, ella [...] sciolse la veste che traeva in inganno, e mostrò a tutti la mascolinità della sua natura, e con voce lamentosa chiese chi costringesse un uomo a coabitare con un altro uomo [ἀνδρὶ τὸν ἄνδρα]’ (10.6). In tribunale, dunque, Eraide avrebbe definito sé stessa ‘uomo’ (10.6 ἄνδρα) e avrebbe supportato tale affermazione con un gesto che sembra quasi evocare in maniera suggestiva l’iconografia dell’Ermafrodito anasyromenos, il quale era raffigurato mentre ‘solleva il chitone’ con l’intento di mostrare il pene31.
Ancora più stringente, a mio avviso, è però l’accostamento con il gesto compiuto dall’anonima vox loquens di AP IX 602, che – per quel che ho avuto modo di verificare – rappresenta l’altro solo testo della letteratura greca antica in cui una figura accostabile a Eraide è colta a parlare, in prima persona, della propria condizione: ‘Come legittime vesti nel talamo sciolsi [λύσασα]’, recita l’epigramma, ‘mi spunta / l’attributo virile tra le cosce’32. L’azione di sciogliere le vesti è espressa sia in Diodoro sia in Eveno d’Atene (I a.C./I d.C.) – a cui l’epigramma è attribuito – dalla medesima forma verbale (Diod. XXXII 10.6 λύσασαν; AP IX 602.3 λύσασα) e, in entrambi i testi, il gesto rappresenta un ‘punto di non ritorno’ nelle vicende delle protagoniste: a questo segue l’abbandono degli abiti femminili a favore di quelli maschili33. Eraide dismette, dunque, gli ‘ornamenti da donna’ (10.7 τὸν γυναικεῖον κόσμον) per un ‘abbigliamento da ragazzo’ (10.7 νεανίσκου διάθεσιν), e qualcosa di simile accade anche all’anonima vox loquens dell’epigramma: il riferimento alle ‘legittime vesti’ (AP IX 602.3 κουριδίους [...] χιτῶνας) indossate nel talamo – l’aggettivo κουρίδιος, ‘legittimo’, è riferito con frequenza maggiore alle donne (LSJ, s.v. κουρίδιος) – lascia spazio al nuovo abbigliamento assunto in seguito al fatto narrato; ‘colei che cingeva la fascia / ora indossa la clamide’ (AP IX 602.8 τὴν πάρος ἐν μίτραις ἠσπάσατ’ ἐν χλαμύδι), recita l’ultimo verso del componimento.
Agli occhi di Eraide, quindi, il fatto che il suo corpo sia dotato di ‘una natura maschile’ (10.6 τὸ τῆς φύσεως ἄρρεν, cfr. 10.3 αἰδοῖον ἀνδρεῖον ἔχον διδύμους προσκειμένους, ‘un organo maschile con attaccati i testicoli’) la renderebbe uomo indipendentemente dal fatto che, fino all’annuncio in aula, ha continuato ad abbigliarsi e a comportarsi come richiesto a una donna (10.4) e, forse, anche indipendentemente dalle voci che, in famiglia, la vogliono ermafrodita (10.4). Da questa prospettiva, il gesto e le parole pronunciate in tribunale ne riconducono la rappresentazione del corpo – su cui Diodoro aveva appena richiamato l’attenzione (10.5) – nel solco del binarismo, mentre lasciano da parte qualsiasi tratto ibrido propugnato dalle voci oracolari e familiari. Anche in questa logica binaria, le parole di Eraide appaiono in continuità con la vox loquens dell’epigramma di Evemero.
Allo stesso tempo, il testo della Biblioteca mette anche in evidenza come, per quanto la sposa di Samiade definisca sé stessa uomo, in un primo momento essa non indossi abiti da uomo ma da ragazzo. Diodoro, infatti, racconta come ‘Eraide, dopo aver reso pubblica la sua vergogna, cambiasse gli ornamenti muliebri con un abbigliamento da fanciullo [νεανίσκου]’ (10.7 τὴν μὲν Ἡραΐδα φασὶν ἀποκαλυφθείσης τῆς αἰσχύνης μεταμφιάσασθαι τὸν γυναικεῖον κόσμον εἰς νεανίσκου διάθεσιν). In tal modo l’autore attira dapprima l’attenzione sul ‘corpo oggetto della contesa’ (10.5 τὸ ἀμφισβητούμενον σῶμα); quindi lo riconduce – attraverso le parole della stessa Eraide – nella dicotomia maschio/femmina (mettendo da parte gli aspetti ibridi sottesi alle voci dell’oracolo e dei familiari); e, infine, rappresenta un momento specifico della transizione da donna a uomo: l’approdo di Eraide a una sorta di condizione intermedia, che non prevede più abiti muliebri e che, tuttavia, non contempla ancora vesti da uomo adulto. In una prima fase, infatti, a Eraide sono concessi ornamenti da ragazzo (10.7 νεανίσκου), da giovane maschio colto in un’età di passaggio verso la vita adulta34.
Fra le voci dell’oracolo, della famiglia, dell’autore e della stessa Eraide sembrano risuonare dunque – e ora, forse, con chiarezza ancora maggiore – le aspettative del mondo di cui Eraide è parte. Fin tanto che, infatti, la sposa di Samiade si è vestita e comportata come una brava padrona di casa, la sua persona ha continuato a essere riconosciuta e percepita come tale; e difatti il testo continua a chiamarla donna (10.5, 9, cfr. 10.3, 4, 7) e a riferirle aggettivi, pronomi e participi di genere femminile. Di contro, lo svelamento nella dimensione pubblica della sua fisicità rappresenta un momento di rottura: il gesto compiuto in tribunale – dove la sposa ha sciolto ‘la veste che traeva in inganno’ (10.6 τὴν καθυποκρινομένην ἐσθῆτα) – e il fatto di aver reso pubblica la propria condizione (10.6) determinano la possibilità che Eraide indossi abiti da ragazzo. Tali fatti si oppongono, inoltre, alla scelta iniziale, motivata da sentimenti di vergogna (10.5, 7, cfr. 10.9), di mantenere privato l’accaduto attraverso il ricorso al silenzio e ad abiti e ad atteggiamenti pensati come femminili (10.4)35. Il fatto di aver reso pubblica la propria condizione – un’azione tutt’altro che consona alla brava donna di casa che Eraide ha continuato a dare l’impressione di essere – ne ha innescato così il processo di ricono-scimento come uomo attraverso la fase intermedia di fanciullo. In questa fase, tuttavia, a Eraide non è ancora associato il genere maschile.
Da questa prospettiva, dunque, per la società di cui la sposa di Samiade è parte, l’ingresso nel mondo degli uomini non passa per il solo fatto di possedere ‘una natura maschile’ (10.6 τὸ τῆς φύσεως ἄρρεν) e di averla mostrata pubblicamente; questo, difatti, introduce Eraide alla possibilità di essere riconosciuta come uomo una volta superata la condizione di giovane maschio. Ciò accade in seguito all’intervento dei medici – a cui è demandato il compito di renderne εὔκοσμον (10.7), ‘in buon ordine/decorosa/decente’, la natura mascolina – e successivamente all’assunzione di un nome maschile36. Il testo, infatti, riferisce solo a questo punto il genere maschile alla figura protagonista: ‘Eraide cambiò [μετονομασθεῖσαν] il proprio nome in Diofanto’, scrive Diodoro, ‘e s’arruolò con i cavalieri e, dopo aver combattuto [παραταξάμενον] con il re, con lui riparò in Abe’ (10.8). Anche se nel passo il participio con cui il greco indica l’azione di cambiare nome è ancora femminile (10.8 μετονομασθεῖσαν), poco dopo e nello stesso periodo, quello che denota il combattimento di Diofanto al fianco di Alessandro Balas è, invece, di genere maschile (10.8 παραταξάμενον), a significare che, solo in questo momento, la transizione da donna a uomo è rappresentata come effettivamente avvenuta. La lingua, dunque, con l’assunzione del nome di Diofanto e il passaggio dal femminile al maschile, svelerebbe il momento in cui Eraide è riconosciuta, a tutti gli effetti, come uomo37. Infine, nel prendere il nuovo nome, il futuro cavaliere pare anche collocarsi a pieno diritto nella linea della famiglia di origine: il fatto che assuma lo stesso nome del padre e del fratello defunto (10.2) rappresenta, pure questo, un segnale della nuova condizione sociale acquisita38.
Nel finale del racconto, dunque, Eraide è riconosciuta come Diofanto sia per l’aspetto, conforme a quanto richiesto a un uomo (si pensi, ancora una volta, all’intervento ‘normalizzante’ dei medici [10.7]), sia per il comportamento: sul campo di battaglia, conclude Diodoro, ‘colei che era nata donna assunse la fama e il coraggio di un uomo’ (10.9 τὴν μὲν γυναῖκα γεγενημένην ἀνδρὸς ἀναλαβεῖν δόξαν καὶ τόλμαν)39. Il ritratto della figura si colora, così, di una sorta di prospettiva diacronica, che smentisce l’ibrida compresenza di tratti reputati maschili e femminili presupposta dalle voci sfuggevoli dell’oracolo (10.2, 8) e dei familiari (10.4). Tale prospettiva punta, invece, sulla sequenzialità della vicenda, in occasione della quale Eraide divenne uomo da donna dopo essere passata per lo status di fanciullo. Infine, da questa conclusione sembra trasparire, seppur forse ancora a un livello non del tutto esplicito, la posizione dell’autore: lo storico, rubricando come enigmi e dicerie le considerazioni intorno a esseri biformi ed ermafroditi, pare ammettere fin d’ora l’esistenza di due sole categorie a cui i corpi dovrebbero essere ricondotti.
3. Callò che diventò Callon
Subito dopo la vicenda di Eraide che divenne Diofanto, Diodoro introduce la storia di Callò/Callon, presentandola come un ‘mutamento simile’ (11.1 παραπλησία [...] περιπέτεια) all’avvenimento appena narrato. Anche in questo caso, quindi, lo storico avvia il racconto proponendolo come la testimonianza di una περιπέτεια, vale a dire di un ‘rovesciamento delle parti’ o di un ‘avvenimento imprevisto/straordinario’ (LSJ, s.v. περιπέτεια)40. Ciò nondimeno, la narrazione non presenta la stessa polifonia che contraddistingue i fatti di Abe: gli intenti di disambiguazione con cui l’autore ha ricondotto la fisionomia di Eraide/Diofanto nel binarismo appaiono acquisiti e, a conferma di ciò, può essere citato il fatto che l’autore non dia più spazio a presumibili dicerie e superstizioni intorno a Callò.
3.1. ‘V’era a Epidauro quella che era ritenuta una fanciulla, orfana di genitori, di nome Callò’ (Diod. XXXII 11.1)
Con Callò la scena si sposta da Abe, in Arabia, a Epidauro, in Grecia, sul finire del II secolo a.C.41. La protagonista era un’orfana, la quale, divenuta adulta, andò a convivere con un concittadino da cui ‘fu costretta a sottoporsi a rapporti contro natura’ (11.1 τὴν δὲ παρὰ φύσιν ὁμιλίαν ὑπομένειν ἀναγκαζομένη)42. Dopo due anni, la donna si ammalò di un’infiammazione pubica e cominciò a soffrire dolori tremendi; solo un farmacista si offrì di intervenire incidendo la parte infiammata, ‘da cui uscirono delle pudenda maschili: i testicoli e una verga senza foro’ (11.2 ἐξ οὗπερ ἐξέπεσεν ἀνδρὸς αἰδοῖα, δίδυμοι καὶ καυλὸς ἄτρητος). Fra lo stupore dei presenti, il farmacista si preparò a curare quanto ancora sarebbe apparso inadeguato e, concluso l’intervento, chiese un compenso doppio: a suo dire, aveva ricevuto in cura una donna malata e aveva reso al suo posto un giovane sano (11.3). In seguito a questi avvenimenti, Callò mise da parte il telaio e gli abiti femminili, cominciò ad abbigliarsi da uomo e cambiò il proprio nome in Callon (11.4). Secondo alcuni, inoltre, Callon sarebbe stato processato per empietà: essendo stato sacerdotessa di Demetra prima di essere riconosciuto come uomo, avrebbe visto cose che agli uomini non era lecito vedere (11.4).
Rispetto alla rappresentazione di Eraide/Diofanto, il ritratto di Callò che diventò Callon appare senz’altro meno sfuggente: esso risulta modulato preminentemente sulla coppia maschio/femmina, e l’eventualità che la protagonista possa essere un essere biforme o un ermafrodita non è allusa nemmeno velatamente. Difatti, in questa sezione della narrazione non c’è spazio né per il linguaggio enigmatico degli oracoli né per le supposizioni di familiari più o meno ben informati; le sole voci ammesse sono quelle dell’autore, del farmacista e di chi intentò un processo a Callon. Come si sta per notare, inoltre, le posizioni di questi ultimi appaiono in linea con ciò che la conclusione dell’episodio di Abe aveva suggerito: per Diodoro i corpi (non solo) oggetti di contesa (cfr. 10.5) possono essere ricondotti a due categorie; da una parte gli uomini e, dall’altra, le donne. Da questa prospettiva, dunque, lo storico prosegue nell’impegno di narrare, con chiarezza crescente, le vicende di donne divenute uomini, così da palesare la falsità delle apparenze.
3.2. Oltre l’ibrido
Nel tratteggiare il ritratto di Callò, Diodoro associa a questa figura sostantivi, aggettivi, pronomi e participi di genere femminile, segno che, come Eraide, pure questa è rappresentata in un primo momento come donna. Anche in questo caso, inoltre, la protagonista passa per la condizione di fanciullo prima di essere considerata uomo: il farmacista, che ‘venne in soccorso anche alla rimanente deficienza’ (11.2 ὁ φαρμακοπώλης ἐβοήθει τοῖς λειπομένοις μέρεσι τῆς πηρώσεως), ‘disse che aveva ricevuto una donna malata, e aveva reso un giovane sano’ (11.3 ἔφη γὰρ αὑτὸν παρειληφέναι γυναῖκα νοσοῦσαν, καθεστακέναι δὲ νεανίσκον ὑγιαίνοντα)43. A questo intervento normalizzante, accostabile a quello a cui è stata sottoposta anche Eraide (10.7), seguono l’abbandono da parte di Callò di usi e costumi femminili – simboleggiati metonimicamente dagli aghi del telaio e dalle vesti (11.4) – e l’assunzione da parte della stessa di ‘vestiti e ornamenti da uomo’ (11.4 ἀνδρὸς ἐσθῆτα καὶ τὴν ἄλλην διάθεσιν)44. Quindi, in seguito all’intervento medico, Callò giunge allo stato di ‘fanciullo’ (11.3 νεανίσκον) ed è riconosciuta come ‘uomo’ (11.4 ἀνδρός) solo quando tale condizione è superata: allora il giovane indossa abiti da adulto e assume, da ultimo, un nome maschile.
Da questa prospettiva, l’episodio di Epidauro e la scansione dei momenti (sostanzialmente identici) che sanciscono il passaggio della protagonista da donna a fanciullo e, infine, a maschio adulto chiariscono come, fra II e I secolo a.C., la possibilità di essere identificato e rappresentato socialmente come tale appaia determinata dalla compresenza di un’apparenza conforme a quanto atteso da un uomo (sia a livello fisico sia per quel che riguarda gli usi e i costumi) e, pure, dal possesso di un nome maschile. In entrambe le vicende, infatti, l’assunzione di un nome di tal tipo rappresenta l’ultimo atto della transizione e coincide con il momento in cui il testo smette di riferire alla figura protagonista sostantivi, aggettivi e participi femminili. Anche nel caso di Epidauro, infatti, il participio che segnala il momento in cui Callò dismette gli abiti da donna – un fatto successivo all’intervento del farmacista – è ancora di genere femminile: ella, scrive Diodoro, ‘prese [μεταλαβοῦσα] vestiti e ornamenti da uomo, e cambiò nome in Callon, aggiungendo una sola lettera al nome precedente’ (11.4 μεταλαβοῦσα δὲ ἀνδρὸς ἐσθῆτα καὶ τὴν ἄλλην διάθεσιν μετωνομάσθη Κάλλων, ἑνὸς στοιχείου ἐπὶ τῷ τέλει τοῦ Ν προστεθέντος). È femminile, inoltre, anche il participio con cui Diodoro riporta l’accusa a Callon di aver visto cose non concesse agli uomini, quando, prima della trasformazione, Callò era stata una devota della dea Demetra: ‘Prima di tramutarsi in uomo’, scrive lo storico, essa ‘era stata sacerdotessa di Demetra, e poiché aveva visto [ἰδοῦσα] cose che agli uomini non era permesso ebbe un processo per empietà’ (11.4 πρὸ τοῦ μεταλαβεῖν τὴν εἰς ἄνδρα μορφὴν ἱέρεια τῆς Δήμητρος ἐγεγένητο, καὶ τὰ τοῖς ἄρρεσιν ἀόρατα ἰδοῦσα κρίσιν ἔσχεν ἀσεβείας).
In aggiunta, l’episodio del processo sembra testimoniare, da parte di alcuni contemporanei di Callon, l’assunzione di un atteggiamento per certi versi analogo a quello dei familiari di Eraide. Con questa azione, infatti, gli abitanti di Epidauro tentarono di estendere la condizione maschile di Callon a Callò, cosa che avrebbero fatto, almeno in parte, gli stessi familiari di Eraide, immaginando per lei lo stato di ermafrodita ben prima della vicenda narrata (10.4). Nella letteratura greca antica, infatti (lo si è visto sopra), questo termine denota in genere figure maschili più che femminili. Inoltre, anche se Diodoro non ci informa sull’esito del processo, il riferimento è interessante, anche perché, mentre l’ingresso di Diofanto nell’esercito appare come una sorta di testimonianza delle possibilità di integrazione per altri individui con caratteristiche simili, il processo a Callon ne illustra, invece, i rischi. Lo storico si concentrerà su quest’ultimo aspetto nel paragrafo conclusivo (12), confermando in questo modo l’adozione di un atteggiamento volto a fornire a chi legge informazioni sempre più illustrative della realtà dei fatti.
La vicenda di Epidauro offre quindi un ritratto meno polifonico dei fatti di Abe, per quanto presenti, essa pure, una qualche dose di sfuggevolezza. Questa non appare più dovuta a un’ipotetica compresenza di tratti considerati maschili e femminili, ma al fatto che, secondo alcuni contemporanei, Callon sarebbe stato un maschio da sempre. Per parte sua Diodoro, accantonata la possibilità di un’ibrida coesistenza di caratteri-stiche ritenute da uomo e da donna, nel narrare la vicenda di Epidauro si concentra nuovamente – e questa volta con maggiore libertà – sul corpo della figura protagonista, la cui vita sessuale risulta caratterizzata esplicitamente e fin da subito da rapporti ‘contro natura’ (11.1 παρὰ φύσιν) per via della particolare condizione fisica45. Il motivo (lo si è visto) è presente anche nella vicenda di Eraide, con cui, però, risulta raffrontabile solo in parte; negli avvenimenti di Abe, infatti, la possibilità che Samiade e la sposa abbiano avuto ‘rapporti alla maniera degli uomini’ (10.4 ταῖς ἀρρενικαῖς συμπεριφοραῖς) è presentata non come un dato di fatto ma come una supposizione dei familiari; il riserbo di questi ultimi (10.4, 5) ha protetto il segreto del corpo di Eraide. Callò, invece, è orfana (11.1 γονέων δὲ ὀρφανή), e questo permette a Diodoro di sollevare fin da subito il velo del mistero sulla sua condizione fisica: l’autore la descrive ad apertura della vicenda, ben prima della comparsa dei sintomi che avrebbero reso necessari gli interventi dei medici e del farmacista46. Questo fatto risponde agli obiettivi di disambiguazione e chiarezza perseguiti dallo storico: la strada dell’ammaestramento di chi legge (12.1) è ormai tracciata a tutti gli effetti.
4. ‘Transizioni’ secondo Diodoro
A una lettura attenta, i ritratti di Eraide e di Callò, che divennero Diofanto e Callon, acquisiscono chiarezza grazie alla volontà dello storico di lasciare da parte gli elementi più sfuggenti e ambigui, rifiutandone, da più punti di vista, la polifonia. Gli oracoli intorno agli esseri dalla doppia natura (10.2, 8) e le dicerie intorno agli ermafroditi (10.4) complicano e confondono i fatti di Abe, ma non trovano spazio nella narrazione della vicenda di Epidauro. Così, in quella che appare come una climax di chiarezza progressiva, Diodoro dapprima rappresenta come enigmi e pettegolezzi le considerazioni riguardo a individui biformi ed ermafroditi, e poi suggerisce la verità che, a suo parere, i due παράδοξα, questi due ‘fatti inaspettati/sorprendenti/strani’ (cfr. 10.2, 3, 4, 5, 7, 11.2) celerebbero. Secondo quanto affermato nel paragrafo conclusivo (12), infatti, in natura i corpi ibridi non possono esistere. Del resto, una posizione analoga a tale credenza sembrerebbe rintracciabile, almeno in parte, fin dalla narrazione della vicenda di Callon e, in particolare, nell’atteggiamento di alcuni suoi contemporanei: l’episodio del processo (11.4) suggerisce che questi ultimi non concepissero come possibili né la compresenza in una medesima persona di tratti ritenuti maschili e femminili, né l’eventualità che tali tratti potessero susseguirsi nel tempo. Nella convinzione di chi ha intentato il processo a Callon, infatti, questi sarebbe stato un maschio da sempre e, per questo, si sarebbe reso colpevole di empietà.
Pertanto, è necessario usare quantomeno una certa cautela di fronte alla possibilità – sostenuta da parte della critica – di leggere e, soprattutto, definire i fatti di Abe e di Epidauro attraverso la nozione di intersessualità47. Sebbene, infatti, queste vicende possano apparirci come testimonianze di vissuti di soggettività che oggi, verisimilmente, definirebbero sé stesse facendo ricorso (anche) a questo concetto, non è in questo modo che Diodoro tratteggia le due figure, né è su questa base che alcuni contemporanei di Callon avrebbero intentato il processo. Ancor più significativamente, però, non è in questi termini che, almeno per quel che ci è dato sapere, Eraide avrebbe descritto sé stessa in tribunale – là dove parla di sé come di un uomo costretto a coabitare con un altro uomo (10.6) –, né è in questi termini che la vox loquens di AP IX 602 si rappresenta. La volontà dello storico di ricondurre le due figure nel binarismo, unita alle parole pronunciate dalla sposa di Samiade in tribunale e, pure, dalla voce dell’epigramma palatino (per quanto entrambe mediate verisimilmente dalle reciproche prospettive autoriali), non sembrerebbe sovrapporsi facilmente alla condizione di intersessualità intesa e, pure, rivendicata da soggettività a noi più vicine nel tempo. Secondo quanto osservato sopra, infatti, tale condizione può prevedere, alla nascita, organi genitali non riconducibili a un sesso/genere specifico; un fatto, questo, che non sembra però applicabile alle infanzie di Eraide e di Callò, le quali furono ricono-sciute, di fatto, come femmine (e Diodoro non fa cenno ad alcuna perplessità al riguardo, per quanto indugi sulla particolare condizione fisica della giovane di Epidauro [11.1]). Inoltre, come si sta per illustrare, per l’autore della Biblioteca le due figure non avrebbero nemmeno sviluppato alcun tratto in contrasto con il sesso assegnatogli, in quanto, nell’interpretazione diodorea, esse avrebbero avuto caratteristiche maschili fin dalla nascita. Una convinzione di tal genere dunque non risulta, nemmeno questa, del tutto sovrapponibile alla nozione di intersessualità; questa, infatti, può prevedere anche lo sviluppo di caratteristiche in contrasto con il sesso anagrafico in momenti successivi alla nascita. Tale sviluppo, tuttavia, secondo Diodoro non avrebbe avuto luogo, perché Diofanto e Callon sarebbero stati maschi da sempre.
A questo punto, una lettura attenta del paragrafo conclusivo (12) può risultare utile ad approfondire quanto osservato finora. La sezione finale del XXXII libro è caratterizzata, infatti, da una densa rete di rapporti e riecheggiamenti con i paragrafi precedenti, e tale rete appare finalizzata a svelare definitivamente la fallacità di alcune voci che, inizialmente, avevano concorso a tracciare la narrazione nel senso dell’ibridismo e della sfuggevolezza.
Ora, uno dei primi elementi che hanno contribuito a tratteggiare la vicenda di Abe è (lo si è visto sopra) l’aggettivo sostantivato δίμορφος (10.2, 8), che in entrambe le occorrenze indica l’‘essere biforme’ dal cui luogo di nascita, secondo un oracolo, Alessandro Balas avrebbe dovuto guardarsi. In aggiunta si è notato come, in un primo momento, questa parola sembri acquisire una sorta di ambigua specificazione attraverso il riferimento alla supposta condizione di ermafrodita di Eraide (10.4), ma anche come, poco dopo, Diodoro paia mettere da parte entrambi i termini, escludendo dalle due rappresentazioni la sincronicità di aspetti pensati come tipicamente maschili e femminili. Nel paragrafo conclusivo, inoltre, lo storico afferma esplicitamente che l’esistenza di un ‘essere con due forme’ (12.1 δίμορφον τύπον) è ‘impossibile’ (12.1 ἀδύνατον). La natura può dare, sì, questa impressione, stupendo e ingannando chi guarda le diverse parti di un corpo, ma si tratterebbe, di fatto, di prove fallaci (12.1)48. In questi casi, ‘ciascuno dei due sessi ha [...] la sua natura sessuale, semplice e distinta, ma ha anche qualcosa in più che dà una falsa impressione [τὸ ψευδογραφοῦν, cfr. 12.1 ψευδογραφούσης] e inganna l’osservatore superficiale’49. Diodoro esplicita così quanto aveva solo lasciato intuire nella narrazione del processo per Eraide: in quella occasione, racconta lo storico, ‘la sorte fece portare un evento straordinario in tribunale, proprio come avviene nelle commedie’ (10.5 τῆς τύχης ὥσπερ ἐν δράμασι τὸ παράδοξον τῆς περιπετείας ἀγούσης εἰς ἔγκλημα). L’immagine del teatro, luogo simbolo del dialogo tra realtà e apparenza, pare dunque introdurre, fin dall’episodio del processo, la posizione dell’autore su quanto sta andando in scena: una sorta di pièce che, nei fatti, sarebbe stata costruita sulla falsa traccia prodotta dal corpo di Eraide50. Del resto, l’idea di un’impressione fuorviante generata dal corpo della protagonista appare suggerita similmente anche dall’affermazione con cui lo storico apre la narrazione della vicenda di Callò: ‘V’era a Epidauro’, scrive Diodoro, ‘quella che era ritenuta una fanciulla, orfana di genitori, di nome Callò’ (11.1 ἦν γάρ τις Ἐπιδαυρία, κόρη μὲν εἶναι δοκοῦσα, γονέων δὲ ὀρφανή, Καλλὼ δ’ ὄνομα [enfasi mia]).
Da questa prospettiva, quindi, le fisicità dei personaggi protagonisti avrebbero ingannato gli osservatori meno attenti, che, alla nascita, attribuirono a Eraide e Callò la condizione di femmine e che, in seguito, congetturarono per Eraide lo stato di ermafrodita (10.4). La parola ermafrodita non ritorna nel paragrafo conclusivo, dove compare, però, il termine ἀνδρόγυνος, con lo storico che richiama brevemente il racconto di un processo a ‘un androgino simile a quelli ricordati sopra’ (12.2 παραπλήσιον τοῖς εἰρημένοις ἀνδρόγυνον). Costui aveva sposato un Italico all’inizio della guerra marsica (91-88 a.C.) e viveva non lontano da Roma. Il fatto che Diodoro affermi che questo individuo è ‘simile’ (12.2 παραπλήσιον), alle persone di cui ha già parlato lascia immaginare che l’autore intenda i termini ermafrodita e androgino come sinonimici51. Lo storico, inoltre, appare consapevole del valore diffamatorio attribuito almeno al secondo termine: l’androgino, racconta Diodoro, ‘fu chiamato ad apparire davanti al senato che, spinto dalla superstizione e in ubbidienza agli aruspici etruschi, ordinò che fosse bruciato vivo’ (12.1 προσαγγεῖλαι τῇ συγκλήτῳ, τὴν δὲ δεισιδαιμονήσασαν καὶ τοῖς ἀπὸ Τυρρηνίας ἱεροσκόποις πεισθεῖσαν ζῶντα προστάξαι καῦσαι)52. Il portato denigratorio della parola è rilevabile in particolar modo in un altro passo della Biblioteca, in cui l’autore narra di quando un certo Pausania, una delle guardie del corpo del re Filippo di Macedonia, vide un suo omonimo entrare in intimità con il sovrano e ‘gli rivolse parole ingiuriose, dicendo che era un androgino e che si sarebbe concesso volentieri alle avances di coloro che lo desideravano’53. In questi passi, l’autore offre una documentazione ulteriore della pluralità di atteggiamenti riservati a figure come Diofanto e Callon: dall’apparente integrazione testimoniata dalla vicenda di Abe (almeno per quel che riferisce Diodoro) si passa, ancora una volta in una climax, ai rischi rappresentati dal processo di Epidauro (sul cui esito lo storico non dà alcuna informazione), fino a giungere alle condanne al rogo scaturite dall’evento romano e dai fatti accaduti poco dopo, e in un’occasione analoga, ad Atene54.
Questa molteplicità di comportamenti fa da pendant alla varietà di voci che hanno concorso a tratteggiare i ritratti di Eraide e di Callò e rispetto a cui la posizione dell’autore ha acquisito ormai chiarezza: a dispetto di oracoli, dicerie e superstizioni, anche i corpi oggetti di contesa dovrebbero essere ricondotti a due categorie, in quanto l’esistenza di ibridi è impossibile (12.1) e ciascun corpo dovrebbe essere rapportato, dopo un esame attento, alle categorie di maschio e di femmina. In questo, a mio avviso, il parere di Diodoro può essere accostato non tanto alle fonti mediche (come sostenuto, invece, da parte della critica, e.g. Goukowsky 2012, 195-6; Graumann 2013, 193-4; cfr. Plin. VII 34; [Gal.] Def. med. 478), quanto alle testimonianze dei giuristi di età imperiale, i quali, com’è noto, si richiamavano a una giurisprudenza ben più antica (per lo meno di età repubblicana, se non ricollegabile, addirittura, alle norme dei pontefici). Questi testi attestano come per il diritto romano “l’androgyne était décrété nécessairement homme ou femme, après qu’avait été examinée en lui la part des deux [...]. La réponse du droit [...] écarte délibérément l’aporie. L’hermaphrodite ne représente pas un troisième genre” (Thomas 2002, 133). Il diritto romano si discosterà, così, dalla tradizione medica, la quale, invece, “posait l’existence de l’uterque sexus comme un véritable mélange des genres dans lequel il n’y avait pas à trancher” (134)55.
Diodoro, quindi, riconducendo le rappresentazioni di Diofanto e di Callon nel solco del binarismo, escluderebbe l’esistenza di un uterque sexus, di un ‘individuo dotato di entrambi i sessi’, in linea con quanto accade in fonti (seppur più tarde) di diritto. Ciò non gli impedisce, tuttavia, di attingere anche alla tradizione dei testi medici – che dimostra di avere ben presenti – e di servirsene per rappresentare le condizioni di Eraide, Callò e dei cosiddetti androgini: esse sono descritte attraverso il termine νόσος (10.4, 12.2), ‘malattia’56, e la stessa cronaca degli interventi dei medici e del farmacista è richiamata con una dovizia di dettagli (10.3, 7, 11.2-3) tale da suggerire una certa familiarità proprio con questa letteratura57.
Le περιπέτειαι narrate nella Biblioteca (10.2, 4, 5, 11.1, 12.1, 2) appaiono rappresentate, dunque, come ‘trasformazioni’ legate a una metamorfosi non corporea ma sociale degli individui coinvolti, in quanto pertengono a un capovolgimento nel riconoscimento civico delle persone interessate58. Diodoro rappresenta tali cambiamenti come stravolgimenti eccezionali e παράδοξα (cfr. 10.2, 3, 4, 5, 7, 11.2), come ‘fatti strani’ in cui persone riconosciute come donne sono state identificate poi come uomini. La stessa lingua diodorea risulta illustrativa del tipo di vicenda descritta; a Eraide e Callò, infatti, continuano a essere riferiti termini di genere femminile anche dopo la scoperta del pene, e il maschile appare solo nel momento in cui i loro aspetti, i loro costumi e i loro nomi sono considerati tutti parimenti conformi al riconoscimento delle loro persone come uomini.
Da questa prospettiva, dunque, l’atteggiamento dello storico, da un lato, appare in disaccordo con quelle che, a detta dello stesso Diodoro, dovevano essere le posizioni più diffuse sui casi di cosiddetto ermafroditismo; in molti, infatti, – cittadini, popoli e città – sarebbero caduti nella superstizione e, per questo, l’autore ha ritenuto necessario procedere all’ammaestramento di chi legge59. Dall’altro lato, tuttavia, il suo atteggiamento si mostra anche in linea con quella che appare come una costante nelle costruzioni della maschilità nel mondo (non solo) antico: essere uomo è il risultato di un’intersezione fra biologia, costumi, sessualità, età e performance sociale, che ha continuamente bisogno di essere riaffermato e rinegoziato60. Questa continua rinegoziazione di che cosa significhi essere un ‘vero uomo’ è tipica di qualsiasi costruzione della maschilità che sia stata espressa nel tempo e fra le quali spicca, per ciascun contesto storico e culturale, un’immagine maschile prevalente. Nella realtà dei fatti, tuttavia, questo modello – noto come hegemonic masculinity a partire da Connell (1987; 1995) – risulta appannaggio di una netta minoranza, giacché esso è sostanzialmente inarrivabile ai più, mentre gli individui che lo incarnano rappresentano una élite.
Per questo, nel testo di Diodoro, nonostante Eraide rivendichi, per la propria condizione fisica, di essere un uomo (10.6), la possibilità di essere riconosciuta come tale passa per il possesso di un aspetto e di un nome adeguati e appare in linea con i costrutti della maschilità espressi dalla società di cui è parte – si ricordi qui anche solo il fatto che i medici ne avrebbero reso ‘in buon ordine’ (10.7 εὔκοσμον) il pene, così come il farmacista avrebbe reso adeguato il membro di Callò (11.2). Tale possibilità risulta sancita poi, nel commento dello storico, dall’eccellenza di Diofanto sul campo di battaglia (10.9). Inoltre, è sempre per le medesime ragioni che la virilità dello sposo di Eraide è messa a dir poco in discussione: ‘Samiade, sempre innamorato e reso schiavo dalla passata intimità, ma colpito dalla vergogna di un matrimonio contro natura, dopo aver designato Diofanto erede dei suoi beni, si suicidò’ (10.9 τὸν δὲ Σαμιάδην [...] ἔρωτι καὶ τῇ προγεγενημένῃ συνηθείᾳ δεδουλωμένον, αἰσχύνῃ τε τοῦ παρὰ φύσιν γάμου συνεχόμενον, τῆς μὲν οὐσίας τὸν Διόφαντον ἀναδεῖξαι διαθήκῃ κληρονόμον, ἑαυτὸν δὲ τοῦ ζῆν μεταστῆσαι). L’umiliazione di queste nozze ‘contro natura’ e che lo avrebbero reso schiavo non risulta compatibile con il modello di uomo espresso dalla società di cui anche Samiade è parte. ‘E fu così’, commenta allora l’autore, ‘che colei che era nata donna assunse la fama e il coraggio di un uomo, e l’uomo divenne d’animo più debole della donna’ (10.9 ὥστε τὴν μὲν γυναῖκα γεγενημένην ἀνδρὸς ἀναλαβεῖν δόξαν καὶ τόλμαν, τὸν δ’ ἄνδρα γυναικείας ψυχῆς ἀσθενέστερον γενέσθαι).
Infine, anche il fatto che entrambe le vicende attestino un momento in cui le due figure sono presentate, ambedue, come fanciulli (10.7, 11.3), in seguito allo svelamento in pubblico delle rispettive fisicità, può essere considerato significativo di come il racconto di Diodoro si mostri in linea con una serie di costanti presenti nelle costruzioni dell’idea di maschilità. In queste, l’età ricopre notoriamente un ruolo importante: essa rappresenta un elemento essenziale del modo in cui un individuo è percepito, e il fatto che i suoi comportamenti siano ritenuti adeguati o meno alla fascia di età a cui appartiene risulta determinante proprio in tal senso61. Nella Biblioteca questo aspetto emerge dal fatto che sia Eraide sia Callò siano momentaneamente relegate alla condizione di fanciulli; solo dopo che le loro maschilità sono state riconosciute pubblicamente come pienamente conformi, alle due protagoniste è riferito il genere maschile, segnalato dall’assunzione di un nome da uomo che ne decreta il riconoscimento in quanto tali.
5. Conclusioni
Secondo la prospettiva di indagine avanzata in questo contributo, la narrazione dei fatti di Abe e di Epidauro proposta da Diodoro nel XXXII libro della Biblioteca offre un’immagine composita delle figure di Eraide/Diofanto e di Callò/Callon, che, a un’analisi attenta, appaiono come il risultato dell’intersezione di più voci non pienamente coerenti l’una con l’altra. Alla posizione di chi definisce Eraide un essere dalla doppia natura (10.2, 8) ed ermafrodita (10.4) si intrecciano, infatti, le voci dei contemporanei di Callon (11.4) e il parere della stesso Diodoro che, in una climax di chiarezza crescente, mira a svolgere funzione dirimente. I primi intentano un processo a Callon nella convinzione che questi sarebbe stato un maschio da sempre (confermando, così, gli intenti di disambiguazione con cui l’autore ha riportato la figura di Eraide/Diofanto nel solco del binarismo), e lo storico teorizza esplicitamente l’impossibilità che corpi ibridi possano esistere (12). Per Diodoro, infatti, qualsiasi corpo dovrebbe essere ridotto a due categorie: da una parte gli uomini e, dall’altra, le donne. Da questa prospettiva, dunque, nell’intento dell’autore della Biblioteca, ricondurre i fatti di Abe ed Epidauro all’interno della dicotomia maschio/femmina implica superare la polifonia che contraddistingue la narrazione dei fatti di Abe, rubricando come enigmi e dicerie le considerazioni intorno all’esistenza di corpi misti, sia che si tratti di individui ritenuti in possesso di una doppia natura sia che riguardi i cosiddetti ermafroditi. Per questa ragione, quindi, le vicende di Eraide e di Callò non possono essere descritte facendo ricorso esclusivamente alle nozioni di intersessualità e di pseudoermafroditismo (come affermato, invece, da parte della critica). Un orientamento di questo tipo, infatti, rischierebbe di sacrificare, almeno in parte, le posizioni binarie propugnate dalla voce autoriale, da quanti intentarono il processo a Callon e, sembrerebbe, anche – e forse soprattutto – dalla stessa Eraide (10.6).
In aggiunta, il fatto stesso che sia Eraide sia Callò siano state riconosciute come femmine alla nascita e poi cresciute come tali – senza, in apparenza, alcuna perplessità – non sembra collimare facilmente con la nozione di intersessualità: questa (lo si è visto) può prevedere la presenza, al momento della nascita, di organi genitali non riconducibili a un sesso/genere specifico, un’eventualità, quest’ultima, che non pare allusa nel racconto di Diodoro; Eraide e Callò, infatti, furono considerate indubbiamente appartenenti al sesso femminile. Inoltre, le persone intersessuali possono anche sviluppare, in fasi successive delle loro vite, caratteristiche ritenute in contrasto con il sesso anagrafico, un fatto che, seconda la prospettiva dello storico, non sarebbe rilevabile negli avvenimenti di Abe e di Epidauro. Per Diodoro, infatti, le due figure non avrebbero sviluppato alcun nuovo tratto nel corso delle loro vite, in quanto, nella visione dell’autore della Biblioteca, esse sarebbero state in possesso di tali caratteristiche da sempre. Da questa prospettiva, gli organi genitali di Diofanto e di Callon sarebbero stati riconducibili al sesso maschile fin dalla nascita, ed è responsabilità di osservatori superficiali (12.3) il fatto che i due neonati siano stati assegnati al sesso errato.
Inoltre, la convinzione dell’autore secondo cui corpi ibridi non possono esistere ha trovato qui paralleli interessanti in un epigramma attribuito a Eveno d’Atene (AP IX 602) e in alcuni testi giuridici di epoca imperiale. Si è visto sopra, infatti, come nell’epigramma l’anonima vox loquens sia colta a parlare della propria condizione mentre rappresenta sé stessa nell’azione di sciogliere le vesti, rivelando così la presenza di un pene sotto gli abiti muliebri; il gesto, che ricorda l’iconografia dell’Ermafrodito anasyromenos, la avvicina alla sposa di Samiade in tribunale (Diod. XXXII 10.6). A questa azione segue, lo si è visto, l’abbandono delle vesti femminili a favore di quelle maschili, così che, anche nel testo di Evemero, lo svelamento in pubblico di quanto nascosto dagli abiti porta con sé la negazione della possibilità che tratti ritenuti da uomini e da donne possano essere accettati come compresenti nella medesima persona. In maniera simile, anche i giuristi di epoca imperiale si mostreranno impegnati – come, appunto, già Diodoro – nel ricondurre qualsiasi corpo nel solco del binarismo, escludendo nei fatti l’esistenza di figure dotate di entrambi i sessi.
Allo stesso tempo, a un’analisi attenta anche se non priva di problematicità, le storie di Eraide e di Callò possono essere comunque considerate, per certi versi, i due casi più antichi di ‘transizione’ all’interno della letteratura greca antica, al di fuori del mondo del mito62. Con il termine transizione, infatti, si intende il passaggio di una persona dal sesso/genere che le è stato attribuito alla nascita a quello maggiormente conforme al suo sentire; tale percorso prevede in genere un preciso iter (non solo) legislativo, in ragione del quale la rettificazione del sesso anagrafico può avvenire solo in seguito all’assunzione di tratti considerati tipici della parte verso cui si sta transitando. Da un lato, dunque, Diodoro tratteggia distintamente, in una climax crescente, come Eraide e Callò avrebbero dapprima vissuto come donne e come poi sarebbero state riassegnate alle file degli uomini. Da questa prospettiva, lo studio dei termini e della lingua utilizzati dallo storico nella rappresentazione delle due transizioni ha mostrato in quale modo l’autore intenda le vicende: da un punto di vista strettamente sociale, le due figure protagoniste sono state ricono-sciute e hanno vissuto inizialmente come donne, ma hanno poi transitato fra i ranghi degli uomini63. Dall’altro lato, tuttavia, nell’interpretazione dello storico, questi mutamenti sarebbero dovuti al solo inganno delle apparenze: a livello fisico, Diofanto e Callon sarebbero stati destinati alle file degli uomini fin dalla nascita e, da questa prospettiva eminentemente fisica, nessuna transizione avrebbe avuto luogo.
Infine, nell’immaginario rigorosamente binario tracciato dallo storico, una volta svelata la verità, Eraide e Callò non avrebbero potuto conoscere altra sorte che quella di essere riassegnate ai gruppi dei fanciulli, prima, e degli uomini, poi. L’analisi ha mostrato come la lingua diodorea sveli il momento esatto in cui ciò accade, con Diofanto e Callon che sarebbero stati considerati, a tutti gli effetti, uomini. Con il passaggio dal genere femminile al maschile, essa indica le circostanze precise in cui, per i due protagonisti, biologia, costumi, sessualità, età e performance sociale si sono intrecciati, tutti, in maniera pienamente conforme a questo riconoscimento.
Per Diodoro, dunque, avvenimenti straordinari come quelli con protagonisti Diofanto e di Callon sono possibili, ma solo a causa dell’inganno delle apparenze. Queste transizioni, amplificate dall’opposizione fra Diofanto – che, divenuto cavaliere, combatté al fianco del re Alessandro – e Samiade – lo sposo di un tempo, il quale, ‘reso schiavo dalla passata intimità e colpito dalla vergogna’ (10.9 ἔρωτι [...] δεδουλωμένον, αἰσχύνῃ τε [...] συνεχόμενον), si suicidò –, sono la prova che, (anche) nel mondo dello storico, uomini non si nasce, ma si diventa.