1. Introduzione
“Riportare tutto ciò che è stato scritto sul mito di Medea sarebbe troppo lungo, e in fin dei conti inutile”: le parole di Diodoro Siculo a cui si fa riferimento nelle prime pagine del saggio Il mito di Medea, di Giuseppe Pucci, nel volume omonimo che si vuole una summa delle immagini, dei racconti, delle rappresentazioni di Medea dall’antichità a oggi (Pucci, 2017, p. 25), ci confortano nella scelta di non premettere, a questo intervento, alcuna forma di (im)possibile sintesi delle riscritture del mito che ha ispirato la coppia Franca Rame e Dario Fo, tanto più davanti alle stime che, nello stesso volume, sono presentate per corroborare la teoria della vitalità del mito greco: oltre trecento rivisitazioni solo alla fine del secolo scorso (Moreau, 1994), di cui oltre la metà (184, nei calcoli presenti in Rubino, De Gregori, 2000) relative al solo Novecento. Senza contare che le stime sono in continuo aggiornamento: per limitarci alle scene teatrali italiane, nei primi anni Duemila, sette nuove variazioni del mito hanno visto la luce e sono state studiate nel 2012 (Iacoli, 2012), nello stesso anno in cui è stata pubblicata un’ampia ricostruzione intitolata Storie di Medea in cui l’autrice, Giulia Tellini, interroga la figura della madre infanticida affrontando il corpus delle Medee che hanno attraversato la storia, dando particolare risalto alla storia delle attrici che l’hanno interpretata (Tellini, 2012)1.
Medea quindi si trasforma, si aggiorna, si riscrive, si rilegge in trasformazioni che sono la prova di frammentazioni eloquenti di una irrisolutezza e di una precarietà del mito in grado, come pochi altri, di raccontare la modernità e la postmodernità. È altresì evidente che, a tale moltiplicazione, non può corrispondere una rarefazione del mito, alla ricerca di un universalismo che può risultare dannoso a una corretta interpretazione di esso in termini storicistici. Se è vero che, “se una storia viene raccontata e ripensata per più di tremila anni, deve esserci qualche buon motivo” (Pucci, 2017, p. 26), è altresì vero che andare alla ricerca di questi buoni motivi può comportare la necessità di storicizzare la declinazione del mito riportandolo con forza al contesto di partenza, seguendo in certo qual modo la via aperta, sin dalla metà degli anni Cinquanta, dal richiamo di Roland Barthes a vigilare sulla confusione, suscettibile di creare un falso, fra natura e storia insita nel mito (Barthes, 1957).
Proprio in quest’ottica di contestualizzazione, e senza pretesa di proporre un esame della pièce, tanto più perché essa è oggetto di attenzione in altri contributi raccolti in questo volume, ci proponiamo di ripercorrere la lettura di una delle Medee considerate più rappresentative delle possibili declinazioni del mito come chiave di interpretazione di un momento centrale della cultura contemporanea come il femminismo – meglio, i femminismi – degli anni Settanta: la Medea che chiude Tutta casa letto e chiesa, la serie di sei monologhi2 messi in scena nel 1977 dalla coppia, nella vita e nell’arte, formata da Dario Fo e Franca Rame. Ci si interrogherà, quindi, sul testo recitativo portato in scena da Franca Rame, con l’intento di farlo dialogare con la militanza della sua interprete e autrice e del suo autore, che si sono imposti come portavoce di una poetica teatrale fortemente orientata alla rappresentazione e all’interrogazione delle questioni più urgenti dell’attualità3, fra le quali la questione femminile occupa uno spazio preponderante.
Questa interrogazione si fonderà, in particolare, sulle dichiarazioni contenute nel prologo della Medea e in quello della raccolta di monologhi nel quale è compresa: la loro funzione centrale, nella pratica teatrale di Fo-Rame, come guida dell’interpretazione dei recitativi, permette infatti di svelare l’immaginario che è alla base della creazione teatrale, e la cura che Fo e Rame, in qualità di autori e di interpreti, riversano nel veicolare un messaggio4. Al tempo stesso, la Medea a firma di Fo e Rame ha goduto di numerose attenzioni nel quadro di rassegne che hanno analizzato il personaggio nella sua veste di “portabandiera del femminismo” (Bettini, Pucci, 2017, p. 203) e di rivisitazioni intorno alla nascita della “donna nuova” (Urbani, 2013, pp. 154-158 e Cavallaro, 2010, pp. 195-199). Ma allo stesso tempo il monologo ha corso il rischio di veder ristretto il proprio raggio di intervento e di interesse, malgrado la complessità delle questioni di genere che solleva (intorno all’autore e all’autrice, ma anche intorno al genere letterario e al corpus nel quale si trova inserito), oltre che in relazione al decennio nel quale vede la luce.
2. Questioni di autorialità e di autorità
Un testo tragico – meglio: “una ballata tragica” (Fo, Rame, 2000b, p. 1017) che chiude una serie di testi comici, ma scritti “in chiave comica, grottesca” (Fo, Rame, 2000a, p. 961). Un monologo – quello di Medea-Franca – che mette in scena un dialogo con il coro di donne di euripidea memoria; un testo scritto da Dario Fo – gli appunti e i documenti presenti nell’archivio stanno a dimostrarlo5 – ma rivisto insieme a Franca Rame, curatrice del volume che raccoglie il Teatro di Dario Fo, la quale prende la parola nel prologo iniziale di quella che è definita la “nostra Medea” (Fo, Rame, 2000b, p. 1016) specificandone la poetica e la messa in scena, salvo poi prendere la parola in prima persona, una prima persona sulla quale peraltro insiste , per testimoniare la sua predilezione verso questo testo e la sua rappresentazione:
Io recito da quando avevo otto giorni, la mia era una famiglia di attori, al mio debutto ero in braccio a mia madre, nel ruolo di Genoveffa di Brabante. Non parlavo tanto quella volta lì…. Da allora a oggi ho interpretato centinaia di personaggi, ma questa Medea ogni volta, nonostante le oltre mille repliche, mi coinvolge ed emoziona. […] È una ballata tragica che amo molto e che tutte le sere dedico alle donne giovani e non più giovani presenti in sala (p. 1017, corsivi nostri).
Il prologo che definisce – qui come altrove – le linee direttive di un monologo al femminile (Laporte, 2012, p. 11) e ne orienta l’interpretazione e le attese del pubblico, fa eco, con la sua alternanza fra la prima persona singolare e la prima persona plurale, all’introduzione alla raccolta delle opere di Fo. Un luogo paratestuale che incornicia il testo dell’opera omnia voluta, organizzata e preparata proprio da Franca Rame, curatrice che prende la parola6: e insistiamo in modo voluto su questo termine, “curatrice”, che trova la sua origine proprio nella parola “cura”, per sottolineare la sua funzione di assistenza, custodia e al tempo stesso di aiuto all’adempimento e alla realizzazione di un progetto. Se la scelta della doppia firma apposta ai monologhi risponde ad una espressa volontà condivisa dei suoi autori e, anzi, può essere letta come il segno di una specificità di un testo teatrale che si fonda sull’unione e sulla convergenza del gesto e della parola, oltre che su quello che è stato definito “un échange entre masculin et féminin à l’oeuvre dans la création de Fo et Rame” (p. 4)7, la lettura del testo che Franca Rame scrive (e firma con il suo nome) nel novembre del 2000 per introdurre la raccolta dei testi che vengono presentati sotto il nome esclusivo del marito rende più problematica questa linea interpretativa. La dimensione dello scambio lascia, infatti, posto a una individualità al femminile – quella di Rame, colei, dicevamo, che si prende letteralmente cura dell’opera in veste di curatrice – la quale si fa spazio definendosi innanzitutto nel “ruolo di moglie – condizione spesso alquanto mortificante”. La propria identificazione, in rapporto a una funzione e non a un’identità (o a una funzione che sembra sostituire e definire l’identità) segue la presentazione di “Dario: cognome Fo” il quale, “oltre a essere pittore, scrittore, regista, attore, individuo pieno di humour, di generosità, per carità anche di egoismi come tutti, di umiltà come pochi […] è anche mio marito” (Rame, 2000, p. VII). Di fronte all’accumulazione di nomi utili a definire la figura di Fo (anche suo marito), e al di là del ruolo che li identifica, l’uno e l’altro, in seno alla coppia di moglie e marito (per di più sposati nella più antica basilica meneghina, Sant’Ambrogio, come si ricorda in apertura), Rame sceglie per sé solo due attributi: attrice e capocomica. Ai quali aggiunge quello che definirà come il più importante in seno alla Compagnia, almeno ai suoi occhi: quello di “contrappuntista”. Rame si presenta, quindi, come prima lettrice e spettatrice della creatività del marito, facendo prova di uno spirito “di collaborazione critica, di controllo e di attenzione nei confronti del pubblico” che è lo stesso dal quale “è nato questo volume del Teatro di Dario (…e anche un po’ mio. Ecco perché la seconda parte è tutta al femminile)”. Il plurale, questa volta (ricordiamoci della “nostra Medea”), interverrà solo alla fine dell’introduzione. In conclusione, quindi, si trova traccia di quello che è definito, fra creazione e “contrappunto”, fra voce che afferma e voce che risponde e contraddice, fra soggetto che dice io e soggetto che dice di occuparsi di chi dice io (“Ancora una volta eccomi qui, con la penna in mano […], a occuparmi di Dario: cognome Fo”, recita l’incipit del testo), l’eco di una pluralità che nasce dalla ricomposizione di questa binarietà dove l’uno ha, sin dalle prime righe, un nome un cognome, e l’altra li recupererà solo dopo l’identificazione del suo ruolo: “le commedie che qui abbiamo raccolto (oltre mille pagine, che faticata!) sono, secondo noi, le più rappresentative dei diversi momenti – teatrali, storici, politici – del nostro lavoro dagli anni Cinquanta a oggi”. Firmato: Franca Rame, Milano, novembre 2000 (qui e altrove, corsivi nostri, p. VIII).
Se ci si attarda tanto sull’analisi di un testo così liminare, ma solo apparentemente tale, come l’introduzione della “curatrice”, è perché esso permette di problematizzare il rapporto Rame-Fo. Due intellettuali e artisti che tanto hanno ragionato, scritto, militato intorno alla relazione fra l’uomo e la donna – la stessa relazione che è al centro della loro Medea, prima ancora di quella fra madre e figli sacrificati – e che hanno denunciato la possibile subalternità dell’una verso l’altro, non possono non presentarsi, nell’incarnazione della loro stessa relazione, apparentemente scevra di conflittualità, come un esempio di quella profonda problematicità del rapporto fra creatività femminile e creatività maschile8. Una problematicità alla quale va restituita tutta la loro opera, o l’opera dell’uno e dell’altra, lungi da semplificazioni che, se sembrano fare giustizia alla coppia Fo e Rame, rischiano di ledere all’affermazione della soggettività femminile, e quindi di recare danno alla portata di un’opera che, al contrario, tanto ha voluto fare per contribuire proprio all’affermazione di un soggetto-donna. Proseguendo lungo questa stessa impostazione teorica, ci sembra quindi importante interrogare la funzione che il personaggio-tema Medea ha avuto in questa presa di coscienza di Franca Rame, contestualizzandolo nell’attività artistica della coppia Fo-Rame a ridosso della metà degli anni Settanta, anni fra i più complicati della storia italiana9.
Può essere un caso, ci chiediamo, che proprio al momento di ragionare intorno alla condizione della donna nell’Italia contemporanea e di definire, quindi, anche l’essere (e il suo essere) donna10, Franca Rame scelga di imporre la sua voce? Il tutto, ricordiamolo, in contemporanea all’operazione televisiva che avrebbe visto Fo ritornare in Rai dopo oltre un decennio di assenza, con la carrellata di ritratti al femminile dello spettacolo per la TV Parliamo di donne. Può essere un caso che proprio intorno alla definizione della donna proposta da Fo, della parola dell’uomo intorno alla donna, parola che si concretizza anche in testi scritti per Rame, si faccia largo, con forza, in Franca Rame l’urgenza di un riconoscimento personale? Può essere un caso che, mentre si riprendono, per la televisione, brani di Mistero buffo come la Strage degli innocenti11, nel quale il tema della maternità e della mater dolorosa, centrale nella poetica della coppia (D’Arcangeli, 2009, p. 182), qui coniugato a quello della morte violenta dei figli, la coppia Fo-Rame elabori una riflessione su un mito come quello di Medea che ha costruito la sua forza sul ribaltamento della vulgata intorno alla maternità? Può, infine, essere un caso che sia proprio la Medea, il testo che Rame dichiara di amare più di altri, a contribuire, ancor prima che alla liberazione dei personaggi, a “liberare proprio Franca Rame” (p. 199)?
La vitalità del mito di Medea si manifesta, quindi, nel monologo a firma Fo-Rame che chiude la prima serie di testi in cui Rame si presenta come co-autrice, innanzitutto nella sua capacità – paradossale, in fondo, rispetto all’inconciliabilità che il testo originario manifesta – di conciliare il maschile (Fo) e il femminile (Rame). E se nell’analisi del testo non è possibile applicare strumenti della critica letteraria femminista che tendono a mettere in gioco “l’identità di genere dei soggetti di scrittura” (Zancan, 1998, p. 7), interrogandosi sull’immaginario che è all’origine del testo – come distinguere, infatti, nel modo di lavorare collettivo che li contraddistingue, il contributo dell’uno o dell’altra? – è però legittimo sostenere, sulla scia di quanto è stato avanzato, fra gli altri, da Luciana D’Arcangeli, specialista del teatro di Fo e Rame, che Tutta casa, letto e chiesa corrisponde, anche, all’esito di una battaglia personale di Rame per prendere le distanze da un discorso sul femminile intenzionato, più o meno consapevolmente, a ridurlo ad oggetto piuttosto che a considerarlo come soggetto (che da questa intenzionalità derivi anche la volontà di imporre, anche al femminile, la forma del monologo?). Lo testimoniano, fra l’altro, le parole stesse di Franca Rame:
In questi anni io ho capito veramente fino in fondo cosa significa la condizione della moglie, della donna e della moglie. D’accordo: Dario è quello che è: un monumento, stupendo, bravo, meraviglioso, tutto bellissimo! Ma, casualmente, faccio l’attrice anch’io; casualmente, sono in questi testi; casualmente, Canzonissima l’abbiamo fatta e lasciata insieme; casualmente le scelte più grosse della nostra vita, non sempre pensate solo da Dario, le abbiamo decise insieme. Ma mai che a nessuno venga in mente dire “hanno lasciato la televisione”, no, è Dario Fo che “ha abbandonato”, perché è lui la testa. […] Il fatto è che poi io, come carattere, non spingo avanti, non mi faccio largo a gomitate. Faccio il mio lavoro che, lo dico senza modestia, ritengo estremamente importante per il collettivo, perché l’organizzazione della compagnia, l’occuparmi delle edizioni dei dischi, dei libri, e i rapporti con l’esterno, e tutto il resto sono cose essenziali. In effetti, so che servo in modo determinante. C’è però quella stupenda battuta, non so più chi l’abbia detta: “Voi donne non prendete mai il Nobel” “Certo, perché non abbiamo le mogli che ci aiutino a prenderlo.” Sentenza assolutamente attendibile” (Rame, 1977, pp. 141-142).
Parole, queste ultime, sulle quali Rame ritorna in più occasioni, e che possono risuonare (amaramente) profetiche, oggi12, a premio Nobel avvenuto, un premio che consacra l’autore e l’attore Dario Fo, oltre che il suo engagement, dietro al quale andrebbe valorizzato il lavoro di cura della donna che gli è stata al fianco una vita13, che ha conservato e ordinato le sue carte (“un’archivista sorprendente”, la definirà l’amico e biografo Joseph Farrel: Farrell, 2014), e che ha trovato la sua voce proprio attraverso le rappresentazioni di Tutta casa, letto e chiesa, secondo la formula del Mistero buffo (“giullarata principe di Dario Fo”), ma questa volta declinato al femminile, che le permette di affermarsi come “giullaressa delle donne” (fra gli altri, si vedano D’Arcangeli, 2009, p. 226; Alfonzetti, 2010, p. 236). È un lungo viaggio, questo verso l’affermazione di sé come soggetto autoriale e creativo, alla conquista di un’autorità non scontata. Un viaggio del quale Rame ha percepito tutta la difficoltà, come testimoniano le sue parole, a ridosso della messa in scena di Parliamo di donne: “questa battaglia dello sgancio del testo scritto da uomini per la donna, ho dovuto farla anch’io con mio marito, con Dario… è stata una grossa lotta, ma adesso finalmente si collabora”14. Una lotta agonistica alla quale si aggiunge, in un’altra testimonianza coeva, la certezza di essere in grado, di essere pronta a narrare in prima persona, a scrivere per il teatro15, superando la remora di non esserne all’altezza: “Certo che collaboro anch’io: io lo tormento, lui scrive. Un giorno scriverò anch’io” (Rame, 1977, p. 144).
Sono battaglie, queste, che la coautrice di Abbiamo tutte la stessa storia (il quarto dei monologhi di Tutta casa, letto e chiesa) non può ignorare essere comuni a quelle di tante altre donne (l’Accademia delle non premiate ai Nobel, potremmo definirla parafrasando le sue parole) che, come lei, stanno attraversando in quegli anni la forza dell’affermazione, e al tempo stesso della frammentazione, del femminismo. Un femminismo che Franca Rame percorre tracciando un suo personale, inedito percorso dai caratteri tragici, data la violenza della quale era stata vittima nel 197316, violenza che può essere letta come una svolta per la sua presa di parola (così, fra le altre, per Alfonzetti, 2010, p. 233). La tragedia della vita è entrata prepotentemente, nei terribili anni Settanta, nella famiglia Rame e Fo, ed è indubbio che, in questo contesto, la tentazione del tragico sia forte. È il retroterra ideale perché il mito più problematico per la cultura femminista, quello di Medea (Fusillo, 2009)17, faccia breccia nel suo immaginario letterario e teatrale, contribuendo alla prepotente affermazione di un sé non neutro.
3. Questioni di genere e di femminismi
Liquidata, nell’impossibilità di risolverla, la questione dell’autorialità e autorità dei testi a firma Rame-Fo, questione che va, comunque, problematizzata interrogando le dinamiche di un dialogo fra maschile e femminile, un’altra questione di genere, questa volta letterario, si fa avanti nell’interrogare la Medea del 1977. La produzione teatrale di Fo e Rame, infatti, come è stato ampiamente rilevato dalla critica, si è declinata in un’originale commistione di comico e tragico (Marinai, 2011, p. 105), a partire da una concezione della tragedia che si presenta come un’iperbole del comico, grazie alla mediazione del grottesco (Fo, 1990). In questo complesso intreccio, sempre seguendo le tracce del contributo di Rame all’elaborazione di una poetica così dialogica fra i generi, si è fatta avanti la definizione di una specificità della “scrittura femminile” di Rame, nonché di una sua refrattarietà al tragico che trova eco anche in una “insicurezza attoriale di Franca, rispetto alla debordante sicurezza di Dario” (Puppa, 2014, p. 301)18. La problematica ha già fatto scorrere fiumi d’inchiostro, e non è questa la sede per ripercorrerne le complesse implicazioni critiche se non per rimetterle, anche in questo caso, ulteriormente in gioco facendo riferimento, ancora una volta, alla voce di Franca Rame. Nel prologo con cui apre Tutta casa, letto e chiesa, infatti – che, ricordiamo, è il macrotesto di cui Medea costituisce la conclusione – Rame presenta il corpus, dopo averlo definito in apertura “uno spettacolo sulla condizione femminile, in particolare sulle servitù sessuali della donna”, riassumendo monologo per monologo, con la chiara volontà di guidare l’interpretazione del pubblico verso quella che è definita – sono le parole scritte in chiusura della presentazione di Abbiamo tutte la stessa storia – una “presa di coscienza” (Fo, Rame, 2000a, p. 961). Segue la presentazione dell’ultimo recitativo, Medea, che viene presentata come la Medea di Euripide – con quella che ci sembra un’ulteriore declinazione della presa di coscienza19 poco sopra auspicata:
Lo spettacolo è in chiave comica, grottesca. Abbiamo scelto apposta questa chiave: prima di tutto perché noi donne sono duemila anni che andiamo piangendo e questa volta ridiamo insieme e magari ridiamo anche dietro, e poi perché un signore che di teatro se ne intendeva molto, certo Molière, diceva: “Quando vai a teatro e vedi una tragedia, ti immedesimi, partecipi, piangi, piangi, piangi, poi vai a casa e dici: come ho pianto bene questa sera!, e dormi rilassato. Il discorso politico ti è passato addosso come l’acqua sul vetro. Mentre invece per ridere – è sempre Molière che parla – ci vuole intelligenza, acutezza. Ti si spalanca nella risata la bocca, ma anche il cervello e nel cervello ti si infilano i chiodi della ragione!” (Fo, Rame, 2000b, pp. 962-963)
Si tratta di un brano considerato giustamente centrale della poetica teatrale20 di Fo e Rame; una poetica che, nella sua militanza, si vuole fortemente contraria ad ogni forma di catarsi liberatoria che non consenta di passare attraverso la tappa obbligata di un intervento attivo per agire, nella società, al fine di contribuire alla lotta per migliorare il mondo in cui si vive. Anche in questo caso, concentreremo il nostro interesse sulla scelta delle parole e del linguaggio, con l’intento di problematizzare il posizionamento di chi scrive. Il noi, questa volta, si allarga infatti dalla coppia Fo-Rame a quel “noi donne” con il quale Rame-attrice cerca l’identificazione con le sue spettatrici e, anche, una forma di solidarietà (“ridiamo insieme”). Ecco, quindi, che la forma ibrida del comico-tragico diventa forma per eccellenza del racconto e di un teatro tutto “al femminile”, a partire dagli anni Settanta, dove l’intreccio di pianto e riso (quella chiave comico-grottesca già evocata) si presenta declinata tutta al femminile. La scelta linguistica, anche in questo caso – “al femminile” – si vuole maggiormente in sintonia con lo spirito di Rame, segnato – lo ricorda D’Arcangeli nella sua rassegna dei personaggi femminili nel teatro di Fo e Rame – da un rapporto non sempre di adesione, al punto da farle evocare la questione del “non femminismo” di Franca Rame (D’Arcangeli, 2009, p. 195). Ora, è chiaro che documenti d’archivio21, testimonianze, interviste ci raccontano anche una Rame sostenitrice, in tempi di teorizzazione, anche in Italia – al seguito della Francia – di un pensiero della differenza22, di una corrente invece a favore dell’uguaglianza, più vicina alla matrice politica della coppia Fo-Rame. Ma il rifiuto di un tipo di femminismo, e di uno solo dei femminismi nei quali si parcellizza e si infrange la galassia del femminismo italiano degli anni Settanta, in una separazione che avrà un ruolo importante nella perdita della sua forza23, non può occultare un’adesione importante, nella sua forma di militanza attiva, a tutte le battaglie di quegli anni: dal divorzio del 1974 alla legge 194 sull’aborto – tema al quale Rame fu particolarmente sensibile, anche in questo caso per una dolorosa esperienza autobiografica – passando per la riforma storica del diritto di famiglia, del 1975, e soprattutto, nel caso di Rame, per la campagna in favore del cambiamento della legge sulla violenza sessuale che la vide in prima linea, come testimonia la documentazione raccolta nel suo archivio. Se la militanza femminista di Rame e Fo non è messa in dubbio, non lo è neanche il posizionamento della coppia a Milano: l’altro polo, rispetto a Roma, attorno al quale si articola il femminismo in anni che vedono le ultime, grandi manifestazioni di massa delle donne: “a Roma, una parte del movimento scende in piazza, rivendica diritti negati e al tempo stesso dà vita a centri di elaborazione culturale […]; a Milano [si] mette al centro la pratica analitica. Differenza/differenze sono le parole chiave di quegli anni” (Lussana, 2012, p. 87). Dove si colloca, la militante Rame, in questo contesto? In un curioso crocevia fra i due poli del femminismo di quegli anni. In una dimensione nella quale sembra importante sottolineare la progressiva spinta dei personaggi femminili portati in scena – ma non solo, anche la forza della stessa pratica di scrittura di sé che Rame attua negli anni – verso quella che è stata individuata come una “autocoscienza di stampo femminista” (D’Arcangeli, 2009, p. 203). Questo posizionamento non stupisce nella Milano in cui si dà il via a una “pratica dell’inconscio” (Melandri, 2000), radicatasi e articolatasi intorno ai luoghi che si fanno centri di riflessione intorno alla differenza, come la Libreria delle donne.
In un contesto di messe in scene spoglie, in cui i personaggi femminili parlano di sé e per sé (Günsberg, 1997) i monologhi di Rame sembrano quindi portare a teatro quella pratica del partire da sé e dalla condivisione che è stata al centro del pensiero femminista. Con la complicazione, certo non trascurabile per il femminismo, di un’autorialità, come abbiamo visto, che si presenta duplice, concorde al punto di potersi fondere, spesso, ma al tempo stesso conflittuale, come può esserlo un rapporto con l’altro da sé, maschile, incarnato in questo caso dall’ingombrante marito. Che sia questa la resistenza maggiore di Franca Rame verso un certo femminismo che lei definiva caratterizzato da “estremismo isterico”? Un femminismo che, spingendola ad interrogarsi sul suo “rapporto critico con il maschio” (Fo, 1987, p. 308), la costringeva a rispondere alle accuse di farsi solo voce della creatività dell’altro – maschile – e quindi di perpetuare quella subalternità contro la quale si scagliava, in scena.
A riprova del posizionamento, interno alle riflessioni femministe di quegli anni, del teatro degli anni Settanta di Fo e Rame, si possono leggere proprio le pagine di Medea e, anche in questo caso, le pagine del prologo. Si confrontino, a questo proposito, le due versioni, nelle edizioni rispettivamente dei Ventincinque monologhi per una donna del 1989, apparsa a firma congiunta di Fo e Rame24, e nel Teatro curato da Rame nel 2000.
Franca: Eccoci arrivati all’ultimo brano dello spettacolo, quello al quale teniamo maggiormente: la Medea di Euripide. Dico subito che questo pezzo è assai diverso dagli altri, non è comico. Anzi, è profondamente drammatico e col più alto contenuto politico femminista di tutto lo spettacolo. Due parole di introduzione al pezzo. Per chi non lo sapesse, non diamo nulla per scontato, Euripide, a nostro avviso, è l’autore di tragedie greche più progressista che si conosca. Aveva capito tutto della donna, della sua condizione già allora, e non sono pochi anni fa! Medea. Chi era Medea? Una giovane bellissima, con poteri magici. Era una strega! (Fo, Rame, 1989, p. 91) | Franca: Eccoci arrivati all’ultimo brano dello spettacolo, quello al quale maggiormente teniamo: “Medea”, testo che ripropone il capolavoro di Euripide, una tragedia che nel nostro caso si rifà alla tradizione popolare dei Maggi umbro-toscani, cioè quella forma teatrale nata nel Cinquecento nell’Italia centrale, che trattava di temi classici, inserendo al tema originale varianti straordinarie. Medea, chi era Medea? Una giovane di grande fascino e bellezza, una donna d’oriente con poteri magici. Era una strega! (Fo, Rame, 2000b, p. 1015) |
Quello che è definito il “più alto contenuto politico femminista” (dichiarazione tanto più eloquente quanto più esplicita) si sfumerà, nell’edizione dell’opera omnia, in un richiamo intertestuale a una tradizione che va ad intrecciarsi a quella euripidea: il “maggio umbro-toscano”, fatto risalire al Cinquecento, che Fo aveva conosciuto in una versione del Sette e Ottocento, opera di un “poeta-pastore”, Pietro Frediani, che era stato segnalato a Fo dal regista Paolo Benvenuti. Un testo popolare, quindi, che, come tale, ha attirato l’attenzione di un Dario Fo sempre attento a dare voce alle classi più povere (Puppa, 1978, p. 96), il quale non solo opera “una originale commistione tra modello euripideo e maggio popolare” (Tellini, 2018, p. 97) ma attribuisce, alla lingua letteraria originaria, una patina differente: quella umbra delle laudi di Jacopone da Todi (Marinai, 2011, pp. 107-108). È una lingua antica, quindi, quella che viene messa in bocca all’interprete femminile Rame nella finzione dialogica alla quale dà vita nella sua messa in scena: una lingua “altra” (p. 106), sì, però non solo nel tempo, ma perché quella di un maschile (potremmo dire amplificato dagli innumerevoli passaggi creativi) che si risolve, ancora una volta, in quella del marito, Dario Fo.
“Il linguaggio umano è uno, dalle sue remote origini, sotto tutte le latitudini, ormai lo sappiamo. Ma forse le segrete leggi del ritmo hanno un sesso. Se siamo persuasi della profonda differenziazione spirituale fra l’uomo e la donna dobbiamo persuaderci che essa implica una profonda diversità espressiva”: sono parole che, nel 1911, la poetessa Sibilla Aleramo scrive in un testo intitolato Apologia dello spirito femminile (Aleramo, 1997, p. 85), in anni in cui si sta affermando come scrittrice femminista, nella sua veste di autrice di Una donna, nel 1906, un romanzo che apre il Novecento delle donne e in cui si racconta una maturazione che, dallo stupro e da un matrimonio di convenienza, la porta ad affermarsi come donna libera, capace anche di pagare il prezzo della rinuncia alla sua maternità, con l’abbandono del figlio, reso necessario dall’iniqua legislazione dell’epoca.
Che lingua parla Medea? Una lingua affabulatrice dalla patina arcaica, utile ad attivare “un processo di mitizzazione epica della donna” (Marinai, 2011, p. 106), un “volgare arcaico, proprio dei buccelli, dei ripetti cantati ancora oggi nelle sagre contadine dell’Italia centrale” (Fo, Rame, 2000b, p. 1016): “Donne, amiche mée, díteme… come ll’è la donna nòva dello marito meo, che solamente da lontano, ‘na volta, l’àggio veduta e bella… e giovane m’è sembrata” (p. 1018).
Che lingua parla Franca Rame nel prologo? Una lingua che cerca familiarità con il pubblico, che demitizza il testo classico (non era la tragedia il genere più messo sotto accusa dal femminismo, nella sua qualità di luogo di trasmissione, per eccellenza, di un sapere maschile che si impone come neutro e dominante?) per avvicinarsi alle donne, definite “amiche mée”: “Sei in quella certa età, i tuoi figli sono cresciuti, hanno una loro vita, la loro famiglia, tuo marito ti manda a “morire ammazzata” e tu vuoi veramente morire. Per una donna è assai difficile, quando non è più giovane, rifarsi una vita… e quindi ti attacchi disperatamente a quella che hai” (p. 1015).
Il tema della giovinezza che sfiorisce e condanna alla fine dell’amore è quello che permette di prosaicizzare la tradizione mitica ereditata, una tradizione che viene anche reinvestita di significato, accogliendo la variante, attestata solo in Simonide, del ringiovanimento di Giasone ad opera di Medea: “E qui, c’è il primo sacrificio della donna per l’uomo che ama: per dare vigore, giovinezza e bellezza a Giasone, Medea rinuncia in parte alla propria giovinezza, alla propria avvenenza” (pp. 1014-1015). Ma la giovinezza non è il problema maggiore, perché Medea non si vuole una tragedia della gelosia, come mette in guardia il prologo: “Non è il dramma della gelosia e della rabbia, bensì della presa di coscienza, del rifiuto di una legge e di una cultura che vuole la femmina prona e ossequiente ancorché umiliata e offesa” (p. 1016).
“Amare, sacrificare, soccombere! Questo il destino suo e forse di tutte le donne” (Aleramo, 2003, p. 41), scrive Sibilla Aleramo commentando, in Una donna, la parabola della madre, che finirà i suoi giorni in una casa di cura, impazzita dal dolore impostole dal sacrificio di sé, in una vita coniugale segnata dai tradimenti del marito. Sarà proprio il suo controesempio a spingerla a rifiutare lo stesso destino (“Perché nella maternità adoriamo il sacrifizio? Donde è scesa a noi questa inumana idea dell’immolazione materna? Di madre in figlia, di secoli in secoli, si tramanda il servaggio” (p. 144). Di pari passo alla progressiva presa di coscienza (anche qui), si fa strada la volontà di formulare per sé una nuova legge (“Avevo formulato la mia legge”); e, quindi, di liberarsi. E questo avviene anche se, per compiere la liberazione, Aleramo avrebbe dovuto rassegnarsi, in assenza di una legislazione adeguata, e in anni in cui vigeva l’autorizzazione maritale (art. 134 dell’antico Codice civile del Regno d’Italia che sarà abrogato nel 1919), a rinunciare a suo figlio, oltre che a quell’istituzione – il matrimonio – che, sola, le avrebbe permesso di vivere, economicamente, dignitosamente.
Il coro delle donne che si vogliono amiche di Medea, e che tentano di farla ragionare, usa innanzitutto l’argomento dell’identificazione: anche noi siamo state tradite, la tua sorte è la nostra sorte, sembrano dire. Un “mal comune” che avrebbe dovuto spingere Medea ad accettare lo stesso destino: scegliere la solidarietà femminile a scapito della realizzazione di sé?; scegliere di adattarsi a quella “legge de lu monno” che, una volta teorizzato un diverso invecchiamento fra i generi, esige dalle donne un assoluto sacrificio, e non contempla rivolte? “Desgraziate che altro non siete”, grida Medea davanti alla constatazione che le donne non solo non intendono ribellarsi, ma hanno fatta propria la legge patriarcale, la legge dell’Altro (“la sòa dottrina”). Quasi per contrasto, Medea sceglie la ribellione totale, l’unica forma capace di riscrivere la legge che impone solo rassegnazione e sacrificio: una svolta che contempla l’annientamento di quello che si ha di più caro, nella misura in cui costituisce, al contempo, il giogo più duro – il “basto de legno duro alla vacca” – che rende più difficile lasciare la prigione (Fo, Rame, 2000b, pp. 1018-1019 e 1021). Senza uccisione – senza rivolta, la stessa che accompagna il movimento delle donne – non c’è liberazione, né affermazione di una donna nuova, che sola può nascere dalle ceneri del vecchio mondo: “Mori! Mori! Pe’ fa’ nascere ‘na donna nova… Mori! Pe’ fa’ nascere ‘na donna nova!”. È la chiusura, come un refrain, del testo: una cantata, l’ultima ninna nanna con la quale cullare i propri figli. Perché anche loro rinasceranno dalla rifondazione di questo nuovo mondo.
“Per quello che siamo, per la volontà di tramandare più nobile e più bella in essi la vita, devono esserci grati i figli, non perché, dopo averli ciecamente suscitati dal nulla, rinunziamo all’essere noi stessi…”, aveva scritto Aleramo in Una donna (Aleramo, 2003, p. 50).
Riscoperta negli anni Settanta, Sibilla Aleramo costituirà una figura di riferimento per il secondo femminismo, e sarà al centro della teorizzazione del concetto di “sogno d’amore” elaborato da Lea Melandri nel 1988, voce e interprete, nella Milano degli anni Settanta, dei centri del femminismo che fanno pratica dell’inconscio. Una figura di spicco di un femminismo che non si rassegnerà alla fine dei suoi anni più gloriosi, e che cercherà vie di continuità con il movimento nella fondazione della Libera Università delle Donne: “un luogo che ha rappresentato […] la possibilità di dare un seguito a ciò che di più originale aveva indicato il femminismo degli anni Settanta: l’indispensabilità di teoria e pratica, elaborazione del pensiero e trasformazione delle vite” (Melandri, 2000, p. 9). In un corpo a corpo con i testi di Aleramo, Melandri teorizzerà il principio del “sogno grandioso” che accompagna l’origine, quasi come una legge imposta, di ogni donna e nutre il suo immaginario: quella ricomposizione di un’“unità a due, due diversi, maschile e femminile, che si compongono in armonia” (Melandri, 2002, p. 40). Ma cos’è, in fondo, questo sogno se non la copertura dell’eredità, arcaica, di un sistema che esclude le donne, un’altra declinazione della “legge de lu monno”?
4. Conclusioni ed aperture: dare a Giasone il premio Nobel?
Le possibili corrispondenze di questa teorizzazione, che matura nella Milano degli anni Settanta, con la rivendicazione della Medea di Fo e Rame, con l’evoluzione della poetica dei due giullari, oltre che con il cammino, personale, di affermazione di sé che compie Franca Rame (un cammino che aveva compiuto, quasi un secolo prima, Sibilla Aleramo), possono essere lette come la spia di un confronto serrato del mito con il contemporaneo. Un contemporaneo che, nella Milano del 1977, non può essere letto senza la riflessione e l’azione intorno alla condizione femminile. Franca Rame spinge Fo a un confronto inedito con il femminile e il risultato, altrettanto inedito, è una lingua che accoglie l’altro e che, accogliendolo, lo ridefinisce. Se il finale di Medea non ci sembra così aperto come una certa critica ha ipotizzato, evocando anche la possibilità di un suicidio della protagonista (Cavallaro, 2010, p. 199), aperto è invece lo spazio alla vitalità, nel femminismo italiano, del mito di Medea.
Può essere un caso che, a soli quattro anni dalla prima della Medea della Palazzina Liberty milanese gestita dalla Compagnia teatrale di Fo e Rame, veda la luce una Medea romana, a firma di Maricla Boggi, la scrittrice che ha fondato, con altre, “l’associazione teatrale ‘La Maddalena’, punta di diamante del femminista romano” (Pucci, 2017, p. 206)?. Da un femminismo all’altro, da Milano a Roma – le capitali antagoniste del femminismo di quegli anni – il cammino di Medea continua. Così come è continuato il percorso di Fo e Rame: l’uno è stato insignito dal Nobel; l’altra, dopo un lavoro interminabile di cura delle sue e delle proprie carte, si è ritrovata, nell’insofferenza del ruolo di musa ispiratrice, ad affermarsi, seppur con un ritardo tale da far pensare che, nel gioco di specchi Franca e Medea, entrambe sono state (troppo) al servizio dell’Altro.
Nel 1978, al momento di presentare una delle messe in scena con le quali non solo Medea, ma l’intero spettacolo (che è definito significativamente una “progressione logica”) Tutta casa, letto e chiesa, che sta muovendo i primi passi di un cammino trionfale che lo avrebbe portato a oltre tremila repliche, Franca Rame, ai microfoni della radio, riassume per il pubblico la parabola di Medea, la quale : “dà [a Giasone] tutto quello che ha, gli dà il suo amore, gli dà due figli, è quella che lo inquadra, e gli dà anche una buona vita e la ricchezza […] Medea discute, con le sue amiche, sull’ingratitudine di questo uomo: con tutto quello che ho fatto io per te, mi sono sacrificata, ti ho dato la mia giovinezza, e ho vinto il vello d’oro, ho ucciso il drago per te, ho ucciso addirittura mio fratello, ho tradito mio padre.”
Il risultato? Si ride e si piange, come sempre quando si parla di donne. Lo dice ancora Franca Rame, dopo aver presentato la storia di Medea attraverso l’originale chiave di lettura – tanto più sentita in quanto di chiara matrice autobiografica – del dramma dell’ingratitudine. E la ripresa del tema del Nobel, tema sul quale Rame, come abbiamo visto, ritorna più volte, non può non essere la spia di una chiave di lettura personale (perché “il personale è politico”), utile a rileggere l’immaginario di una’autrice che si rivolta contro il ruolo di “cura” e di “curatrice” nel quale viene relegata:
E tutto questo discorso mi fa un po’ venire in mente quel giornalista che disse a una donna: “ma voi donne parlate tanto ma alla fin fine il premio Nobel, vabbè una su cento” […] e questa intervistata guardando con molta freddezza il giornalista dice: “sì, è vero, noi raramente prendiamo il premio Nobel, ma la ragione è perché non abbiamo le mogli che ci aiutano”. Infatti Medea ha dato un po’ a Giasone il premio Nobel, e in cambio ne ha avuto solo tristezza e malinconia25.
Tristezza e malinconia sono gli stessi sentimenti, forse, che hanno accompagnato l’attribuzione, nel 1997, del premio Nobel a un altro “Giasone”, meno ingrato, certo, meno egoista, anche. Ma comparabile all’eroe del vello d’oro perché abituato, come questi, a raccogliere, da solo, gli allori di vittorie e di riconoscimenti ai quali non sarebbe arrivato senza Medea.