Résumé

Rosa Park’s gesture speaks to our exhausted abstentions as an echo of Bartleby’s famous “I’d prefer not to”. Observing its persistence, I suggest that decoloniality implies the deconstruction of our incorporated relationship with time, bodies, sickness, the common good. Moving away from the rhetoric of discursive celebration, dialectics at a standstill help us recognize how the right to mourning and the possibility of equality are deeply entangled in order to explore new cartographies of desire within the ruins.

Plan

Texte

1. Che il celebrare non sia cerebrale

“Preferirei stare seduta qui” – nel gesto di Rosa Parks potremmo cogliere un eco delle famose parole che Melville mette in bocca a Bartleby lo scrivano: quel “Preferirei di no” diventato ormai un topos retorico di una posizione critica che troppo sovente si avvita su sé stessa.

Rosa Parks, il corpo di Rosa Parks che si vuole sedere, il gesto di stare lì, non indica una mera astensione dall’agire prescritto, ma un attivismo immobile del corpo situato, del corpo visibile, nella forma della sua presenza, scandalosa nella sua compostezza perché già libertà in atto, ethos del corpo vivo, sorgente di una prospettiva ineludibile.

Certo, nel suo gesto sarebbe possibile leggere l’astensione, una resistenza destituente rispetto alla norma escludente: “no, preferirei non spostarmi” ma là dove è il corpo che dice “no, sto qui non mi sposto proprio” in questo rifiuto di muoversi non c’è solo un desistere ma un insistere, un del corpo nell’evidenza situata, nel senso comune di un’affermazione vitale di ciò che è imprescindibilmente costitutivo.

Il gesto di Bartelby è diventato un topos del pensiero critico. Deleuze vedeva in questa radicalità del non corrispondere la traccia di una differenza quasi archetipica, originale (Deleuze, Agamben, 1985). Un “così no” tanto estremo e mite che – volendo riprendere il pensiero di Walter Benjamin – potrebbe evocare l’idea di quella battuta d’arresto, di quel messianesimo altrimenti percepibile, che è il cuore della sua dialettica immobile. Tuttavia il gesto di astinenza assoluta di Bartleby potrebbe anche denunciare la sterilità di una certa postura intellettuale che finisce per essere autoriferita anche quando tenta di dire qualcosa di sensato. Come forse faccio anch’io scrivendo ora! Per Bartleby il gesto più attivo che possa fare in quanto scrivano di uno studio legale è quello di rinunciare a scrivere. Di fronte alla richiesta di K. sono stato tentato anch’io di rispondere “preferirei di no”. Perché dovrei aggiungere parole a tutte quelle che sono già state scritte? Di fronte alla potenza di un semplice gesto “subalterno” come quello di Rosa le parole cadono come foglie autunnali e a volte il gesto di chi scrive pare volerle raccogliere da terra e riattaccarle all’albero. Le metafore stesse son foglie secche. Voglio dire che nella memoria è in gioco qualcosa che andrebbe colto altrimenti. Non nella celebrazione, ma negli intrecci dove il presente per un istante illumina il passato e il desiderio. Se questo accade ridiventa possibile parlare.

2. Passage Rosa Parks

Parigi si lustra sovente della sua capacità di premiare e riconoscere i protagonisti delle rivoluzioni e trasformazioni sociali anche se oggi conduce una guerra contro i senza tetto. Le guide turistiche ancora considerano il diciannovesimo come un “percorso pericoloso” da evitare o visitare con prudenza. A Rosa Parks è intitolato un bistrot, un ristorante thailandese, un alberghetto, un panettiere (Les delices de Rosa Parks), un centro medico, una residenza universitaria sempre nel XIX arrondissement. Il quartiere Rosa Parks è un quartiere dormitorio in cerca di una sua identità anche se limitrofo ad altre aree ibride del diciannovesimo che sino a poco tempo fa offrivano un’animata vita notturna. Se cliccate “Rosa Parks/Parigi” su un motore di ricerca troverete anche un “passage” parigino contemporaneo a lei intitolato – un sottopasso dove vivono i senza tetto che vengono regolarmente sgombrati insieme ai consumatori di crack, nei pressi della stazione semi-periferica RER Rosa Parks dove arrivano i pendolari e che ormai dà il nome a tutto il quartiere. Rosa Parks oggi ha il suo “monumento” proprio dove gli ideali sui “diritti umani” vengono quotidianamente negati dalla regolamentazione dei dispositivi giuridici. Nelle celebrazioni del presente ritorna il rimosso. Ritorna cioè ciò che del passato continua a chiederci elaborazione. E torna in mente ciò che diceva Deleuze sul fatto che poco riflettiamo sulla concretezza dell’ethos che anima i popoli senza diritto o che nemmeno utilizzano questo concetto (Deleuze, Guattari, 1991, p. 103) 1.

La stazione Rosa Parks

La stazione Rosa Parks

Il sottopasso Rosa Parks

Il sottopasso Rosa Parks

3. Ecologia della cura e poter fare

Consideriamo l’ethos come dimensione del sentire che è trama condivisa di appartenenza, un alfabeto affettivo e percettivo che si struttura concretamente a partire dal paesaggio in cui si nasce, dalle filastrocche che si ascoltano dai propri cari, dai toni della voce, dal colore della lingua, dai rapporti di parentela, dal modo in cui si mangia oltre che da ciò che si mangia, dalla musica che si ascolta, dai rituali di passaggio che segnano le età della vita. L’ethos più che una convinzione è una sonorità, un sapore, un sapere. Tutto ciò che la percezione e le relazioni radicano nella sapienza mobile dei corpi. Il possibile imperfetto di una casa comune.

Il corpo, infatti, con cui esperiamo e nominiamo il mondo, è un indissolubile intreccio di natura/cultura, deposito di una sensibilità che nasce localmente ed è tuttavia profondamente connessa a codici affettivi di base, in grado di svilupparsi sino a cogliere e riconoscere altre prospettive, umane e non umane.

Oggi, assistiamo a un’apparente scissione tra mondi perché questa possibilità di riconoscimento si sta contemporaneamente ampliando (nel riconoscimento di ciò che ci connette con tutto il vivente) ma anche restringendo per tutti coloro che scelgono la scorciatoia dell’irrigidimento identitario. Una piccola N mette sempre l’ethos a rischio di trasformarsi in ethNos identitario (“etnico” ma anche religioso o ideologico) nutrito dai dettami e soprattutto dai non detti traumatici che si tramandano da generazione a difesa di un ethos ferito nelle stabilizzazioni territoriali che lo riproducono nei codici delle identità difensive a tonalità paranoide.

In un piccolo esercizio di gruppo sull’ethos abbiamo contemplato e confrontato le nostre percezioni su quali possano essere le fonti personali e collettive del poter fare e del poter essere. Uno dei temi emergenti era la ricerca di un ritmo tra insistere e desistere come possibilità di andar oltre il resistere ideologico di un certo militantismo in cui il risentimento è anche attaccamento al sintomo e l’ideale grandioso di un glorioso mondo a venire sovente difende dalla intima consapevolezza della sua improbabilità e dai relativi latenti sentimenti depressivi. Vi sono più modi di reagire a un lutto o a una trasformazione radicale - le scorciatoie paranoidi (il dolore e la rabbia evacuate su un capro espiatorio) o melanconiche (lutto interminabile quando il legame con la perdita si fissa in termini persecutori) in realtà lo elaborano male perché elaborare un lutto implica una rivisitazione complessiva del proprio rapporto col divenire e con l’intreccio della propria storia con il mondo, i morti e gli antenati, le eredità che stiamo costruendo.

Un precursore interessante di una prospettiva post-dualista2 è stato il filosofo Helmuth Plessner che vedeva nella dislocazione umana, nello scarto tra la coscienza che osserva e pensa e l’esperienza corporea, insomma nella scissione che specialmente in Occidente ci costituisce, la possibilità di elaborare altrimenti l’idea di confine e limite non come barriera escludente ma come condizione porosa di relazionalità. La consapevolezza di tale dislocazione – lo scarto della persona che osserva il proprio corpo spazio-temporale – ci fa percepire un “dentro” ma anche qualcosa che sta sempre “fuori” e che ci manca (Plessner, 2008). Questo confine indeterminato ci obbliga a inventare il mondo negoziando con altri la possibilità di immaginarlo in una dinamica continua tra l’“andare verso” e il “misurare le distanze” (Berger, 2015).

Come scrive Miguel Vatter nell’edizione on line dell’European Journal of Psychoanalysis3, l’attuale enfasi su una governance dei corpi come forma normativa e totalizzante di tutela del “bene comune” corre il rischio di costruire nuove forme di distanziamento perché la nostra dislocazione da noi stessi ci interroga, nutrendo l’aspirazione a collocarci nello spazio e permette di variare le distanze relazionali. Insomma intervenire sull’habeas corpus, sulla limitazione dei nostri corpi nello spazio, non è cosa da poco e risuona con ciò che nella storia decoloniale ha propiziato o inibito la capacità di movimento dei corpi nella segregazione, nella fuga, nella migrazione scelta o forzata. Avere un corpo ci permette di allontanarci quanto di avvicinarci. Collocarsi nel mondo sarebbe difficile se la localizzazione dei corpi diventasse norma acquisita. Certo l’adesione all’idea di una biopolitica buona può risuonare con quella di “bene comune”, soprattutto dove la nostalgia per l’idea politica di una normatività dell’uguaglianza si ridefinisce in una sorta di concretismo pragmatico. Lo smarrimento attivo delle istituzioni, di fronte all’imprevedibilità del nostro entanglement con una natura continuamente modificata dall’agire umano, implica probabilmente una qualche la consapevolezza dell’irreversibilità di ciò che stiamo perdendo ma non sa sviluppare un discorso all’altezza di queste perdite. Mi ha molto colpito la dichiarazione del ministro italiano per la transizione ecologica Cingolani secondo il quale “il mondo è progettato per tre miliardi di persone”. Ma il desiderio di tecno-soluzioni per i salvati senza nessun accenno ai 5 miliardi di sommersi, che tale dichiarazione implica, impedisce l’accesso al corpo stesso, al cadavere di ciò che muore, snatura un discorso degno di quel lutto che potrebbe aprire a un nuovo ethos della Terra.

Se la malattia e la morte sono tratti ineludibili della vita, pensare che le coordinate delle politiche sanitarie si possano fondare sulla paura della perdita impoverisce la possibilità stessa del lutto che sta al cuore della crisi contemporanea. Esiste anche un respiro psichico che nasce dalla partecipazione consapevole e non dalla credenza apotropaica.

Il tema di come intendere una ecologia della cura resta aperto. Proprio il gesto di Rosa Parks e tutta la storia della colonialità segregante ci impegna a riflettere con attenzione se non vi siano faglie e fratture nei modelli normativi con cui immaginiamo il bene comune e la cura.

4. Il gesto destituente dei corpi nonviolenti

Che i corpi dei subalterni sappiano dire al di là delle forme discorsive che li rendono subalterni fa parte del discorso critico da oltre vent’anni. Il discorso sulla rappresentazione – nella duplice accezione del termine – risale al famoso saggio in cui Gayatri Spivak racconta la storia del suicidio di sua zia (Spivak, 1988). Che il suicidio sia stato una modalità di esprimere l’indicibilità dell’oppressione lo sappiamo sin da quando i monaci buddhisti si cospargevano di benzina in Vietnam, gesto che è rimasto nella memoria psichica di chi vuol dire e si ritrova nella impossibilità di dire o agire un cambiamento, come dimostrato anche dal suicidio di Mohamed Bouazizi che nel 2010 aveva inaugurato in Tunisia le cosiddette primavere arabe. Penso anche ai cantanti turchi imprigionati con l’accusa di terrorismo per aver denunciato la collusione del governo con le forze dell’islamismo radicale anticurdo in Siria che si sono lasciati morire in carcere come forma estrema di protesta.

E tuttavia esistono gesti destituenti connotati da una sorta di ovvietà del “senso comune”.

Ciò che rende il “preferisco non alzarmi” di Rosa Parks radicalmente trasformativo non è certo una mera astensione spossata e nemmeno una risposta rabbiosamente reattiva ma un gesto relazionale che non cede al format della legge ma ne ridefinisce i confini.

Il NO di Rosa Parks è un atto di riconoscimento perché affermando il diritto a uno spazio (e a un tempo) di ogni corpo riconosce questo diritto anche a chi glie lo nega. Non risponde reattivamente né cede alla resa depressiva ma declina altrimenti la pulsione aggressiva (la difesa di uno spazio) rispetto a quella violenza sistemica che nega la dialettica del legame sociale. Violenza che se considera alcuni corpi non sono degni di lutto, considera la loro perdita od esclusione irrilevante, forclusa dal sentire o dal riflettere.

Qui è in gioco l’idea stessa di Sé, non come quella gabbia dorata della ricerca interiore cara alla psicologia a-sociale, ma come quella possibilità relazionale che costituisce e (ri)crea continuamente il mondo nell’incontro e nel conflitto, senza cedere alla pulsione di morte e a quei baluardi difensivi paranoici che erigono muri strutturando un corto circuito tra paura e violenta esclusione.

Ciò che tradisce ogni dialettica relazionale e genera disuguaglianza è proprio il prevalere di dimensioni paranoidi e immunitarie legate alla perdita che si perpetuano e tramandano e sono del tutto funzionali alle logiche di dominio della modernità coloniale. Dimensioni che rendono alcuni meno degni di lutto secondo la definizione ormai classica di Judith Butler. L’obbligo etico non può prescindere dalla presa in carico della distruttività implicita nella relazionalità quanto dalla possibilità di trasformarla senza negarla. La chiave di volta è proprio la capacità di sentire e partecipare al lutto. Ma per partecipare al lutto in senso evolutivo bisogna anche saper vedere e sentire ciò che è più facile negare – il corpo della perdita – negazione che apparentemente semplifica le cose. Se il riconoscimento dell’ugual valore di tutte le vite è cruciale per una politica dell’uguaglianza e del bene comune, merita riflettere sulla tesi di Butler che rovescia radicalmente l’idea di un fine che giustifica i mezzi – la nonviolenza rovescerebbe la logica intrinseca di negazione della perdita, quel diniego delle rovine che ereditiamo e che immagina come velenoso pharmakon politiche dell’inimicizia escludenti che trovano appoggio proprio nelle difese psichiche più reattive (Butler, 2020).

5. Per una clinica della crisi

Oggi l’habeas corpus subisce una bizzarra inversione, non si situa più nella prospettiva nella soggettivazione relazionale di ogni corpo ma si rovescia nella presa in carico dei corpi, nel far vivere istituzionale la cui ombra impotente si rivela nelle moltitudini di corpi destinati all’esclusione, meno degni, per destino o nascita, ad una “buona vita”. E che tuttavia continuano a compiere gesti, a migrare, a inseguire sogni, a chiedere dignità, a danzare sulle rovine.

Il gruppo informale “clinica della crisi/ecologia della cura” si costituisce su un’ipotesi simile a quella formulata da Judith Butler: non vi è possibilità di pensare politiche dell’“in-comune” al di fuori della possibilità di riconoscere costituire a partire dal lutto, nel sentimento del valore implicito di ogni cosa e di ognuno, il campo della inter/intra dipendenza che ci costituisce. È un ethos emergente che richiede una trasformazione radicale del sentire (Barad, 2017). Come è possibile fare il lutto per una foresta che brucia, un ghiacciaio che si scioglie o un enorme pezzo di banchisa polare che si stacca se ogni cosa che costruisce il mondo e la vita non viene percepita (non pensata) come degna di lutto?

D’altro canto penso al lavoro sul campo di Giorgia Mirto nel mappare le tombe senza nome dei migranti naufragati vicino alle coste della Sicilia e la loro inclusione in forme locali di lutto a quello di Filippo Furri che con lei lavora sulle tecniche di identificazione di questi corpi senza nome che permetterebbe alle famiglie di sapere, di celebrare un rito, di risposarsi, di ereditare. A quanti in accademia e fuori impegnano pensiero e sentimento su queste cose. Penso anche al lavoro artistico della compagnia La Lucina (Guido Mannucci e Riccardo Novaria) e alla loro splendida coreografia sul fuori campo del corpo, ribelle al dominio di codici tecno-visuali sempre più disincarnati ballata da Lucia Mauri sulle note della Sinfonia n. 3 di Gorecki cantata da Beth Gibbons. O al lavoro di Simona Sala con la sua installazione Aletheia che permette di entrare in uno spazio dove incontrare teste di sale sospese o crepate a terra e denti di ferro che rimandano appunto all’analisi del DNA che si ricava dai denti dei corpi annegati per cercare di ricostruire l’identità del defunto. O ancora al lavoro di Elisabetta Trupia che porta nelle piazze dell’Umbria una barchetta di legno e stracci in cui si siede con i bambini e adulti e legge loro la storia di Rosa Parks.

Elisabetta Trupia e il suo dispositivo mobile di lettura decoloniale: Ti porto una storia - La Barchetta.

Elisabetta Trupia e il suo dispositivo mobile di lettura decoloniale: Ti porto una storia - La Barchetta.

In sintesi io credo che la riflessione sui “gesti decoloniali” da parte del pensiero critico resti oggi fertile se non costruisce monumenti alla memoria ma contribuisce a nutrire nuovi gesti decoloniali, un nuovo ethos della terra e della relazione non avulsi dall’intreccio con cui il passato interpella questo presente.

Un’idea interessante di ecologia della cura sta emergendo. Micropolitiche, cartografie del desiderio, decolonizzazione dell’inconscio, postpolitica desiderante, attivismo postumano (postattivisimo), prospettivismo relazionale e molte altre formulazioni emergenti che rielaborano l’idea di partecipazione e militanza con un focus più preciso sull’ethos emergente. Rielaboro quattro domande che pone Dougald Hine autore con Paul Kingsnorth del Dark Mountain Manifesto (Hine, Kingsnorth, 2009).

In un recente podcast4 Hine elenca quattro domande su cui riflettere collettivamente nella costellazione del presente e che rielaboro così:

  1. Chiedersi cosa merita di essere salvato (ed è possibile salvare) di ciò che c’è adesso lasciando invece andare le narrazioni incorporate e scontate che ancora segnano l’idea di un luminoso progresso verso un radioso futuro. Farsi questo genere di domande è un buon antidoto sia nei confronti delle mistiche della tecno-modernità che nei confronti nel catastrofismo estinzionista che sconfina spesso o nel nichilismo individualista e rassegnato o in una sorta di luddismo teorico.
  2. Prendere radicalmente atto di cosa andrà irrimediabilmente perso. Fare il lutto per le cose che non possiamo portare con noi ma portare invece con noi le loro storie che ereditiamo, preservarne l’archivio – perché potrebbero essere ancora generative.
  3. Riconoscere e prendere atto di che cosa non merita di essere salvato – le cose che a lungo abbiamo considerato “buone” ma che iniziamo a riconoscere come tossiche, necrofile, patogene e distruttive e vanno lasciato andare.
  4. Il quarto punto sarebbe considerare che qualunque cosa sia giunta alla “fine” ha avuto inizio e che in questi inizi stavano finendo altre cose. Mentre costruiamo un diagramma delle storie del mondo che non ci sarà più iniziamo anche a ritrovare le tracce di ciò che è stato scartato e che forse oggi possiamo iniziare a recuperare

Nel porci queste domande possiamo immaginare che la linearità accelerata e maniacale del tempo coloniale rallenti ed entri in una sorta di sospensione. Allora mi sembra che il gesto immobile di Rosa Park riemerga nella sua posa con un altro genere di forza come una pietra visuale miliare che amplifica non solo la riflessione sulla decolonialità ma anche le nostre impotenti retoriche discorsive.

Bibliographie

Barad, K., 2017, Troubling Time/s and Ecologies of nothingness: Returning, Remembering, and facing the Incalculable, in “New Formations”, 92, pp. 56-86.

Berger, J., 2015, Qui dove ci incontriamo, traduzione italiana di Maria Nadotti, Torino, Bollati Boringhieri; ed. or. 2005 Here is where we meet, London, Bloomsbury

Butler, J., 2020, The force of non violence, London, N.Y. Verso.

Deleuze, G., Agamben, G., 1985, Bartleby. La formula della creazione, Macerata, Quodlibet.

Deleuze, G., Guattari, F., 1991, Qu’est-ce que la philosophie?, Paris, Les éditions de minuit.

Hine, D., Kingsnorth, P., 2009, Uncivilization: The Dark Mountain Manifesto, disponibile on line: https://archive.org/details/uncivilisation-dark-mountain-manifesto/page/n21/mode/2up

Plessner, H., 2008, Antropologia dei sensi, traduzione italiana di M. Russo, Milano, Cortina; ed. or. 1980, Anthropologie der Sinne, Frankfurt am MainSuhrkamp

Spivak, G., 1988, Can the subaltern speak?, in Nelson C. and Grossberg L, eds. Marxism and the interpretation of Culture. Chicago, University of Illinois Press, pp. 271-313.

Vatter, M. Dibattito sul Green Pass. Riflessioni dall’Australia in “European Journal of Psychoanalysis” on line edition 07/08/2021 https://www.journal-psychoanalysis.eu/riflessioni-sul-dibattito-italiano-sul-green-pass/

Notes

1 “Les droits de l’homme ne disent rien sur les modes d’existence immanents de l’homme pourvu de droits” (Deleuze, Guattari, 1991, p. 103). Retour au texte

2 I sistemi binari (vita/morte; bene/male; amico/nemico; identità/alterità; salute/malattia) sono costitutivi del nostro modo di interpretare la realtà e in maniera del tutto specifica nelle dicotomie occidentali. Nel pensiero contemporaneo molti spunti di riflessione, legati anche alla crisi ecologica, come il neomaterialismo e la svolta ontologica in antropologia aprono alla considerazione di un intreccio complesso di agentività in senso post-dualista. Retour au texte

3 https://www.journal-psychoanalysis.eu/riflessioni-sul-dibattito-italiano-sul-green-pass/ Retour au texte

4 https://decolonialfutures.net/2018/12/01/dougald-hine-vanessa-andreotti-bayo-akomolafe/ Retour au texte

Illustrations

Citer cet article

Référence électronique

Fabrice Olivier Dubosc, « L’ethos del senso comune », K [En ligne], 7 | 2021, mis en ligne le 01 décembre 2021, consulté le 23 mars 2025. URL : http://www.peren-revues.fr/revue-k/1100

Auteur

Fabrice Olivier Dubosc