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Parlò della violenza, della frase ‘‘Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno’’ pronunciata da Gesù Cristo sulla croce. Il reverendo King era solito dire che i neri dovevano accettare la violenza con amore, e io ritenevo che fosse un obiettivo a cui tendere. Ma a dire il vero non sono mai riuscita ad arrivare a quel punto, anche se so che la strategia del reverendo King era la più efficace per le masse di Montgomery, piuttosto che cercare di reagire, dato che non avevano né armi né munizioni.
Nemmeno Malcolm era un sostenitore della nonviolenza. Riferendosi a quello che King amava dire riguardo alla gente che non sa quello che sta facendo, era solito affermare che i razzisti bianchi che aggredivano le dimostrazioni nonviolente per i diritti civili ‘‘non solo sapevano benissimo quello che stavano facendo, ma ne erano anche esperti’’.

Rosa Parks, con Jim Haskins, La mia storia. Una vita coraggiosa.

Il primo dicembre 1955, a Montgomery, in Alabama, una giovane sarta afro-americana sale su un autobus. I posti nello spazio riservato ai neri sono occupati; rimane una sedia libera nella zona “mista”, dove i neri devono obbligatoriamente alzarsi su richiesta di un bianco. E ciò che avviene, ma la donna si rifiuta; non fa nulla: si limita a restare seduta. Chissà: il giorno prima o quello dopo forse si sarebbe alzata, avrebbe fatto spazio e onorato le norme del razzismo di Stato. Ma il primo dicembre decide di restare seduta; un corpo immobile (ma in realtà frenetico) e indocile, come d’improvviso, non sta (più) alle regole del gioco. Per questa sottile ed energica forma di contrarietà Rosa Parks è arrestata e processata. Ciò che scriveva Maurice Blanchot a proposito della moltitudine del ’68, vale anche per Rosa: “Potenza suprema, perché includeva, senza sentirsi sminuita, la sua virtuale e assoluta impotenza”. Il rifiuto di Rosa Parks è l’epifania di un gesto; un gesto che evoca una carica politica insospettabile.

Che cos’è un gesto? Non è, crediamo, un’azione perché non risponde a un programma, forse neppure a una decisione. Un gesto è il movimento più intimo del desiderio; la carica più intensa di una pratica di rifiuto, di diserzione nei confronti dell’universo insopportabile cui siamo consegnati. Un gesto erompe quando ciò che abbiamo sempre sopportato, come all’improvviso, non lo tolleriamo più. Un gesto, se è tale, ai nostri occhi ritrae immancabilmente un punto di rottura con sé, la storia, il potere; in questo senso, si rivela incalcolabile. È incalcolabile perché un gesto ha il compito di lasciare terminare una storia provocando un altro tempo nel tempo.

Alain Badiou pensa che la politica sia innanzitutto la forza di restare fedeli all’evento; al suo evento come irruzione nel mondo, ogni volta di nuovo e differentemente, di quelli che lui chiama gli inesistenti. Ci chiediamo: come restare fedeli a un gesto di rottura evitando la sua territorializzazione, la sua canonizzazione e depotenziamento? Perché se un gesto è chiamato a dire no, a devastare un mondo, d’altro canto ha la missione di proseguire sé stesso; non certo dentro un progetto, ma, come dire, sopravvivendo a se stesso, reiterando la propria forza.

Il gesto di Rosa è la sua ripetizione; la sua ostinata deterritorializzazione. Chissà forse pensava qualcosa del genere l’artista newyorkese Ryan Mendoza, con la sua opera Almost home – The Rosa Parks House Project, decifrando un aspetto cruciale della figura di Rosa Parks: il suo essere «quasi a casa» in qualsiasi contesto, in qualsiasi discorso che aspiri a fare della sua figura il simbolo di una lotta, di un’ingiustizia, di una ferita aperta. In queste operazioni Rosa è sempre quasi a casa, perché rimane un resto, una rovina, che la storia non riesce ad assimilare e a raccontare, un’eccedenza che forse eccede persino la storia di una sarta ribelle. La natura politica del gesto artistico di Mendoza consiste proprio in questa despazializzazione della casa di Rosa Parks: non soltanto, infatti, ci invita a guardare altrove, in uno spazio che generalmente tende a rimanere fuori fuoco, ma chiarisce immediatamente la funzione della de-territorializzazione delle lotte. L’operazione di Mendoza ci consegna l’occasione di ripensare il gesto di Rosa. Come ha dichiarato l’artista: «Ho preso la casa come ostaggio nella speranza che un giorno venga riscattata […]. In attesa di vedere se l’America si accorga che qualcosa manca».

Anche in questo senso, con e oltre Mendoza, la casa di Rosa forse non può essere oggetto di una mancanza, come pure auspica lo stesso artista americano, perché rimane irrimediabilmente il luogo di un altrove, degli infinti luoghi dove gesti, silenzi, movimenti impercettibili, rifiuti e diserzioni, aprono la chance di un altro mondo. La verità della casa di Rosa sono forse le sue rovine e ciò che l’operazione di Mendoza evoca attraverso la materializzazione di un’assenza è la possibilità di scongiurare l’integrazione del gesto di Rosa in una storia che ne addomestichi la forza. Il destino migrante della casa, che sopravvive alla sua fine fluttuando nello spazio del mondo, permette in altri termini di pensare Rosa non come un momento di un processo storico più ampio, una tappa dell’integrazione del black people nell’universo illuministico dei diritti, ma come un evento che può accadere ovunque in modo imprevedibile quando chi normalmente tollera qualsiasi violenza e prevaricazione non sopporta più l’ingiustizia e trova il coraggio di rischiare tutto.

Il diventare senza casa e nome di Rosa Parks evoca, inventa, provoca mirabili genealogie; dove la perdita di sé, per diventare altro da sé, commettendo gesti imprevedibili e pronunciando parole inaudite, promuove lotte, forme di resistenza radicali.

Pensiamo, ad esempio, a Isabella Baumfree: venduta come schiava all’età di nove anni, insieme a un gregge di pecore. Di lei non si conosce l’esatta data di nascita; forse siamo intorno al 1797. Ciò che sappiamo però che la donna ri-nasce nel 1843, quando decide di prendere un nuovo nome: taglia con il passato; abbandona la (sua) storia. Più volte venduta nel corso della sua vita, nel 1827 fugge dalla piantagione in cui lavora come schiava e rinunciando al suo nome, legando insieme il francese e l’inglese, come a dire, mi deterritorializzo radicalmente, diventa Sojourner Truth: ‘‘Colei che abita la verità’’.

Pur abbracciando le finalità delle lotte dei movimenti abolizionisti, ai quali si unisce immediatamente dopo la fuga, per Sojourner Truth la liberazione dalla schiavitù non è però sufficiente; ciò che la ex-schiava immagina è la fine della segregazione. Allora, con grande coraggio, sfida la legge e decide di prendere un mezzo riservato solo ai bianchi. Ma se prendere posto all’interno di una carrozza per bianchi è un’azione di resistenza straordinaria, essa non è niente in confronto al gesto che l’ex schiava compie in una fase storica in cui a nessuna donna nera veniva concesso di parlare in pubblico per denunciare la propria condizione. È a lei, infatti, che dobbiamo uno dei discorsi più dirompenti della storia delle lotte di liberazione delle donne nere pronunciato il 29 luglio del 1851 al congresso sui diritti delle donne in Ohio; un discorso che rappresenta uno spartiacque memorabile e si condensa nella formulazione di un interrogativo dirompente: “Non sono forse io una donna?” (Ain’t I am a woman?)

Molti anni dopo, bell hooks – un’altra donna che sceglie di cambiare nome prendendo in prestito quello della bisnonna materna, ma assicurandosi che fosse trascritto in caratteri minuscoli – dedica parte del suo lavoro da intellettuale e da attivista per i diritti delle donne nere, al riconoscimento del ruolo della casa e «al peso che le donne nere hanno avuto nel costruire focolari domestici capaci di essere siti di resistenza». Raramente la storia delle lotte per i diritti delle donne vede combattere le donne bianche e le donne nere dalla stessa parte, perché la segregazione, il razzismo e il classismo esercitati sulle donne e le lavoratrici nere sono sconosciuti alle donne bianche di classe medio-alta. Mentre per le donne bianche la casa rappresenta il simbolo dell’oppressione maschile e della svalutazione del ruolo sociale della donna, per le donne nere la casa è il luogo in cui esse possono rimpossessarsi di ciò che sono state e di ciò che avevano prodotto nella lunga storia della tratta di esseri umani.

Parlare di Rosa Parks, allora, significa tessere le fila di genealogie di gesti in cui quello di Rosa si amplia, dissemina, ripete. Significa anche parlare di una casa che non è tuttavia piantata su fondamenta sicure: appare un luogo che, proprio grazie all’ostinazione e al lavoro di una donna dentro le sue mura, inizia a camminare oltre il suo quartiere, a viaggiare nel mondo.

L’ambizione di questo numero di K. è di sottrarre Rosa Parks al suo carattere simbolico e progressivo, alla storia dei diritti civili, alla leggenda di Obama. Di provare a far essere Rosa né simbolo né icona, ma, al contrario, nome da diffondere nella carne di altri infiniti nomi capaci di dissolvere qualsiasi prepotenza della soggettività che lotta. Per eludere qualsiasi forma di verticalità simbolica, Rosa dovrebbe quindi prendere congedo dalla sua storia e abitare, come probabilmente ha intuito Mendoza, l’inabitabile della sua stessa storia. Certo, ci sono le cruciali battaglie per i diritti e la straordinaria amicizia con Martin Luther King, ma c’è anche altro: la lotta per la giustizia, che notoriamente è una lotta infinita senza la quale però il diritto rischia sempre di diventare esclusivamente il nome della Legge. Non soltanto integrazione, quindi, ma anche soglie, confini, conflitti radicali.

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« Il viaggio di Rosa Parks », K [En ligne], 7 | 2021, mis en ligne le 01 décembre 2021, consulté le 23 mars 2025. URL : http://www.peren-revues.fr/revue-k/1069