1. Prologo. Il teatro e l’impensabile
Nel libro Una festa tra noi e i morti il collettivo teatrale Anagoor ha realizzato una sorta di corpo a corpo con l’Orestea di Eschilo. Corpo a corpo linguistico, innanzitutto, che chiama in causa i passaggi sempre impervi della traduzione, tanto più quando questa è la traduzione di un “classico”, come si dice, cioè di un corpus su cui generazioni di interpreti di ogni ordine e grado si sono già spesi. In realtà, in Una festa tra noi e i morti il testo viene non tanto tradotto, nell’accezione abituale che attribuiamo a questo verbo, ma scomposto e ricomposto con inserti provenienti da altri luoghi letterari (uno su tutti: Campo Santo di W. G. Sebald). È questo montaggio a creare un andamento ibrido e imprevedibile e insieme fedele al “classico”, ma fedele di una fedeltà inaudita e scandalosa.
In un’operazione di questo tipo è in gioco la questione stessa della tragedia ovvero di quale valore assuma la rappresentazione tragica all’interno della cultura occidentale. Dalla sua rappresentazione discendono niente meno che un certo sguardo sulla realtà e una certa idea della vita umana e di quel tessuto di relazioni, accordi, alleanze, che abitualmente chiamiamo politica. La città come caso esemplare della convivenza umana vi sta costantemente sullo sfondo. Ma è una città minacciata da ogni dove, da crisi ricorrenti, dall’assedio di nemici senza volto, circondata da una notte impensata. È per questo che il titolo del libro di Anagoor porta con sé un riferimento alla lotta partigiana. Il teatro, in questo senso, occorre che sia capace non solo di commemorare, ma più a fondo di celebrare la festa di un’inaudita dimensione politica, all’apparenza così evidente, ma anche così indecifrabile, in cui le nostre comuni parole risuonano differentemente.
Affrontare il complesso intreccio di questioni che il lavoro di Anagoor comporta richiederebbe un lungo giro. Qui vorrei prendere spunto da un particolare passaggio che mi sembra strettamente connesso alle domande a cui questo numero di K. è dedicato nel nome di Rosa Parks.
È un passaggio in cui chi scrive – e anche noi che leggiamo – siamo guidati dalla presenza di Sebald, lo scrittore tedesco, l’esule, il viandante sulle strade colme di storia dell’Europa. Il camminatore curioso che Sebald è stato spinge il suo passo oltre le tombe aristocratiche, verso le fosse dove viene sepolta la povera gente:
al di fuori dei confini fisici del camposanto […] la nostra guida svela al nostro sguardo un mondo di tumuli, di cippi, di sepolcri che legavano anticamente il morto alla terra di sua proprietà […]. Coloro invece che erano stati autentici schiavi nella vita, i marginali, i lavoratori a giornata, i braccianti italiani, i poveri che in vita non avevano posseduto nulla, venivano al contrario gettati in un pozzo qualsiasi e anonimo in fondo al quale i corpi giacevano alla rinfusa, uno sull’altro in un cumulo infernale, memore e profeta di tutti i cumuli tremendi della storia. Arca era detto questo pozzo senza salvezza. (Anagoor, 2020, p. 211)
Se la sepoltura del proprietario morto santifica la terra, certificandone l’inalienabilità anche per le generazioni future, che dovranno rinnovare il contratto, per gli altri non c’è terra che tenga i loro corpi. Per il primo il legame di proprietà è ciò che lo vincola a quella terra posseduta anche oltre la morte. Chi la eredita lo fa solo in nome di questa morte che certifica definitivamente quel legame indissolubile che dovrà essere più forte anche dello scorrere del tempo. Gli altri, i poveri, loro sono invece presenze irriducibili alla misura giuridica del possesso. La loro nuda vita racconta di qualcosa che passa senza legame, al di là di quanto la narrazione degli umani su se stessi e sulla loro vita vorrebbe confermare e garantire come senso di stabilità. Nulla qui è garantito: l’anonimato della morte non fa che prolungare un anonimato dei viventi, al di là della finzione umana troppo umana dei loro nomi e della loro eventuale tenuta. Non tengono i nomi. È quello che gli schiavi, i marginali, i braccianti poveri testimoniano loro malgrado: non hanno posseduto nulla, nemmeno il loro nome, nemmeno le loro vite. Per loro, per tutti noi, non c’è che l’arca di questo pozzo che non attende salvezza.
La domanda che il teatro fa alla polis – o meglio che il teatro permette di far risuonare all’interno della polis, anche quella contemporanea – è allora una domanda precisa e devastante al tempo stesso: “siamo tutti schiavi o no?” (p. 230). Ovvero, e senza negare le differenti condizioni che si affollano sul nostro pianeta: in che misura la schiavitù antica o moderna, nuova o vecchia, evidente o impenetrabile, riguarda ciascuno? Forse essa riguarda qualcosa che è in tutti, ma che diventa condizione solo in alcuni? Riguarda, pare suggerire il testo di Anagoor, il peso di un’ombra arcaica che da sempre vaga e incombe sui nostri corpi e sul nostro rapporto con loro.
In teatro accade effettivamente l’impensabile: “accade che un mare di schiavi torna a chiedere parola” (p. 212). Se vale la pena salire in scena e orchestrare la parola, le musiche, i corpi e i rumori, è perché qui qualcosa prende nuovamente parola, una parola resa udibile per chi tenda l’orecchio a sorprenderla e a farsene sorprendere. Il teatro coincide, allora, con l’evento di una parola per coloro che non hanno lingua, non l’hanno mai avuta o ne sono stati privati ancora in vita. Quale lingua avrebbe, del resto, potuto riscattarne la rovina?
Certo, la questione resta: di fronte alle ingiustizie vissute, davanti alla morte, dentro alla condizione di una violenza senza termine e senza riscatto “cosa potrebbe fare un canto levato sopra le tombe?” (p. 214). È il valore stesso dell’arte a essere messo qui in discussione: a cosa serve?
Eppure – ed è il passo che mi ha colpito pensando alle implicazioni che questo numero di K. pone e che vengono bene esplicitate dalla sua chiamata o call – si dice: “Non di meno gli schiavi iniziano la danza e il canto commatico” (ib.). E in questo canto, a sua volta, il coro recita:
Su facciamola finita, / tocca a voi provocare il destino ora. / La Giustizia si è messa in moto, seguiamola. / Alla Maledizione si risponde con un’altra Maledizione. / Il debito dev’essere pagato. / […] Se canti il lamento al morto ammazzato, / l’assassino è trascinato allo scoperto. / Il compianto giusto scuote e commuove, / ti rovescia, e provoca la vendetta. (p. 215)
Ripetiamo: non di meno gli schiavi iniziano la danza e il canto.
In greco koros – coro – indica la danza che si fa in circolo, cantando. Nonostante tutto, la danza ha una sua necessità. E anche il canto. In particolare il canto del koros: il canto che si fa insieme e in cui le voci e i passi si intrecciano nel ritmo. Le ingiustizie patite non ne soffocano l’esistenza, ne chiamano o richiamano anzi in gioco – call – l’urgenza. Cantare non vuol dire forse altro che avvertirne l’urgenza, e metterla in gioco, farla vivere. Pure danzare ha a che fare con uno stato di urgenza che si trasforma in una grazia dei corpi. Il canto non è l’effetto di un’azione, come non lo è la danza. Il canto è ciò che una certa situazione impareggiabile esige dalle voci, così come la danza la esige dai corpi. Qualcosa inizia, non di meno, nonostante tutto.
È su questa irruzione che vorrei soffermarmi. Essa riguarda la condizione del coro come condizione di schiavi. Parla di un’esigenza che non discende né da un semplice desiderio di intrattenimento né dalla serenità del divertirsi. Non che questi atteggiamenti siano di per sé sbagliati, ma hanno un altro suono, un’altra movenza. La danza e il canto non sono gli stessi per gli uomini e le donne che si definiscono “liberi”. Hanno all’orizzonte altri destini da cui provengono e verso cui vanno.
Se quella degli schiavi è una vita inchiodata alla propria condizione, una vita esclusa, è perché le sono impediti altri movimenti che non siano quelli lungo il piano perfettamente orizzontale della loro classe e da lì non possono uscire. È una vita che ha già esaurito ogni altra possibilità. Pertanto l’unico orizzonte di queste vite è quello del proprio corpo che è, insieme, un corpo di cui sono espropriate. Se la definizione di “proletario” implica l’orizzonte della riproduzione biologica, mettendo in gioco quanto meno la spinta alla prole ovvero a un’altra generazione, lo schiavo ha invece solo quel corpo da cui è contemporaneamente privato, perché formalmente quel corpo appartiene ad altri. Sappiamo che in Aristotele gli schiavi sono paragonati a degli utensili o degli automi (suppellettili animate) che sono come aiutanti nel lavoro: corpi che si muovono senza alcuna autonomia, corpi inanimati, che hanno la vita solo nella forma di un comando che proviene da fuori.
Ora il canto e la danza che l’Orestea fa emergere e che Anagoor è subito pronto a raccogliere come la preziosa eredità di un debito non saldato, hanno a che fare proprio con il fatto che – contro ogni evidenza e contro ogni inchiodamento ontologico di una vita alla condizione che le è stata assegnata – qualcosa non manca di accadere. Contro ogni robotizzazione del corpo nella figura dello schiavo, quel canto e quella danza, accadendo, custodiscono l’accesso a un’altra vita, in cui il linguaggio torni ai corpi e i corpi al movimento quale loro tratto inalienabile.
Affinché avvenga davvero “una festa tra noi e i morti” occorre che questo canto si levi e che la danza cominci. È al ritmo del levarsi dei piedi e del loro ricadere sul palcoscenico, che la notte forse non si illumina, ma diventa una storia notturna: non ha più una pura e semplice connotazione temporale, ma diviene un accadimento dotato del suo spazio, dei suoi vortici, delle sue vertigini.
2. Intermezzo o Bivio
Da qui le strade si biforcano. È possibile, infatti, indicarne almeno due. Una – più immediata – è quella che dalla coralità del canto del teatro greco conduce a un’altra coralità, quella dei canti degli schiavi neri d’America. Per far questo possediamo la prima raccolta, quel Slave Songs of the United States che esce a New York nel 1867. Raccolti durante e dopo la Guerra Civile e trascritti dai curatori (tre abolizionisti bianchi, di cui si ricorda spesso la figura femminile, Lucy McKim Garrison), i canti sono per la maggior parte di tema religioso, benché venissero di fatto improvvisati. L’impresa di Slave Songs era motivata dall’idea che tali brani sarebbero scomparsi ben presto, essendo scomparsa la condizione segregazionista che li aveva fatti proliferare. Essendo parti di una cultura esclusivamente orale, dunque tramandate di generazione in generazione, occorreva una scrittura che ne conservasse il ricordo.
Non entrerò nel tema specifico, ma è evidente che il ritmo del canto sincronizza il movimento fisico di un gruppo durante il lavoro nei campi. Meriterebbe di essere anche approfondita la connessione delle canzoni degli schiavi con i canti africani, come forma di memoria orale transgenerazionale. Un percorso così fornirebbe un filo conduttore eccezionale per riflettere sulle dinamiche migratorie.
Non sono, però, queste le direttrici che intendo seguire qui. Mi sembra che il tema stesso di questo numero imponga di percorrere una via meno evidente, che corre lungo dei margini della rappresentazione. Il canto degli schiavi doveva emergere da un altro luogo che non fosse quello degli studi sul tema. Poteva essere, per esempio, il canto dei neri e delle nere schiavizzati come passa nella cultura contemporanea. Ho pensato allora di dedicare questo testo a una lettura sonora di un film di successo – vincitore perfino di tre premi Oscar – dedicato alla schiavitù come 12 Years Slave (2013) del videoartista e regista britannico Steve McQueen. Naturalmente lo stesso esperimento potrebbe essere condotto con altri materiali.
Vorrei provare a farne una lettura principalmente sonora, mostrando come una certa complessità acustica faccia quasi da contrappunto alla geometria rigorosa, ma non priva di un certo schematismo, secondo la quale il film è costruito da un punto di vista narrativo. Si tratterà, in un certo senso, di dedicarsi ai margini sonori del film, come luoghi di apparizioni impreviste che domandano di essere pensate. Suoni che insistono a margine, forse anche solo come brusio: un brusio del passato che risale la corrente sino al presente e che è necessario ascoltare. E a cui noi ora tendiamo l’orecchio. Qui non è solo il ritmo di un canto corale a emergere, ma un coacervo di suoni, voci, rumori: una musica di corpi che è per lo più una polifonia dell’umiliazione. I suoi rumori ci giungono anche grazie al cinema che li rimette in scena, perché perfino la finzione può farsi memoria del mondo, sul margine estremo di una storia che non è mai finita.
Nel seguire questo percorso tengo tuttavia presenti alcune importanti precisazioni di bell hooks circa lo sguardo oppositivo dei discendenti e soprattutto delle discendenti degli ex-schiavi, contenute in Elogio del margine - Scrivere al buio. Ad attirare l’attenzione non è solo la “relazione traumatica con lo sguardo” (hooks, 2020, p. 76) che le spettatrici nere ereditano dallo schiavismo, in cui si veniva puniti se da schiavi si osava guardare i padroni. Non solo questa negazione al diritto di guardare è importante: nonostante tutto, le schiave e gli schiavi e anche i loro discendenti hanno guardato o quanto meno hanno coltivato “uno straordinario desiderio di guardare, un desiderio ribelle, uno sguardo oppositivo” (p. 77). Che “l’incontro con lo schermo sia una ferita”, non vuol dire che esso non possegga una sua necessità, anzi. È che esso sarà vissuto non come un mero passatempo, ma come una questione di vita o di morte. La questione è dove si aprano dei margini, delle lacune rispetto all’autosufficienza dello sguardo: rispetto ai loro dolori, alle loro gioie, ai loro desideri. Dove, cioè, un apparato rappresentativo che potremmo e dovremmo pensare come bianco, perché i bianchi ne sono stati gli artefici, trovi il suo punto di crisi, la sua lacerazione che fa resistenza a quella “identificazione con il discorso filmico” e, per esempio, con la narrazione di un film ovvero con il film come narrazione, di qualsiasi tipo sia tale rappresentazione. Non è solo “il modo in cui il dominio razziale dei bianchi sovradetermina la rappresentazione” (p. 80) a interessarci, ma come questa dimensione rappresentativa sia la stessa che serve a un regista nero come Steve McQueen per denunciare in stile hollywoodiano la violenza dello schiavismo. Se c’è stata e senz’altro ancora esiste una opposizione a che i neri venissero rappresentati, la questione è se la rappresentazione – l’accesso alla dimensione rappresentativa – costituisca la “soluzione” o se non occorra cercare proprio i margini della rappresentazione come unico luogo in cui un evento (anche filmico) può effettivamente avere luogo. L’ipotesi che proverò a sviluppare è che il sonoro è radicale perché ha a che fare con questa marginalità abitualmente considerata come puramente funzionale alla rappresentazione, mentre costituisce la porta d’accesso a un’altra dimensione (cfr. Chion, 1991). Se è vero che il cinema ci insegna qualcosa di quello “sguardo particolare sul mondo” di cui parla bell hooks e di cui abbiamo bisogno, forse è vero che, a dispetto delle apparenze, non si tratta solo di uno sguardo, ma di un’attenzione che si ha – qualsiasi siano i sensi che si attivano – quando si sta al margine degli avvenimenti, dei poteri, delle relazioni.
3. Il cinema e la risonanza
12 Years Slave inizia con la scena di un gruppo di neri, che poi scopriremo essere gli schiavi della piantagione alle loro spalle, che guarda verso la telecamera in assoluto silenzio. Si sentono solo i rumori della natura e subito dopo la voce fuori campo che assegna il lavoro che li aspetta. È come canto di lavoro la prima volta che sentiamo le loro voci, mentre la camera si muove dentro il fitto della piantagione di canne. Entrambe le volte, dunque, il sonoro si discosta dall’immagine. Quando appaiono in carne e ossa, il canto lontano si mescola con il rumore del machete sulle piante. Nella scena successiva tutti gli schiavi si preparano in silenzio a dormire, si possono udire solo le voci dei bambini che giocano fuori campo.
Questa scissione tra l’immagine e il sonoro è una delle vie poetiche che il film segue nella sua costruzione. Il contrappunto è il suo principio. La melodia che compone è la successione combinata, per esempio, tra il suono delle corde del violino appena strimpellate e il pianto della donna nera che continua a piangere per la perdita dei propri, figli, rivendicando così sino alla morte un legame genitoriale che le leggi negavano agli schiavi (McQueen, 2013, min. 39’30’’). Oppure per il rumore del fango e della corda durante un’impiccagione e il rantolo del respiro, mentre le occupazioni della fattoria riprendono regolarmente, dopo un istante di pausa (min. 49’30’’). O, ancora, con la canzone razzista “scappa, negro, scappa” che continua a sentirsi anche quando il capo-carpentiere ha smesso di cantarla e che si intreccia con le parole del padrone che legge la Bibbia, quasi un’eco blasfemo delle une nelle altre (min. 33’52’’ – 35’20’’).
Non mi dedicherò a un’analisi di tutto il tessuto sonoro – musicale, vocale, ritmico e rumoristico – che McQueen costruisce per il suo film. Vorrei piuttosto attirare l’attenzione su alcuni specifici momenti di tale tessuto. In particolare esiste nel film una doppia occorrenza del canto: quella imposta dai padroni e quella libera del canto di schiavi – libera di una libertà paradossale. Nel primo caso è una forma di alienazione come quella del lavoro dei campi. Non è per caso se le scene di festa forzata a cui i “negri” devono partecipare si risolvano in scene di violenza e di sopruso. È quanto accade nella “festa” violentemente voluta dal padrone, con musica e balli coatti (min. 60’00’’). Questa “festa” non è che la versione caricaturale e parodistica della vera festa, che naturalmente resta assente.
Nel secondo caso il canto si mostra come modo della relazione con sé, con il proprio corpo e da qui con gli altri corpi. In particolare, diremo che il canto e la danza sono due modi differenti di far uso dell’inappropriabile davanti alla forma più totalizzante e crudele di proprietà che è lo schiavismo. C’è una relazione con questo inappropriabile e il coro la riattiva. Questa relazione ha un tratto misterioso che la collega al bene: è solo quando viviamo l’altro come inappropriabile che facciamo esperienza della sua alterità e la accogliamo come punto inderogabile della nostra stessa esperienza.
Da questo punto di vista la scena più interessante è rappresentata dall’incontro con gli indiani ovvero con una forma di vita assolutamente non addomesticata (min. 35’42’’ – 36’20’’). Loro non sono domestici, come lo sono gli schiavi. Non sono “di casa”. Anche il loro canto non lo è: appare alle nostre orecchie composto di grida stridule e come proveniente da un’altra dimensione, selvaggia appunto, ctonia, inappropriabile. Gli indiani sono, del resto, l’altra opzione antropologica dell’avanzata dei coloni verso ovest: sono coloro che a differenza degli schiavi non vengono sottomessi, se non in minima parte, ma atrocemente liquidati. C’è qualcosa di radicalmente inappropriabile in loro. Gli indiani cantano, suonano e ballano nella brevissima scena. Solo i negri della piantagione sono ammessi alla loro apparizione quando emergono all’improvviso dal bosco non ancora colonizzato. Qui c’è festa. Questo brevissimo momento è una comunione tra loro e divinità di cui non sapremo mai nemmeno il nome.
La loro festa è una liberazione di altre energie, di altre connessioni. Parla una lingua che la violenza dei padroni non potrà conoscere né tanto mai cantare. Lo schiavista non accede né al canto né alla festa. È come noi escluso da qualsiasi altra festa che non sia una “festa crudele” (Jesi, 2013, p. 65), come quella a cui il padrone costringe i “suoi” schiavi neri. Come avrebbe detto Furio Jesi “il “selvaggio” è colui che celebra la festa per sapere davvero che ora sia sul quadrante calendariale del tempo sacro” (p. 96). Non dall’ora dipende la festa, ma da questa discende il tempo. Il suo evento permette che ci siano un qui e un ora che non sono mai presupposti, se non nella mentalità del civilizzato schiavista, che dal tempo si fa a sua volta sottomettere. La festa è il regno dell’inappropriabile che edifica il suo regno al margine del bosco, nei sobborghi, negli interstizi della vita, nei frattempi di cui le vite sono costellate.
Oltre a ritmare il lavoro nei campi – siano essi la raccolta di canna da zucchero o quella del cotone – il canto degli schiavi arriva nel film a sottolineare la prima iniziativa assunta dal protagonista (il trasporto del legname per via fluviale) e il suo successo finale, in cui il canto si mischia con gli applausi e le grida di elogio. Il canto è qui il medium che esprime l’orgoglio nero, pur sempre dentro il quadro schiavista (McQueen, 2013, min. 37’30’’ – 38’35’’). Qui l’intelligenza che i sorveglianti della piantagione non si aspettano dai “negri” può finalmente emergere, per quanto pericoloso sia mostrarla e non limitarsi a piegare la testa davanti alla parola del comando.
Che il canto sottolinei non solo il ritmo abituale della normalità (schiavista) non esclude che esso possa in realtà emergere come espressione di un momento di passaggio. Qui il lamento che esterna in forma segreta cambia natura e diventa un segno del rapporto tra i vivi e i morti: un segno della festa, purché si intenda queste due parole nel senso radicale della parola. “Segno” indicherà allora non il tratto visibile di qualcos’altro, che resta invisibile, ma la condensazione di una cosa e, più precisamente, un’intensificazione dei rapporti. “Festa” sarà, a sua volta, proprio questa intensificazione del vivere che prende e attraversa i viventi. Il suo tempo è un altro tempo dove passato e avvenire non siano più imprigionati. È una memoria più antica di tutti i dolorosi ricordi.
È quanto accade davanti al piccolo camposanto (lo ritroviamo qui come nel Sebald incastonato da Anagoor nel testo dell’Orestea), in cui è stato appena sepolto uno schiavo di nome Abraham, morto di colpo durante la raccolta del cotone (min. 99’39’’). Il canto Roll, Jordan, Roll è accompagnato dal battere ritmico delle mani che scandisce il senso di questo colloquio con l’anima del morto e tra i viventi per il tramite dei morti. Il battere e il levare delle mani, nella loro alternanza, indicano l’intrecciarsi di presenza e assenza che ritma ogni vita. Non c’è battere senza levare, non c’è levare senza battere. Come nel fluire di inspirazione ed espirazione in cui la vita animale si scandisce e da cui si articola il canto: tenendo insieme pieno e vuoto.
Battere e levare: è il ritmo stesso della vita, del cuore, della diastole e della sistole. È all’inesauribile due che tutto anima che questo battere di mani si ricollega. Come un tamburo, ma fatto di corpi resi strumenti sonanti. Sono le donne a iniziare questo canto, con un intervallo di silenzio, a segnalare l’ingresso in un altro spazio. Lo fanno come una pratica di cura, secondo un legame non previsto né familiare. Si crea una comunità, benché una comunità dell’istante.
È allora che il protagonista, proprio quando lo scetticismo sembra aver fatto breccia in lui (nella precedente scena della frettolosa sepoltura), scopre qualcosa di questa potente dimensione corale e inizia finalmente a cantare. Vi si annulla all’interno, dimentica per un istante la violenza, il devastante senso di sopruso continuo, l’angoscia di non rivedere più la famiglia. Trova nel canto corale – potremmo dire nell’accettazione non vittimaria della sua condizione – la forza per fare i passi rischiosi ma necessari per uscirne. Riprende allora l’idea di scrivere a casa, a quella casa a cui la frustrazione seguita al rapimento l’aveva continuamente sottratto, lui uomo libero, benché nero.
Nel linguaggio filosofico corrente si direbbe che il canto corale è per lui un dispositivo di soggettivazione, è l’esperienza in cui si appropria o riappropria della sua soggettività. Soprattutto diremo che il canto corale è un incipit: qualcosa inizia sempre là. Come nella tragedia, anche questo coro non rappresenta una realtà esterna, non offre la copia di qualche realtà, ma al tempo stesso non apre neppure a una dimensione fantastica o immaginaria. Esso produce una realtà. Più esattamente, ne inizia l’occorrenza. È iniziale il canto. Questa è la sua vera natura: di iniziare qualcosa.
La voce dei morti si presta a chi non ha voce, permettendole di iniziare grazie al coro. Inesauribile risorsa. È un’alleanza inedita, dove il canto dei vivi si leva entrando in vibrazione con la voce dei morti. Dove vicino e lontano si indeterminano e dove sono possibili incontri inauditi.
La festa tra noi e i morti non ha mai smesso di avere luogo in modi e luoghi insospettati, come la continuazione di un vecchio, antichissimo canto cantato ai margini di un camposanto da chi non ha voce, cantato con la voce dei morti.