Ma l’orecchio […] non vengono le specie a lui per rette linee, come quelli dell’occhio, ma per linee tortuose e riflesse, e molte sono le volte che le remote paiano più vicine che le propinque, mediante i transiti di tali specie.
Leonardo, Trattato sulla pittura
Les cabarets du faubourg Antoine ressemblent à ces tavernes du mont Aventin bâties sur l’antre de la sibylle et communiquant avec les profonds souffles sacrés, tavernes dont les tables étaient presque des trépieds, et où l’on buvait ce qu’Ennius appelle le vin sibyllin.
Victor Hugo, Les Misérables
1. Jane vede e scrive
Il passo singolare con cui Jane Avril ha attraversato il proprio tempo traspare da numerose osservazioni contenute nel libro di memorie autobiografiche, La ragazza del Moulin Rouge. Si prenda, su tutte, la parte in cui racconta della Salpêtrière, la clinica psichiatrica parigina nella quale fu internata per un certo periodo di tempo. Delle isteriche, le più celebri pazienti del dott. Charcot che assieme ai suoi collaboratori ne orchestrava le apparizioni pubbliche, Jane dice qualcosa di molto preciso, la cui portata non può essere trascurata. Seguiamo l’andamento del passo, suddividendolo in più segmenti, in modo da poterne osservare più da vicino la struttura:
fui ammessa all’ospedale della Salpêtrière tra le grandi stelle dell’isteria, che all’epoca facevano furore, sotto le cure del grande professor Charcot.
I medici più insigni e gli scienziati più rinomati di tutto il mondo accorrevano in massa ad assistere alle sessioni presiedute dal maestro, così come agli esperimenti e alle dimostrazioni dei suoi soggetti più famosi. (Avril, 2015, p. 15)
Con tutta evidenza Jane non ignora che il mondo del Moulin Rouge e degli show serali partecipa alla medesima natura di quello della Salpêtrière. Nella sua idea, conquista del successo e dimensione dello spettacolo si concatenano nella forma del riconoscimento. Questo principio vale tanto per la medicina, quanto per il più frivolo universo del can-can. Se nei cabaret sono le ballerine e le cantanti a contendersi la notorietà, nell’universo della Salpêtrière il “maestro” Charcot e i suoi assistenti legano la loro fama ai nomi delle pazienti più celebri, che portano sul palco in quelle pubbliche dimostrazioni dell’isteria a beneficio della scienza, divenute famose con il nome di Leçons du mardi. Questo fa di quelle pazienti le partecipanti attive del dispositivo sanitario che le ha definite “isteriche” e le ha prese sotto la sua tutela. Di queste altre donne ovvero delle sue compagne di reparto, Jane scrive:
In primo luogo, c’erano quelle donne folli la cui malattia, chiamata isteria, consisteva soprattutto nel simulare dei sintomi inesistenti.
Facevano a gara per attirare su di sé l’attenzione, e colei che si fosse inventata qualcosa di nuovo sarebbe diventata la “diva” e avrebbe eclissato le altre, mentre intorno ai loro letti il folto gruppo di allievi che precedeva cerco seguiva con interesse quelle stravaganti contorsioni: l’“arcobaleno” e diverse altre acrobazie e figure. (Avril, 2015, p. 16)
Non ignora, Jane, le distorsioni prodotte dal desiderio di piacere e di attirare su di sé l’attenzione. Sono “dive”, sono le “grandi stelle dell’isteria”. Non subiscono la propria malattia e basta, ma si attivano per restituirla a uno statuto di visibilità pubblica che farà il grande successo di Charcot e, di riflesso, anche il loro. Partecipano a forza di ipocrisia – questa è la critica che traspare tra le righe di Jane – alla grande impresa della popolarizzazione dell’isteria. È anche grazie a questo dispositivo di spettacolarizzazione se questo disturbo non resterà oscuro tra le mura dell’ospedale, ma avrà una sua presenza nell’immaginario collettivo, conquistandosi un posto proprio sicuro con tutta la sua evidenza scenica, fatta di attacchi, tensioni, contratture, simulazioni… Come ogni autobiografia che si rispetti, la voce narrante o, in questo caso, la scrivente segna il posto di un’eccezione. Vuoi per fragilità, vuoi per indifferenza ai vantaggi che provengono a quelle pazienti che “collaborano” alla messa in scena dell’isteria, Jane sta là in mezzo osservandone le consuetudini abituali e le tacite intese che la sorreggono:
Quelle donne non scorgevano alcun pericolo nella mia esile persona – avevo così poco peso! – e non esitarono a confidarmi ciò che chiamavano “il segreto”.
[…]
Sentendo avvicinarsi l’ora della visita di Charcot, in parecchie “cadevano preda di un attacco”, e al momento opportuno io facevo, compiacente, quello che mi avevano chiesto di fare [premere con le mani sulle ovaie per interrompere la crisi isterica].
[…]
Spesso, nel grande anfiteatro gremito fino alla sommità, al cospetto di una lunga moltitudine di luminari accorsi da tutto il Paese, Charcot faceva le sue lezioni, presentando i casi più curiosi che il suo ospedale poteva vantare e sui quali si abbandonava a numerose, suggestive, dimostrazioni.
Per me costituiva un autentico spettacolo comico vedere quelle donne suonate rimettersi all’improvviso, tutte fiere ed entusiaste di essere state scelte e portate alla ribalta dal maestro! (Avril, 2015, p. 17)
Poco importa che le intuizioni di questa lettura siano da collocarsi temporalmente nei giorni della permanenza di Jane in ospedale o che appartengano a un momento successivo. In ogni caso, esse colgono un tratto fondamentale sia dell’isteria delle isteriche, sia dell’enorme dispositivo clinico e discorsivo che ne sorregge il fenomeno. Jane avverte come l’isteria possieda un legame speciale ed essenziale con la dimensione del palcoscenico ovvero dello spettacolo, ponendone la comparsa all’intersezione tra l’ambizione dei medici della Salpêtrière e il desiderio delle pazienti di non essere dimenticate o trascurate. Esse diventano, in qualche modo, le vedettes di quel particolare teatro che in quel momento è la Salpêtrière.
Intermezzo: ma l’isteria danza?
Giusto per spazzare via ogni dubbio e ogni ambiguità sulla parentela tra isteria e danza, si prenda in mano il libro che il già citato prof. Charcot, Jean-Martin all’anagrafe, dunque Jean anche lui, scrive e pubblica nel 1887 insieme a Paul Richer, suo assistente alla Salpêtrière e, più tardi, docente di anatomia artistica alla École des Beaux-Arts di Parigi. Il libro è giustamente celebre, in italiano l’ha tradotto l’editore Spirali con il titolo di Le indemoniate nell’arte (Charcot – Richer, 1980).
È singolare che in questo volumetto che raccoglie le testimonianze di un daimon presente nei corpi, oltre che nelle anime, di questi soggetti che il titolo italiano declina esclusivamente al femminile (“le indemoniate”, mentre nell’originale si tratta di un onnicomprensivo Les démoniaques), si trovino scene di possessione, di guarigione, di liberazione, di pellegrinaggi, di estasi, di “atteggiamenti passionali” legati all’attacco isterico (cfr. Charcot, 1989, pp. 157-161), ma non si trovi mai niente che ci riporti alla danza passando dall’isteria o dalla possessione demoniaca. L’unica occorrenza che parlerebbe in questo senso è quella del cosiddetto “ballo di San Vito” o corea, che nel libro di Charcot-Richer è presente con tre disegni.
Come gli autori riconoscono, non si tratta di un vero e proprio ballo, ma di qualcosa che può ricordarlo solo alla lontana. Come si riconosce chiaramente dai disegni di Bruegel, i pellegrini sono “in preda a tormenti il cui carattere non può essere misconosciuto” (Charcot – Richer, 1980, p. 53). Infatti, “gesticolano, si contorcono e si dibattono nella stretta dei loro compagni” (ivi) che li accompagnano in processione e li sorreggono per evitare che cadano a terra e che il corteo si interrompa. Questo fenomeno collettivo non ha niente di una danza, ma descrive piuttosto una serie di movimenti incontrollati del corpo. Tutt’al più ci si potrebbe domandare se i movimenti a scatto involontari, il tremore scoordinato, le contrazioni muscolari, che sono tutti fenomeni caratteristici della corea, non fossero un’anticipazione di quello che sarebbe arrivato a Jane e che la “vocazione” avrebbe liberato del tutto dalla dimensione patologica. In lei la danza è arrivata a evitare che l’universale della categoria diagnostica (“l’isteria”) cancellasse la singolarità di un incontro sempre nuovo, sempre inedito e inatteso, con il ritmo del mondo. In questo senso, la danza è una profanazione dell’ordine che prende forma nel disciplinamento manicomiale dei corpi, di cui la Salpêtrière è stata il caso esemplare.
2. Di una rivelazione chiamata “danza”
Basterebbero solo queste prime osservazioni per riuscire a differenziare con grande chiarezza la recita delle pazienti e dei medici della Salpêtrière dallo Spettacolo con la esse maiuscola, a cui Jane tenderà tutta la vita. Più esattamente, è la danza a occupare nel suo immaginario personale il posto della Rivelazione stessa della sua natura più intima. Il nome più adatto e più esatto di questa Rivelazione sarà, dunque, quello con cui Jane stessa la chiama: DANZA. Se uso le maiuscole, per quanto con misura, è perché tutto in lei ha sin da subito la qualità di quell’avventura che nella cultura occidentale è andata sotto il nome, vasto e di conseguenza vago, di esperienza mistica. Su questa scoperta Jane torna nella sua autobiografia più volte, attribuendole il carattere di un incontro: Jane descrive sempre nei termini di un incontro sia la sua prima scoperta della travolgente passione del danzare, sia le successive e innumerevoli occasioni in cui danzerà. Quella prima volta l’incontro avviene durante una festa proprio in uno dei padiglioni della Salpêtrière, “una sera che non ho mai più dimenticato”, scrive la danzatrice:
Non appena risuonarono le prime battute di un valzer, quasi sollevata da terra da quel ritmo trascinante, mi lanciai come un capriolo, trasportata da un vero vortice meraviglioso, senza vedere più niente o nessuno!
Fino ad allora avevo ignorato cosa fossero il ballo, la musica e la danza!
Ero così timida, ma non potevo resistere!
Ricordo che stupii tutte le assistenti e che, stordita dalla confusione, ricevetti felicitazioni, complimenti e abbracci. Il mio fu un autentico successo! (Avril, 2015, p. 20, corsivo mio)
Come ogni Rivelazione che si rispetti, anche quella della danza giunge senza essersi annunciata. Dura un istante, è un lampo, ma nella sua immediatezza possiede un’evidenza a cui non si resiste. Rapisce nella sua malìa Jane e la trascina in un’altra dimensione, che è tutt’altra, però, dalla mania patologica delle diagnosi della Salpêtrière. Del resto, dopo che la danza ha fatto il suo ingresso nella vita di Jane, essa verrà dichiarata sana e congedata dall’ospedale. La danza l’ha curata, la danza l’ha liberata. Viene in mente la massima di Walter Benjamin: “solo per chi non ha speranza, è data la speranza” (Benjamin, 2008, p. 589). Dove non c’era niente da sperare, ecco una speranza e più che una speranza: la dischiusura di un’iniziativa che non dipende né da sé (la malata) né dal mondo esterno (la madre, i medici).
Forse è proprio questo che la porta a vedere così bene ciò che accadeva o era accaduto alla Salpêtrière. C’è una sorta di lucidità della danza, ma una lucidità estrema, a cui la danzatrice Jane accede come per un dono di grazia? Veggenza della danza, ha detto qualcuno. Ma la cosa assume contorni singolari in Jane in cui effettivamente vive un’esigenza di visione, più che di essere vista, come invece ci si aspetterebbe da qualcuno che lavora sul palcoscenico. Se questa esigenza si fa largo nella danza è perché la danza permette di vedere oltre le forme, di vedere il reticolo che struttura la realtà, di vederne la sua trama profonda. E lo fa perché la lucidità di quello sguardo – che è ancora un capitolo preciso del nostro tema “il genio di Jane Avril” – proviene da una distanza dalla normalità, dai modi abituali, che è la sola che garantisca questa visione lucida. Forse l’aspetto stesso di Jane, scostante com’è ritratta da Toulouse-Lautrec, ha a che fare con questa distanza che permette una visione fuori dai suoi consueti registri. La danza procede per distanze, non per immedesimazioni. Se la poesia è il regno del medesimo e dell’incanto, allora si dovrà dire che Jane procede in modo prosaico, antinaturalistico, distruttivo. Del resto una rivelazione come quella della danza si fa largo a forza di distruzioni.
La scena di cui abbiamo appena letto la descrizione mostra come l’incontro con la danza non dipenda per nulla dalla volontà di Jane. Qui tutto accade in fretta, ancora prima che se ne possa prendere atto, prima che ci si possa eventualmente fare da parte. Un flusso, una corrente d’energia in forma di musica investe Jane e lei è là più vera di quanto non sia mai stata: danzante.
Con molta precisione, Jane rivive quel momento all’atto della scrittura delle sue Memorie: niente l’aveva anticipato, né delle conoscenze musicali o teatrali, né un tratto del suo carattere. Anzi, tutto sembra opporsi a quella scoperta per dire la quale Jane non esita a ricorrere a immagini che, pur nella loro semplicità, risultano molto pertinenti: il sentirsi trascinata in aria dal ritmo della musica, un suo certo divenir-animale (“come un capriolo”), un’esperienza che non è di un fare o di un praticare delle capacità o delle competenze pregresse, ma l’essere travolta e trasportata da un “vortice”, che esclude tutto e tutti dalla sua vista. È una pratica, la danza, non una messa in pratica di qualcosa che la precede. Non c’è un passaggio come tra potenza e atto, ma atto assoluto non preceduto da nessuna potenza. Essa è immediatamente la pratica di se stessa. Per questo motivo la sua dimensione è sì quella della scena, ma non della messa in scena, frequentata nel grande teatro dell’isteria. Qui non c’è più il palcoscenico della Salpêtrière in cui tutti finiscono per recitare un ruolo, ma l’esperienza di un momento di estasi in cui non si conosce niente e si finisce per essere i movimenti che si compiono.
La cosa singolare è che qui l’incontro con la danza e lo smascheramento delle pratiche che popolano la Salpêtrière dell’isteria accadono insieme, finendo per coincidere. Esso segna il rifiuto della cattura nel registro della sofferenza. Rifiutando una sin troppo facile solidarietà non con le isteriche, ma con l’isterizzazione a cui le internate vengono sottoposte, Jane se ne esce, mostrando a tutti una via d’uscita che è forse solo la sua: danzando. Diserta quei luoghi di ospedalizzazione coatta, ne depone la logica.
È come una doppia scoperta che trasforma la vita di Jane che d’ora in poi non sarà più la stessa. Ne uscirà “guarita”, ma di una guarigione profondamente differente da quella promessa dalla medicina del dott. Charcot e dei suoi assistenti. È una guarigione che può essere prodotta solo da uno scandalo capace di porre una vita su basi completamente differenti rispetto al passato. Qui Jane vive o, meglio, nasce come non era mai nata neppure da sua madre, la tiranna da cui scappava. Così l’istante della danza corrisponde al tempo di questa seconda nascita, che è indubbiamente quella vera, più vera della semplice nascita biologica. Vi si celebra qualcosa che nella nostra cultura è raro e per lo più si nasconde negli anfratti, negli interstizi ovvero nelle pieghe della realtà. Essa celebra, infatti, una volta tanto non la morte, ma il venire alla luce che, per Jane, si identifica con il venire al ritmo e al movimento.
Del resto, cosa fa delle Memorie un documento di impareggiabile importanza, una testimonianza unica?
Jane Avril è decisiva proprio nel portare il corpo all’evidenza spettacolare dei suoi movimenti, proprio come fa l’isterica, ma lo fa senza malesseri, cioè puntando su un piano diverso da quello dell’evidenza sintomatica. Danzare significa fare a meno di tutto quel catalogo della vita isterica, come Charcot e i suoi l’hanno stilato: attacchi, contratture, tensioni, simulazioni, “posizioni tipiche” e “variazioni”. Anche Jane “si disarticola” nella danza (Blanchot, 1975, p. 151), ma lo fa al culmine di una tensione senza fratture e senza fingimenti. La sua danza non è finzione. Per questo nella sua ripetizione essa può fare a meno di due elementi che invece caratterizzano la “pantomima isterica” (Didi-Huberman, 2008, p. 317) e che sono la tendenza al martirio – o quanto meno a rappresentarsi come martiri – e il dramma: senza cioè quell’autocompiacimento che, anche a sentire Jane, era più di casa alla Salpêtrière che al Moulin Rouge.
3. Una nuova vita
Luce e ritmo sono gli elementi irrinunciabili di questa nuova vita. Se non ha ancora una lingua è perché la troverà nella musica e nella sequenza dei passi. Del resto, la danza non ha altro alfabeto che nel ritmo che ne evoca e ne sorregge il movimento. Per altro, sul punto della sua scoperta, che parole potrebbero dire cosa lì effettivamente accade? A posteriori Jane distribuirà aggettivi a profusione che manifestano la lacuna che intendono coprire. Ma sul momento le parole mancano per dire qualcosa di inafferrabile, di cui non si può parlare. È quell’emozione a essere destinata a rimanere indimenticabile.
La sua precisione è quella di una forma intangibile, inafferrabile, da cui Jane si sente afferrata e posseduta. È un altro tempo che va a imprimersi sulla sua pelle e a cui finisce per acconsentire, perché è da lì che passa una gioia inaudita.
La scena di questa scoperta – della rivelazione della danza e della danza come rivelazione – è indubbiamente la scena di una vocazione. Lo dirà Jane stessa, ricordando che la sua scoperta della danza dovette essere, indubbiamente, un venire allo scoperto della sua “vocazione per la danza”: “la mia sola ragione di vita” (Avril, 2015, p. 27). Ma cos’è una vocazione? Cosa vuol dirsi sentirsi “chiamati” a qualcosa? E come si esprime?
Di solito si dice: la vocazione è la parola impersonale di qualcosa che è venuto a convocare qualcuno. Questo è il modo in cui una vocazione si trasmette a colui o colei che ne viene chiamato. L’esempio prototipico della vocazione è quello di Paolo di Tarso sulla via di Damasco. Qui vocazione e conversione si sovrappongono per non disgiungersi mai più. Essere chiamati significa trovare la propria vera vita, dunque rinascere, abbandonando la vita falsa, la vita vecchia, che ha preceduto questo momento di rivelazione. Gli ingredienti principali di questa scena sono la luce e la voce: “una luce dal cielo” (AT 9, 1-9) ovvero “una gran luce dal cielo” (AT 22, 6-16) ovvero ancora “una luce dal cielo, più splendente del sole, avvolse me e i miei compagni di viaggio” (AT 26, 12-18). Si tratta, dunque, di una luce più luminosa della luce naturale, al punto di essere una luce accecante. La scena della vocazione-conversione si manifesta, sin dai suoi primi passi, come una scena eccessiva, una scena della dismisura e, pertanto, anche dell’ignoto. C’è poi l’altro fattore, la voce: “Tutti cademmo a terra e io udii dal cielo una voce che mi diceva in ebraico: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Duro è per te ricalcitrare contro il pungolo. E io dissi: Chi sei, o Signore?” (AT 26, 14-15).
La voce viene da dentro la luce, ma per noi essere dentro la luce non significa vedere, ma esserne accecati. Non si vede l’origine della voce, non se ne vede la bocca da cui quelle parole scaturiscono, ammesso sia da una bocca che vengono. Al tempo stesso, non è una voce che parli da fuori scena, come spesso capita al cinema, con la voce fuoricampo. Piuttosto, è una voce che prende tutta la scena, la riempie e, al tempo stesso, la assorbe dentro di sé. È al suo centro e, contemporaneamente, scomparendo alla vista cancella le sue stesse tracce. Qui esperienza della voce e esperienza dell’accecamento finiscono per fondersi l’una con l’altra. La voce riempie tutto lo spazio disponibile, proprio perché la vista non può più spingersi oltre nello spazio: l’unica profondità che resta è una profondità sonora. Quando ha luogo, l’incontro accade con qualcosa che, sul momento, non ha né volto né nome: contingenza pura, contingenza assoluta, che pure rimane indimenticabile. E dal momento in cui accede a questa dimensione di incontro, lei, Jane, non è più se stessa, perché un’energia l’ha trasformata, lasciandola in un certo senso senza volto e senza nome anche lei, benché il successo si premurerà di fissarne il volto, facendone un’icona, e così farà con il suo nome. Ma quando balla Jane non è se stessa, ma l’incarnazione di quell’energia o, più esattamente, la sua celebrazione. Jane scompare nel ritmo che la afferra, per riapparire in questa forma trasfigurata che la danza le dona. Quando danza va oltre, esce dalla sua ombra. Del resto non si lascia dietro che una madre incapace di amarla, una manciata di amici, le usuali delusioni di tutti, e poco altro. Ma questo poco è anche ciò che solitamente definiamo “una vita”, quel minimo resto che nei momenti di grazia come la danza viene restituito alla sua radice impersonale, alla sua origine pre- e a-soggettiva, là dove non è più “io” a parlare.
Danzando, Jane passa dall’altra parte dove non può portare nessuno con sé, nemmeno se stessa in effetti. Del resto, non è forse una vocazione ovvero una metamorfosi, quella di cui ha fatto esperienza? Qui sta l’equivoco: la danza produce una presenza che la gente si ostina a chiamare “Jane”, ma Jane nel frattempo è già altrove e noi non dovremmo dare un nome a ciò al cui cospetto siamo ammessi per pochi istanti, che pure crediamo interminabili.
4. L’Incontro
Ma come accade in Jane la sua personale vocazione-conversione alla danza? È ancora lei stessa a ricordarlo, nei termini quasi-teologici di un’estasi:
Non appena cominciò il ballo, scandito dal ritmo trascinante di un’orchestra indiavolata, uno slancio irresistibile mi travolse, sebbene l’intima lotta tra timidezza e tentazione mi facesse battere il cuore a mille!
Ed eccomi lì a danzare e saltare, come un capretto evaso dalla stalla, o meglio ancora come la pazza che senz’altro dovevo essere, almeno in parte.
In seguito, sono riuscita a prendere coscienza di quanto mi accade in quel momento, ma all’epoca non pensavo a niente, i miei gesti erano dettati unicamente dal mio istinto.
Questo, anche negli anni successivi il ritmo di certe musiche ha sempre esercitato su di me un fascino irresistibile. (Avril, 2015, pp. 26-27)
Nella prosa colorita di Jane, in cui gli aggettivi sono distribuiti solitamente con grande generosità, una cosa è importante: non si parla mai di un saper-danzare, né del fatto di realizzare qualcosa come una danza che segua i passi contrassegnati come giusti. Qui la danza è uno “slancio irresistibile”, è un salto in un’altra dimensione, a cui non si resiste. Da essa promana quel “fascino irresistibile” che è parte integrante della sua esperienza. La scoperta accade come accadono di solito scoperte di questo genere: improvvisamente. Come se fosse colta dall’intuizione che la sua vera vita si trova in quella direzione, Jane si alza e, danzando, si avvia finalmente a raggiungerla. Esce danzando, in un certo senso, dalla Salpêtrière e anche dalle misere vicende di famiglia.
Questa dimensione totale, totalizzante, quasi brutale per quanto espressa con la più grande tenerezza da Jane nel momento in cui stilerà le sue Memorie, viene sintetizzata in una frase bruciante: “Appartenevo interamente alla danza, per me non esisteva nient’altro” (Avril, 2015, p. 29). Atto assoluto quanto mai, “la danza era la mia sola passione, il mio tesoro e il mio rifugio. Con essa, e solo per me, esprimevo i miei sogni, i miei dispiaceri, le mie speranze o le mie gioie” (Avril, 2015, p. 31).
Dunque, non l’isteria, né nulla dell’isteria porta Jane alla danza e all’incontro con la danza. Solo l’INCONTRO la conduce là. In ogni caso, non serve niente del corredo linguistico o concettuale della patologia per spiegare l’effetto della danza su di lei e sui suoi spettatori. Ma soprattutto non c’è nulla nella patologia a poter spiegare l’evento della danza ovvero la DANZA come EVENTO. Ed è di questo che ne va nella scelta di Jane di danzare, così come anche nelle sue pagine autobiografiche. Così la sua anima non la si vedrà fotografata nella celebre Iconographie photographique de la Salpêtrière, ma la si vede fuori, nel corpo, nei suoi gesti. E quel fuori altro non è per Jane che la danza stessa.
Per la vita mondana Jane prova noia, e se ne allontana ben presto, per quanto le sia possibile. Il contraltare delle feste e delle frivolezze è per lei sempre la danza, il ritorno alla danza essendo correlato a un desiderio profondo che non ha eguali (Avril, 2015, p. 47). La mondanità intesa come vita sociale codificata e riconoscibile non le interessa, forse perché la danza è asociale, tirannica. Quella noia provata non è che il sintomo dell’intensità con cui la danza pretende la vita solo per sé, fuori da ogni legame di relazione e di codifica.
Non possediamo alcuna registrazione filmata di Jane che danza, ma le fonti ne descrivono i movimenti come attraversati da una singolare energia che li rendeva irregolari e inaspettati, perché essi esistevano nel momento in cui venivano realizzati e non prima. Quasi posseduta da questa energia, contemporaneamente Jane si muoveva sul palco con grande eleganza. Non supportata da alcun saper fare, tutto in Jane è improvvisazione. È, anzi, più esattamente, “ispirazione della musica”, richiesta assoluta di seguire ciò che la musica, ovvero i ritmi, dettano alla sua sensibilità (Avril, 2015, p. 75). Il suo è l’atto dell’ispirata, di colei che in quello stato di grazia che la coglie in presenza della musica trova il modo per accedere all’assoluto della danza. Nel lessico semplice di Jane è l’esistenza di un “senso innato per la danza” a permettere e a giustificare tutto questo (Avril, 2015, p. 77), la presenza cioè di una parentela segreta tra lei e la danza stessa o tra lei e il ritmo. Così è l’incontro più riuscito che nella sua aleatorietà assoluta sembra sempre venire da più lontano, da un’origine remota e profonda nel tempo. (Che l’incontro migliore sia l’incontro mancato dipende dal fatto che è quello che produce una dismisura tra la cosa stessa – la danza – e il soggetto che dovrebbe incontrarla, inscrivendola nella sua soggettività. Invece incontra non l’oggetto, ma la distanza, e pertanto inscrive dentro di sé non la cosa, ma la spaziatura di una non-coincidenza tra il soggetto e il suo atto, come estensione della vita soggettiva al suo fuori, a ciò che non è).
Singolare, da questo punto di vista, la chiusa delle Memorie proprio sul concetto di ritmo: “il ritmo è ormai per sempre racchiuso dentro di me” (Avril, 2015, p. 92). È come un rapporto di possessione, in questo forse Charcot e Richer ci avevano visto giusto, ma senza alcun bisogno di fare ricorso alla psicopatologia per renderne conto. Questo rapporto si dice in due modi opposti, ma stranamente complementari: il ritmo è dentro di me o io racchiudo in me il ritmo. Qui non si intende più chi sia il soggetto che ha l’iniziativa. Che la cosa sfugga al controllo di Jane, lo rivela il fatto che, come lei stessa racconta, ancora in vecchiaia doveva trattenersi per non farsi trasportare dalla musica. In fondo, era stato proprio questo incontro con la musica e i suoi ritmi ad averla salvata in tante occasioni. Salva la sua esistenza, superando sia il grigiore della famiglia sia il grigiore della clinica. Ma cosa vuol dire “salvare”? Non rigenerare o mettere al sicuro, ma rilanciare la vita oltre le sue forme attuali, rigiocarla contro il muro delle convenzioni che la irrigidiscono e la sclerotizzano, andandoci addosso alla velocità con cui suona quell’“orchestra indiavolata”. La libera, la forza a non essere una vittima più o meno compiacente del sistema della Salpêtrière. Ne scioglie l’energia, rendendola disponibile per altri usi, fuori dalla stessa possibilità per il danzatore o la danzatrice di dire “io”.
In tutto questo dovremmo rimettere in discussione il privilegio della voce, che è essenziale a tutte le scene di vocazione. Interna o esterna che sia, la voce è essenziale alla chiamata della vocazione. Ma nel caso di Jane è il ritmo, non la voce, a risultare decisivo. Ora, come Benveniste ha mostrato in un suo celebre saggio, rythmós indica la forma, ma non nella sua staticità, quando “nell’attimo in cui è assunta da ciò che si muove”. Come tale la parola indica sì la forma, ma esclusivamente la forma di quanto non possiede “consistenza organica”. In quanto tale è forma improvvisata, momentanea, modificabile” (Benveniste, 1971, p. 396). Ecco perché essa indica anche la “disposizione” delle figure “nelle quali si risolve questo movimento”, dunque la forma non come fissazione di qualcosa, ma come dinamica delle cose e dei corpi nel tempo. In questo senso il termine implica la dimensione ritmica dell’essere stesso, la sua temporalità nel mondo, in cui un istante è esposto a quello successivo e ogni forma si sporge sempre sulle altre forme che stanno per essere. In questo senso, riprendendo quasi letteralmente la definizione data da Benveniste, Agamben ne fa il segno di un’esistenza che non coincide mai con se stessa, ma che è tutta in quel flusso dell’essere che “pulsa e si arresta, si riprende e ripete e, in questo modo, si modula in un ritmo” (Agamben, 2014, pp. 224-225).
La ripetizione è un elemento fondamentale del passaggio che stiamo affrontando. La cosa va collocata forse al livello della ripetizione: è la ripetizione che ne fa qualcosa di atipico. Si tratta, in effetti, di una ripetizione paradossale, dato che essa è sempre ripetizione di qualcosa di unico, ogni volta differente. La ripetizione pone il problema della forma: nella danza di Jane le forme si liquefano e ciò che è fatto e ciò che è detto si sciolgono nella direzione del fare ancora e sempre e del dire ancora e sempre. È questa ripetizione che colloca il suo atto nel presente e che apre il presente nella sua presenza rispetto a ogni sua possibile rappresentazione. Quando scrive, Jane è dentro uno sguardo retrospettivo. Ma quando danza, è perfettamente contemporanea al suo atto, ovvero al suo avvenire. Ma questo fare di Jane – questo suo genio – è tale per cui noi non possiamo farci niente. Non solo non ha bisogno delle nostre rappresentazioni, ma in un certo senso non ha bisogno nemmeno di filosofia, è antifilosofica. Non solo rimette in questione le forme, le rappresentazioni, le definizioni (anche quella di isteria): essa resta inappropriabile, dato che la sua ripetizione sarà sempre per la prima volta. Ed è anche senza presupposti, in questo senso non teologica (come per forza di cose resta l’apparato della Salpêtrière). Danzando, la danza accade. In un certo senso è questa semplicità che la teoria smarrisce per strada, occultando il fatto che le cose accadano. Né è frutto di sapere, la danza. Non è saputa. Forse le corrisponde meglio d’altro la formula che Jacques Lacan utilizzava per la psicanalisi: è un saperci fare senza saperne niente. In questo senso la danza è increata, non è dell’ordine della creazione: è qualcosa che non inizia, né si può iniziare, ma che occorre solo lasciare che accada, nella sua intima e misteriosa necessità.
Che per tutto questo non ci sia chiamata, né voce, ma solo ritmo, significa forse anche che non c’è verticalità. E, appunto, a differenza di Paolo, Jane non cade: salta. Non precipita dall’alto della sua postura eretta, ma vola dalla postura tipica dell’ammalato, l’allettato. La scena di Jane è, anzi, una forma di determinazione, è la deposizione della voce di un padre o di un padrone. È una destituzione che la destina al suo danzare, alla sua esigenza di danzare che prorompe nella sua vita.
Inventa così un altro gesto, un gesto fuori della tradizione teologica e fuori della scienza: è il gesto dell’arte che entra in scena e fa la scena. È l’immagine di una gioia della destituzione che si fa largo tra le pagine delle Memorie di Jane Avril.
5. Di un ritmo che è vertigine
Il ritmo è velocità, la cui azione produce una sorta di incantesimo in cui Jane balla senza averne consapevolezza, senza sapere ancora pochi istanti prima di entrare in scena, quali saranno i suoi passi. I piedi nudi, il sorriso sulle labbra, il cuore che batte all’impazzata: sono questi gli elementi che fanno il ballo perché trasfigurati nella vertigine del movimento. Ed è questa l’unica cosa che ci sia da ricordare, tutto il resto – i luoghi, i locali, i moltissimi nomi che costellano le sue Memorie – vengono visti come paesaggi osservati da un treno lanciato in corsa che, appena intravisti, scivolano lontano. Leggendo quelle pagine si ha la netta sensazione che l’incontro con la danza sia stato, nella sua contingenza, l’unico vero incontro indimenticabile per Jane. È stato un incontro contingente la prima volta, ma anche tutte le altre, perché ogni volta non sapeva cosa sarebbe stato di lei. La danza l’ha liberata da quel poco o tanto di sapere che ciascuno si attribuisce. Lo decompone, lo avvia verso un processo di decomposizione da cui altro – dell’altro, non del sapere – potrà nascere. Quando danza, Jane si incammina, quasi al volo, verso il luogo in cui non sa più nulla né di sé, né del mondo. Non c’è un testo o uno spartito che preceda la sua danza: tutto precipita all’improvviso lungo la linea furiosa e vertiginosa delle sue movenze.
È come se solo la contingenza di questo suo non-sapere (fino allora aveva ignorato) potesse lasciare spazio libero alla danza e solo alla danza. In quanto vocazione la danza finiva per essere in lei una condotta di vita, l’unica a cui valesse la pena attenersi. Nessun altro incontro sarebbe stato così interessante, neanche quello con la propria maternità a cui le Memorie dedicano poche righe, quasi di sfuggita. Per cui, danzando, si poteva anche sospendere la realtà, metterla a tacere per il tempo di una danza, e questo a ragione dell’energia sprigionata dalla danza stessa. Si poteva precipitare in un’altra dimensione, in quell’altrove di un’esperienza di bellezza e di gioia, di cui da fuori non abbiamo che generiche approssimazioni. In fondo già la prima scena – la danza alla Salpêtrière in cui scopre la sua vocazione – era stata un’esperienza di questo tipo, come in ogni vocazione che si rispetti in cui la voce che chiama interrompe gli affari regolari del giorno, per precipitare chi la riceve in un’altra dimensione. Da qui viene la vertigine di quella scoperta, da una energia che forza Jane, che la forsenna, avrebbe forse detto Derrida (Derrida, 2005), fuori dai limiti di una vita che non era ancora la sua.
Il ritmo è come l’impronta che il mondo esterno, nella sua forma sublimata di musica, trasmette a Jane. Ma a questo primo movimento ne corrisponde un secondo, perché quel ritmo che è vertigine la costringe a tradurlo in forma di danza, la costringe a esprimere le battute musicali come movimenti del suo corpo. La musica, che nei racconti di Jane è sempre più ritmo che melodia, non le dà scampo e fa del suo corpo l’immagine carnale delle cadenze con cui suona quella prima “orchestra indiavolata”, e tutte le altre che seguiranno. È come se nella danza si trattasse di un’invenzione che rigioca su un altro piano ciò che essa ha trovato nel mondo sotto forma di suono e di tempo. Là diventa passo ciò che prima era sequenza o intonazione. Da segno o simbolo il ritmo diventa quell’esperienza personale che, al tempo stesso, è un’esperienza di spersonalizzazione. È, cioè, un’esperienza in cui si va verso la propria radice impersonale. Come aveva ben compreso una filosofa contemporanea di Jane Avril, Rachel Bespaloff, il gesto di chi danza “non suppone nessun ostacolo da superare, nessuna resistenza da vincere. […] diventa suscettibile di potenza e di energia altrettanto che di leggerezza e di grazia” (Bespaloff, 2022, p. 49).
È proprio a questa esperienza estatica del ritmo a dare avvio a una sorta di esperienza del tempo ritrovato, che trova la sua parola nel finale delle Memorie:
posso dire di non essere diventata una seriosa patronessa. Più semplicemente, una piccola, vecchia ereditiera che passa le serate a muovere le gambe al ritmo dei suoni malinconici, allegri, dolci, appassionati o teneri – a volte anche dolorosi – dei vecchi valzer trasmessi alla radio.
Essi fanno ancora battere il mio cuore e, secondo il mio stato d’animo, mi cullano piacevolmente o fanno cadere una lacrima dai miei occhi, poiché il ritmo è ormai per sempre racchiuso dentro di me, e devo ammettere con un certo imbarazzo che devo fare parecchi sforzi per astenermi dall’entrare negli odierni locali da ballo. […]
Mi capita a volte di sognare di ballare ancora. Posando lievemente solo di rado la punta dei piedi a terra, m’involo leggera. E tutti coloro che ho amato mi sorridono dal basso.
Un tempo avrei tanto voluto morire danzando… (Avril, 2015, p. 92)
Ancora il ritmo, ancora una volta: l’incontro è un istante salvato della vita passata. Ogni volta che una musica emerge, traspare quell’istante decisivo in cui il ritmo che vive in lei si fa danza. È questo istante a rimanere indimenticabile, è l’incontro a cui, in segreto, si abbandona anche in vecchiaia, tra le mura di casa. L’istante incantato di questa musica che ora non esce più dall’orchestra, ma dalla radio casalinga, è una sorta di ricapitolazione di tutti i momenti in cui Jane ha danzato. La danza si consuma in un istante, nell’arco temporale del suo atto, sul corpo della danzatrice e nel breve svolgersi di uno spettacolo, sotto lo sguardo degli spettatori o di chi, magari, dopo averla vista, l’ha risognata. Non ne resta niente, niente si fa opera in essa. Grado zero del corpo nel momento del suo massimo splendore. Ma, a bene vedere, nel suo tratto effimero c’è qualcosa che, in effetti, si inscrive in un altro registro. È quanto Jane mostra: la sua è una danza al futuro, è la danza per sempre. L’aspetto singolare è che in questa ritrova qualcosa di un’infanzia dimenticata, ma mai perduta. È come la potenza di una intermittenza singolare, ma sempre differente, che collega le diverse epoche di una stessa vita. Del resto, le Memorie si aprivano con una curiosa evocazione:
Più o meno all’età di cinque anni venni iscritta come allieva residente in un convento del posto. Rammento ancora – non senza turbamento – lo spavento che certe sere mi procurava il suono del corno in fondo ai boschi, dal momento che spesso, nei territori dei numerosi castelli sparsi nei dintorni, si usava andare a caccia.
Io ero piccola e minuta, ma il mio cervellino già lavorava alacremente. (Avril, 2015, p. 10)
Il suono del corno da caccia, udito all’età di cinque anni, – un suono misterioso ed enigmatico che dal folto del bosco arrivava alle sue orecchie – suonava per la bimba, ma ancora risuonava in vecchiaia, come qualcosa di arcaico, come una sorta di ritmo del mondo che dagli anni presso i nonni materni nella regione di Étampes non smetteva di costituire per lei una memoria del mondo.
Dunque, se l’isterica è “l’intermittente del suo corpo” la quale “vive nel rischio e nella sventura di confondersi costantemente sull’appartenenza del suo corpo” (Didi-Huberman, 2008, p. 149), in Jane l’intermittenza del ritmo della danza è un’esperienza del tempo. Forse il genio trova una delle sue innumerevoli formule proprio qui, che ci porta a dire: il genio è un’arte, è l’arte di vivere questa intermittenza, dove il corpo giunge a vivere il tempo, infine. Là esso danza.