…la sua negazione dettagliata,
la sua sovversione.
In questo l’odio, come l’amore,
è una carriera senza limiti.
Jacques Lacan
1. Dei figli
A uno dei tanti brevi articoli che costellano la sua riflessione, dal titolo Una pedagogia comunista (1926), Walter Benjamin ha consegnato un’affermazione fulminante sul compito che spetta ai figli e quindi sul loro destino. La sentenza suona così: “Alla borghesia i propri figli si presentano come eredi; ai diseredati come soccorritori, vendicatori, liberatori. Questa differenza è sufficientemente drastica. Le sue conseguenze pedagogiche sono incalcolabili” (Benjamin, 1972, p. 207, trad. mia).
Non sono tutti uguali, i figli. Ci sono quelli, a cui è promessa un’eredità, e altri la cui unica eredità consiste nell’ingiustizia subita dai genitori, rispetto alla quale le generazioni a venire non possono far altro che offrire soccorso, portare vendetta o creare liberazione. Non c’è dubbio che si tratta di modi estremamente differenti, che solitamente chiamiamo “soggettivi” solo perché qualcuno in carne e ossa si occupa di realizzarli. In fondo, però, non hanno niente di soggettivo, se con questo termine si indica quanto dipende da una posizione individuale. La nascita non la si sceglie, sembra dirci qui Benjamin, ma da lei dipende se si sarà chiamati a essere eredi o liberatori. Il carattere di questa affermazione non sembra lasciare scampo, dato che fa del soggetto il prodotto dei suoi genitori e, come tale, rischia di avere un effetto mortificante sulla sua libera iniziativa. Fa dei figli un prodotto naturale, laddove c’è storia unicamente nell’accadere di un evento ossia dei figli come altrettanti eventi incalcolabili. Del resto, perché vivere se non crediamo che in una vita un avvenire possa aver luogo, rispetto alla pura e semplice ripetizione del medesimo che la storia familiare, vera o presunta, sarebbe?
Approfondire questo complesso di cose rispetto alla figura di Medea può voler dire anche dover rovesciare la prospettiva abituale dalla quale si guarda alla sua storia. Un tratto della lingua che troppo spesso passa inosservato è che i figli che hanno perso i genitori li si chiama “orfani” – siano essi eredi oppure, appunto, “soccorritori, vendicatori e liberatori”. Ma, per i genitori i cui figli muoiano, le nostre lingue non hanno parola. Constatare che c’è un dolore che resta senza nome, lascia soli davanti alla voragine che scava il linguaggio. E di fronte a questa voragine nessuna parola riesce a dare un senso. È questa la domanda che ci pone Medea, al di là delle apparenze: cosa ne è dei figli e cosa dei genitori, i cui figli muoiano prima che sia giunta a termine la vita di chi li ha messi al mondo, come abitualmente si dice? Senza nulla togliere alla ferocia del suo gesto, Medea è colei che si priva dei figli. Benché per mano sua, Medea rinuncia sia ai figli come eredi, sia ai figli come vendicatori o come liberatori. Partendo da una solitudine radicale – la perdita di Giasone, la prospettiva dell’esilio – il suo gesto pare consegnarla a una solitudine se possibile ancora maggiore: a una solitudine assoluta. Al tempo stesso, il gesto di Medea disattende l’alternativa tra eredi e vendicatori o liberatori. Se questa posizione può essere una posizione politica o, quanto meno, avere delle connotazioni politiche, quali sono le sue implicazioni?
Che Medea rinunci al soccorso dei figli, è appunto la conseguenza del dramma a cui dà il suo nome. Non ha molta importanza che lo faccia per vendetta nei confronti di Giasone, per far precipitare nel caos la nuova disposizione a palazzo reale o per un dolore incontenibile, rispetto a cui non c’è scampo. Più importante è seguire cosa ne sia quando finisce la vita di un figlio ovvero di chi rappresenta o dovrebbe rappresentare il futuro. Forse Medea arriva a toccare qualcosa della vita che è il nucleo cieco, più oscuro, l’abisso dell’abiezione come verità della sua stessa esperienza. Forse vuol giungere a sentire, toccando la vita nell’unità degli opposti, che caratterizza la sua passione. Nella sua persona si esprimono una potenza inaudita di vita e, al tempo stesso, un’incontrollata tendenza di morte e di distruzione, che danno corso alla voce del conflitto che la chiama. Che cosa ha da dirci la sua lacerazione e questa sua sofferenza? E che cosa resta da dire?
2. Della rovina
La tragedia è, sin da subito, l’indisponibilità del senso, la vuotezza del cielo in cui nessun dio parla più. L’ha detto nel modo migliore Romeo Castellucci: “Non c’è più nessuno. Non c’è senso, non ci sono risposte. Questo cielo è un luogo inaudito, nuovo, disponibile. L’attore ritorna e prende il posto del capro macellato. È il fantasma dell’anima che ritorna sulla scena e riprende ciò che era suo” (Castellucci, 2021).
In questo senso è importante rinunciare sin da subito alla pretesa di poter dare un nome e un volto all’atto di Medea, come spesso si fa, sin troppo frettolosamente. È l’esercizio nel quale eccellono i moralisti di ogni tipo. Del resto, Medea stessa tende la trappola perché fornisce troppo facili continuità ingannevoli. Che sia per gelosia o per follia, per impazienza o per eccesso d’estraneità, non sono certo diagnosi di questo tipo a fare la differenza. Davanti all’apparizione immensa di Medea occorre in ogni caso rifiutare la tentazione di schivarne l’abisso, la violenza che da lei promana. Inutile cercarne i motivi: sono sempre pretestuosi e ogni evento fa comunque parte di quella che Baudelaire definiva un’“atrocità senza pretesto” (Baudelaire, 1915, 156).
Ci sono innumerevoli letture che potrebbero essere portate a esempio di ciò che non bisognerebbe mai fare. Le riconosci perché hanno sempre motivazioni per tutto e per tutto spiegazioni, nel tentativo futile che ha di mira solo la propria presunta purezza, l’estraneità da parte della società e dei suoi canoni al crimine e alla violenza. In questa cornice l’atto di Medea – rinunciare alla vita dei figli, disgiungere i viventi dalle loro vite – è il muro su cui si infrangono tutte le risposte. Su quell’atto si sbriciolano le nostre parole. Non solo noi non abbiamo più lingua: anche Medea l’ha persa, ciò che la rende disponibile alla catastrofe, mentre rende indisponibile il posto vuoto dello spettatore: nulla più lo ospita, se non l’esclusione dalla cui vertigine è preso. Se c’è un luogo che sentiamo “nostro”, Medea è il nome di tutto ciò che ci allontana da quel luogo, ricusandoci. La sua vicenda svuota il luogo del puro spettatore, rendendolo inabitabile a oltranza. In questo senso Medea ci è necessaria: la sua brutalità ci confronta con una questione il cui gesto lei stessa definisce “orrendo e necessario”. La sua necessità avrebbe a che fare, nota Aristotele nella Poetica (Aristotele 2014, p. 616, 1453b), non con un fattore esterno, ma con un dissidio interiore, un conflitto tra motivi contrastanti all’interno della sua anima. Il problema non è da individuare all’esterno, ma fa parte della natura della sua figura.
L’enigma-Medea è quanto ci costringe ad ascoltare l’orrore, per provare a intendere di che necessità si tratti quando la Medea di Euripide dice “essi devono morire… Tutto è deciso ormai, perché tutto è inevitabile” (Euripide et al., 1999, p. 53). Di che tipo di necessità si tratta? Non è senz’altro una che renda Medea una sorta di Medusa: uno sguardo che congela, che produce solo morte. Ed è proprio questa la conseguenza del personaggio che Euripide costruisce sapientemente. La necessità di Medea è di un altro ordine. A differenza di Medusa che non ha scelta, perché fondamentalmente sancisce una sorta di eterno ritorno dell’uguale, Medea è un personaggio dotato di una storia, fatto di conflitti, di propensioni, di scelte. Si rapporta ad altri, come mostra la sua crisi, il suo dissidio. Davanti allo sguardo annientante di Medusa non c’è l’altro: ci sono solo cose, oggettivate anche quando sono viventi.
Medusa li annienta tutti, indistintamente. La complessità di Medea è, invece, nell’essere dalla parte di quella che Aristotele chiamava la tyche: l’azzardo dell’imprevedibile, che fa la differenza di ogni incontro. La parola la troviamo nelle primissime scene di Euripide, variamente tradotta con: la fortuna, i casi, le circostanze, ciò che accade. È l’irruzione di un evento che sconvolge il mondo già dato, scavandolo. Questo evento resta una “cosa incomunicabile”, infinita e paurosa, a cui solo il nome cerca di mettere un limite (Diano, 1994, p. 74). Per terribile che sia, Medea è dalla parte dell’accadimento. Non è come Medusa, necessitata ossia indirizzata sin dall’inizio verso la dura solida, inerte e perciò mortifera assenza di accadimenti che abitualmente attribuiamo alla Natura. Anche quando la sua forza vitale si trasforma in “forza di morte” (Leclaire, 1975, p. 11), resta ancora capace di divenire e di avvenire. Con lei, con i suoi gesti, siamo comunque dentro la storia, anche quando l’evento che ci tocca ha i segni dell’incomprensibile e del caos, che la tyche impersonifica. Negli umani il gioco non è solo nel conflitto perenne tra pulsione di vita e pulsione di morte, secondo la formulazione freudiana. Forse il conflitto che ci costituisce come umani è anche tra Natura (la necessità dello sguardo di Medusa, che non può far altro che uccidere) e Storia (un’altra chance, un altro evento, il tempo per un errore che, però, rappresenta la deviazione dall’eterno ritorno dell’uguale, com’è la ripetizione naturale). È quando cede alla sua sola pulsione di morte che Medea si sente necessitata. È quando rinuncia al dissidio che non può far altro che essere una cosa sola con il suo lancinante dolore. È quando si chiude sulla sua storia – ossia su una sua rappresentazione – che non c’è futuro possibile. Là non c’è altro, nemmeno i figli sono quell’altro, pertanto sono in un certo senso già morti prima che ne avvenga l’assassinio. Qui pare ci si possa decidere per una cosa sola, per una sola potenza, rifiutando le altre, chiudendosi in una sola determinazione. L’aspetto funereo della fine della sua relazione con Giasone deriva proprio da questa atmosfera esclusiva, dove un elemento, un fattore, diventa l’unico, monotono, monocorde motivo della canzone che si canta, senza poter più ascoltare altre voci.
Artaud diceva che quello di Medea è “un mondo mitico”, un mondo di potenze che esistono e che non si possono schivare? Eppure cosa fa il teatro se non esercitare il potere di disprezzare la realtà, il potere, cioè, di aprire alla possibilità di sperimentare la realtà, di inaugurare la percezione di altre possibilità? Lo fa perché introduce sulla scena, dice Artaud, “la logica irrazionale e mostruosa dei sogni”, creando il suo mondo allegorico attraverso “la voce, i gesti e i movimenti” (Artaud 1994). Lo fa giocando un divenire relativo rispetto alla permanenza assoluta. I maschi come Giasone sono, invece, presi dalle loro strategie e dalle loro decisioni. Non sanno niente di questa dimensione mitica della vita, non sanno niente di potenze, loro che tutto il tempo si occupano unicamente del potere. Però Giasone sa che una società non si può reggere su una come Medea: la società, la polis e la sua arte – in una parola: la politica – sono frutto di calcoli. È l’arte di Creonte che, quando parla, parla appunto di timori, di fiducia e, più spesso, di sfiducia, della necessità del guardarsi dai nemici e di decisioni da assumere. La qualità barbara di Medea, così spesso ripetuta nella tragedia di Euripide, è quella selvatichezza che la destina a un’opposizione radicale rispetto alle stesse virtù politiche. Disattende la società, lei. E del resto è molto più profondo e mitico il piano a cui si ricollega: troppo libera per le convenzioni della polis greca, troppo barbara per la sua cultura, è al contempo anche colei che conosce una legge più forte, totale, più di ogni legge umana ed è quella legge della legge che il giuramento sancisce. Nelle sue trame Medea tiene in realtà alla parola data più di ogni altra cosa, perché è parola più forte della morte, dato che discende da un impegno in cui “in nome degli dei” (Euripide et al., 1999, p. 44) si mettono in gioco il proprio nome e il proprio volto.
3. Della caduta
Il tema della Medea di Euripide non è perciò la catastrofe, ma la caduta: non la catastrofe scelta, ma la caduta che raggiunge gli esseri umani, uomini e donne, all’improvviso. Che può rappresentarne la tyche – la potenza dell’evento imprevisto – ma che spesso si materializza nell’arretramento davanti alla storia, davanti al divenire.
Dobbiamo però prima tener presente un aspetto: non possiamo oggi misurare sino a che punto fosse un sentimento diffuso nell’antichità, particolarmente nella forma di un decadimento sociale. Ognuno poteva venirne raggiunto, la caduta condannava non solo soldati e fornai, ma anche re e regine alla schiavitù, a causa di una guerra persa. Come ha giustamente notato Anne Carson, tutti “vivevano in teoria alla semplice distanza di una caduta di città dalla schiavitù” (Carson, 2021, p. 55). Niente di meno sicuro della propria condizione sociale, niente di più vicino di una perdita di prestigio, sufficiente contaminare la persona che ne faceva esperienza. Vale anche per Medea nella sua condizione di ripudiata. Se per amore si era macchiata di una serie di crimini nei confronti della sua famiglia e della madrepatria, era destinata a essere fuori luogo ovunque, straniera e sporca ovunque fosse, se Giasone le faceva mancare il suo assenso, la sua compagnia, la sua protezione. Era barbara, non solo straniera: proveniente da terre troppo lontane per pensare che avessero una qualche somiglianza con quelle abitate dagli uomini coltivati di Grecia. Tutto in lei è diverso: quando parla il suono delle sue parole pare corromperle, facendole diventare una formula magica; quando cucina, c’è il pericolo che stia preparando veleni potentissimi. Dicono che la sua astuzia (δόλος) sia sempre in gioco. Lei è in tutto e per tutto un’estranea, per giunta sporcata dal fatto che lui avrebbe presto sposato un’altra donna.
Di Medea e della sua partecipazione di donna innamorata all’impresa del vello d’oro si dovrà allora dire quello che Françoise Duroux dice delle donne dell’antichità in generale: “Hanno partecipato [allo sforzo bellico] solo a titolo di un’esclusione inclusa, come mera base d’appoggio. Finita la guerra, l’esclusione si riprende i suoi diritti. Non otterranno il riconoscimento politico che avevano avuto l’illusione di conquistare” (Duroux, 2021, p. 195). In un importante saggio dal titolo Il letto di guerra Nicole Loraux ha legato insieme la figura del guerriero a quella della madre. Una è la parola che in greco antico indica sia il luogo dell’imboscata, in cui il primo dà prova del suo coraggio, sia il letto del parto. La madre produce figli per la patria: cittadini o soldati. Questo è il loro dovere civico. In questo senso annullare i figli significa venire meno a questa offerta che è prevista per ogni corpo femminile che metta al mondo dei piccoli maschi. È un’appropriazione di doppio livello, quella che qui ha luogo. Come ha ricordato Duroux, “se le donne sono violentate è perché rappresentano il vettore più appropriato di un’appropriazione, della cancellazione dei confini: ‘Non c’è peggior desiderio di morte per una comunità che desiderare di annientare il bambino nel grembo di sua madre’” (p. 192). In una cultura dove tutto avviene per strategia di costruzione di una comunità di uguali tramite il matrimonio che imparenta le famiglie, “non ci si deve stupire che le donne facciano corpo con questa comunità identitaria che richiede il loro servizio” (p. 194). Bisognerebbe aggiungere: a queste donne il testo di Euripide non riconosce neppure la dignità di un nome. Così la nutrice è chiamata con il titolo della sua funzione e Creusa stessa non è mai chiamata per nome, ma solo come nuova sposa di Giasone o come figlia di Creonte. Si è sempre figlie o mogli di qualcuno. Solo Medea pare rifulgere con il proprio nome. Ma cosa vuol dire avere un nome se non, appunto, assumersi il destino di avere una storia?
C’è anche un altro fatto che dobbiamo tenere in mente: venendo Medea ripudiata, i figli passano necessariamente sotto le cure di Giasone e della nuova sposa. La madre non li ha più, non come suoi figli. Essi sono il frutto di un giuramento violato, di un crimine che la priva dell’amore per cui tanto della sua vita ha messo in gioco e tanto ha commesso, macchiandosi a sua volta di crimini e di tradimenti. Sono il frutto dell’accecamento del suo amore e della “viltà” di Giasone, incapace di riconoscere debiti e, per esempio, di dovere la propria salvezza a Medea.
C’è qui un tratto illimitato in Medea. Al punto in cui la vicenda è giunta in Euripide, questo tratto ne fa una creatura compiutamente anarchica. Ma questo tratto, che pure non è privo della potenza dei suoi gesti, non la fa ancora esistere come soggetto. Qualcosa della sua vita, che si è istituita sinora grazie all’amore, improvvisamente mostra la propria natura di pura vita, di vita destituente, senza aggettivazione possibile, senza nome o qualifica. Per questo Medea è destituente in primo luogo rispetto alla “genealogia della morale” che si potrebbe essere tentati di mettere in atto per spiegare e per allontanarne il fantasma. In questa destituzione non è più possibile credere alla prospettiva di Giasone, che conta di risolvere tutti i problemi, conquistando Corinto per mezzo del matrimonio, fondendo potere e amore in un unico gesto. È un costruttore, lui: non può che essere sconvolto dallo scoprire il vero volto di Medea, così inaccettabile ora che ha deciso di mettere fine alle sue avventure e che non ha più bisogno di usarne l’astuzia o la spregiudicatezza per avere successo nelle sue imprese eroiche. Ora si tratta di far uso di quel valore che l’eroe ha messo da parte. Ora si tratta di capitalizzarlo, diremmo noi oggi, e Giasone è pronto a farlo.
4. Della cura
Uccide i figli, Medea. Ma così uccide la stessa filiazione su cui si regge la trasmissione. Questo ne fa più di una semplice assassina: oltre ai figli, uccide anche la genealogia, la tradizione, l’eredità. Li sottrae non solo alla stirpe di Giasone, come spesso si dice, più esattamente li sottrae alla stirpe in quanto tale: nega il futuro che i figli, in un modo o nell’altro, sono chiamati, anche loro malgrado, a rappresentare.
Ammesso e non concesso che le cose siano andate così e che Medea non sia solo lo spettro (maschile) della donna che dà e toglie, figura della morte in quanto è figura della vita, la domanda da porre è: uccidendo non produce anche una perdita del suo essere madre? Non rinuncia forse all’unica identità che a Corinto le sia rimasta, dopo che Giasone la rifiuta come moglie, in quanto straniera?
Certo, se il figlio è la rappresentazione del desiderio della madre, la sua uccisione è là a rappresentare ciò che, come in ogni desiderio, delira. L’aspetto decisivo è che il tradimento di Giasone ha aperto in Medea la possibilità di vedere: foss’anche di vedere la follia della sua passione. Vedere ciò che è stato, vedere la fiducia estrema che solo l’amore consente. In questo senso, il nucleo dell’amore è un nucleo traumatico, non solo perché rimette in gioco i fantasmi di ciascuno, ma anche perché trova la sua origine nel punto di massima vulnerabilità del soggetto, là dove la ferita del trauma si è costituita come apertura verso il mondo e al tempo stesso come chiusura, nell’ambivalenza che passa tra la segreta curiosità per l’altro e il suo rifiuto assolutizzato. Per questo ogni amore possiede un elemento traumatico, con cui presto o tardi occorre confrontarsi. Esso chiede una comunicazione con qualcosa di indecidibile, che ci appartiene intimamente, ma a cui non c’è risposta. Un nucleo così non è che un resto, ma in grado di produrre un’angoscia senza confronti in risposta a questa ipersensibilità, a questo punto di fragilità assoluta. Altrettanto si dica della violenza: essa non nasce dall’altro – al limite come risposta e come reazione alla sua alterità – ma dal rifiuto dell’altro in quanto intimamente connesso a quello che ho chiamato il nucleo traumatico dell’amore. L’angoscia libera la potenza informe che sconvolge la vita ma che, soprattutto, conduce alla dissipazione del soggetto che, incapace di tenere insieme la complessità, è inibito nella creazione di una soggettività articolata e fertile, prolifica.
È così che Medea precipita nella mostruosa unilateralità di una pulsione sola, non più trattenuta da nient’altro. Si irrigidisce senza ovviamente trovare in questa rigidità una sua unità. Si disunisce e ciò accade, in realtà, proprio perché si smarrisce nella faziosità di quella decisione feroce. Medea è, del resto, la tragedia dell’amore finito, ormai solo un lontano ricordo che fa parte della biografia spettacolare del personaggio. Che attraverso i figli Medea faccia il lutto del proprio legame coniugale con Giasone, dà a questo lutto una qualità letterale che atterrisce. In fondo la tragedia di Medea è una tragedia della letteralità che fa di una morte reale – di un’uccisione volontaria – il sostituto di una morte simbolica. E non di uno, ma di due bambini: una ripetizione, in un certo senso. Però, mentre in Seneca si libera barbaramente dei loro corpi, scagliandoli contro Giasone, in Euripide Medea fonda il culto dei figli uccisi. Qui dice: “li voglio seppellire con queste mani; li porterò nel tempo di Era Acraia, perché nessuno dei miei nemici possa recare loro oltraggio, profanare la loro tomba” (Euripide et al., 1999, pp. 61-62). Sempre di nuovo nella lettura si insinua un dubbio estremo, inconfessabile: donare la morte non sarà forse una forma estrema di cura? Non sarà l’unica cosa che può donare una donna che non ha altro da offrire, nemmeno quelle cose che permettono di sopravvivere?
Ha colto questo aspetto Corrado Alvaro quando, a margine della sua Medea (1949), ha scritto: “Secondo me, ella uccide i figli per non esporli alla tragedia del vagabondaggio, della persecuzione, della fame: estingue il seme di una maledizione sociale e di razza, li uccide in qualche modo per salvarli, in uno slancio disperato di amore materno” (Euripide et al., 1999, p. 20).
Conosco solo un altro che abbia tentato una difesa così assoluta e generosa di Medea. Nella sua ultima conferenza dal titolo Le figure della Pietà, di cui non ci resta che la testimonianza dei presenti, Pierre Fédida aveva parlato di una tenerezza di Medea e, più precisamente, di una sua “tenerezza assoluta”, così come prima è stata una “amante assoluta”. È a seguito del discorso di Giasone che “la casa si disfa” come risultato dell’opera del dolore. Il dolore smonta il corpo. Molto precisamente Fédida mette l’accento più che sul rischio legato al desiderio femminile e a quello materno in particolare, sugli effetti mortiferi del potere maschile. Questo punto è importante, del resto se il potere è atterrito da Medea, è perché il suo gesto destabilizza la produzione di vivente che gli sta al fondo. Ma forse in quel gesto c’è ancora un’eco dell’amore che è stato, che essa porta comunque anche dentro l’omicidio più efferato?
Uccidendoli, Medea sottrae i figli allo scherno a cui sono destinati da parte della società: “non voglio indugiare e abbandonare i figli ad altre mani, ben più nemiche delle mie”. Così parla tra sé e sé Medea. Meglio che a compiere l’atto finale ci pensino delle mani che amano, piuttosto che per vigliaccheria lasciarli alla mercé di mani infauste. C’è un potere di morte che non è il contrario della forza vitale, ma proviene dalla stessa sorgente. È quanto permette a Medea di dire per ben due volte “li ucciderò io, io che li ho messi al mondo” (Euripide et al., 1999, p. 57). È una medesima responsabilità che si annoda qui, nel lento approssimarsi della tragedia al suo finale. Meglio che il gesto della morte sia pietoso, piuttosto che vedersi destinare a una condizione che sarebbe comunque la sentenza di un potere sovrano. Che porterebbe comunque i figli a essere eliminati, accusati di essere i discendenti di una donna troppo eccentrica e troppo pericolosa per essere accettati. Anche sotto la protezione di Giasone, rimarrebbero innanzitutto figli di Medea e finirebbero con il venir guardati con sospetto perfino dal padre stesso: non saranno forse gli eredi della madre o, peggio ancora, i suoi vendicatori? Del resto Giasone decide di accoglierli, ma solo in seconda battuta: “dei figli il padre non si cura” (Euripide et al., 1999, p. 33), perché tanto i figli che immagina verranno da Creusa godranno di precedenza dinastica. Solo con i figli avuti dalla nuova moglie avrebbe potuto accogliere i figli di Medea, che pure non saranno mai uguali agli altri. Medea risparmia loro un destino che conosce già troppo bene, li preserva da quella morte che è la morte sociale. Non solo: mostra come la distruzione, che il suo amore per loro esige, sia in un certo senso necessaria alla vita.
Uccidendo i figli, Medea infligge a se stessa il danno peggiore che le possa capitare. Nulla, nessuna minaccia, nessun pericolo, riuscirà più a toccarla con la stessa violenza e con lo stesso dolore. Così però Medea unilateralizza la propria esistenza. Se i figli sono la non-coincidenza con il nostro stesso essere genitori – il mettere al mondo una vita che non è nostra, né mai lo sarà, né una vita che coincide con la nostra o con i nostri desideri, progetti, prospettive – lei finisce con l’eliminare proprio questa dimensione. Che è inscritta nell’essere genitori e non solo genitali. Ed è per questo che dovrà soffrire un male immenso, “due volte tanto” (p. 52). Uccidendo i figli azzererà anche qualcosa di sé stessa. La questione sarebbe qui se all’amore non appartenga la crudeltà che gli consente di mantenere il dissidio, il conflitto, la crisi, senza decidersi unilateralmente per una prospettiva. In Medea è, in fondo, proprio la perdita d’amore che la destina a una sventura di perdite. Non ha più niente da perdere, come si dice. Si fabbrica un essere di niente, lo fa con il nulla di questa duplice uccisione, con l’assenza di questa perdita infinita. È questo legame con il nulla che sconvolge in Medea, il cui nome molti interpreti hanno voluto riportare al nessuno, al niente, da mhden (altri legano il suo nome a mhtis, intelligenza, astuzia). Fa ancora parte di questo nulla ciò che noi non possiamo che percepire come la durezza del mondo antico: questi bambini, i figli di Medea, accedono alla luce del palco solo in quanto ammazzati, altrimenti non conterebbero niente. Eppure la rivendicazione di una soggettività da parte di Medea passa proprio dai loro corpi, di ciò che non è soggetto. È una rivendicazione orgogliosa di sé, che rompe con quel Muttertum – quell’“impero della Madre” – che ha alla sua base l’associazione tra bambino e madre come fondamento della politica.
Uccide la madre in lei, se è vero che banalmente essere madri vuol dire fare bambini, cioè farli nascere, partorirli. Dal punto di vista della funzione genealogica della madre, che inaugura la divisione fondamentale al fondo della nostra società tra Muttertum e Vatertum, il soggetto-Medea si stacca dalla funzione, dall’ufficio biologico di madre, per andare verso la sua soggettività. Rispetto a quello che Pierre Legendre definisce “l’accesso della donna alla finzione della Madre” (Legendre, 1985, p. 320), si dirà che esso è regolato non solo da leggi, ma anche da pratiche. Ogni cultura formalizza “la scienza del saper partorire”, scienza che a sua volta “si inscrive nella procedura di fabbricazione dei genitori” (Legendre, 1985, p. 320), dunque a quella che potremmo chiamare l’istituzionalizzazione delle parti, delle funzioni e delle pratiche implicate in questo passaggio della vita e della cultura. E questo, precisa Legendre, non come aggiunta istituzionale, ma come possibilità stessa del biologico, come sua “condizione” (Legendre, 1985, p. 321). È da questa funzione e dal suo meccanismo che Medea si scioglie, destituendone la forza vincolante. È sul fondo di questo gesto abissale che la vita accade. Medea gioca qui la mancanza come arma contro la legge, contro la convivenza tra gli uomini, contro gli affetti. Vanifica lo stesso vincolo della stessa sopravvivenza della specie, varcando la soglia verso regioni indicibili.
Il suo gesto è sì un crimine, ma si tratta di un crimine che non si inscrive dentro la “costruzione scenica della Referenza politica o religiosa di una società”, come nel caso della “messa a morte del Cristo nella prospettiva dell’uccisione del padre e del sacrificio” (Legendre, 1985, p. 141). È il crimine di una cura paradossale, capace di interrompere la genealogia. Nel suo passare da figura esclusa a eliminatrice, molto ha in Medea il sapore di un rispecchiamento delle condizioni effettive della donna nel mondo antico, per esempio come madre desessualizzata, per cui l’amore di Giasone va ora alla sua promessa sposa, non più a lei. Il crimine è l’unico atto in cui ritrova l’assolutezza dell’amore.
Si tratta, in un certo senso, di un duplice gesto che la potenza di Medea riesce a tenere insieme: da un lato, vendicarsi oltraggiosamente di Giasone, mantenendolo in vita, ma “ferito a morte” (Euripide et al., 1999, p. 46), costretto a una sequenza di lutti e di sventure assolutamente impensabile per il calcolo politico; dall’altro lato, contrastare quello stesso potere politico nell’unico modo che fosse per lei possibile: interrompendo la linea genealogica, mostrandone tutta la costitutiva fragilità nell’efferatezza del suo atto.
Ciò che scrive Pierre Legendre può forse venirci in soccorso a questo proposito, quando dice:
Il bambino fa nascere i suoi genitori come genitori, li rinvia alla loro propria questione genealogica nel momento preciso in cui la permutazione simbolica deve operarsi. La nascita mette in scena la fabbricazione dei genitori […] prima anche di accedere a ciò che chiamerei la soggettività compiuta, il bambino ha valore simbolico per i suoi genitori perché è oggetto di scambio tra i genitori per conto di ciascuno di loro. Detto altrimenti, il bambino nasce negoziato tra coloro che rappresentano le sue due linee (Legendre, 1985, p. 325).
E anche: “Il bambino nasce inizialmente dalla madre. Che cosa comporta questa anteriorità? Si tratta di una questione di struttura, non del fatto brutto della nascita registrata come tale” (Legendre, 1985, p. 327).
È esattamente a questa funzione che Medea rinuncia. Del resto uno dei figli pronuncerà una frase abissale, poco prima di essere ucciso: “come posso sfuggire alle mani di mia madre?”. Questa non è la domanda di Medea, per l’appunto. In Medea la questione è esattamente l’inversa: come posso sfuggire alle grinfie di una società che mi destina a essere unicamente la madre dei miei figli e che prevede in anticipo i modi dell’amore materno, come di quello filiale? Se il gesto dell’uccisione dei figli è pensabile come un gesto d’amore, è perché fa emergere un tratto inconfessato della natura crudele dell’amore. Ma insieme è ciò che la rende capace di storia, di errore, ma anche di possibilità, a differenza di Medusa che non può che portare la sua morte in scena, sempre e ovunque: ciò che definiamo “storia” è nell’intrecciare la propria vicenda con quella degli altri, mentre Medusa non può che essere la negazione sistematica e preliminare di ogni alterità. Medea è l’irruzione di questo tratto sulla scena, l’imputabilità dei suoi atti è parte integrante dell’intreccio che chiama in vita con i suoi atti. È ciò che non esclude l’amore dal suo orizzonte, come non esclude che questo amore possa produrre dell’odio. Del resto solo l’amore sarebbe l’affetto capace di rompere con l’ambivalenza dei sentimenti, permettendo di salvare i figli, uccidendoli. Questo è il lato in ombra, ma tremendamente attuale, di questa vicenda. Come se si potesse davvero scegliere tra l’insopportabilità dell’omicidio e l’insopportabilità dell’innocenza.