Esilio, rivoluzione, solitudine

La filosofia di Medea

DOI : 10.54563/revue-k.986

Résumé

The contribution presents Nietzsche’s critique of Euripides and considers whether it can also be applied to the case of Medea. In particular, it tests whether a possible, paradoxical political charge of the priestess of Colchis, linked to the theme of exile, is not able to carry Euripides’ tragedy beyond the boundaries of the polis.

Index

Keywords

Euripides, Nietzsche, oikos, polis, tragedy

Plan

Texte

Mio malgrado, un impulso mai prima provato mi trascina,
e la bramosia mi consiglia una cosa, la mente un’altra.
Vedo il bene e lo approvo, e seguo il male.

Ovidio, Metamorfosi, Libro settimo

1. Divagazione tragica

Non mi è chiaro se la mia sia soltanto una cautela teorica, una vera e propria deficienza, un’attenzione stucchevole o qualcosa di più serio. L’interrogativo da cui vorrei cominciare infatti mi sfugge dalle mani, come se avvertissi al contempo sia la sua puerilità sia però la radicalità, l’essenzialità, del problema. L’interrogativo è questo: chi scrive di Medea? O meglio: c’è chi ha un titolo speciale per prendere la parola ed esplorare la parabola, l’esperienza, il dolore, di una donna assassina, straniera, allontanata? Una donna che pare avere un’unica missione: dilaniare i legami familiari, annientando l’oikos; come se a Medea dovesse sopravvivere, in ogni tappa della sua logica omicida, solo la distruzione. Chi come lei non tollera di essere una vittima, pur dovendo vivere da vittima, cioè da figlia silenziosa, da concubina tradita, da madre umiliata, da donna non rispettata, da straniera mortificata, per ribaltare il tavolo e destituire la cattura della soggezione radicale, l’unica chance appare un esercizio della violenza senza argini. Vale a dire, un tipo di forza che per essere efficace impone di pagare un prezzo molto alto anche a chi la esercita.

Medea in fondo riconosce quello che ha sempre saputo: che Giasone, come qualsiasi uomo, come qualsiasi calcolatore, forse finanche come qualsiasi eroe, non vale niente. Da quando Medea ascolta Giasone farfugliare attenuanti per la propria condotta, non si scatena soltanto contro il potere di Corinto, contro il padre dei suoi figli; ma va oltre: più radicalmente, Medea si scaglia contro sé stessa. Lo dice in fondo chiaramente: la sua è diventata una vita odiosa, amara, insostenibile (v. 147); il primo desiderio in effetti è di morire (v. 227). Detesta, più di ogni altra cosa, la debolezza che le ha fatto immaginare che la sua vita dipendesse dall’amore improvviso per un avventuriero (lo scrive magnificamente Ovidio: “Anche se non avesse altro, chi non incanterebbe con quel suo viso [quem non, ut cetera desint, ore movere potest]? Almeno il cuore mio… l’ha incantato”; Ovidio, 1979, p. 249). L’amore invece, prima o dopo, ci tradisce sempre; pure quello per i figli. Allora Medea si ribella perché non si perdona di essersi ingannata; si rivolta contro la donna che è diventata perché non sia più concepibile trattarla come Nessuno.

Di fronte a una figura come quella di Medea, una figura in grado di condensare una miriade frastagliata d’immagini del sé, nonostante tutto, è possibile continuare a fare il doppio gioco di Euripide? È tollerabile il suo diventare donna mentre lascia parlare Medea con le donne di Corinto (il coro)? Possiamo credere a Euripide quando elabora una critica senza precedenti del ruolo della donna nella polis? Almeno lui, Euripide, era un poeta. Noi, invece, possiamo ancora oggi prendere la parola e interrogare il suo mito senza provocare qualche sospetto? Si può accettare che un uomo, per di più bianco, di mezza età, ritorni a leggere la tragedia di Medea e abbia pure qualcosa da dire, da pensare, immaginare? Se nella storia di Medea si consuma un trauma, esso ha a che fare con ciò che separa una donna dalla Legge del padre, dei padri: arriva Giasone, sboccia l’eros, arriva l’amore, e tutto viene travolto; si spezzano legami, si escogitano vie di fuga dalla casa paterna, si è pronti a uccidere e morire. Lo stesso a Corinto: la fine di una storia, lascia divampare l’irreparabile.

La vita di Medea è una sequenza di rotture, eventi, abissi inattesi.

A Corinto, conosciute le intenzioni di Giasone, Medea deve fare i conti con il proprio passato sanguinario; ma guardarsi indietro significa scoprire di non avere più un passato, una casa, una famiglia. È sola! Decide allora che il potere non l’abbia vinta, che l’ordine della legge, dei maschi, dell’indigeno subisca un attentato formidabile. Medea ferisce a morte chi non resta fedele all’amore; a quell’esperienza in grado di farci diventare ciò che non siamo, a quello stato dove si mescolano, con la massima intensità, lucidità ed estasi. Per Medea, lo si capisce bene nel suo primo dialogo con Giasone (ma, in realtà, Giasone non lo capisce), il desiderio è assoluto, senza oggetto, va continuamente alimentato da se stesso, e per questo motivo non sente ragioni; nulla lo può placare.

Ecco perché forse un uomo non dovrebbe scrivere di Medea: Giasone forse siamo noi! Chiunque s’impegni per una vita a occultare la propria mediocrità, paura, a lasciare che chi ci ama s’inganni su di noi, per non lasciare vedere come stanno veramente le cose per una banalità qualsiasi: un po’ di sicurezza. Insomma, nelle concatenazioni del desiderio, chiunque può diventare altro da sé, donna, animale, chissà cosa, ma non può diventare, come pensava Deleuze, ciò che è morto perché sempre uguale a sé stesso: un uomo bianco.

Medea, all’inizio della tragedia, ancora non sa quanto sia vile l’uomo che amava; mentre s’infuria con Giasone, mentre lo ascolta difendere le sue cose, però impara a vedere, inizia a capire che lei per lui non è mai esistita. A questo punto, come acutamente riepiloga Antonio Capuano nella sua “sceneggiata” napoletana dedicata a Medea, Giasone si rivela nient’altro che “n’òmmo ‘e niente”, “n’ommo ‘e mmérda”, (Capuano, 1994, p. 78).

Dopo la decisione senza ritorno di Medea, Corinto è travolta da un uragano di sangue e desolazione: il potere è decapitato. La sua distruzione, però, ed è questa una traccia fondamentale che probabilmente è Euripide per primo a inserire nel mito di Medea (Bettini, Pucci, 2017, pp. 39-87), implica anche una forma di auto-distruzione; insomma, non c’è rivoluzione – e quella di Medea rappresenta una rivoluzione potentissima perché riscrive il destino della donna e della straniera e, ancora più in generale, di chi è la vittima – che non imponga un conto salatissimo da pagare. D’altronde, se non fosse così, non ci sarebbe per la donna della Colchide una vera posta in gioco: squarciare il potere degli uomini. Qualsiasi rivoluzione degna di questo nome, infatti, richiede la perdita di ciò che è nostro; dell’oikos, del privato; prevede che chi la lascia deflagrare muoia almeno un po’ insieme al mondo che sta sotterrando.

La prima rivoluzione di Medea, quella delle origini, che le fa lasciare la casa del padre, ossia il ruolo di figlia e sacerdotessa mansueta, implica la devastazione dei rapporti familiari originari. Niente di meno, grazie a un’esperienza di destituzione dell’immagine di sé, una passione che lacera ogni consuetudine, che ci fa vedere chi siamo veramente, l’amore, fa a pezzi il fratello (rilevando in questa maniera la sua distanza da un’altra celebre, ma chissà, più docile ribelle, Antigone).

La seconda rivoluzione di Medea, quella che un po’ azzardatamente sin da adesso si potrebbe definire “politica”, cioè quella che demolisce la Legge del sovrano, pretende ancora di più; reclama un gesto estremo, fino a tagliare una parte di sé. Attaccare efficacemente chi comanda prescrive un sacrificio impensabile: interrompere l’essere madre uccidendo i propri figli. Il gesto di Medea in effetti non decapita soltanto il potere maschile. Con Euripide, il suo mito fa un passo in avanti: lacera l’immagine della donna che in nome dei propri figli è disposta a sopportare tutto. Medea non accetta compromessi con Giasone; non vuole più avere nulla in comune con lui; nulla che testimoni l’amore di un tempo. Arriva un momento, di fronte all’oltraggio più grande, alla sua micidiale negazione come donna e madre, in cui la separazione deve diventare assoluta; bisogna diventare spietati, innanzitutto con sé stessi, e prendere congedo da ogni cosa. Medea appare grandiosa: rifiuta tutte le offerte di Giasone che dovrebbero calmarla; è indignata, disgustata dalla trivialità di un uomo per cui è stata disposta a tutto.

Nella tragedia di Euripide generalmente si sottovaluta un’affermazione di Medea: è la presenza dei figli a rendere il comportamento di Giasone imperdonabile. Se fossero stati solo loro due, avrebbe potuto anche sopportare l’infamia (vv. 490-491). Ma consegnare anche ai due ragazzi un destino ambiguo, certamente meno nobile di quello dei prossimi, probabili figli di Giasone con Creusa, non è tollerabile per Medea. Ciò che Medea non si perdona è di condividere due figli con un uomo che in fondo la disprezza. Diventa urgente a questo punto, per quanto spaventosa, una reazione; che per quanto possa apparire paradossale, punta il dito proprio su ciò che non si può perdonare a Giasone: di avere stretto con Medea un’alleanza che va oltre la mera, accecante passione tra un uomo e una donna. Avevano molto di più; è questo eccesso, l’eccedenza che testimoniava il loro amore, che la vendetta di Medea vuole colpire e cancellare.

La grandezza della Medea di Euripide è in fondo che Giasone non è un padre assente e disinteressato; non appare soltanto un guerriero e avventuriero e niente di più. Tutto in effetti sarebbe stato più semplice se Giasone si fosse mostrato indifferente alla sorte dei figli. Invece lui, lo dichiara a Medea, non gli vuole fare mancare niente; anzi, proprio per questa ragione sostiene andrebbe in sposo alla figlia del tiranno di Corinto. Ma è proprio questa buona attitudine paterna a fare infuriare Medea e a non lasciarle vedere vie di fuga alternative, se non replicare ciò che già conosce: la morte di chi ama. Infatti, è proprio l’amore verso i figli da parte del padre, che fa capire a Medea che lei non ha un posto nel progetto di Giasone.

I figli che Medea uccide sono veramente suoi? Giuridicamente sarebbe assai problematico sostenerlo: legata in Grecia con un Greco non può vantare nessun riconoscimento ufficiale del proprio legame materno. Allora, paradossalmente, diventano suoi solo quando li assassina1. Certo, Medea li assassina per vendicarsi di Giasone; ma non è tutto: li sopprime perché non affrontino un giorno la sua sorte considerando la loro discendenza equivoca. Ma chissà: si potrebbe pensare che li ammazza anche perché forse non diventino in futuro come il padre: che non possa vedere i propri figli ereditare un patrimonio di gesti tanto meschino. Li uccide perché nessuno osi pensare che non si debbano fare i conti con lei; li uccide per dimostrare che solo lei, disperatamente, li ama.

2. Problemi nietzscheani

Chi è allora Medea tra le mani di Euripide? Il suo mito travalica la sua vicenda amorosa? La morte dei due figli, la scagiona dal desiderio maschile e dalla fantasia del potere? C’è chi, in fondo, nella storia di Medea, per come la maneggia Euripide, riconosce, seppur trasfigurata ed estremizzata, una vicenda qualsiasi. Paradossalmente tutt’altro che una tragedia, dal momento che, caratterizzata da amori, litigi, tradimenti, appare impegnata a veicolare un messaggio politico chiaro: riconoscimenti e diritti per donne di Atene.

È cosa notissima: nel suo esordio filosofico contro la filosofia, La nascita della tragedia, il giovane Nietzsche se la prende con Euripide, denunciando la mediocrità del suo realismo estetico che sarebbe chiamato a farla finita con l’estasi dionisiaca e la sua sublimazione apollinea. L’operazione di Euripide, secondo Nietzsche, è organizzata mediante la messa a punto di due espedienti tecnici cruciali: il prologo e il deus ex machina.

Ricordiamo rapidamente la posizione di Nietzsche: la rilevanza del coro e della musica nella tragedia implica un ridimensionamento critico del valore della narrazione; del peso dell’azione drammatica; del primato del dialogo. La tragedia, secondo Nietzsche, è un’estetica delle rotture, di eventi scenici governati da un’imprevedibile tensione corale. In fondo, allora, la crisi della tragedia avviene proprio quando Euripide intensifica, ben al di là di qualsiasi prudenza, la dimensione discorsiva sulla scena. La scena tragica euripidea, in questo senso, sarebbe il venir meno del tragico2. Di per sé infatti, qualsiasi cosa rappresenti o ci faccia vedere, per natura un’immagine non è mai del tutto intollerabile già solo per il fatto che la riusciamo a vedere. L’immagine pure di un evento terribile ne mitiga l’impressione perché impone, in qualche modo, una forma di elaborazione. L’ossatura del tragico, l’implicazione di responsabilità e innocenza, di colpa e purezza, è ciò che materialmente rende il tragico impossibile; impossibilità del tragico, a questo punto, è ciò che essenzialmente la tragedia rappresenta. Perché laddove c’è un’opera, che sia anche la più cupa, amara, priva di speranza, in realtà, è già una presa di distanza dall’inospitalità del tragico. Euripide, secondo Nietzsche, ci fa vedere tutto ciò, permettendo, retrospettivamente, di capire il valore di un’impresa estetica come la tragedia.

Cosa non sopporta Nietzsche delle figure tragiche di Euripide? Probabilmente l’eccesso di consapevolezza di sé; l’accortezza, la logica spietata. In effetti, persino Medea, che dovrebbe incarnare al massimo grado una dimensione ferina, selvaggia, sfigurata dalla passione amorosa, in realtà, dimostra una consapevolezza del conflitto uomo-donna, del proprio ruolo di vittima sacrificale strabiliante. Medea, ad esempio, è lucidissima quando parla con le donne di Corinto; certo, si rivolge a donne greche, lei straniera, ma donne che comunque ben conoscono la loro posizione subalterna nell’economia della polis. Parla dell’infelicità femminile e della necessità di avere un uomo al proprio fianco per ottenere qualche sicurezza e riconoscimento. Ma soprattutto sferra un attacco inaudito ai doveri dell’oikos come luogo radicalmente separato dalla polis. La guerra vera, ad esempio, per Medea si consuma non in prima nei campi di battaglia ma sempre dietro le mura della (propria) casa.

La nascita della tragedia dunque elabora una formulazione radicale e sostanzialmente inedita dei motivi che conducono all’eclissi della cultura tragica greca: la tragedia sarebbe morta suicida; è scomparsa, cioè, “tragicamente”. Euripide compierebbe quest’esecuzione deturpando la potenza del mito nella definizione dell’arte tragica ed espellendo dalla tragedia la sua componente dionisiaca, logorando, in questa maniera, la complessità della situazione teatrale. A fare le spese di questo mutamento non è, però, semplicemente l’avversario dichiarato di questa operazione, Dioniso, ma sarebbe travolto anche l’impulso apollineo ridotto, tra le mani di Euripide, a nient’altro che a un espediente drammatico. Euripide in sostanza, secondo Nietzsche, si limiterebbe a imitare la tensione tragica ma non a vivere la sua carica abissale. Ci riesce perché trasformerebbe il mito in storie da raccontare e in questa maniera lo addomesticherebbe, portando la sua forza in un campo principalmente estetico. Quest’azione di auto-sabotaggio, sostanzialmente, si realizza mediante una sofisticata ambientazione familiare; ossia, assegnando grande rilevanza alle esigenze del pubblico tramite una razionalizzazione/storicizzazione della vicenda mitica: “Per opera sua l’uomo della vita quotidiana si spinse, dalla parte riservata agli spettatori, sulla scena” (Nietzsche, 1972, p. 71).

Non sarebbe qui il caso neanche di ricordare che se La nascita della tragedia indica in Euripide il basista del delitto-suicidio, evidentemente secondo Nietzsche il poeta tragico non fa tutto da solo. Anzi, la sua vena lirica è corrotta da chi si incarica di rinnovare lo statuto del sapere e della cultura greca alla fine del V secolo: Socrate. La nascita della tragedia notoriamente, refrattaria a qualsiasi cautela ermeneutica, consegna Euripide nelle mani di Socrate; vale a dire, la tragedia al dominio della coscienza. In Euripide si svilupperebbe un vero e proprio inquinamento artistico cui Nietzsche dà un nome per certi versi paradossale: socratismo estetico. La filosofia, come pratica teoretica, prende materialmente la scena nella vita culturale di Atene, cancellando le tracce del dionisiaco; in nome del logos, dell’ordine, della plausibilità drammatica. Socrate, naturalmente, non è il solo a organizzare la schiera di forze anti-dionisiache, altrimenti non avremmo lo stesso Socrate, ma porta la responsabilità più grande perché condurrebbe questa tensione a “un’espressione incredibilmente grandiosa” (p. 59).

Le due principali novità sceniche introdotte da Euripide, il prologo e il deus ex machina, che avrebbero il compito di tradurre a teatro la lezione socratica, mitigherebbero la potenza del tragico, fornendo allo spettatore le coordinate che dovrebbero tenere sotto controllo il pathos gestendo le emozioni. Ma soprattutto sono due espedienti che introducono una grande bestemmia contro Dioniso: la fiducia di una sintesi dialettica in grado di conciliare, seppure in un’atmosfera inquieta, le tensioni tragiche. Euripide in questo modo, logorando il legame, la “fratellanza”, che unisce nella lotta Dioniso e Apollo, organizza una forma di realismo che costringe lo spettatore a riconoscersi nelle vicissitudini dell’eroe tragico che fatalmente, a questo punto, non è più assimilabile a una maschera di Dioniso (l’eroe tragico è chi resiste al tragico; chi nonostante la catastrofe non si dà per vinto). Euripide invece di provocare lo spettatore a uscire fuori di sé, a perdersi, a lasciarsi andare a ciò che non comprende, lo rassicura e consegna a una realtà, che per quanto difficile, può riconoscere e nella quale sa orientarsi. Euripide fa tutto ciò sbilanciando il delicato equilibro, che dominerebbe la tragedia eschilea e sofoclea, tra la musica e la parola: favorendo la seconda ai danni della prima, storpia irrimediabilmente il valore anti-naturalistico dell’arte tragica. Euripide dunque, almeno sino alle Baccanti, sarebbe caduto in una trappola: il suo teatro si impegna a dimostrare che quanto più l’arte rispecchia la realtà, tanto più si approssima alla verità. Da parte di Nietzsche, in realtà, non si fanno sconti: le Baccanti, l’ultima tragedia euripidea, che pure esalta la potenza di Dioniso, è, in fondo, la prova di una ritrattazione giunta oramai troppo tardi, quando la tragedia non può essere rianimata perché consegnata a una forma di addomesticamento culturale e inserita in una costellazione estetica dove domina una forma di naturalismo3.

Quotidianità, famiglia, esigenze del pubblico: Euripide dilapiderebbe il valore del mito nell’economia della rappresentazione tragica mettendo la sua funzione al servizio della polis, della conoscenza, della convenienza sociale. Per La nascita della tragedia, Euripide del tragico non ci avrebbe capito niente perché lo fa capitolare ai danni del logos filosofico, tanto che pure una barbara come Medea, tra le sue mani, si rivela in grado di ragionamenti finissimi, dialettici proprio nel momento in cui tutto dovrebbe fare tranne che ragionare come un filosofo qualsiasi. Euripide, in questo modo, metterebbe l’azione sotto la tutela della riflessione; il mito sotto quella del potere.

Medea dunque potrebbe materializzare la critica più pesante di Nietzsche al lavoro di Euripide: Euripide opera la separazione tra il tragico, ciò che è per principio irrappresentabile, e la tragedia, ciò che opera l’impossibile rappresentazione (onirica) del tragico. La lacerazione di questo legame, in fondo, fa della tragedia nient’altro che una tragedia, un’opera d’arte, un dramma, ma non più lo spazio dell’inconcepibile tensione dionisiaca.

3. Oltre il diritto

Le cose con la Medea di Euripide stanno davvero in questa maniera? Ha ragione Nietzsche? Pure nella tragedia che mette in scena l’impensabile, il mostruoso per eccellenza, l’infanticidio commesso da una madre, il mito si risolve in una saga familiare? Il prologo, effettivamente, sembra prepararci ampiamente al peggio4: nelle parole della Nutrice, certo, ascoltiamo la sventura della straniera, la sua sofferenza, la nostalgia della Colchide che ha tradito per essere ingannata. Veniamo a conoscenza del vile comportamento di Giasone – l’uomo non avrebbe truffato solo la donna ma anche i suoi figli – e della sua sete di potere e del suo impegno per mettere le cose giuridicamente a posto. Ma non è tutto; c’è molto di più: la balia non nasconde che Medea “odia” (“stugei”, v. 36), rifugge, detesta i propri figli!: “Temo che mediti qualche cosa di grave” (v. 37). Non soltanto nel prologo, ma anche nel primo dialogo della tragedia, quello con il pedagogo, la Nutrice non lascia margini a dubbi sullo sguardo che Medea lancia verso i figli: “L’ho vista mentre li fissava con occhi torvi, come se volesse fare qualcosa” (vv. 92-93). Neanche la Nutrice probabilmente può sospettare fin dove si spingerà la rabbia di Medea; eppure, il terreno è preparato, l’avvento dell’inaspettato, l’irruzione dell’estrema violenza, sgonfiata. Il terrore è depotenziato; il mito addomesticato nella sua irreparabile sacralità.

Il carattere della straniera, il suo aspetto psicologico e morale, nel prologo risulta ben definito e in particolare risalta già la sua indole antitetica a quella del femminile greco (lo riconoscerà più avanti, con la tipica chiarezza che in qualche caso concede la disperazione, meglio di ogni altri proprio Giasone: “Nessuna donna greca lo avrebbe fatto”; vv. 1339-1340). Non dovremo attenderci da questa donna né la disponibilità ad adattarsi alla nuova situazione né alcuna forma di sudditanza di fronte agli ordini dei padroni di casa (Tedeschi, 2010, p. 100). D’altronde, pure maneggiando una vicenda terribile, in uno scontro tra civiltà e barbarie, dove non sempre si comprende quale sia il mondo civile e quello barbarico, in realtà, Euripide sembra consegnare, almeno a prima vista, il conflitto tra Giasone e Medea a un affare di tradimenti, letti, semplice cinismo e meschinità varie. Insomma, ordinaria, squallida amministrazione della vita quotidiana. E non ci sarebbe neanche da ricordare il finale della tragedia per dare ragione a Nietzsche che incredibilmente, non prevedendo alcuna punizione per l’agghiacciante vendetta di Medea, trova una via d’uscita che permette alla tensione criminale di sciogliersi: Medea, nipote del Sole, svanisce in cielo su un carro alato con i cadaveri dei figli non consentendo a Giasone di salutarli un’ultima volta.

Dunque: Nietzsche ha ragione? Potrebbe Medea dare credito a questa funzione dell’arte: “Soltanto lei è capace di volgere quei pensieri di disgusto per l’atrocità e assurdità dell’esistenza in rappresentazione con cui si possa vivere”? (Nietzsche, 1972, p. 60). La tragedia di Medea non ha nulla di tragico? Niente di più che un dramma familiare? D’altronde, è certo che Medea non è una figura del dionisiaco: la sua specialità è la morte, non la vita.

Tuttavia la fondatezza delle critiche di Nietzsche nei confronti di Euripide, se valutata dalla prospettiva della Medea, in realtà potrebbe apparire esagerata; in fondo la tragedia mette in scena l’inimmaginabile, una scia di sangue terrificante e parla di una donna senza pietà neanche verso la propria discendenza. Insomma, non sembrerebbe mettere in scena vicende di vita quotidiana in cui lo spettatore potrebbe proiettare le proprie esperienze. Non c’è allora un resto equivoco in questa donna che forse scappa via dalle mani di Euripide? E nel caso, dove si anniderebbe la spirale di Medea che le permetterebbe, grazie alle sue molteplici identità (Fracalanza, 2018), di evadere qualsiasi griglia interpretativa che irrigidisca troppo le cose?

La Medea può eludere la cattura di Nietzsche? L’ipotesi qui in gioco è che Medea nasconda, come dire, senza neanche saperlo, una mirabile e sconcertante carica politica; celata e paradossale determinazione che potrebbe mettere in discussione – almeno nel caso delle vicende della sacerdotessa della Colchide – la lettura nietzscheana del teatro euripideo. Dimensione politica, naturalmente, che non avrebbe nulla a che fare con la polis; piuttosto lavorerebbe incessantemente ai suoi confini, bordi, eludendo qualsiasi configurazione istituzionale, ma rilevando i suoi lineamenti come una lotta per la vita e la morte. Tanto è vero che questa eventuale, incosciente politicità di Medea si attiverebbe soltanto quando la donna è colpita da una figura giuridica estrema come quella del bando. Sulla soglia dell’umano, né viva né morta, decide di distruggere tutto; prima di ogni altra cosa, naturalmente, il legame più grande: l’amore. Il gesto di Medea, in realtà, da un punto di vista ermeneutico canonico, andrebbe considerato indubbiamente estraneo all’orbita del politico; lei rifiuta la polis, il nome del padre, la vita civile. Tuttavia, osservando la questione da un’altra angolazione, si potrebbe notare che la sua distruzione del potere esprime un carattere selvaggio che, in realtà, appartiene probabilmente alle viscere del politico riuscendo persino a evocare ciò che dovrebbe essere un segno proprio del politico5: l’impossibile. Sarebbe questo un carattere assurdamente politico, che veramente politico non è (ma forse iper-politico? Ultra-politico? ecc.), in personaggi apparentemente antipolitici, che in particolare Nicole Laroux coglie in alcune insospettabili figure femminili della tragedia greche6. Si tratterebbe, come si diceva, di una politica non della polis – si scaglia, anzi, contro “l’ideologia della città” – ma che lavora ai suoi margini, minoritaria, femminile, fortemente conflittuale, spudoratamente destituente. Figure destinate, prima di ogni altra cosa, a ricordare che la politica prima che un’arte di governo, ritrae una strategia dei conflitti di cui la città non si può disfare sperando di funzionare normalmente, senza venirne a sua volta devastata.

Se quello di Medea fosse un gesto politico, da cui non si salva nessuno, neanche in fondo Medea, almeno come madre, potremmo smettere di credere, come pensa Nietzsche, che si tratti di una donna che pure quando dovrebbe perdere la ragione ragiona benissimo? Al contrario, si potrebbe aprire uno squarcio in grado di condurre il tragico al di là della tragedia? Sia chiaro, lo ripeto, l’involontaria politicità di Medea, la sua determinazione al conflitto senza vie d’uscita, sarebbe del tutto estranea alla tradizionale e generica visione che implica una connessione, certo problematica, tra la tragedia e gli assetti istituzionali della polis. Eppure, senza sapere ciò che veramente fa, proprio quando sembra pensare solo a sé stessa, Medea dimostra che tutto, pure l’impossibile, è possibile, perché il suo rifiuto del comando politico scatena l’imprevedibile, sino a decapitare la sovranità della polis.

È stato innumerevoli volte ripetuto: Euripide probabilmente è chi più ogni altro lega, tra i poeti tragici, la tragedia ai patemi politici della città. D’altronde, secondo la prospettiva nietzscheana, sarebbe questa una delle sue responsabilità più gravi: traghettare l’arte tragica in una dimensione urbana e quindi in una situazione dove lo spettatore si potrebbe identificare con i travagli che sono sottesi alla narrazione delle sue vicende. Nietzsche, lo dicevamo, imputa a Euripide l’inconsistenza di una trasposizione del tragico in termini drammatici perché una vera empatia estetica con la sua potenza non può passare attraverso la sua rappresentazione realistica; altrimenti la caratura tragica della rappresentazione teatrale sarebbe trasformata in un fenomeno quasi triviale. Evidentemente, chi agisce in questa maniera, chi si impegna a fornire del tragico un’immagine realistica, nei cui confronti lo spettatore può stabilire, seppure nell’orrore, una relazione mimetica, viola ciò che di più essenziale esso prevede: la sua irrappresentabilità. Se la tragedia è il punto più alto della convergenza della rappresentabilità dell’irrappresentabile, la defenestrazione euripidea di Dioniso taglia le gambe alla capacità della tragedia di evocare il tragico che la alimenta e tormenta. Nondimeno, va ribadito, la tragedia di per sé è già una presa di distanza dal tragico.

Nietzsche considera il teatro euripideo situato al di là della tensione tragica, dal momento che coincide, pur quando è con esso fortemente critico, con lo spirito della polis: il personaggio euripideo è libero dalla condanna preventiva che opprime l’eroe tragico in Eschilo e Sofocle. I motivi di ascendenza mitica degli assassini, come, ad esempio, quelli dell’Orestea, sono ridotti in Euripide a ragioni prosaiche; d’altronde, se si tiene conto della necessità che governa l’ordine mitico, è significativo che nel suo teatro si celebri sovente la libertà di chi agisce nei confronti del responso oracolare (modello, in questo senso, famoso ed eclatante, e chiaramente polare alla situazione eschilea, è l’altalenante atteggiamento di Agamennone nell’Ifigenia in Aulide sull’eventualità o meno di sacrificare la figlia alla luce della sentenza di Calcante). In altri termini, ciò che sta prima della rappresentazione, il passato mitico, assume in Euripide quasi un rilievo accessorio. La conseguenza più importante di questa anestesia del mito è che il teatro di Euripide pare svilupparsi in maniera completamente manifesta: è sulla scena; perché, prima di ogni altra cosa, rimane la polis il suo problema. Ad esempio, la denuncia, tipica di Euripide, del diritto del più forte, va collocata nel dibattito cittadino di fine V secolo che lacera Atene con la manifestazione di diverse teorie della giustizia, senza, quindi, investire, come avviene ancora in Eschilo e Sofocle, la questione della formazione della polis in relazione a ciò che essa non è. Non si discute, lo dico qui forse troppo brevemente, il conflitto tra la giustizia poliade e quella mitica; piuttosto, quale ordine costituzionale è il migliore per la polis. Con una schematizzazione, chissà, forse illegittima, non mancando le eccezioni (senza dovere citare di nuovo il caso estremo e plateale, e controverso, già fonte di inquietudine per Nietzsche, delle Baccanti), il teatro di Euripide, si potrebbe sostenere, si identifica, o almeno tende quasi completamente ad identificarsi, più o meno criticamente, con lo statuto politico della città.

Se Euripide, per sintetizzare, problematizza la polis dall’interno, ciò implica l’esaurimento del compito storico della tragedia: la scena tragica nasce, innanzitutto, per tracciare il confine, il limite della polis, per cui ciò che sta “dentro” la città la riguarda soltanto marginalmente. La produzione euripidea slitta, in modo più o meno lineare, da un senso ancora speculare al significato essenzialmente equivoco della tragedia, per quanto già in questo caso più polarizzato rispetto alla sua origine, sino ad un vero e proprio pervertimento e sconfessione del suo spirito. Euripide esaurisce l’esperienza tragica, dal momento che non vi discute la città in quanto tale, piuttosto le sue qualità; se sia, ad esempio, più o meno giusta. Il problema, ad esempio, è il cinismo di Atene, la città determinata dalla propria identità e potenza civile, e non l’inquietudine sull’origine della polis. Ciò si rivela palese nel ciclo delle donne sconfitte, Andromaca, Ecuba, Troiane, e specialmente con la figura della regina di Troia, Ecuba, attraverso cui si insinua l’idea che sia proprio l’edificio del Nomos politico a promuovere l’ingiustizia negli Achei.

Per spiegarci meglio, torniamo a un tema cruciale anche per la Medea. Un argomento ricorrente della tragedia, ma esplosivo in Euripide, come sappiamo, è quello dell’esilio, ossia di come la città, con la legge, rinunciando al sangue, fa giustizia di una parte di sé ritenuta ingiusta: nel bando si discute della repulsione di chi revoca in dubbio l’identità del politico, quindi di come la polis emargina ciò che non si lascia assimilare. Nelle tragedie euripidee, per il diverso, sia esso un barbaro o un Greco fuori dal comune, è impossibile sostenere la propria differenza: i valori della polis sono gli unici accettabili; non c’è spazio per altro. La città s’impone quale spazio irrefutabile dell’uomo greco e quindi il conflitto tra mito e polis, che costituisce la tragedia, si disperde in situazioni per buona parte estranee alla sua fisionomia tradizionale.

Nella Medea, Giasone, il campione del realismo politico, a una Medea inferocita dall’ipocrisia del padre dei propri figli, amareggiata per quanto escogitato un tempo a favore dell’uomo ora disposto ad abbandonarla, le rammenta quanto lui le ha donato: la civiltà della legge (questo è un argomento caro a Euripide, che ritorna nelle parole di un altro personaggio greco negativo, l’Ermione dell’Andromaca, la quale, aggredendo la moglie di Ettore, ed ora, con la fine della guerra, amante di Neottolemo, Andromaca, la disprezza per ciò che le manca: la virtù del nomos). Giasone: “Tu abiti nell’Ellade invece che in terra barbara e sai che cosa è la giustizia e godi delle leggi, senza ricorrere alla violenza. Poi, tutti, gli Elleni, conoscono la tua sapienza e ne hai ottenuto fama: ma se abitassi agli estremi confini del mondo, non si farebbe parola di te” (vv. 536-541).

Se la Grecia si auto-percepisce come la patria del diritto, dal momento che, per imporre la giustizia, non evoca la violenza del sangue, il tradimento dell’oikos da parte di Giasone, per accedere senza zavorre alla sfera del potere, svela il carattere algido e spietato del nomos. Se la virtù politica della Grecia si rivela un guscio vuoto, il personaggio di Medea assume i tratti grandiosi e mostruosi del demone sanguinario, una figura sostanzialmente ingestibile con l’ordine della legge. Viene infatti bandita (è “atimos”, v. 438) da Corinto: disonorata, espulsa dalla città con l’applicazione della figura limite del diritto greco, si divincola proprio dall’estrema presa della legge, dalla condizione di inclusione nell’assoluta emarginazione.

Medea non accetta la pietà di Giasone, che, melenso, le vuole agevolare l’esilio con offerte volgari. Allora annienta l’oikos, la traccia dell’altro per eccellenza all’interno della polis, per evocarne, in realtà, la potenza come irriducibile differenza: decreta l’esistenza di un’eccedenza, di un resto rispetto al logos politico della città. Ciò che non si identifica con la polis, per continuare a vivere, nel teatro euripideo, scompare. Medea strazia ciò che la politica esclude per imporne, nell’assenza, la presenza assordante. Difende, sino ad eliminarli, i figli dalla terribile esistenza dell’escluso, dell’apolide e, quando il re di Corinto concede loro, a differenza della madre, un destino diverso da quello dell’esilio, la sua determinazione rimane comunque impassibile: li uccide. L’altro dalla polis non si lascia né assorbire né abbandonare: con la sua emarginazione, il politico ricerca la situazione ideale della propria purezza, ma, in realtà, ciò che viene escluso, trova il modo di persistere, di lasciare pesare la propria umiliazione. Medea è la voce dell’esclusione che non si può che esprimere, in quanto decapitata di un ruolo sociale nella polis, con violenza. Non fa giustizia, ma pone la politica, annullando ciò che essa dimentica, al cospetto del proprio limite: rende indimenticabile, con la propria colpa, la pena del politico, esemplificando il pericolo del suo esercizio meramente formale, giuridico, in definitiva impassibile. L’appello sconvolgente a Dike di Medea, prima di compiere la strage dei fanciulli, oltre a testimoniare della sua passione (thymos) illimitata, denuncia quanto la città greca del tardo V secolo, fondata sull’ordine simbolico del diritto, sia lontana dalla Giustizia, mentre quest’ultima, al contrario, può essere vicino a chi, pur commettendo ingiustizia, non la lusinga cinicamente.

La Medea interpreta l’inquietudine della polis: l’ambito non esposto al pubblico, teso geneticamente a sottrarsi al controllo cittadino. Vi si rappresenta la provocazione dell’estraneo all’interno della città che la polis, mediante l’atimía, il bando, cerca di assorbire, perché non ne sa gestire al proprio interno la contraddizione e provocazione che sprigiona. L’esilio rappresenta una mossa disperata da parte della città che non riesce ad amministrare la presenza della molteplicità irriducibile all’uno del potere; per questo motivo Euripide giudica la soluzione immunizzatrice inefficace perché tanto distruttiva almeno quanto il male che dovrebbe neutralizzare.

La pura esposizione della propria vita senza alcuna garanzia come decisione del politico è l’infamia a cui Medea si ribella; l’assassinio dei figli testimonia l’impossibile esclusione da parte della polis dell’ignoto, dell’altro, senza che si provochi un eccesso di violenza intestina in grado di revocarne la vigenza. Medea colpisce il corpo dei figli per scrivere con il sangue dell’innocenza, con la morte degli esseri da lei più amati (e forse per questa ragione anche detestati), la sua estraneità rispetto al logos politico di Giasone. Si ribella alla decisione che suggella il tempo dell’infelicità, ossia, come fa già ad esempio l’Elettra di Sofocle, Medea non si lascia schiacciare sulla zoé (ossia, sulla realtà sociale della donna; non si identifica pacificamente con la propria sventura). Un potere ingiusto suscita, per porre rimedio all’ingiustizia, da una posizione di esclusione, ingiustizia: Medea si fa giustizia da sé perché comprende che per lei non c’è altro destino se non divenire una supplice vagabonda. Non ricalca quindi l’esperienza di Antigone: a differenza della donna tebana, che vive e muore per il fratello, lei, per amore di Giasone, recidendo il legame con il mondo delle origini, il fratello, Apsirto, lo uccide. Violentata dalle ragioni del cinismo politico, le si scaglia contro con una forza di segno opposto, raffigurando, quindi, diversamente dalla figlia di Edipo, non una potenza disposta soltanto oltre la legge del politico, ma la rifiuta e aggredisce squassando la sua logica (a causa sua, con i suoi figli, muoiono sia la promessa sposa di Giasone, che il padre di lei, il re di Corinto, Creonte).

Nella Medea, Euripide rappresenta, con toni allucinati e drammatici, la stagnazione di un potere ingiusto, avvilito da ciò che gli cova in seno, cieco verso la forza di ciò che viene da lontano, da fuori, e non si lascia amministrare dalla legge. Come se il mito di Medea, portato a un punto estremo di radicalità narrativa, con la morte dei ragazzi, sfuggisse persino dalle mani di Euripide: la sua critica della rigidità della polis giunge al punto di rilevare come la dimensione anarchica, senza legge, che Medea incarna in maniera esemplare, è il presupposto su cui, paradossalmente, deve fiorire la storia di una città tenendo insieme, prima e oltre ogni intesa giuridica, i suoi abitanti a partire da ciò che non li tiene insieme: le loro differenze. Altrimenti, se costantemente ingolfata da mediazioni, negoziati, accordi, stratagemmi, la polis rischia di perdere il suo valore simbolico, la sua forza. In fondo, non c’è altra ragione che induca Euripide a inserire nel mito della sacerdotessa della Colchide l’infanticidio: esso rivela che cosa comporta l’esclusione simbolica al proprio interno, nella polis, di ciò che ognuno di noi in fondo è: straniero, differente, vittima e carnefice.

L’impressione è che nella Medea, una delle sue prime tragedie, Euripide conduca il problema della polis, malgrado, probabilmente, le sue stesse intenzioni, “fuori” la sua ideologia; qualcosa riesce, seppure con difficoltà, a espatriare oltre la logica della città (pro o contro di essa). Medea è il nome di ciò che, venendo da lontano, dai limiti del mondo, come da un altro pianeta, è in grado di ridurre in pezzi, se violentata a fare violenza, se mortificata nel proprio desiderio, qualsiasi cosa; anche il valore supremo dei greci: lo sguardo dell’emarginata annichilisce il presunto eroismo degli uomini.

Bibliographie

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Notes

1 Cfr. Cantarella, 2007. Retour au texte

2 Più ampiamente, per un’analisi del problema del tragico nel giovane Nietzsche, cfr. Amato, 2016. Retour au texte

3 Sulle Baccanti, per l’economia del nostro discorso, è utile segnalare un volume prezioso: AA.VV., 2007. Retour au texte

4 Nota, tra gli altri, il carattere particolare del prologo della Medea, rispetto agli altri preamboli nelle tragedie di Euripide, in questo caso non mero resoconto espositivo, ma anche momento di analisi e “comprensione” di Medea, Adriani, 2006, pp. 9-13. A questo proposito, sulla rilevanza speciale del prologo nella Medea, e più in generale per un’introduzione ampia e ragionata al mito di Medea, vedi anche Bettini, Pucci, 2017. Retour au texte

5 Uno che conosceva bene Medea, Pier Paolo Pasolini, parlava a proposito di questo impulso politico irrefrenabile, selvaggio, di collera. Walter Benjamin, invece, qualche decennio prima, nelle Tesi sul concetto di storia (1940), in polemica con la logica giuridica della sovranità, considera l’odio un elemento essenziale nella lotta contro il fascismo. Retour au texte

6 Tra i magnifici studi di Nicole Loraux, si può ricordare qui almeno, Loraux, 2001, in part. pp. 46-47. Per una lettura più canonica dello spessore politico della tragedia greca, cioè, interamente giocata allo specchio con la città, vedi almeno Meier, 1988. Retour au texte

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Référence électronique

Pierandrea Amato, « Esilio, rivoluzione, solitudine », K [En ligne], 8 | 2022, mis en ligne le 01 juin 2022, consulté le 18 mars 2025. URL : http://www.peren-revues.fr/revue-k/986

Auteur

Pierandrea Amato

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