Il sublime e il mostruoso

La tragedia della bellezza assoluta

DOI : 10.54563/revue-k.1448

Résumé

The contribution considers the beauty of Helen under the category of the sublime. This perspective allows us to consider that there is an impossible foundation to the Trojan War, a void that reveals that perhaps even in the Iliad a reason for war is missing. Euripides, in the tragedy Helen, radicalizes this trait, taking Helen to the realm of the dead, for a radical destruction-regeneration of her image.

Index

Keywords

sublime, Helen, Euripides, image, Menelaus

Plan

Texte

Insieme ad altri l’ho distrutta e
ho distrutto anche me stesso […]
nemmeno delle mura c’è più traccia
Teucro in Euripide, Elena

Altrove sarai anche stato un gran generale,
una persona insigne, ma qui non sei un bel niente.
Vecchia in Euripide, Elena

1. Terribile splendore

Il mito della fondazione dell’epos occidentale, nell’Iliade, prende le mosse dal vortice di tensioni, emozioni, scelte, che la straordinaria bellezza di una donna scatena: Elena. È lei ad accendere gli animi degli uomini e a provocare l’ira, le virtù, il coraggio, i risentimenti, la violenza, le offese, l’onore, gli intrighi, l’amore, la gamma molteplice di valori che definiscono i vettori di orientamento di una cultura, ispirando una vasta serie di archetipi che si cristallizzano nella trama di un’immane carneficina. L’ambizione di possedere una bellezza senza pari, quella di Elena, fornisce il movente di una vicenda che si rivela una sequenza ininterrotta e terrificante di lutti: eros e morte sublimati in una bellezza straordinaria provocano una scia di sangue tremenda. Fare i conti con il desiderio di Elena, con la sua aspirazione a dismettere i panni di madre amorosa, di sposa devota, di regina oculata, evoca un magma della distruzione nel quale la rovina riguarda tutti, vincitori e vinti.

Eppure, nonostante Elena sia la causa di ogni male, o, chissà, proprio per questa ragione, questa donna permane un enigma, un mistero, o, come pure è stato detto, un vuoto.

Chi è Elena?

L’ipotesi che guida la composizione di queste pagine è che Elena, la moglie di Menelao, la concubina di Paride, la regina di Sparta, la favolosa adultera della Grecia classica, la regina straniera, la madre disinteressata, la donna travolta dalla passione, la figlia ingrata, la sorella indifferente, la causa d’indicibili dolori per il proprio popolo (Elena, come Achille all’inizio dell’Iliade, conserverebbe enormi responsabilità per le “molte vite” perdute degli Achei) e della rovina totale per chi l’ha ospitata, sia una straordinaria materializzazione di un gorgo a cui soltanto, se fosse effettivamente lecita una lettura del genere, la filosofia romantica è in grado di consegnare un nome: il sublime. Nel sublime, infatti, la figura di Elena potrebbe recuperare una sonda in grado di fare luce sulla sua tenace indecifrabilità e fornire quindi un’indicazione per lasciarci intravedere un movente – o, paradossalmente, la sua assenza – degli avvenimenti che conducono alla scomparsa di Troia.

La categoria di sublime, almeno qui, nomina ciò che per principio un nome non dovrebbe averlo, perché semplicemente coincide con un’esperienza che si rivela incomparabile, pressocché indicibile. Ciò che, si potrebbe pensare, nella vita eccede la vita, quel che nella vita non è vita, eppure, chissà, sembra ritrarne la filigrana più essenziale e per questa ragione ostinatamente fuori misura. Tutto ciò riguarda Elena: la donna per cui si ammazzano per dieci lunghi anni migliaia di uomini, consegnando alla cultura occidentale il suo epos ancestrale, la sua logica eroica, l’immagine seducente della violenza, l’idea della gloria senza tempo. Elena interpreta una bellezza sublime e per questa ragione, quanto più ci si impegna a possedere questa donna, tanto più è destinata a fuggire dalle mani.

Fare i conti con l’Iliade significa prima di ogni altra cosa tollerare che a fondamento della guerra, dello sterminio di un popolo, dell’affresco glorioso e violento di una cultura, c’è la bellezza; una bellezza, però, come quella di Elena, imparagonabile a nessuna altra, facendo parte, per natura, di un’altra natura. Elena, in fondo, è la donna più bella del mondo proprio perché eccede la bellezza, la sopravanza, l’abbandona persino, a favore di una bellezza talmente grande che non la si può quasi più riconoscere come tale.

Probabilmente la testimonianza più eclatante dell’eccezionale bellezza di Elena, la offrono, nel terzo libro dell’Iliade, gli anziani della città di Troia che, mentre imperversa la battaglia, lanciano uno sguardo verso il corpo della donna e devono, per quanto ansiosi di levarsela di torno, infine confessare:

Non è certo motivo di biasimo (nemesis), se per tale donna a lungo Troiani e Achei dalle solide gambiere sopportano dolori: maledettamente somiglia d’aspetto alle dee immortali; ma tuttavia, pur così bella, sulle navi ritorni, che a noi e ai nostri figli non resti sventura in futuro! (Omero, 2016, vv. 156-160)1.

Il carattere distruttivo, fuori misura, pressocché divino, della bellezza di Elena trova in questi versi famosi una controprova speciale, dal momento che essi fanno riferimento alla nemesi: non è nemesi, non è ingiusto combattere, se lo si fa in nome di una bellezza come quella di Elena. Evocazione notevole perché, per quanto sottile, e pure tenendo conto che in Omero Nemesi non è ancora pienamente personificata, non può sfuggire l’attinenza con la generazione mitica di Elena. La ricordiamo: il suo concepimento è particolarmente conturbante; a seconda delle varianti del mito, che sia la dea Nemesi – e in questo caso Leda sarebbe la gestante dell’uovo di cigno da cui viene al mondo Elena – o direttamente Leda la madre della donna più bella, si è trattato di un atto di brutalità. In effetti, caparbio, pure quando la donna di trasforma in cigno per sottrarsi alle sue intenzioni, Zeus prende le sembianze dell’animale e possiede, con l’inganno, la donna. Possiamo dunque dire che la nascita di Elena avviene nel segno della nemesi, incarnando una risposta all’altezza della violenza affrontata da sua madre: la figlia di un animale immacolato diventa strumento di vendetta; la rovina degli uomini che vogliono farla propria (Susanetti, 2023a, pp. 166-167)2. D’altronde, la stessa Elena non manca di fare i conti con questa procreazione crudele: nell’Elena di Euripide, quando si trova in Egitto, e la speranza di un ritorno in Grecia sembra perduta, non ha difficoltà ad attribuirsi un tratto terrificante: Elena sa di essere figlia di un parto anormale, inquietante, di rappresentare “una mostruosità del genere umano” (Euripide, 2023, v. 256)3.

Elena, non sarebbe neanche il caso di ricordarlo, non è Antigone, Medea, neppure Fedra, Elettra, Ifigenia, o Clitennestra. Tutto sommato per quanto sia la miccia di ogni storia, racconto, epica, nell’Iliade appare quasi dimessa, fuori fuoco, senza storia, senza una storia da raccontare. Nondimeno, propria questa apparente marginalità, questo pallore caratteriale, questo quasi anonimato intorpidito da qualche afflizione, che pare costringerla al ruolo di una donna senza carattere, vittima del destino e del potere maschile, in realtà, lascia affiorare interrogativi intorno a una donna che appare refrattaria a qualsiasi azione e intenzione particolare4. Pensiamo ancora al terzo libro dell’Iliade, dove è una donna in attesa di conoscere un futuro che non le appartiene: aspetta, angosciata, l’esito dello scontro alle porte di Troia tra Menelao e Paride. Assiste allo spettacolo della morte e nient’altro che la destrezza militare di due uomini contrapposti deciderà la sua sorte. Elena addolorata, logorata dai sensi di colpi, è inerme, quasi consumata dalle sue preoccupazioni.

In realtà, questo volto splendente ma avvilito segnala e, allo stesso tempo, tace una vicenda inimmaginabile.

2. Poesia e spettralità

Elena ritrae il femminile che nell’epopea omerica è all’origine di una guerra spaventosa: gli uomini si uccidono per padroneggiare la bellezza assoluta. Portando Elena lontano da Sparta, allora, Paride non soltanto sottrae una regina alla sua città e una donna al suo marito legittimo; fa molto di più: conduce a Troia, in un altro mondo, un’esperienza inconcepibile, un tipo di bellezza quasi divina. Vale a dire, pressocché immortale.

Se la figura di Elena in Omero è indissolubilmente associata alla guerra, in Euripide, che si prende il compito di rimitizzare, demitizzandolo, il mito di Elena, canalizzando i desideri della donna verso una dimensione più familiare, questo legame è reciso. Nella tragedia infatti, come di consueto, le situazioni si complicano, si biforcano, sembrano persino fuori controllo; sino al punto, in Euripide, che non solo Elena non conosce Paride, ma non sarebbe neppure arrivata a Troia. Nell’Elena, è la stessa Elena a chiarire nel Prologo come si sono svolti effettivamente i fatti: Era, attraverso Ermes, per vendicarsi di Paride, che nel famigerato dissidio per pomo d’oro preferisce le lusinghe di Afrodite alle sue, rapisce Elena e la fa arrivare in Egitto. A Troia, a questo punto, invia un simulacro della donna, un eidolon fatto di aria, in grado di confondere chiunque. In Egitto, Elena soggiorna nei pressi della tomba del re Proteo, chiamato a proteggerla dalle intenzioni di Teoclimeno (figlio del vecchio sovrano scomparso), che la vuole in sposa nonostante la donna sia determinata, per quanto non ne conosca ancora il destino dopo la fine della guerra, a restare devota a Menelao5. L’Elena euripidea è una donna fedele, giudiziosa, paziente, e assai triste: è una moglie consumata nell’irragionevole attesa, poi premiata, di rivedere suo marito Menelao (assurda perché oramai sono passati, tra l’inizio della guerra e il tempo successivo alla sua fine, ben diciassette anni che marito e moglie non s’incontrano6). Tuttavia, per quanto addolorata, bloccata sulle sponde dell’Egitto, scopriremo che la regina di Sparta è anche assai determinata. Per quanto inizialmente rinunciataria, dimessa, stordita, l’Elena egizia non soltanto resiste alle attenzioni di Teoclimeno, ma ha la forza di concepire un piano in grado di liberarla da chi, ancora una volta, la vuole detenere7.

La tragedia euripidea ha innanzitutto una missione politica e culturale: mostrare l’assurdità della guerra, lo stato di allucinazione che essa implica e sprigiona. Nella tragedia rappresentata per la prima volta nel 412 a.C., Greci e Troiani si sarebbero trucidati per niente, per un fantasma: la donna che Paride porta via con sé lontano da Sparta non è Elena, ma la sua immagine. Eidolon: “Un’immagine dotata di vita […]. Lui credeva di avermi, e non mi aveva, vana illusione” (Euripide, Elena, vv. 34-36). Elena lo ricorda immediatamente: a Troia, “non ero io, solo il mio nome” (v. 43). Il nome è una forma dell’immagine, disgiunta essenzialmente dalla cosa: il nome dà vita a ciò che non ha vita. Insomma, ripetiamolo ancora, la guerra di Troia sarebbe fondata su gigantesco equivoco: l’ira di Achille, la pavidità di Paride, il dolore di Ecuba, il coraggio di Ettore, le schiavi, la ribellione di Tersite, occasioni che si devono a una fenomenale allucinazione. L’Elena di Euripide, quella per cui ci si affronta e muore, non è nient’altro che un nome. Non ci sarebbe altro in gioco: il dominio dell’apparenza. La guerra di Troia, nella tragedia di Euripide, esplode per un’immagine che chiunque considerava la vera Elena; si tratta di un gigantesco equivoco; il corpo della donna non conosce traviamenti. In Euripide, unicamente il suo simulacro si sarebbe macchiato di ogni infamia8. Dunque, a ben vedere, per un’illusione durata dieci anni deflagra un immondo mattatoio.

È un famosissimo discorso antimilitarista quello in cui il coro dell’Elena sferra un attacco durissimo alle ragioni senza ragione della guerra:

Siete pazzi, volete conquistare gloria e valore
con le vostre armi e con la guerra, e vi illudete così di far cessare
gli affanni e i guai mortali,
senza dover patire alcun danno.
Ma se a decidere sarà sempre
la lotta all’ultimo sangue,
la violenza non abbandonerà mai
la città degli uomini.
La contesa che tu, Elena, hai causato
Poteva essere risolta, bastava parlare,
ragionare. I Greci non sarebbero morti
a Troia, mentre adesso sono sottoterra (vv. 1151-1160).

Chi fa la guerra non parla e non ragiona; s’illude di farlo. Nelle parole del coro, chi fa la guerra perde ogni umanità, per questa ragione non sa parlare e ragionare. In fondo, senza logos, resta soltanto la ferocia.

La critica della guerra nell’Elena prevede una violazione di certezze apparentemente inscalfibili. Ad esempio, nel primo dialogo della tragedia, tra Elena e Teucro, il fratello di Aiace, è già palese l’intenzione di Euripide: la donna occulta la propria identità; si nasconde, confonde le acque, sembra quasi diventare estranea alla propria storia. L’Elena, in effetti, custodisce una sequenza di questioni filosofiche notevoli. Se il problema dell’immagine, e quale sia il rapporto tra i nomi e le cose, sono temi apertamente maneggiati da Euripide, c’è, se possibile, anche di più: è una tragedia dedicata, forse prima di ogni altra cosa, all’esplorazione dello statuto della verità, quando, però, la verità non è garantita dai fatti, dalla realtà, da ciò che abbiamo sotto gli occhi. Pensiamo, a questo proposito, ancora al dialogo di Elena con Teucro, il guerriero che le porta le prime notizie sull’andamento della guerra. Teucro non sa che sta parlando con la vera Elena; convinto che la donna abbia lasciato Troia con Menelao. Elena non si scopre, ma insinua: “Ma tu l’hai vista quella disgraziata o te l’hanno detto?”. “L’ho vista come vedo te”. “Ma potrebbe essere stata solo un’illusione, un inganno degli dei” (vv. 117-119). La testimonianza diretta non assicura la verità, vedere non garantisce un’emancipazione dall’errore, dall’inganno. Lo ripetiamo: è la revoca di ogni certezza e identità il presupposto di un attacco di grande portata culturale ed estetica alle ragioni della guerra. Le nostre certezze, persino i nostri nomi, sono illusioni; ciò per cui ci battiamo, violentiamo, uccidiamo, per difendere il nostro buon nome, le nostre proprietà, ciò che siamo, e non siamo, è frutto di un gigantesco fraintendimento su noi stessi. La guerra è una grande illusione.

L’Elena gestisce un punto di tensione speciale che costituisce il problema estetico fondamentale del teatro tragico: come rappresentare ciò che non può essere rappresentato? Come descrivere l’orrore, lo strazio, senza però correre il rischio, proprio perché si mette a punto una formula estetica, come accade a teatro, di diluirne l’abissale virulenza. Nel Parodo dell’Elena, è Elena, rotta dal proprio destino, quando ancora non sa che presto avrebbe ritrovato il marito, che si lascia andare a uno sfogo: “Tutto questo dolore e la pena che sento! Voglio cantare e piangere e chi mi risponde? Lacrime, lamento e strazio, che Musa devo invocare?” (vv. 164-166). Euripide conduce il problema della catastrofe, dell’eredità della guerra, sulla soglia di ciò che non può essere testimoniato: forse neanche la poesia può giungere in soccorso, quando occorre dire, ma non si può dire, la distruzione totale.

L’ambiguità della verità, la lacuna che la separa dai meri fatti, alimenta un’altra, cruciale aporia della tragedia di Euripide: se Elena non conosce Paride e non è mai arrivata a Troia, perché allora è perseguitata dai sensi di colpa? L’impressione è che le sue negligenze, il senso della colpa, precedono ogni colpa su cui si possa ragionare eventualmente ponendo rimedio. Se non ha alcuna responsabilità diretta per i mali che colpiscono i Greci e i Troiani, tuttavia Elena non si considera innocente, tanto che a volte medita, come qualsiasi eroina tragica, il suicidio: “Troia distrutta, divorata dal fuoco, per me, che tanti ho fatto morire, per il mio nome, che tanto dolore ha provocato” (vv. 196-199). Lo dice magnificamente il coro, quella di Elena è una “vita non vita” (v. 214): intrappolata dalla bellezza, paga conseguenze terribili per il suo aspetto, pure quando, come nel caso della tragedia di Euripide, il suo desiderio è messo sottochiave e le sue imprudenze evaporano. Ma che vita è una vita che si protegge dal desiderio, dai desideri? Elena lo sa: la sua non è altro che una “disgraziata bellezza” (vv. 236-237).

Nell’Elena, dove si consuma una separazione tra il corpo e l’immagine, in realtà, persiste un grave malessere in Elena, che lei stessa dichiara apertamente. Nonostante sia incolpevole, si maledice, si detesta, vorrebbe farla finita. Come se, in fondo, la donna percepisse che il confine tra il corpo, la cosa concreta, e la propria immagine, è provvisorio, più labile di quanto si possa auspicare.

A confermare la curiosa condizione di Elena nella tragedia di Euripide – innocente, nondimeno sensibile alle accuse che il mondo le scaglia contro, come se da qualche parte si annidasse una segreta complicità della donna con i suoi accusatori – è l’atteggiamento di Menelao quando finalmente, naufrago, ritrova la sua vera moglie. Il re di Sparta, infatti, non soltanto non crede inizialmente ai suoi occhi; cioè, non vede nella donna identica alla sua Elena, che incontra in Egitto, la sua antica compagna; è legittimamente confuso: ha viaggiato da Troia per sette lunghi anni con il simulacro di Elena credendo che quella fosse la sua donna, la sua spina nel fianco. Solo quando uno dei suoi uomini gli riferisce dell’esalazione del fantasma di Elena, riconosce finalmente – ma, tutto sommato, non deve fare altro che arrendersi al principio di realtà – sua moglie. Dunque, è con la scomparsa del fantasma, ossia, la traditrice agli occhi di Menelao, che marito e moglie ritrovano pace. Ma non è finita qui: assurdamente, pure dopo che l’equivoco chiarito, e si dispongono per organizzare un piano di fuga per lasciare l’Egitto, Menelao lascia affiorare una titubanza, una forma di cauta ma evidente diffidenza verso la donna. Si fiderà, infine, di lei ma non prima di mostrare qualche incertezza. Come se Elena non fosse lì ad attenderlo da diciassette lunghissimi anni, e potesse fare solo adesso ciò che non ha mai fatto. Menelao evidentemente non riesce a liberarsi tanto facilmente del fantasma del fantasma, dello spettro dell’ingannatrice che lo ha perseguitato per tanti anni. Una bellezza fuori controllo, come quella di Elena, porta scompiglio, evoca pericoli e, contemporaneamente, condanna la donna a essere nient’altro che un oggetto: fonte inesorabile di turbamenti, sogni, condotte spregiudicate9.

Non è forse azzardato considerare l’Elena una tragedia impegnata ad organizzare una pedagogia dello sguardo, un’educazione al vedere, che dovrebbe mettere in guardia dall’idea che vedere la bellezza implichi una forma di arte venatoria tesa a catturare ciò che si vede, ossia, la propria preda. Nell’Elena, in effetti, gli uomini si consolano soltanto dell’immagine della bellezza, senza vedere ciò che in essa non si vede immediatamente: una differenza che segnala una prossimità tra gli umani e i divini. Probabilmente, il primo a cui è indirizzato questo insegnamento è proprio Menelao.

3. Il coro imprevisto

La nascita della tragedia di Nietzsche notoriamente presenta una tesi sull’ossatura apollinea della cultura greca classica. Il carattere distruttore delle forze dionisiache, sprigionando un’estasi permanente del ciclo vitale, suscita una resistenza, la quale, senza soffocare o rimuovere la potenza di Dioniso, ingaggerebbe con esso una guerra civile in grado di evitare però la devastazione assoluta. La cultura greca, in questo senso, avrebbe un tratto apollineo fondato sull’idea che per vivere bisogna illudersi che valga la pena di farlo; che bisogna, come in un sogno, dare una forma, un’immagine alla distruzione per non essere distrutti. Nel vortice dell’illusione, secondo Nietzsche, l’uomo agisce, prende l’iniziativa, si schioda dalle proprie certezze e inizia a creare un mondo.

È probabilmente proprio questo temperamento apollineo della cultura greca che l’Elena biasima, quando, scompaginando, rispetto al dettato omerico, la vicenda della regina di Sparta, presenta la guerra come un abbaglio; un’esperienza terribile determinata da un gigantesco equivoco intorno all’idea che abbiamo di noi stessi.

Euripide mitiga le passioni di Elena conferendo una traiettoria anti-epica, diversa alle sue aspirazioni, flettendo il mito a esigenze nuove, laddove, in particolare, la modificazione della donna è legata a un’operazione sottile ma non per questo meno potente. L’Elena, infatti, non si limita a rovesciare il mito della moglie adultera sdoppiando la figura della regina di Sparta: da una parte, in Egitto, abbiamo il corpo e dall’altra, a Troia, la sua immagine e grazie a questa divaricazione si determinerebbero le condizioni per mostrare l’irragionevolezza della guerra. Scavando il mito di Elena dall’interno, lavorando a una destituzione delle condizioni simbolico-culturali del conflitto, Euripide sembra fare un passo ulteriore, travalicando, al di là del realismo estetico cui sembrerebbe cedere l’Elena, la semplice tensione dialettica tra la realtà e l’immagine. Passo ulteriore che implica, malgrado le apparenze, cioè, l’idea che Euripide manometti il mito omerico di Elena, una recezione della sua logica e ambiguità inedita e profonda.

Elena in fondo, anche prima della sua trattazione tragica in Euripide, si rivela un veicolo del tragico, dal momento che anche in Omero, in realtà, non è una figura monolitica, ma decisamente ondivaga: oscilla tra innocenza e colpa, estrema, ottusa, passività e gravi responsabilità; fluttuando tra ascesi, malinconie familiari, vulnerabilità e godimento. Certo, nell’Iliade Elena incarna il modello negativo di donna; tuttavia, è bene insistere, Omero descrive, in realtà, un personaggio enigmatico, lacerato da desideri, rimpianti, delusioni, contrasti emotivi. Non occorre probabilmente ricordare che nel terzo libro, ad esempio, se rimpiange Menelao e la sua vecchia esistenza a Sparta, però non si lascia sfuggire l’occasione, poco dopo, di beneficiare del corpo di Paride. Peraltro, questa impressionante ambiguità di Elena continua anche nell’Odissea, dove la situazione, almeno sulla carta, dovrebbe essere pacificata. In realtà, neanche nel secondo poema omerico tutto fila liscio: nel quarto libro dell’Odissea, quando siamo a Sparta, e Menelao ed Elena sono di nuovo serenamente insieme, il rimosso della guerra, degli inganni, della violenza, la memoria dell’antica doppiezza della regina, riaffiora. Infatti, durante le nozze dei figli della casa regnante, Telemaco giunge in città e, per quanto lentamente, viene riconosciuto da Menelao. Elena, sopraggiungendo, durante un banchetto, rammenta un episodio che dovrebbe certificare la sua complicità con il padre di Telemaco: entrato a Troia travestito, Ulisse viene identificato da Elena, che però non ne denuncia la presenza, ingannando in questa maniera i Troiani e permettendo al re di Itaca di passarla liscia. Prendendo la parola dopo la moglie, Menelao la smentisce, contestando l’appoggio della donna verso il suo popolo. Tutto il contrario: il re di Sparta racconta di come Elena, pur di salvare Troia, avesse tentato di sollecitare, simulando la voce delle loro donne, una risposta dai guerrieri greci racchiusi nel cavallo, in modo da tradirne la presenza10. Insomma, se Elena nel quarto libro dell’Odissea cerca di riscattare la propria storia, raccontando un’altra storia, l’eccedenza del passato, le sue oscurità, fa ancora sentire il suo peso.

Elena, in Omero, fa costantemente i conti con il (suo) doppio, con la propria immagine. Ma anche in Euripide potremo scoprire che Elena rimane, per quanto diversamente, imprigionata nella propria immagine, di cui non si affranca neppure quando il suo eidolon lascia la scena. Non è allora dissociando Elena dal suo eidolon che la situazione si risolve. Seppure lontana dal suo doppio, la donna vive all’ombra dell’esistenza fantasmatica del suo simulacro; la sua non è un’effettiva evasione ma continua a sottostare alle esigenze del suo eidolon che la costringe a riparare in Egitto. Elena lo sa assai bene: il problema non è quello che ha fatto o non ha fatto, se è stata una brava moglie o un’amante esigente. La questione è più essenziale e riguarda, non potrebbe essere altrimenti con Elena, il suo aspetto anche quando la sua immagine si trova da un’altra parte: “potessi cancellarla via questa bellezza, come si cancella un’immagine, ed essere brutta” (vv. 263-264). L’Elena di Euripide avverte che per quanto non sia giunta a Troia – quindi, non è né un’adultera né una traditrice del proprio popolo – in realtà, le sue disgrazie non si smorzano, perché il cuore della faccenda è un altro: nonostante Euripide, l’Egitto, l’eidolon, la donna continua a identificarsi con la propria immagine in grado di suscitare un’ecatombe. La posta in gioco, quindi, è un’altra: Elena, per emanciparsi da sé, dal senso di colpa, per disfarsi dal peso di ciò che non ha commesso, non si deve limitare a restare fedele al marito, consegnando al mondo un’altra immagine di sé; piuttosto si tratta di andare più a fondo, sino al punto in cui si è disposti a svanire, rinunciando al valore che ogni immagine conferisce. La fine della disperazione per l’Elena egizia non è legata a un cambiamento di abitudini, di passioni, di look; in fondo è rimasta sempre fedele al suo desiderio matrimoniale. L’eclissi della tristezza, viceversa, per Euripide non risiede nella capacità di Elena d’imparare a vivere diversamente ma a morire in un altro modo, scoraggiando innanzitutto la potenza simbolico-distruttiva della morte che la guerra inevitabilmente diffonde. Dunque, non distruzione di sé e degli altri, ma destituzione della propria identità, dei nomi che forniscono saldezze granitiche su di sé, la propria storia, la propria patria.

4. Vie di fuga

Abbandonare i simboli, le fatalità della guerra, l’ordine e le gerarchie che stabilisce, è concepibile attraversando la morte, distruggendo e rigenerando il proprio sé. Si può dire anche di più: un soggetto è tale – come appare Elena quando finalmente prende in mano la situazione per allontanarsi dall’Egitto – se perde veramente tutto, non solo il proprio nome e la propria immagine. Ma diviene un soggetto se prende congedo anche dall’immagine a cui ci affidiamo, paradossalmente, per allontanare l’immagine che altri concepiscono per noi. Eludendo le tenaglie di questo ingorgo dialettico, qualcosa di differente può accadere, oltre qualsiasi vecchio legame e producendo nuovi legami. È ciò che sopraggiunge: non soltanto perché, per lasciare l’Egitto, Elena si finge disperata per la perdita Menelao – che invece è ancora vivo –, e allora si dilania il volto, si taglia i capelli, facendo in modo, per quanto è possibile, di diventare irriconoscibile, persino brutta, sino ad assumere un’altra immagine, diversa da come tutti la conosciamo e desideriamo. Ma non è abbastanza; truccarsi non è altro, appunto, che un trucco, una messa in scena, una mascherata. Il travestimento è un espediente, ancora impantanato nella logica che vorrebbe eludere, quella delle apparenze. L’Elena di Euripide, per lasciarsi alle spalle la solitudine, le incomprensioni, l’odio, non può fare altro che morire, traghettando il femminile oltre qualsiasi complicità con lo sguardo di chi lo immobilizza nella propria femminilità, nella propria bellezza.

La chiave di volta dell’Elena si annida in un luogo quanto mai arcano, quasi ipnotico. Il riferimento è al secondo Stasimo della tragedia, dove, prima che faccia il suo corso il piano orchestrato da Elena per sottrarsi alle pretese di Teoclimeno, affiora una piega inattesa, un deragliamento, un’ostruzione del racconto: ascoltiamo un’evocazione al mito di Demetra e di sua figlia Persefone, rapita per amore da Ade e condotta nell’oscurità degli inferi. Perché Euripide inserisce questo intralcio improvviso? Che accade tra l’imbroglio ordito ai danni del re d’Egitto e l’esecuzione materiale di questo progetto?

La tragedia immagina il destino di Elena sovrapponendo la sua condizione al mito di una madre e di una figlia improvvisamente separate: Demetra e Persefone. Prende la parola il coro: “Un giorno, la madre degli Dei, signora delle montagne, si lanciò in una folle corsa per i boschi e per le valli, per i fiumi e le onde fragorose del mare, distrutta dalla mancanza di sua figlia, il suo nome non si può pronunciare” (vv. 1301-1307)11. Demetra è una furia, travolta dal dolore per la perdita della figlia, fa del mondo un luogo infecondo, cupo, misero. Come uscirne? In Euripide, diversamente dalla versione canonica del mito, Persefone non viene restituita alla madre (tradizionalmente dovrebbe trascorrere sei mesi alla luce e sei mesi negli inferi); la vicenda si placa, il dolore si attenua, grazie all’intervento della poesia, del canto, della musica, progettato da Zeus ed eseguito dalle Muse12.

Euripide, inserendo questa apertura verso l’universo degli inferi, dimostra di sapere che non c’è modo di avere a che fare con la disperazione, se non affidandosi a un gesto in grado di fare i conti con la sofferenza indicibile, paradossalmente, se non evocando suoni, parole, capaci di allontanarci da noi stessi. Di quale poesia si parla qui? Di un’arte che fa i conti con i morti. Non quella, quindi, che consacra le gesta degli eroi, le grandi imprese, ma quella che sta dalla parte di chi, come Elena, ha perso tutto, persino il proprio nome. Nel lutto, nella perdita, grazie alla poesia tragica, si può risorgere; e allora può, come forse nell’Elena teme più di ogni altro Menelao, ritornare al mondo Dioniso. Poter morire, senza morire veramente, per una quasi immortale, è una prova spaventosa, in grado di evocare probabilmente, nonostante l’ipotesi di Nietzsche che il dionisiaco in Euripide fosse delegato soltanto nelle Beccanti, un fermento dionisiaco dell’Elena. D’altronde, pure l’Elena egizia, a pensarci bene, si comporta come un fantasma: la fuga in Egitto, paradossalmente, la rende anche più spettrale del suo spettro, che una vita, a suo modo, a Troia l’assapora. In Egitto, Elena, vicino alla tomba di Proteo, vive come una morta, da morta. Per farla finita con i fantasmi, i simulacri, Elena allora deve perdersi, morire e diventare un fantasma differente.

Euripide evidentemente, evocando la storia di Demetra e Persefone, stabilisce un’analogia con la vicenda egizia di Elena: per liberarsi della propria immagine, di sé, è indispensabile attraversare il nulla, venendo meno alla propria figura concepita dallo sguardo dell’altro, degli altri. Attenzione: non è quando Elena, teatralmente, si deturpa per ingannare Teoclimeno, che si consuma lo sconvolgimento dell’immagine della donna più bella e desiderata del mondo. Piuttosto quando, con Demetra e Persefone, è segnalata la strada verso un altro mondo, laddove, nell’oscurità, si stabiliscono nuove relazioni, quando l’arte interviene e si fa carico di una rottura simbolica radicale con la violenza di ciò che è stato.

Nell’Elena, a dimostrazione che nella tragedia la posta in gioco più grande è un generale movimento che spinge verso la dissipazione dei simulacri, la radicale operazione di Euripide non riguarda esclusivamente Elena. È coinvolto anche chi dovrebbe essere totalmente indisponibile a dismettere la propria immagine, la forza simbolica della propria posizione regale: Menelao. Anche lui, invece, assume una piega diversa rispetto al solito: nell’Elena è un naufrago, uno straccione, uno che piange, un disperato, uno che prende ordini dalle donne, che, per sopravvivere, fa la parte del morto. Giunto in Egitto, persino una vecchia serva lo maltratta. Menelao è un guerriero che, contro ogni logica della virtù e della regalità, mostra la propria vulnerabilità anche di fronte a una donna qualsiasi che lo strapazza: lo tratta come un abietto, e lo invita a levarsi presto dai piedi. Ma non è tutto: quando si tratta, con la moglie ritrovata, di lasciare l’Egitto, i suoi piani di fuga, lui che dovrebbe essere un grande condottiero, dimostrano immediatamente la loro implausibilità, rispetto a quello, semplice ma efficace, escogitato da Elena. Insomma, nell’Elena, il re di Sparta è totalmente smarrito; altro che comandante. L’unica parte che gli riesce egregiamente è quella del cadavere13.

Euripide anticipa Leopardi: l’Elena è in definitiva un’apologia del naufragio. Innanzitutto, quello concreto di Menelao: è un sopravvissuto scampato all’affondamento della propria nave; ma solo da naufrago in Egitto, ma pur avendo perso tutto, ritrova la vera Elena. Al cospetto di Teoclimeno, è pronto a giurare sulla propria morte, passando per un marinaio che testimonia della fine del proprio re. Facendo esperienza di questa condizione terribile, quello dell’ultimo uomo, di chi non è nessuno, clandestino e disgraziato, Menelao, pressocché morto, irriconoscibile, può allora fare esperienza di un altro, più possente naufragio: quello del sé che svanisce e, perdonando l’imperdonabile, ritorna verso la propria casa in maniera differente, femminile, direi.

Non è un mistero per Euripide: la guerra riguarda innanzitutto ciò che noi siamo, crediamo di essere, pretendiamo di essere. Uscire dalla sua ombra, materiale e simbolica, impone un gesto coraggioso: divorare uno stordimento estremo del sé14. Ma non è cosa questa che si decide: accade. Menelao, ad esempio, non decide di andare in Egitto; è l’incontro con le cose, i venti, la tempesta, la natura, che lo spinge a perdersi, a fare esperienza di un’altra regalità, quella di chi non ha più niente, se non il desiderio di prendere il largo un’altra volta per trasgredire la tirannia del comando (quello che Teoclimeno vorrebbe esercitare su sua moglie). L’Elena concepisce un discredito generale della guerra e lo fa turbando l’identità dei suoi protagonisti. Non incontriamo più eroi e re, azioni gloriose e scontri furibondi, ma i re diventano morti di fame, impegnati a organizzare vie di fughe esplorando la morte, la potenza rigeneratrice del disastro. Il disegno di Euripide, in effetti, non è l’evocazione della distruzione, come pure Elena pensa, quando medita di uccidersi. Se avesse levato la mano su di sé, sarebbe ancora una volta rimasta vittima della propria bellezza, senza prendere congedo dalla sua sovranità, dal suo potere simbolico. Ma Elena non si suicida; Euripide fa un’altra cosa: ricorda la sofferenza di Demetra di cui la poesia degli inferi si fa carico.

Morire a sé stessi, trovando le parole con cui fare i conti con questa sparizione, è un antidoto formidabile nei confronti della cultura di morte che la guerra diffonde; sottrarsi alla morte, mediante una diserzione del valore simbolico della bellezza, come accade nell’Elena, non ritrae un modo dell’annientamento, ma della destituzione del sé. In questa maniera si ostruisce l’istigazione alla distruzione; cosa che non riesce, per intenderci, ai due grandi furibondi e irregolari dell’Iliade, Achille e Aiace.

Bibliographie

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Susanetti, D., 2024, Euripide. Fra tragedia, mito e filosofia, Roma, Carocci (prima edizione 2007).

Notes

1 Per un’analisi dettagliata dei movimenti di Elena nel terzo libro dell’Iliade, e più in generale nei poemi omerici, un riferimento imprescindibile è De Sanctis, 2018. Retour au texte

2 Nondimeno, ricordiamolo, la stessa Elena avanza nel Prologo dell’Elena di Euripide, sfidando la consistenza del racconto mitologico, una perplessità sulla storia della propria procreazione: chissà, “se questo discorso è vero” (v. 21). Questo dubbio, come vedremo, non è che il primo tra quelli presenti in una tragedia intessuta proprio dall’incertezza, dallo scollamento tra ciò che appare e ciò che è; segnata da lacune dove nessuna certezza, in realtà, si rivela come tale. Retour au texte

3 Davide Susanetti parla, a proposito della terrificante bellezza di Elena, di “mostruosa anomalia” (Susanetti, 2023a, p. 183). Nel sesto libro dell’Iliade, d’altronde, Elena non è tenera con sé stessa: si considera una cagna. Cfr., a questo proposito, Ieranò, 2021, pp. 10-11. Retour au texte

4 C’è da dire, e non sarà certo un caso, che soltanto una donna, Ecuba, nello scontro durissimo che ha con Elena nelle Troiane, riconosce a Elena, dissolvendo le ragioni del mito in cui si schernisce la moglie di Menelao per respingere le accuse che le sono rivolte (cfr. Susanetti, 2024c, p. 155), la libertà delle sue scelte, la sua autonomia dal destino, dagli uomini, dagli dèi, quando asseconda sino all’estremo le proprie passioni (Donadi, 2005, p. 10). Teniamo conto che pure chi scagiona l’amante di Paride da ogni colpa, in realtà, la consegna a una condotta governata da forze che non risalgono alla sua volontà (vedi naturalmente, su tutti, Gorgia nel suo Encomio di Elena), Retour au texte

5 Per l’antecedente della riformulazione euripidea del mito di Elena generalmente si fa riferimento a una variante che risalirebbe quanto meno al poeta siciliano Stesicoro (630 a.c.-550 a.c.). A questo proposito, diffusamente, cfr. l’utilissimo Bettini e Brillante, 2002. Retour au texte

6 Elena, d’altronde, lambisce l’eternità; ennesimo indizio di una bellezza pressocché divina: non è sottomessa alle leggi del tempo; è sempre meravigliosa, una donna senza età o meglio, come scrive Barbara Cassin in un libro speciale dedicato a Elena – corredato tra l’altro da un notevole apparato iconografico – “hors d’âge” (Cassin, 2000, p. 50). Retour au texte

7 A chi sfugge completamente il carattere non conciliato dell’Elena di Euripide, per quanto in Egitto sembri esclusivamente assorbita dal desiderio di tornare a casa, è certamente Hofmannstahl, che nella sua Die Ägyptische Helena (1919), lamenta i limiti della versione euripidea che smarrirebbe – con la sua insistenza sui legami familiari – la carica drammatica di una bellezza demoniaca. Cfr. Landolfi, 1981-1982 e Brillante, 2007. Retour au texte

8 Sulla miriade di tensioni che esplode tra il nome e il simulacro e il corpo di Elena nella tragedia di Euripide, vedi in particolare alcune pagine di Susanetti, 2023b, pp. 133-134. Retour au texte

9 Su Elena, come oggetto di un desiderio maschile incontenibile, non è tempo sprecato la lettura di Norcia, 2020. Retour au texte

10 Sulle preziose sfumature di questo episodio del quarto libro dell’Odissea, vedi almeno Scafoglio, 2015. Retour au texte

11 Non è questione che si può affrontare qui, ma già l’ambientazione dell’Elena in Egitto segnala l’indole orfica, notturna, oscura, nonostante il “lieto fine”, di questa tragedia. A questo proposito, si segnala un contributo del giovane Furio Jesi (1965), che, tra l’altro, lega l’Elena a un’altra tragedia di Euripide, l’Ifigienia in Tauride, innanzitutto perché accomunate dalla medesima e poco consueta collocazione della scena tragica lontano dalla Grecia. Retour au texte

12 Il secondo Stasimo dell’Elena ha dato molto da fare agli interpreti finendo per essere considerato non di rado, un po’ sbrigativamente, un intermezzo lirico connesso assai debolmente con il resto della tragedia. Piuttosto qui, al contrario, assume una rilevanza speciale. Davide Susanetti, in particolare, argomenta solidamente la possibilità di leggere l’intrusione di Demetra nell’Elena come una traccia che sta a indicare la svolta simbolica che la regina di Sparta deve assaporare per prendere effettivamente congedo da sé: “Si potrebbe osservare come il mito di Persefone e Demetra, l’archetipo dell’ánados, della “risalita” dagli inferi, tocchi, sul piano squisitamente simbolico, proprio la storia di Elena, poiché anch’ella è stata rapita, condotta altrove e segregata lontana dai suoi affetti, fino a quando non le è stato dato di risalire da quegli inferi che sono l’Egitto, per tornare alla vita della Grecia” (Susanetti, 2023a, p. 207). Per una preziosa panoramica sulla natura controversa del secondo Stasimo dell’Elena, vedi una serie di contributi presenti in un fascicolo del 2017 della rivista “Dioniso. Rivista di Studi sul teatro antico”. Retour au texte

13 Sul ruolo e metamorfosi di Menelao nell’Elena, vedi almeno Belardinelli, 2003. Retour au texte

14 Probabilmente soltanto in un adattamento contemporaneo della vicenda di Elena si conduce sino alle estreme conseguenze il desiderio di Elena di non avere desideri, sfumando la bellezza in un lutto che giunge sino a un soggiorno negli inferi. Nell’Elena (1970) di Ghiannis Ritsos, in un monologo disperato e furente, Elena, sola e malinconica, porta allo scoperto una tensione che attraversa il mito stesso della donna più bella in assoluto, destinata a turbare ogni ordine perché il suo aspetto la rende di fatto inavvicinabile pure quando la si possiede fisicamente. Retour au texte

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Référence électronique

Pierandrea Amato, « Il sublime e il mostruoso », K [En ligne], 13 | 2024, mis en ligne le 26 janvier 2025, consulté le 06 février 2025. URL : http://www.peren-revues.fr/revue-k/1448

Auteur

Pierandrea Amato

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