1. Piccola città
Esattamente cento anni fa, nell’estate del 1922, termina, nella città di provincia di Vitebsk, oggi in Bielorussia, l’esperienza di una scuola delle arti rivoluzionarie iniziata quattro anni prima, nel settembre del 1918 (l’apertura ufficiale risale al 28 gennaio 1919), grazie all’iniziativa e all’entusiasmo, e alle buone amicizie, del Commissario del popolo per l’educazione della città: Marc Chagall (nato proprio a Vitebsk nel 1887)1.
È molto difficile un secolo dopo valutare, almeno per me, l’intensità, l’ambizione, l’impeto e l’eccitazione che alimentano la fondazione di questa scuola concepita, innanzitutto, per infrangere e disarticolare, a meno di un anno di distanza dal trionfo bolscevico, e nel pieno della guerra civile, il potere simbolico dell’accademismo estetico. Si tratta di un groviglio di propositi, programmi, sperimentazioni che osano e tentano di rovesciare la visione delle cose, persino del mondo, non senza, naturalmente, incomprensioni, indecisioni, ostruzioni teoriche, politiche, umane.
Ma c’è molto di più.
A Vitebsk va in scena, certo, in un’esperienza di per sé minore, il dilemma più classico di ogni rivoluzione che si potrebbe sintetizzare almeno qui in maniera brutale: come organizzare l’evento rivoluzionario fornendo al suo slancio una durata e quindi, fatalmente, rischiando di scagliare la rivoluzione contro se stessa, contro il suo evento, la sua abilità di creare un’emorragia della storia?
Mi rendo conto di semplificare le cose in maniera persino esagerata e tuttavia la storia della scuola di Vitebsk potrebbe rilevarsi un caleidoscopio formidabile dei problemi, delle contraddizioni, della difficoltà, di una rivoluzione che per essere tale deve tagliare i ponti non solo economici, storici, sociali, ma anche estetici e politici con ciò che l’ha generata.
Dopo un inizio governato da Chagall, con l’arrivo di Malevič il 5 novembre 1919 a Vitebsk cambia tutto (al suo fianco pesa molto la presenza di Lissitzky2): il lavoro collettivo sulle forme e sullo stile pittorico mette a soqquadro non soltanto il lavoro teorico e pedagogico di Chagall, ma anche l’organizzazione della scuola. Per Malevič, infatti, Vitebsk rappresenta l’occasione per mettere alla prova l’estetica suprematista definendo la fisionomia di un nuovo codice teorico, estetico, pedagogico in grado di applicarsi a tutte le forme di produzione artistica. Si tratta, più precisamente, di mostrare materialmente che la vecchia pittura è morta, come dice Malevič, come lo Stato di cui faceva parte, e che una nuova era, quella del Suprematismo, si fa largo grazie alla rivoluzione bolscevica. È il tempo, dunque, di realizzare un nuovo mondo; un nuovo realismo, una nuova realtà. E allora, nel febbraio del 1920, un nuovo gruppo di lavoro formato da insegnanti e studenti, l’Unovis (Utverditeli novogo iskusstva/Campioni della nuova arte), mettendo alle corde la supremazia di Chagall, travalicando i confini dell’istituzione educativa, organizza incontri, esibizioni, interventi pubblici.
La direzione pluralista da parte di Chagall della scuola, fondata sull’ipotesi delle virtù dell’ecumenismo estetico, in cui qualsiasi stile avrebbe diritto di cittadinanza, rapidamente rivela le proprie ambiguità e i propri limiti. L’estetica della distruzione di Malevič, l’intenzione di spezzare in due la storia, prendendo congedo dalle forme del passato, lasciando divampare esclusivamente ciò che non è mai visto e fatto prima, non può che giungere a un punto di incompatibilità con le intenzioni e incertezze di Chagall. Tanto che già dai primi mesi del 1920 gli studenti tendono a non frequentare le lezioni del fondatore di Vitebsk; la sua creatura gli sta sfuggendo dalle mani; l’idea di riunire tutti gli stili in una stessa scuola, infatti, rivela persino un’incoscienza rispetto a ciò che sta avvenendo anche solo sul piano estetico nella Russia rivoluzionaria. Non poteva allora che finire in modo malinconico: Chagall, che pure aveva provato ad abbandonare la solitudine del pittore, percependo, intercettando, incanalando, l’esplosione di energia rivoluzionaria del ‘17, non può che allontanarsi dalla propria scuola. Abbandona la sua città natale nel giugno del ’20 ritornando a Mosca.
Pur difendendo sino all’ultimo con i suoi allievi l’esperienza della scuola di Vitebsk, lasciata nell’inverno del 1920 anche da Lissitzky, di fronte a notevoli intralci politici, economici e finanziari, anche Malevič dovrà rapidamente gettare la spugna e nell’estate del 1922 raggiunge San Pietroburgo.
Dell’esperienza di Vitebsk, per riassumere in maniera drastica ma forse efficace una questione naturalmente molto ampia e difficile, si potrebbe dire che si sia trattata di «una panoplia di sperimentazioni artistiche che documenta, forse, una dimensione estetica dell’atto propriamente politico ancora non riconducibile al sospetto di connivenza tra utopie artistiche e totalitarismo nel novecento» (Primi, 2010, p. 111). E si potrebbe anche aggiungere sempre pensando all’esperimento di Vitebsk: “L’Avanguardia russa – e prima le Avanguardie europee in generale – è stata la più forte medicina possibile contro ogni forma di compassione o nostalgia. Ha accettato la totale distruzione di tutte le tradizioni della cultura europea e russa – tradizioni che erano care non solo alle classi istruite ma anche al resto della popolazione” (Groys, 2022).
2. Oblomovismo rivoluzionario
La presentazione pubblica nel 1915, all’interno dell’esposizione The Last futurist Exhibition 0.10, del Quadrato nero (Black square), esprime un programma estetico radicale la cui fioritura politica emerge chiaramente soltanto tra la primavera e l’autunno del 1917, quando, si potrebbe dire, certo, esagerando un po’, Lenin consegna a Malevič le chiavi del gesto rivoluzionario.
Che cosa vediamo nel quadrato niente? Niente! Ma leggiamo, senza che ci sia niente da leggere, senza probabilmente saper neanche più leggere, e forse senza neanche saperlo, un No, la cui filigrana, però, non ha nulla di arrendevole; piuttosto, nientemeno, è l’invenzione di un’altra realtà nella realtà, ma assai più concreta, materiale, vera, da quella da cui si prendono le distanze. Insomma, vediamo la rivoluzione pura che opera la disintegrazione di ogni opera: “Dopo tutto, che cosa è rivoluzione? Non è un processo di costruzione di una nuova società – questo è l’obiettivo del periodo post-rivoluzionario. Piuttosto, la rivoluzione è la distruzione radicale della società esistente” (Groys, 2022).
Quadrato nero è una plateale, elaborata, studiata presa di congedo radicale, cioè, senza eredità, legami, processi, da qualsiasi forma di simbolismo, colore, immagine, logica della rappresentazione e della mimesis della forma3; commiato, e come chiarisce il titolo dell’esposizione collettiva del 1915, anche dal futurismo. Insomma, si chiude con l’arte umanistica. Semplifichiamo al massimo le cose: Malevič la fa finalmente finita con qualsiasi referenza esterna4.
La mia impressione è che la carica politica più radicale e sofisticata del gesto di Malevič emerga in maniera oserei pensare trasparente nelle pieghe del suo lavoro pedagogico. A questo proposito appare esemplare, durante il periodo della scuola di Vitebsk, nel 1921, un breve saggio dal titolo assai indisponente, Inazione, laddove Malevič condensa, come forse mai in precedenza, lo sfondo filosofico della sua rivoluzione estetica5. Il saggio del ’21 è una tenace rivendicazione da parte di Malevič della propria rottura con la logica della visibilità, della rappresentazione, della trascendenza dello sguardo a favore di una immanenza assoluta. Questo è per Malevič la rivoluzione: l’immanenza e nient’altro? Realismo assoluto? Sì; la rivoluzione è il campo di battaglia di una sparizione; l’evento di frattura cui la stessa frattura deve diventare invisibile; cioè, vita, evitando in questa maniera di fondare nuove patrie, mitologie, poteri. In Malevič la condizione di possibilità, o meglio, di realtà, della rivoluzione è la rivoluzione stessa. In altre parole, la rivoluzione o è pura o non è! In questo senso nel testo di Malevič riverbera in maniera esemplare e difficile la condizione post-rivoluzionaria: “Ogni situazione post-rivoluzionaria è profondamente paradossale – perché ogni tentativo di continuare l’impulso rivoluzionario, di rimanere impegnati e fedeli all’evento rivoluzionario, conduce necessariamente al pericolo di tradire la rivoluzione” (Groys, 2022).
Che cos’è la rivoluzione, per Malevič? La perdita di qualsiasi traccia del soggetto, del pittore che dipinge, dell’artista, dell’autorità che lascia il proprio segno, per una realtà impersonale, geometrica, anonima, senza principio, se non la propria datità. Il quadro si rifiuta; non c’è niente da vedere, se non il vedere stesso perché finanche il colore, la sua estasi, viene estromesso. Nessuno scarto; nessuna distanza.
Il saggio del 1921 affiora come un gesto di diserzione tanto radicale da apparire persino inclassificabile, disorientante, provocatorio; la sua carica anti-economica è fuor di dubbio. Naturalmente, innanzitutto, costituisce un esito cristallino del contraccolpo teorico che la diserzione pittorica di Malevič rappresenta dalla logica della guerra. Malevič, di fronte allo scoppio della guerra, accelera la propria rivoluzione artistica consegnando al proprio gesto una plateale istanza politica che ne declina, a questo punto, anche il valore estetico: si tratta di disfarsi della realtà, delle sue rappresentazioni, e inventare un’altra realtà. Disertando le regole, consuetudini, organizzazioni spaziali e linguistiche del mondo di ieri.
La rivoluzione di Malevič, nei suoi scritti teorici, non assume mai una posa aggressiva; violenta. Tanto più ciò vale per Inazione del ‘21 che va considerato innanzitutto un testo con una forte ambizione didattica; concepito per gli allievi di Vitebsk, quando, molto plausibilmente, lo stesso Malevič non poteva non sapere che l’esperimento della scuola era pronto a chiudersi. Come se si trattasse di un testamento scolastico; un manifesto pedagogico e paradossale dove s’invitano gli allievi a fare la rivoluzione; vale a dire, molto concretamente, a non fare niente, se non a creare le condizioni perché questo niente/vuoto possa affiorare.
Malevič, scrivendo Inazione, si assume un compito straordinario quando, almeno ai suoi occhi, i giochi culturali per definire la logica estetica della rivoluzione, il suo futuro, non sono ancora fatti. Si tratta di tenere aperta una via di fuga, paradossale, rivoluzionaria per la rivoluzione perché essa non si riduca a un’apologia del lavoro.
L’idea di Malevič è estremamente disorientante: la trasformazione dell’uomo rivoluzionario deve fondarsi su un programma estetico-ascetico destinato a favorire un lavoro su di sé in grado di lasciare il desiderio in una posizione indipendente dall’oggetto. In altre parole, caro studente, il tuo quadro, non è tuo! Vale a dire: quando dipingi, lascia perdere la pittura, in modo da lasciare andare qualsiasi considerazione “economica” del tuo gesto.
Si tratta, tra l’altro, di un testo con una vocazione marxiana persino scolastica, dal momento che la critica maleviciana del lavoro, per cui la rivoluzione è essenzialmente liberazione del lavoro dal lavoro, dalla fatica, dalla morte, significa pensare che il lavoro della riproduzione umana, della provocazione della ricchezza sociale necessaria per vivere, è affidata alle macchine. È questo il punto che deve separare, senza complicità e ambiguità, capitalismo e comunismo; perché, in quanto tale, “il lavoro dovrebbe essere maledetto” (Malevič, 2022).
Non c’è dubbio: abbiamo tra le mani un saggio a tratti paradossale, che rischia di presentarsi come una forma plateale di auto-sabotaggio; un gesto artistico d’avanguardia e di rottura quasi inconcepibile. Dove, tra l’altro, è probabilmente sin troppo ingenuo notarlo, risuonano le notissime traiettorie teoriche che caratterizzano da quasi trent’anni la filosofia di Giorgio Agamben sull’inoperosità dell’essere al di là della violenza: l’operosità di non avere opera; la potenza di non (Agamben, 1995, 52). Chissà, forse Malevič è ancora più radicale, scardinando l’idea stessa di potenza, per cui sarebbe più destituente del destituente di Agamben.
Nel libretto del ’21, ripetiamolo, Malevič nientemeno fa l’elogio dell’inazione contro il lavoro; dell’inoperosità contro l’opera, del disfare contro il fare. Lo scrive con una determinazione strabiliante: “Il lavoro dovrebbe essere maledetto, come ci insegnano le leggende del paradiso, mentre il non fare dovrebbe essere lo scopo essenziale dell’uomo” (Malevič, 2022). Per Malevic, il compito culturale principale della rivoluzione è di liberare l’uomo dal lavoro. Ma sino a quando lo sviluppo delle macchine non lo permetterà (“il sistema socialista svilupperà ulteriormente la macchina, questo è tutto il suo scopo. Il suo significato sta nel liberare il più possibile le mani dei lavoratori dal lavoro”; Malevič, 2022), è una missione dell’arte anticipare il tempo della liberazione umana dal lavoro; che materialmente significa fare in modo che qualsiasi opera sia concepita per negare sé stessa. Non è dunque quello di Malevič un discorso che riguarda innanzitutto l’artista, anche questo, certo (un artista chiamato a svanire), ma prima ancora la questione chiama in causa l’opera: è l’opera che venendo al mondo deve dileguarsi. Anticipando un’idea che ritroveremo nella filosofia di Deleuze (2013), d’altronde sarebbe un azzardo ma forse non del tutto sbagliato associare l’idea di inazione a quella di divenire, Malevič pensa che l’arte sia un’estrema forma di resistenza alla morte, ma evitando di rappresentare questa missione come una forma d’essere.
C’è un problema: socialismo e comunismo per Malevič sembrano materializzare la massima ostilità nei confronti dell’inazione, perché avrebbero ampiamente introiettato l’ossessione capitalistica per il denaro. Lo stato operaio è uno stato di lavoratori che lotta contro la morte, che combatte la fame, finendo però, secondo Malevič, per disperdere ciò che è propriamente umano nell’uomo. Insomma, il socialismo è lo stato produttivo realizzato, in cui tutti lavorano incessantemente: nella produzione si anniderebbe l’essere dell’uomo.
Piuttosto, nell’idea di Malevič, la rivoluzione socialista sarebbe chiamata a rovesciare il campo economico dell’alleanza tra il capitale e il lavoro. Vale a dire: l’evento della rivoluzione, se è tale, paradossalmente può essere soltanto (anti)economico, nella misura in cui dovrebbe sbarazzarsi di qualsiasi predominio dell’economico sulle forme di vita. Insomma, i proletari devono diventare, pur essendo una moltitudine, delle rarità, degli aristocratici, che delegando alle macchine la produzione della ricchezza perché la società si riproduca (per questa ragione ci vuole un’alleanza tra l’arte e la scienza), possono desiderare persino di non desiderare; cioè di diventare semplicemente degli artisti. La rivoluzione, in questo senso, implica un diverso stile di vita; quasi un’ascesi. Il socialismo, in questa maniera, ritrae lo spazio dell’inazione; la condizione di una forma di esistenza pressoché divina. Altrimenti, che senso avrebbe lottare per la rivoluzione? Dunque, non soltanto distruzione, ma anche destituzione del senso!
A questo punto, forse, potremmo avere un chiave per pensare (non so se anche per vedere) i Quadrati. La rivoluzione, prima ancora che una logica della distruzione, rappresenterebbe, diversamente da come pensa Groys quando parla di Malevič, una forma di defezione radicale: “Perché questo protocollo è diverso dalla distruzione? Perché invece di trattare il reale come identità, lo si tratta subito come uno scarto. La questione del rapporto reale/finzione viene regolata non per mezzo di un’epurazione che isolerebbe il reale, ma comprendendo che lo scarto stesso è reale […]. Il Quadrato bianco su fondo bianco è una proposta di pensiero che contrappone la differenza minima alla distruzione massima (Badiou, 2006, p. 72). La dissoluzione dell’immagine in Malevič, in altre parole, è la condizione della rivoluzione; la penetrazione della sua immagine nel mondo nel momento in cui profana tutte le altre immagini del mondo. Chissà, forse intendeva qualcosa del genere El Lissetky, quando afferma che il suprematismo è più dinamico e contemporaneo del comunismo per creare un nuovo ordine mondiale (AA.VV., 2019).