Nero ventre

Intorno alla Lavoratrice di Malevič

DOI : 10.54563/revue-k.756

Résumé

This paper aims to reflect on Malevich’s “Renaissance” period in relation to suprematism revolution. In particular, the paper aims to comment Malevich’s Female worker (1933) seen as an icon. Female worker’s fundamental motifs – motherhood, black, absence, shadow; the signature: a little square – invite us to reflect on artistic and politic revolution of late Malevich.

Plan

Texte

La vittoria di una rivoluzione è immanente e consiste
nei nuovi legami che instaura tra gli uomini,
anche se non durano più della sua materia in fusione
e cedono presto il passo alla divisione, al tradimento.

Gilles Deleuze e Félix Guattari
 
Malgrado tutte le condizioni igieniche, non è possibile,
in medicina come in arte, isolarsi dagli elementi aggiunti,
un tale isolamento significherebbe isolarsi dalla realtà.

Kazimir Malevič
 
Non luogo intorno ad esse e nemmeno ancora tempo.
Parlarne è arduo.
Sono le Madri!

Goethe

Kazimir Malevič, Lavoratrice, 1933

Kazimir Malevič, Lavoratrice, 1933

Kazimir Malevič, Maternità, 1930-1931

Kazimir Malevič, Maternità, 1930-1931

1. Premessa

Intorno al 1933, dopo la definitiva affermazione del realismo socialista, Malevič realizza una serie di tele “rinascimentali”. Ritornando alla figurazione, l’artista sembra ritrattare la rivoluzione suprematista dello “zero della visione” e dei termini che ne conseguono: il rifiuto delle costruzioni pittoriche classiche; l’inattività. Nonostante sia indubbia l’influenza, seppur minima, del realismo socialista in quelle tele rinascimentali, non è chiaro se proprio quell’influenza sia da considerare un’adesione o una resa. Oppure, se sia solo una minima influenza su un già necessario avanzamento del suprematismo. O ancora, una resistenza: in effetti, l’influenza del realismo socialista coesiste in quelle tele con segni – colori e forme – che provengono dal suprematismo; i dipinti, inoltre, sono firmati, in basso a sinistra, con un quadrato; infine, le figure nascono da un fondo nero – a eccezione dell’Autoritratto dell’artista, che invece nasce da un fondo bianco. Tutti quei segni potrebbero far dunque pensare che Malevič si sarebbe adattato alle norme del realismo socialista per resistere al governo staliniano in pieno spirito suprematista1. Ossia: ritorna alla riproduzione della forma umana per criticare la politica, ma in questo modo, riabilitando cioè (apparentemente) la mimesis, cambia i termini del rapporto tra arte e politica, precedentemente rivoluzionati (Cfr. Groys, 2013, p. 1, trad. mia).

Dopo la dissoluzione della figura umana nel Quadrato rosso (realismo pittorico di una contadina in due dimensioni) del 1915; dopo la virata, tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta, in direzione di un supranaturalismo – pensiamo alla Contadina del 1930: una figura, il cui volto anonimo, nero, è rivolto al di là della tela, e alle cui spalle si stende un orizzonte suprematista –, Malevič giunge, dunque, a realizzare tele rinascimentali.

Oltre al proprio Autoritratto, ai ritratti della moglie e a un ritratto maschile (di Nicolaj Punin), alla serie rinascimentale appartiene anche la Lavoratrice (1933): il quadro rappresenta forse una contadina su un fondo nero che indossa abiti dai colori e dalle geometrie marcatamente suprematiste e i cui gesti richiamano l’immagine di una madre che è stata privata del proprio bambino (Zanchi, 2017). È forse già preliminarmente fallimentare pensare la Lavoratrice come un dipinto che si pone in continuità con la rivoluzione artistica e politica suprematista: se la donna fosse realmente una contadina, Malevič, ritornando alle origini del suo lavoro2, starebbe denunciano la collettivizzazione stalinista – cosa che forse è possibile immaginare –, se pensiamo all’Holomodor che affliggeva i contadini in quel periodo. Ritornando, però, a una critica della politica, cambiando, cioè, i termini del rapporto tra arte e politica, Malevič verrebbe meno alla continuazione di quella libertà da qualsiasi tendenza sociale o materiale del suprematismo, secondo cui “sarebbe ora di riconoscere, finalmente, che i problemi dell’arte e quelli dello stomaco e del buon senso sono molti lontani gli uni dagli altri”3 (Malevič, 2005, p. 399).

Dopo aver tentato di leggere il periodo “rinascimentale” in rapporto alla rivoluzione suprematista, questo contributo intende commentare la Lavoratrice in quanto icona. Commentando i motivi fondamentali – la maternità, l’assenza, il nero, l’ombra – del dipinto firmato con un quadrato, il saggio intende mostrare il carattere rivoluzionario dell’ultimo Malevič.

2. L’immagine della distruzione

È possibile rintracciare un’applicazione della teoria della pittura suprematista nelle tele rinascimentali maleviciane? In Dal cubismo e dal futurismo al suprematismo. Il nuovo realismo della pittura (terza versione del 1916), Malevič si scaglia proprio contro i maestri del Rinascimento, perché se “avessero trovato la superficie della pittura, questa sarebbe stata molto più importante e preziosa di qualunque Madonna e Gioconda” (Malevič, 2013, p. 180). Il suprematismo come nuova cultura non conosce la figura umana – al contrario dei ritratti rinascimentali post-suprematisti, che, inoltre, sembrano troppo vicini alle agiografie pittoriche del realismo socialista (Groys, 1992, p. 79) –, ma solo il quadrato, che è “il volto della nuova arte”, “un vivo infante reale” (Malevič, 2013, p. 188); quel nuovo realismo della pittura è “unità della pittura, dei colori, che si strutturano in modo da non dipendere né dalla forma, né dal colore, né dal loro reciproco rapporto” (p. 189). E l’obiettivo del nuovo realismo è proprio e innanzitutto la distruzione del volto, che, a differenza del piano della pittura, “dà una triste parodia della vita e questa allusione è solo un’evocazione di ciò che vive” (ib.). Il suprematismo rifiuta la rappresentazione, tanto della figura umana quanto della natura: si pone in continuità con i movimenti artistici che hanno lavorato proprio alla distruzione della figurazione e dell’immagine tradizionale così come è nata nell’Antica Grecia e si è sviluppata attraverso l’arte religiosa e il Rinascimento (p. 4).

Tuttavia, nel 1932, Malevič dichiara di lavorare sulla “composizione dell’uomo”, di dipingere “volti umani ispirati alle impressioni classiche […] in pieno spirito suprematista” e, durante lo stesso anno, riferisce alla moglie di lavorare a “un articolo letterario su una cittadella degli artisti” (Petrova, 2015, pp. 55 e 57). Probabilmente immagina quei ritratti in vista della creazione di una comunità non-oggettiva, costruita al di fuori della relazione con il lavoro, ricordando forse l’esperienza di Vitebsk (Cfr. Camy et al., 2019, p. 11).

Se allora la figurazione maleviciana potrebbe non essere intesa come una resa al realismo socialista, ci si potrebbe però chiedere se sia opportuno o meno parlare propriamente di rivoluzione anche per quanto riguarda quei ritratti rinascimentali.

Come nota Boris Groys, un lavoro come il Quadrato nero su fondo bianco è rivoluzionario non perché critica lo status quo della politica o perché profetizza una rivoluzione a venire; non dunque perché intende costruire, ma perché distrugge: dopo tutto, si domanda Groys, cos’è una rivoluzione? “La rivoluzione non è il processo di costruzione di una nuova società – questo è l’obiettivo di un periodo post-rivoluzionario. Piuttosto, la rivoluzione è la radicale distruzione della società esistente” (Groys, 2013, p. 3, trad. mia). È, infatti, peculiare della rivoluzione la distruzione delle immagini del potere che intende rovesciare: le rivoluzioni “sono tempeste iconoclaste” (Traverso, 2021, p. 218); nel momento in cui accadono, dunque, non intendono costruire nell’immediato, anche se la stessa “furia iconoclasta” è una premessa del periodo di costruzione post-rivoluzionario (ib.).

Sulla base dell’iconoclastia che appartiene alla rivoluzione, e di cui il Quadrato nero su fondo bianco è l’emblema, si può pensare a una rivoluzione immanente alla produzione rinascimentale di Malevič? Prima, però, occorre tentare di comprendere il carattere rivoluzionario del suprematismo.

Secondo Groys, il carattere nichilistico-iconoclasta della rivoluzione suprematista non è da intendersi semplicemente come distruzione della cultura del passato (Groys, 2013, p. 4). Malevič crede che l’arte sia indistruttibile, e che perciò rimanga paradossalmente una indistruttibile traccia della distruzione: una sopravvivenza nella distruttività del progresso (ib.). Ed è proprio nell’indistruttibile della distruzione che risiede, secondo Groys, “la vera fede nella rivoluzione”, che è anche una fede – o forse, meglio, una credenza – nel materialismo delle immagini, ossia nell’impossibilità di stabilizzare le immagini contro il cambiamento storico: quella fede (o credenza) presuppone che neppure la rivoluzione abbia una capacità di distruzione totale. Un indistruttibile riesce a sopravvivare alla catastrofe: “più volte, Malevič sostiene che non esiste uno spazio isolato, sicuro, uno spazio metafisico o spirituale che possa fungere da deposito di immagini immunizzate dalle forze distruttive del mondo materiale” (ib.).

All’opera di distruzione dell’immagine, infatti, sopravvive sempre un’immagine della distruzione, che è indistruttibile: dal momento che l’artista, a differenza di Dio, non crea dal nulla, è per lui impossibile tanto una distruzione totale quanto una stabilizzazione totale, all’infinito (p. 5).

Diventa allora paradossale anche pensare a una continuazione della rivoluzione artistica, che progredisca per trovare la sua forma perfetta, finale. Contro quelle aspiranti divinità – l’Arte, la Chiesa, la Fabbrica –che, come afferma nel suo Dio non è stato detronizzato. L’Arte. La Chiesa. La Fabbrica (1922), tentano di raggiungere la perfezione (Malevič, 2013, p. 284), Malevič fa leva sulla mortalità degli uomini (Groys, 2013, p. 9), sui loro sforzi, il loro tempo e la loro energia, brunianamente finitamente infiniti, che gli impediscono di raggiungere una qualsiasi perfezione. Tuttavia, è proprio la finitezza che permette all’uomo di raggiungere l’infinito; “è la nostra incapacità di raggiungere la perfezione che apre un orizzonte infinito dell’esistenza materiale umana e transumana”:

I preti e gli ingegneri, secondo Malevič, non sono in grado di aprire questo orizzonte perché non possono abbandonare la loro ricerca della perfezione, non possono rilassarsi, non possono accettare l’imperfezione e il fallimento come il loro vero destino. Tuttavia, gli artisti possono farlo. Sanno che i loro corpi, la loro visione e la loro arte non sono e non possono essere veramente perfetti e sani. Piuttosto, si conoscono come infettati dai bacilli del cambiamento, della malattia e della morte, come descrive Malevič nel suo tardo testo su “l’elemento aggiunto” in pittura – e sono proprio questi bacilli che allo stesso tempo sono bacilli dell’arte (p. 9).

In effetti, nella sua Introduzione alla teoria dell’elemento aggiunto in pittura (1926), Malevič afferma che “l’esame pittorico è simile all’analisi batteriologica che mette in evidenza le cause di una malattia” (Malevič, 2013, p. 317). Con il suo quadrato nero, Malevič si pone come il bacillo capace di infettare i corpi degli artisti a venire; tale capacità, secondo Groys, è ciò che, contemporaneamente, rende l’arte di Malevič trans-storica: “L’arte è materiale e materialista. E questo significa che l’arte può sempre sopravvivere alla fine di tutti i progetti puramente idealisti e metafisici, inclusi il Regno di Dio e il Comunismo” (Groys, 2013, p. 9, trad. mia). Se il movimento delle forze materiali non è teleologico, l’artista rivoluzionario deve accettare che, oltre a poter infettare, può essere a sua volta infettato: per quel carattere distruttivo che l’attraversa da tutte le parti e in tutte le direzioni, l’artista sa che l’unica costante della rivoluzione è proprio la distruzione (ib.). Ed è a partire da quel dire (nietzschianamente) alla distruzione, che, secondo Groys, si può considerare rivoluzionario anche l’ultimo Malevič:

Ai nostri giorni, Malevič è spesso accusato di permettere alla sua arte di essere contagiata dai bacilli della figurazione, e perfino, durante la fase sovietica della sua pratica artistica, dal realismo socialista. Scritti dell’epoca di Malevič spiegano il suo atteggiamento ambiguo nei confronti degli sviluppi sociali, politici e artistici dei suoi giorni: non investiva in essi nessuna speranza, nessuna aspettativa di progresso […]. Ma allo stesso tempo, li ha accettati come una malattia necessaria del tempo – ed era pronto a diventare infetto, imperfetto, transitorio. […] Malevič ci mostra cosa significa essere un artista rivoluzionario. Significa entrare a far parte del flusso materiale universale che distrugge tutti gli ordini politici ed estetici temporanei. […] L’arte rivoluzionaria abbandona tutti gli obiettivi – ed entra nel processo non teleologico, potenzialmente infinito che l’artista non può e non vuole portare a termine (pp. 9-10).

Per notare l’atteggiamento refrattario di fronte al progresso, basterebbe leggere anche solo l’Autobiografia che Malevič, all’inizio degli anni Trenta, legge ai suoi allievi, laddove racconta che durante la sua infanzia riconosceva nei contadini e mai negli operai della fabbrica, nella loro maniera di vivere, l’arte (Malevič, 2013, p. 364). Nonostante, dunque, sia contagiato dal realismo socialista, Malevič continua a infettare quel realismo di cui è infetto: infetta, cioè, nelle sue ultime icone rinascimentali, il realismo socialista attraverso una formalizzazione dell’icona che proviene dalla prima esperienza dell’artista in una “comune”, quando cioè inizia a studiare le icone, che lo riportano all’arte contadina da cui nasce il suo interesse nei confronti dell’arte tout court; capisce “i contadini attraverso l’icona”, e intende “il loro sembiante non come santi, ma come semplici uomini” (p. 373). L’arte iconografica, in cui “i pittori di icone, raggiunta una grande maestria tecnica, riproducevano il contenuto in una verità antianatomica, fuori dalla prospettiva spaziale e lineare. Il colore e la forma erano da essi creati in base alla percezione puramente emotiva del tema” (ib.), è ciò che allontana Malevič dall’illusionismo della naturalizzazione e della rappresentazione: “non si trattava di studiare l’anatomia e la prospettiva, né di riprodurre la natura nella sua verità, ma di sentire l’arte e il realismo artistico” (p. 377).

Ci inoltriamo in un commento della Lavoratrice sostenendo che se di figurazione e di realismo si deve, forse, necessariamente parlare, quella figurazione e quel realismo, come indica il piccolo quadrato con cui Malevič firma il dipinto, non rappresentano la realtà oggettiva; piuttosto, rendono presente, se pensiamo che “ogni vera pittura è un’icona, in cui qualcosa è presente e non semplicemente rappresentato” (Agamben, 2019, p. 48).

Ma cosa si rende presente, esattamente?

3. Il vuoto del deserto

La Lavoratrice è forse un ritratto, ma non un’agiografia: non è una pittura narrativa, non racconta le condizioni delle lavoratrici, soprattutto, forse, delle contadine, nel 1933. Il quadrato con cui Malevič firma il dipinto ci indica la via da seguire: nonostante il realismo della figura sia spietato – così spietato perché tenta forse di dimostrare le conseguenze del feroce ritmo di lavoro imposto dal piano quinquennale staliniano (Cfr. Camy et al., 2019, p. 149) –, sia, cioè, formalmente ben lontano dal realismo non-oggettivo della pittura suprematista, presenta la traccia della rivoluzione: il quadrato con cui Malevič firma il dipinto è “l’infante reale”, “il volto della pittura”; è esso stesso il bacillo del realismo non-oggettivo che infetta il realismo socialista. La traccia della rivoluzione è ciò che denota la trans-storicità del suprematismo; a sua volta, l’influenza del realismo socialista è la prova della caducità dell’immagine della rivoluzione, che, come abbiamo visto precedentemente seguendo Groys, è ciò che paradossalmente permette all’artista di liberarsi dalla teleologia ed entrare nel finitamente infinito dell’arte.

La Lavoratrice è, dunque, l’icona ultima della rivoluzione: rende presente la dialettica batteriologica che sottende la stessa rivoluzione. Ma se la firma è la traccia più evidente della rivoluzione, il rapporto tra il fondo nero e la figura della lavoratrice e il rinvio all’immagine di una madre che ha perduto il proprio bambino pongono un’ulteriore questione: cosa significa creare un’opera rivoluzionaria?

Innanzitutto, occorre comprendere il modo in cui Malevič strappa la figura al figurativo, ossia a un suo presunto ruolo rappresentativo – illustrativo o narrativo. Nel suo studio dedicato alla pittura di Francis Bacon, Gilles Deleuze ricorda che Cézanne chiama la liberazione dal ruolo rappresentativo della Figura “sensazione” (Deleuze, 2017, p. 85), che, come si evince già dallo scritto Suprematismo (1927), è anche una delle parole chiave dell’arte di Malevič. Considerando, dunque, anche l’interesse di Malevič per Cézanne, che lo riconosce come chi “ha messo in evidenza la sensazione pittorica del mondo in tutta la sua purezza” (Malevič, 2013, p. 348)4, basti qui ricordare che, secondo Deleuze, la pittura si può liberare dal figurativo anche attraverso la figura, senza dunque ricorrere all’astrattismo: si dipinge la sensazione quando la sensazione stessa si trasmette direttamente, quando, cioè, si neutralizza il referente, “la figurazione primaria” (pp. 87-88). Tale rottura con la figurazione primaria, nella pittura di Bacon è resa in particolare attraverso la deformazione delle figure, spasmodiche perché caratterizzate da un “movimento sul posto […] l’azione sui corpi di forze invisibili” (p. 90).

A differenza delle figure di Bacon, la staticità della lavoratrice non sembra restituire un’impressione di movimento; ciononostante, quella figura si muove all’infinito perché è percorsa dal campo di forze generato dal quadrato nero: quella paradossale sensazione di dinamismo è pura sensazione.

Già nel testo Suprematismo del 1927, Malevič riconosce come

L’arte di Raffello, di Rubens, di Rembrandt, ecc., per la critica e per il pubblico non sia altro che una concretizzazione di “cose” innumerevoli, che ne hanno reso invisibile il vero valore racchiuso nella sensibilità ispiratrice. Soltanto l’ammirazione per la virtuosità della rappresentazione oggettiva è rimasta viva.

Se fosse possibile estrarre dalle opere dei grandi maestri della pittura la sensibilità espressavi – quindi il loro valore effettivo – e nasconderla, i critici, il pubblico e gli studiosi dell’arte non se ne accorgerebbero nemmeno.

Non c’è quindi da meravigliarsi se il mio quadrato sembrava privo di contenuto.

Se si vuole giudicare un’opera d’arte sulla base della virtuosità della rappresentazione oggettiva, cioè della vivacità dell’illusione, e si crede di scoprire il simbolo della sensibilità ispiratrice nella stessa rappresentazione oggettiva, non si potrà mai arrivare al piacere di fondersi con il vero contenuto di un’opera d’arte (Malevič, 2005, p. 391).

Le parole di Malevič ci invitano, dunque, a svelare l’illusione nella figura della Lavoratrice, a trovare il contenuto nella forma del dipinto; a farci avvolgere dalla pura sensazione che ci rimanda, seguendo l’indicazione del piccolo quadrato con cui l’artista firma il dipinto, che dobbiamo pensare come un “segno”, un rinvio al “senza immagine” o al “senza volto” della pittura suprematista (p. 393; Camy et al., 2019, p. 141). I quadrati neri della Lavoratrice, allora – firma e fondo –, ci invitano a considerare il rinascimento maleviciano un supra-rinascimento: un superamento della rappresentazione in direzione di una sensazione, in particolare di una sensazione di vuoto.

La Lavoratrice non è allora un’immagine della realtà, non sembra una rappresentazione del reale; piuttosto, è ciò che spinge a inoltrarci nel vuoto del deserto che si concentra nell’elemento nero, che si dissolve quasi totalmente – quasi, perché il nero, nel dipinto, con il fondo e la firma, è comunque presente –: un “infante reale”, che la lavoratrice-madre sembra richiamare con i gesti delle mani.

4. La maternità e la natura

È possibile pensare che, negli ultimi anni della sua vita, Malevič stesse pensando al tema della maternità5, visto soprattutto il disegno a matita su carta del 1930-1931 intitolato Maternità, che, in stile supranaturalista, raffigura una madre che tiene tra le sue braccia un bambino totalmente nero. Nella Lavoratrice, però, quel bambino nero è assente. Se la tela del 1933 è infettata dal realismo socialista e dalla figurazione, essa stessa, in pieno spirito suprematista, infetta la figurazione con la presenza del puro nulla.

Rispetto alla “raffigurazione di un’assente”, occorre però notare che la Lavoratrice pone non pochi problemi in rapporto alla particolare concezione della mimesis del realismo socialista. Secondo Groys, la raffigurazione del realismo socialista si distanzia dalla raffigurazione naturalistica, perché mira alla sostanza nascosta delle cose e non alla loro apparenza; si interessa a ciò che ancora non esiste e che dev’essere creato (Groys, 1992, p. 66). Ma, continua Groys:

Il carattere mimetico della pittura del realismo socialista è solo un’illusione, o meglio un ulteriore messaggio, motivato ideologicamente, accanto ad altri consimili di cui in sostanza il quadro è costituito: esso è infatti un testo geroglifico da leggere più come un’icona, come un editoriale, che non come effettivo “rispecchiamento” di una qualsiasi realtà. L’illusione visiva tridimensionale del quadro del realismo socialista si scompone in segni discreti dal contenuto “soprasensibile”, “astratto” (p. 71).

Il realismo della Lavoratrice potrebbe andare nella direzione della mimesis del realismo socialista se si considera l’assenza del bambino come un rinvio a qualcos’altro. Essa, piuttosto, è puro nulla, così come puro nulla è il quadrato nero che richiamano la firma e il fondo nero da cui nasce la figura. E ancora, come avveniva sempre nel Quadrato nero su fondo bianco, quel “nulla assoluto” sembra coincidere “con la materia cosmica primigenia o, in altre parole, con la pura potenzialità di ogni esistenza possibile, che si apre oltre i limiti di qualsiasi forma presente” (p. 23).

Attraverso una suprematista presenza del nulla, Malevič infetta la sua adesione al realismo socialista: con i ritratti rinascimentali continua la critica al progresso condotta anche attraverso le figure senza volto più marcatamente supranaturaliste; continua, cioè, il tentativo di superare il progresso “all’infinito”, distruggendo e riducendo il contenuto concreto del quadro (ib.). Inoltre, possiamo immaginare che quella riduzione oltre la distruzione, che Alain Badiou definisce “sottrazione”, e che è eminentemente presentata nel Quadrato bianco su fondo bianco (Badiou, 2005, p. 86), nell’ultimo periodo della sua vita Malevič la compia nel suo Autoritratto: la sua figura su fondo bianco, tiene in mano un assente-bianco, ossia il quadrato bianco.

Ma torniamo a quella “materia cosmica primigenia” del quadrato nero di cui parla Groys, a quell’esigenza di Malevič di riorganizzare il cosmo per “arrestare una volta e per sempre qualsiasi ulteriore sviluppo, qualsiasi lavoro, qualsiasi creazione” (Groys, 1992, p. 24). Nella riorganizzazione maleviciana del cosmo è, però, forse in questione una nuova concezione della creazione, che nella Lavoratrice sembra incarnarsi nella presenza della maternità, dell’assenza e del nero. Ma che rapporto intercorre tra quei tre termini?

Partiamo dal nero. Massimo Cacciari definisce “buco nero” l’implosione di tutto il sensibile nel quadrato nero di Malevič; quel sensibile è addensato nel “punto invisibile dove ogni direzione, ogni senso, ogni dimensione stanno simultaneamente compossibili” (Cacciari, 2002, p. 217). L’implosione del sensibile è operata attraverso uno spegnimento di quel Sole, “condizione del rivelarsi del mondo delle rappresentazioni”, da cui si produce il mondo delle illusioni e la sua “ombra pensante” (pp. 216-217). È noto che il tema del contrasto sole-ombra, luce-oscurità, come metafora del rapporto tra realtà/rappresentazione/illusione, in particolare per come è narrato da Platone, è uno dei temi mitici fondativi del pensiero delle immagini. Il pittore che vuole rivoluzionare il pensiero delle immagini si trova, dunque, innanzitutto ad affrontare quella questione fondamentale.

Eliminando i fondamenti dell’immagine tradizionale, nel suo Quadrato nero su fondo bianco, Malevič rompe iconicamente con il chiaroscuro, con la dialettica ombra-luce che tradizionalmente costituisce l’immagine. Un gesto pittorico è destituente nella misura in cui rompe con la pittura retinica, ossia, innanzitutto, con il meccanismo del chiaroscuro, con l’illusione della realtà. Malevič, come Marcel Duchamp, lotta, con colori e forme, contro quelle bruniane ombre delle idee. Se Octavio Paz nota come un lavoro come il Grande Vetro (La Sposa messa a nudo dai suoi Scapoli, anche, oppure Maria è messa nella nuvola dai propri celi-trebbiatori, 1915-1923) sia inquietantemente analogo al mito di Atteone e Diana (Paz, 2000, p. 98) – Diana che, notoriamente, è “ombra della luce” –, la portata rivoluzionaria anti-retinica che lega, nella storia dell’arte, Duchamp a Malevič, per le dialettiche ombra-luce, trasparenza-opacità, che caratterizzano le loro “immagini nude”, potrebbe condurre a una lettura della Lavoratrice in chiave “pagana”, se si pensa, soprattutto, al legame segreto che intercorre tra il pensiero di Malevič e l’opera di Giordano Bruno (Cfr. Petrova, 2015, p. 56). La Lavoratrice è, però, un’icona: la materia-generatrice, che, come Diana, è ombra, appare qui innanzitutto come una madre.

Cacciari riflette sull’ombra quale elemento fondamentale dell’icona mariana ed emblema della maternità: Dio avvolge con la sua ombra Maria, si incarna in lei, “ed ecco che ella splende nell’oro dell’icona. Solo in quest’ombra la natura si rivela” (Cacciari, 2017, p. 37). Quell’ombra, però, non è “ancilla passiva” di un corpo: essa, piuttosto, è ciò che precede qualsiasi forma e figura e a cui essa stessa dà luogo: l’ombra è madre; è lei che genera, non la luce, perché la luce che si incarna nell’ombra le è immanente: luce nell’ombra (p. 39). È, inoltre, proprio a partire dalla comprensione dell’ombra nell’icona che, secondo Cacciari, si può pensare la differenza tra l’icona d’Oriente e quella d’Occidente: l’icona occidentale, in quanto icona della terra del tramonto presuppone sempre una “nube luminosa”; l’icona orientale, invece, è nostalgia della luce, a cui vuole attingere dipingendo le ombre come istanti di luce, “non al fine di incarnare, bensì di smaterializzare la figura. Ma nessuna luce potrebbe restare ferma in sé stessa di fronte alla bellezza di Maria, potrebbe resistere al desiderio di essere accolta all’ombra della sua figura” (pp. 41-42). Quell’ombra, che nell’icona tradizionale risplende nell’oro, nel quadrato nero di Malevič, “disperata immagine dell’Oro dell’icona”, risplende nel nero (cfr. Cacciari, 2002, p. 218). Se l’ombra è nero, lo è nella misura in cui il nero stesso non è il contrario della luce, non si oppone alla luce in quanto tale: è luce nel nero.

In particolare, continua Cacciari, Dio riveste della sua ombra Maria facendosi infante (p. 43). La relazione della madre con il bambino è, però, drammatica (p. 51): il bambino non appartiene alla madre; il suo arrivo è una promessa di abbandono; la sua escatologia, forse, paradossalmente, non ha una teleologia. Quel nero-ombra è un nero-assenza. Se la maestà d’Oriente, dove Maria ha il Cristo “ben piantato al centro del suo petto” (p. 53), non può essere immaginato in Occidente, la sparizione del bambino dal petto della madre, nella Lavoratrice, ci dice qualcosa di più; rende l’icona maleviciana eterna e forse ecumenica: l’infante sparisce perché non appartiene alla madre. E non le appartiene perché non è stato da lei generato: essa è, notoriamente, vergine. Contraddicendo le forme della generazione terrena, precedendo la pena del procreare (p. 84), quella generazione è originaria, senza sposo; essa potrebbe diventare, ponendosi al di là di una comprensione di quella generazione in chiave esclusivamente cristiana, radicalmente physis.

A partire da un commento dell’affascinante figura delle Madri “che vedono solo ombre” del Faust di Goethe, nel cui Regno del Nulla Faust spera di trovare il Tutto (Goethe, 2015, pp. 597 e 601), Cacciari nota come la Madre sia il vuoto che accoglie (Cacciari, 2008, p. 58)6. Ma la Madre è radicalmente physis perché è “potenza-madre di tutto, apator, fondamento senza fondamento, genitore senza genitore, indomita donatrice e dissolutrice. Physis è intraducibile con natura naturata; la parola filosofica originaria risuona ancora del timbro di Gaia generatrice di dèi – e quella stessa dea, Mnemosyne, che sarà chiamata a cantarla” (Cacciari, 2008, p. 59-60). La madre che dà la vita, dunque, non conosce alcuna teleologia per i suoi figli, come Maria; ma la Madre-natura goethiana, a differenza di Maria, conosce l’origine e il fine, ma non vuole rivelarli (p. 69), e, in più, può persino distruggere totalmente. Se è impossibile lodare quella natura che sa ma non parla, è possibile invece contemplarla nella sua ombra: “Il sole della Madre si spegne; rimane la tenebra luttuosa del suo grembo che tutto crea per tutto deporre di nuovo, senza senso e senza perché” (p. 70).

Natura mariana che non dice il fine perché non sa? Natura goethiana che non dice e tuttavia sa? In quel vortice di ombre nere di cui è assediata la Lavoratrice, nel suo nulla assoluto, “materia cosmica primigenia” come il quadrato nero, cosa richiama la natura umbratile della maternità maleviciana?

Se i ritratti rinascimentali sono strettamente legati al supranaturalismo, come sembra dimostrare il disegno del 1930-1931, quasi preparatorio della Lavoratrice, è possibile pensare che la natura della maternità del dipinto del 1933 sia innanzitutto riferita alla creazione artistica rivoluzionaria. Viene da pensarlo, se si considera la Lavoratrice nell’ottica di quella “cittadella degli artisti” che Malevič immaginava. Che cosa può dirci la Lavoratrice, dunque, sulla creazione, e, più nello specifico, sulla creazione dal nero, consustanziale alla maternità?

L’ombra della madre genera il bambino nero dello schizzo del 1930-1931, che nel dipinto del 1933 è assente: la sua creazione non ha un fine, a tal punto che il suo “prodotto” sparisce; rimane la sua traccia nella firma e nel fondo. Quando il nero abbandona l’immagine, fino quasi a dissolversi nel puro nulla, si svela la materia della creazione, che è vortice del divenire. Ma quella madre che crea, che non può salvare o che distrugge, scevra da ogni teleologia, è imperfetta, come il nero: “l’essenza” della loro comune e paradossale generazione è l’incompiutezza. Che tuttavia non smettere di ingiungere: “Voi che mi guardate senza vedere niente, continuate!” (Badiou, 2017, p. 46). Continuare: là dove le immagini arrivano a implodere. Scendere alle madri o forse al nero; abbandonare tutti gli obiettivi, persino la speranza di trovare il tutto in quel nulla. Arrivare fino al punto in cui l’infante sparisce nell’ombra della madre, quasi a voler ritornare nel nero del suo ventre, e non aspettarne la venuta.

E tuttavia, continuare.

Bibliographie

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Notes

1 Per evitare di discutere la problematicità del possibile passaggio di Malevič da figura destituente a figura della resistenza, come potrebbe essere considerato l’artista negli ultimi anni della sua vita, si rinvia in particolare a Amato, Salza, 2014: “Nell’ottica del potere destituente la dialettica fra potere costituente e potere costituito non è più soddisfacente. […] Ben inteso, abbandonare la dialettica tra il potere costituente e il potere costituito, impone un prezzo salato da pagare per qualsiasi ambizione rivoluzionaria: come ci ha insegnato Michel Foucault, se prendi le distanze dalla logica della sovranità, sei consegnato, al contempo, a una separazione dal concetto di resistenza come forma di contropotere che ambisce a prendere il posto del potere. In altre parole, crediamo che nell’età in cui il più inquietante e raffinato dispositivo di governo neo-liberale della vita sia diventato la libertà, una forma di libertà diffusa che provoca dispositivi di controllo senza precedenti, che governa non imponendo l’ordine, ma gestendo il disordine sociale, per resistere al potere non bisogna più soltanto resistere, cioè, affidarsi a manovre che ancora riconoscono la validità analitica e pratica della dialettica tra la legge e la libertà, ma si tratta di collocarsi oltre la resistenza, laddove, piuttosto, si elude il potere, inventando un altro potere in grado di sabotare qualsiasi forma di potere contemporaneo”. Retour au texte

2 Cfr. l’autobiografia del pittore in Malevič, 2013, pp. 363-377. Retour au texte

3 Più avanti, spiegando come “l’esperienza sensoriale della pittura ha puntato verso una forma di architettura”, Malevič afferma che “La Nuova Arte dimostra chiaramente di essere il risultato di sensazioni spaziali, non contiene segni di ordine sociale, di conseguenza sembra inutile ai Socialisti. Ma anche se non riescono a riconoscere in essa una struttura sociale, immagini politiche, momenti di agitazione, è ancora possibile che l’artista sia socialista, anarchico, ecc.” (Malevič, 1978, p. 155, trad. mia). Retour au texte

4 La citazione è tratta dal testo Tentativo di definizione del rapporto tra colore e forma in pittura (1930). Secondo Malevič, Cézanne, nel suo Autoritratto, non rappresenta la realtà: “la realtà è servita a Cézanne quale forma per riflettere le sue sensazioni pittoriche, senza essere contemporaneamente forma della sensazione. Il viso di Cézanne era una forma accidentale alla quale egli non ha accordato importanza accademica, ma che ha preso come occasione per il riflesso della sensazione pittorica” (Malevič, 2013, p. 348). Retour au texte

5 Secondo Myroslava Mudrak, il tema della maternità caratterizza tutta l’opera di Malevič: “Innegabilmente, il primo periodo di Malevič, mostrando una crescente predilezioni per i temi onirici dei simbolisti, avrebbe seminato e cristallizzato la dimensione spirituali della sua arte successiva”. Sostenendo una vicinanza con le preoccupazioni degli artisti che partecipano alla mostra Rosa Blu (1907), che “nella loro interpretazione dell’idea femminile si erano rivolti ai temi della rinascita primaverile, delle feste dell’acqua e rituali di iniziazione e maternità”, secondo Mudrak “Malevič realizzò un dipinto intitolato Maternità (noto anche come Donna che dà alla luce) (1906/1908, Tretyakov Gallery). Alcuni anni dopo, sotto l’influenza dell’estetica Neoprimitivista, tornò sul soggetto all’inizio del 1910, dipingendo la tela intitolata Maternità/Abbondanza (1910, Fondazione Culturale Khardzhiev-Chaga, Amsterdam (in deposito allo Stedelijk Museum, Amsterdam). Un’ulteriore interpretazione di questo soggetto si è verificata nel suo periodo Supranaturalista nel disegno a matita su carta Maternità (1930 circa), che mostra un madre che tiene tra le braccia il suo bambino morto e annerito – una Pietà moderna ispirata ai volti cinerei dei contadini affamati duranti la collettivizzazione. Come evidenziato dalla gamma cronologica di questi dipinti, l’esplorazione dell’impulso completivo, teurgico, per la prima volta da Malevič nell’atmosfera che circondava la Rosa Blu, ha definito la visione del mondo introspettiva dell’artista, che ha esplorato attraverso la pittura” (Mudrak, 2017, p. 107, trad. mia). Il testo è liberamente accessibile in lingua originale su https://books.openedition.org/obp/4648?lang=it. Retour au texte

6 Sul Regno delle Madri goethiano in quanto spazio vuoto, che è però un trascendentale, vedi Carchia, 2021, pp. 75-79. Retour au texte

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Référence électronique

Irene Calabrò, « Nero ventre », K [En ligne], 9 | 2022, mis en ligne le 01 décembre 2022, consulté le 17 février 2025. URL : http://www.peren-revues.fr/revue-k/756

Auteur

Irene Calabrò

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