1. Suprematismo su tela
Il processo di rapida industrializzazione che investe le città occidentali agli albori del XX secolo ne muta considerevolmente i ritmi e gli spazi. La nuova veste della vita urbana accelerata dal progresso tecnologico suscita l’interesse degli artisti, in particolare dei pittori, che si pongono il problema di rintracciare un linguaggio espressivo innovativo capace di tradurre in arte l’euforia tecnica della metropoli. La rappresentazione della natura per come essa viene percepita sensorialmente dall’artista risulta ormai in contrasto con le nuove esigenze del pittore novecentesco che, invece, tenta di scorgere, aldilà dei fumi delle industrie, una forma originaria di pittura.
All’innovazione tecnologica deve accompagnarsi un’innovazione pittorica. In questo senso, tutte le avanguardie artistiche europee che caratterizzano il XX secolo vanno alla ricerca di un nuovo linguaggio fondativo. In effetti, l’inizio del Novecento porta con sé il fiorire in diverse parti del continente di nuovi stili e movimenti artistici, e anche un nuovo approccio alle arti in risposta alla crisi dei valori rivoluzionari che nel recente passato avevano unito, attraverso la protesta e la rivalsa, la comunità di intellettuali e artisti.
L’inizio della crisi si può, in linea di massima, far coincidere con il concludersi delle rivoluzioni europee alla metà dell’Ottocento, ma si tratta di un inizio soltanto. Più evidenti saranno i segni dopo il ’71, dopo i tragici avvenimenti della Comune di Parigi. Questa pagina di storia ha un’importanza decisiva perché rappresenta una delle ultime volte in cui un largo settore di scrittori, di poeti e d’artisti, parteciparono a un’azione politica di eccezionale portata. […] Dopo tale episodio si poteva dire concluso il periodo in cui pensatori, letterati, artisti, direttamente impegnati, avevano agito all’interno della vita sociale e politica, non pensando nella generalità dei casi di doversene distaccare. (De Micheli, 2014, pp. 9-21).
L’avanzamento tecnologico da un lato e l’esigenza di affrancamento dalla sfera socio-politica danno impulso alla crescita di una ricerca pittorica sperimentale che si risolve nell’abbandono del lessico percettivo a favore della nascita di linguaggi nuovi. Tra questi ultimi, allontanandosi anche dall’avanguardia cubo-futurista del proprio paese di origine, il pittore russo di origini polacche Kazimir Malevič (1878-1935) sviluppa la teoria Suprematista della non-oggettività che traduce sin da subito nel campo pittorico, per poi tentarne la trasposizione nella dimensione spaziale. “Fu un atto di fede e doveva avere dei seguiti imprevedibili; era una fine e un inizio” (Seuphor, 1957, p. 32).
La nascita del Suprematismo, come sottolinea Malevič ne Il mondo non oggettivo (1959), è il risultato della naturale progressione dell’arte. In particolare, ripercorrendo le linee evolutive dell’opera dell’artista, il quadrato e le tele monocrome si rivelano come risultato ultimo delle ricerche pittoriche già tentate da Paul Cézanne e poi dai protagonisti del Cubismo e del Futurismo. I contorni fantasiosi della vetta del Monte Saint-Victoire, immortalata dal pittore francese, segnano il passaggio da una rappresentazione fedele della realtà ad una distorsione riequilibrante. L’artista sacrifica la verosimiglianza a favore di un maggiore equilibrio compositivo ottenuto attraverso l’aggiunta di una linea di contorno che non tiene conto di alcuna restrizione espressiva (Contessi, Panzeri, 2007). L’elemento aggiuntivo si cristallizza in seguito sulle tele cubiste tramite l’utilizzo di forme geometriche stranianti rispetto all’ordine estetico precostituito. Il Futurismo, come evoluzione dinamica delle spigolosità cubiste, sarà l’ultima tappa raggiunta dallo stesso Malevič, prima di giungere alla rifondazione più estrema dell’arte attraverso l’elaborazione della teoria suprematista.
Ciò che permane della velocità della metropoli sulle tele suprematiste è la sua proiezione non oggettiva. I fenomeni del mondo obiettivo sono senza valore, se non per il sentimento che significano. Nel Manifesto del Suprematismo (1915) e nei maggiori saggi in cui l’artista enuncia la propria concezione dell’arte, l’attenzione è posta sulla separazione del piano della sensibilità pura da quello della natura oggettiva. “Per il suprematista sarà sempre valido quel mezzo espressivo che consente un’espressione possibilmente piena alla sensibilità come tale, e che è estraneo all’oggettività consueta” (Malevič, 1915). Gli oggetti sono privi di significato, così come lo è la loro trasposizione in linguaggio artistico. Ad essere decisiva è invece la sensibilità poiché attraverso di essa l’arte giunge ad una rappresentazione de-oggettivizzata e quindi permanente.
Nelle parole di Malevič sembra risuonare un rifiuto per “la struttura oggettivo-ideale della vita e dell’arte” in favore di una dimensione sensibile scevra da riferimenti visuali realistici e da qualsivoglia preconcetto morale. “I contorni dell’oggettività sprofondano sempre di più a ogni passo, e infine il mondo dei concetti oggettivi diventa invisibile” (ib.). L’arte suprematista raggiunge la permanenza poiché riesce a spingersi oltre le esigenze della società, occupandosi esclusivamente della sensibilità come nucleo fondamentale dell’umanità. In quest’ottica, gli oggetti legati alla praticità vengono svalutati poiché in futuro destinati ad essere sostituiti da altri più consoni agli usi sociali in continua evoluzione all’interno della società.
Il quadrato nero, che appare per la prima volta a Pietrogrado durante L’ultima mostra futurista ‘0,10 nel dicembre 1915, traduce l’ambizione suprematista alla non-oggettività. “Mi sono trasformato nel nulla delle forme e sono andato oltre lo 0-1” (ib.). La pittura suprematista si libera dal figurativo riducendo gli oggetti alla loro forma originaria che viene prima del punto zero e si manifesta nell’astrattismo. Quando il pittore afferma di essersi spinto aldilà della forma-zero intende dichiarare la rottura irreparabile tra la forma e l’oggetto stesso. Quadrato nero su fondo bianco comprime l’intera idea di pittura per Malevič, poiché simboleggia l’origine dell’umanità e la liberazione dal figurativo e dalla rappresentazione oggettiva (Contessi, Panzeri, 2007, pp. 129-131). Un’analisi più tardiva del dipinto originale ha mostrato che esisteva un’altra composizione completa sotto la vernice nera, indicando che il quadrato nero è effettivamente il risultato finale di un processo pittorico di riduzione. Il dipinto è diventato quindi, comprensibilmente, la rappresentazione iconica del Suprematismo, in quanto esso stesso è il prodotto di un’espressione artistica in evoluzione.
Le sperimentazioni suprematiste su tela non si esauriscono in Quadrato nero su fondo bianco. Malevič utilizza i colori per raffigurare le tre fasi della sua pittura: il nero, il rosso e il bianco. Tutte e tre le fasi si sono svolte tra il 1913 e il 1918. Il periodo nero è caratterizzato dal cambiamento radicale che il Suprematismo apporta alla scena artistica europea attraverso l’iniziazione all’unica vera forma d’arte. Lo scopo del periodo rosso è quello di estendere la svolta individuale al pubblico, per rendere il Suprematismo un grande movimento artistico. In questo periodo aumenta la complessità della composizione e vi è un atteggiamento sperimentale verso l’uso del colore, del materiale e della tecnica. Nella fase finale della pittura suprematista, il colore si riduce al solo bianco e la forma pittorica è composta solo da colore e texture (Contessi, Panzeri, 2007). “L’assenza dell’oggetto diviene in questo modo presenza pura dell’astrazione” (Vallier, 1984, p. 98). In questo caso i piani dell’astrazione e della sensibilità si equivalgono.
In seguito all’esposizione del quadrato bianco, Malevič abbandona la pittura per esplorare altre possibilità creative adesso liberate dal fardello dell’oggettività. Nella conclusione del suo libro Il mondo non oggettivo (1959) il pittore dichiara portata a compimento la relazione tra artista e dimensione pittorica, inaugurando così l’inizio di una nuova avventura esplorativa nello spazio.
2. Dal quadrato al cubo: verso la costruzione non-oggettiva
Negli anni che seguono la liberazione della pittura, Malevič si dedica all’insegnamento dei principi suprematisti presso la scuola d’arte di Vitebsk, fondata da Marc Chagall. Anche nel campo didattico l’artista si fa promotore di una rivoluzione metodologica: introduce un nuovo tipo di educazione artistica in cui le varie discipline sono integrate in un sistema universale. Nasce così, in seno alla scuola, il Collettivo di artisti UNOVIS (“Affermazione delle nuove forme dell’arte”), basato sulla necessità di un processo creativo corale. Il fine ultimo del gruppo è quello di traslare i principi suprematisti dalla pittura alla dimensione plastica del design e dell’architettura.
Il problema principale riguarda, più che gli oggetti d’uso, il come applicare le teorie suprematiste al campo architettonico. Infatti, intervenire sulla dimensione spaziale significa inevitabilmente fare i conti con la città, nella cui essenza si esprime la relazione tra uomo e universo (Volchock, 2018). Il tentativo di Malevič di modellazione del contesto urbano deve ripercorrere il sentiero di purificazione dalla sfera dell’utilità che aveva già percorso la pittura. Parimenti, l’architettura suprematista è una forma d’arte e per questo è destinata alla sfera della sensibilità, di una bellezza priva di funzione. Le architetture che nascono per perseguire scopi specifici della società non appartengono alla sfera artistica, ma sono destinate a sottolineare i difetti dell’umanità.
La forma dell’arte e la forma delle funzioni utilitarie sono molto diverse. Dal confronto vediamo che le forme come l’arte saranno apprezzate oggi, mentre le altre avranno solo il valore dell’imperfezione umana. Così tutto ciò che viene creato dall’arte rimane per sempre, e né il tempo né nuovi tipi di relazioni sociali possono alterarlo (Malevič, 1959).
L’arte non è intaccata dalle metamorfosi sociali poiché si pone aldilà dei fenomeni economici, politici, religiosi e utilitaristici. In questo senso, anticipando questioni che ancora oggi assillano la nostra contemporaneità, Malevič sostiene che il problema dell’architettura è di riuscire a non essere fagocitata da una logica economica. L’architetto del XX secolo aveva rinnegato la propria missione originale che era quella di creare opere d’arte senza funzione e ciò era testimoniato dalla permanenza nel tempo dei monumenti architettonici aldilà del loro uso originario.
Nonostante ciò, nel suo saggio Suprematismo Architettura del 1928, il padre del suprematismo riconosce il valore degli edifici di architetti come Theo van Doesburg, Le Corbusier e Walter Gropius considerandole espressioni di una fase intermedia tra la tradizione e la nuova forma architettonica suprematista. L’architettura era ancora sotto l’influenza della pittura piana e quindi assomigliava ai primi passi della pittura suprematista. La percezione della forma architettonica rimaneva bidimensionale e ricordava l’elemento del quadrato. L’architettura avrebbe scolpito su di sé i principi dell’arte suprematista nel momento in cui sarebbe diventata “architettura in quanto tale”, definita dalla sua forma pura senza uno scopo utilitaristico. Raggiunta questa nuova configurazione l’architettura sarebbe diventata lo strumento per ristrutturare la città incorporando l’arte nella vita quotidiana.
È in questo momento che le figure geometriche che erano state protagoniste dei quadri suprematisti subiscono una metamorfosi per approdare al mondo plastico: il quadrato diventa un cubo e il cubo diventa la forma principale dell’architettura suprematista. I primi disegni sperimentali della struttura spaziale suprematista risalgono al 1916, periodo in cui l’artista si occupava ancora dell’espressione del suprematismo su tela. Questi disegni pongono una forte enfasi sulla composizione degli elementi geometrici: forme, volumi e piani, ma sono ancora piuttosto statici. Della presenza di un’attenzione ad aspetti strutturali e materici della costruzione vi è traccia in particolare in un disegno: Future abitazioni per gli abitanti della terra (1923-1924), costruito su carta con matita di grafite. La composizione è incentrata su un asse obliquo, che implica una direzionalità e un movimento e conferisce dinamicità al disegno. Non è esplicitata alcuna scala per l’oggetto ritratto, ossia alcun sistema di misurazione per la traduzione delle dimensioni effettive dell’oggetto dal reale al foglio di disegno. Tuttavia, osservando le diverse estensioni degli elementi cubici che si sovrappongono nella composizione grafica, si può supporre una scala dimensionale. Come nei dipinti suprematisti, non vi è alcuna traccia di ombre. La struttura è costituita da piani contrastanti realizzati cromaticamente in bianco e nero.
Non è da sottovalutare il ruolo del progresso tecnologico nell’evoluzione della teoria architettonica di Malevič. In particolare, l’invenzione dell’aereo, e quindi la possibilità del volo, influenza la dinamica e la proiezione del suo lavoro. Sul lato sinistro e lungo la parte inferiore del disegno in questione, egli aggiunge i prospetti del progetto in vista planare. Accanto a queste proiezioni si trova un’iscrizione1 che descrive la funzione dell’oggetto architettonico: “un’abitazione per gli abitanti della terra”. Viene descritta la necessità di un riscaldamento dell’ambiente, ma nella composizione visiva mancano tutte le caratteristiche tipiche di un’abitazione funzionale (una porta d’ingresso e delle finestre). Probabilmente, nella prospettiva dell’artista, gli elementi pratici sono superflui a causa della loro funzione utilitaristica poiché inquinano la purezza della forma architettonica suprematista. Nonostante i riferimenti alla casa e al riscaldamento, l’oggetto architettonico è posizionato in un ambiente isolato ed è forse proprio questa impenetrabilità a conferirgli il valore di composizione suprematista. La qualità spaziale dell’architettura suprematista si adatterà alle esigenze evolutive della società, poiché la sua forma è pura. Pertanto, la struttura suprematista è costruita senza uno scopo e può essere utilizzata dall’uomo. Ciò è ben descritto da Malevič nell’iscrizione di un altro disegno intitolato Edifici moderni (1923-1924): “Suprematismo. Vista della planimetria dall’alto. Costruito senza alcuno scopo, ma che può essere utilizzato dall’abitante della terra per i suoi scopi”. L’unico scopo per il quale l’architetto progetta è quello di creare un’arte nuova, quella suprematista, che si ponga al di sopra del mondo sensibile, ma che possa essere esperita ed utilizzata dai suoi abitanti. La funzione risulta quindi come una sorta di appendice dell’edificio suprematista, completamente slegata dalla sua forma.
Negli stessi anni di realizzazione dei planits, i disegni progettuali succitati, Malevič inizia a produrre gli Arkhitektons, blocchi di gesso dall’aspetto austero che si rivelano combinazioni complesse a livello composizionale. Di solito sono composti da un blocco centrale più grande che ne costituisce l’elemento compositivo principale, ad esso si aggiungono progressivamente parallelepipedi più piccoli. La forma finale è risultato dell’assemblaggio di masse geometriche in verticale o in orizzontale. L’Arkhitektony a orientamento verticale manca soprattutto di dinamicità e ricorda molto la forma dei grattacieli americani dell’epoca. Quello orizzontale risulta parimenti appesantito dal punto di vista formale e quindi manchevole delle ambiguità spaziali e delle caratteristiche di movimento della pittura suprematista. Nel 1926, Malevič pubblicò in Polonia un fotomontaggio in cui uno dei suoi Arkhitektony è ritratto nel contesto di una città americana immerso in mezzo ai grattacieli, lasciando intendere un senso di scala. Tuttavia, il montaggio è ambiguo nella sua prospettiva e nella proiezione dell’oggetto sullo sfondo, lasciando un’interpretazione aperta alla forma dell’architettura suprematista.
In questo gioco di rinneghi e di rimandi alla dimensione utilitaristica delle sue architetture sembra imporsi con forza a questa riflessione il puro intento sperimentale o provocatorio delle speculazioni architettoniche di Malevič. Il paradosso cui si cerca qui di dare una lettura critica risiede nella contraddizione tra una ricerca di purezza delle forme architettoniche e il loro uso funzionale che non è del tutto escluso alla luce delle analisi appena esposte dei disegni e dei modelli architettonici dell’artista.
3. Postulato di città del futuro
La manifestazione costruita del Suprematismo risiede, in ultima istanza, nel desiderio di modellare una dimensione ambientale in cui origine e scopo è la sola bellezza. L’aspirazione alla purezza e all’inutilità pratica lascia supporre che i principi del Suprematismo e le funzioni proprie dell’architettura si contraddicano a vicenda. L’architettura difatti è una disciplina che ha come scopo l’organizzazione dello spazio nel quale ad essere protagonista è quasi sempre l’uomo, che ne costituisce anche la maggiore scala di riferimento. Al contrario, l’ideazione dell’oggetto architettonico di Malevič si pone aldilà di qualsivoglia esigenza utilitaristica e non deve essere inquinata da smanie di potere o da mire politiche, economiche o religiose. A suo avviso, l’architettura, come l’arte nel suo complesso, è asservita esclusivamente alla ricerca della bellezza e non è quindi soggetta alle questioni sociali temporali.
Nei planit, i disegni architettonici suprematisti, si esprime questa contraddizione su carta. Essi rappresentano progetti di abitazioni, ma, come osservato nell’analisi di Future abitazioni per gli abitanti della terra, risultano mancanti gli elementi caratteristici della casa. Qui l’oggetto architettonico è ridotto alla sua forma più pura: il cubo. È sempre in questo disegno che si evince l’interesse di Malevič per le questioni pratiche dal punto di vista tecnico-materico. Come già sottolineato, l’artista si preoccupa dei metodi di riscaldamento dell’edificio, il che suggerisce un’esplorazione della possibilità di realizzazione concreta dei progetti architettonici e di una loro eventuale fruizione da parte degli abitanti della città. Ugualmente, anche nei prototipi plastici, gli Arkhitektons, la costruzione è rappresentata come una struttura isolata esente da riferimenti di scala, se non in alcune rarissime eccezioni. Tra queste è stato individuato in questo testo il fotomontaggio nel quale un Arkhitktony sorge in mezzo ai grattacieli della metropoli americana, dalla quale, a livello formale, il prototipo suprematista non si discosta così evidentemente.
Resta il dilemma di come superare i limiti imposti dall’etica funzionalista dell’architetto del Novecento, senza perciò sacrificare la procurata disutilità in nome della purezza propria dell’edificio suprematista. È forse in questa contraddizione di fondo che risiede l’impossibilità di realizzazione concreta dell’architettura di Malevič. Il continuo andirivieni dell’artista da e verso l’applicazione di una scala reale ai suoi edifici lascerebbe interpretare i suoi sforzi di progettazione architettonica come provocazioni teoriche rivolte agli architetti dell’epoca e volte all’esplorazione dei limiti del Suprematismo.
Come si evince da alcuni scritti dell’artista, l’elaborazione delle forme architettoniche non è arbitraria da parte del progettista, ma risultante delle mutazioni che investono la città del Novecento, quindi anche delle innovazioni tecnologiche. Il naturale epilogo dell’evoluzione urbana novecentesca per Malevič è l’avvento della metropoli suprematista. Questa sarebbe stata il risultato non più di esigenze di praticità sociale, ma esclusivamente votata all’arte. La prospettiva aerea, come lascito del progresso tecnologico, descrive in modo puntuale la nuova prospettiva dell’arte: un punto di vista sopraelevato e purificato dalle scorie della società terrena. La dinamicità degli edifici disegnati a matita da Malevič è resa proprio grazie alla proiezione planare ed esprime una prospettiva estranea alla natura umana (Kovtun, Douglas, 1981). La ricerca del Suprematismo nel campo dell’architettura funzionerebbe quindi come esplorazione delle possibili configurazioni della città utopica.
I prototipi architetturali dell’artista non sono mai stati tradotti in edifici, e le ragioni che sottostanno la loro irrealizzabilità potrebbero essere legate ad una lettura utopistica della ricerca architettonica dell’artista. Nonostante ciò, nel 2005 gli Arkhitektons sono apparsi nella prima sala espositiva della mostra Archisculpture, presso il museo Guggenheim di Bilbao. L’esposizione si basa su una selezione di circa 180 opere d’arte, modelli e fotografie di artisti e architetti che hanno contribuito al dialogo tra architettura e scultura nel corso della storia. Sculture originali di grandi scultori sono poste direttamente a confronto con modelli di edifici costruiti in tutto il mondo, presentati qui come piccole sculture, facilitando un confronto diretto tra le idee visive di entrambe le discipline. Anche grazie alle tecnologie digitali che oggi consentono all’architetto di realizzare forme avveniristiche, Archisculpture tenta di provare la compenetrazione tra le due discipline sostenendo che l’architettura contemporanea sta continuando la storia della scultura attraverso i suoi edifici.
La configurazione dell’oggetto artistico come “archiscultura”, un intervento a metà strada tra esecuzione scultorea e costruzione architettonica, consente la coesistenza di arte ed architettura nel contesto urbano contemporaneo. Non a caso, sono gli Arkitekhtons di Malevič ad apparire per primi nel percorso museale. Al postulato urbano suprematista si fa evidentemente risalire l’origine dell’esplicitazione visiva di questo stretto legame tra architettura e scultura. L’opera architettonica dell’artista fa emergere prepotentemente questa relazione, ponendo, per prima, tutta una serie di interrogativi fondamentali sulla funzionalità architettonica in rapporto all’estetica che ancora oggi rimangono aperti. Alla luce di tali considerazioni, l’utopia architetturale di Malevič potrebbe essere rimessa in discussione, non più come mera speculazione accademica, bensì come la prima vera estrinsecazione teorica – e il primo conseguente tentativo progettuale – di costruzione della città del futuro.
È ancora una volta la relazione tra l’architettura e un’altra disciplina artistica a sottolineare la necessità di un ripensamento della ricerca architettonica suprematista. A ben guardare, nella pratica di assemblamento di forme plastiche nello spazio, l’architettura di Malevič si pone in dialogo con le innovazioni della tecnica di montaggio cinematografico postulate e praticate dai registi dell’avanguardia sovietica a lui contemporanei, tra i quali in particolare Sergej Michajlovič Ėjzenštejn.
Un insieme architettonico […] è un montaggio dal punto di vista dello spettatore in movimento […]. Anche il montaggio cinematografico è un modo di “collegare” in un unico punto – lo schermo – vari elementi (frammenti) di un fenomeno filmato in diverse dimensioni, da diversi punti di vista e da vari lati. (Ejzenstejn, 1937, p. 78)
Montaggio cinematografico e montaggio architettonico condividono un percorso progettuale che si nutre delle scelte dell’architetto e del regista, ma che è sperimentato soprattutto dall’osservatore attraverso i sensi, sia esso un cittadino che si inoltra per le strade di una metropoli, sia esso seduto sulla propria poltrona all’interno di una sala cinematografica.
Assemblaggio di componenti diverse, che vengono trasformate in un tutto, il montaggio è governato da due gesti indispensabili: la scomposizione e la ricomposizione. Dapprima, lo “sparpagliamento”. Poi, la selezione, il raccordo. Si smembrano architetture, oggetti, situazioni e scenari, che in seguito vengono rimodulati. […] Si separa un intero. E, poi, si riassorbono le schegge di questa esplosione in una griglia più vasta. (Trione, 2014, pp. 9-42)
Attraverso l’enfasi sulla manipolazione del prodotto cinematografico data dalle più innovative tecniche di montaggio e sulla figura dello spettatore come attore compartecipe, i registi sovietici esprimono i valori della rivoluzione socialista che impone loro di sbarazzarsi di un’arte ancorata alle tradizioni, di “scomporla” e “ricomporla” affinché partecipi alla costruzione di un mondo nuovo. In Malevič si avverte lo stesso slancio verso la disgregazione della forma preesistente, una forza distruttiva che, astraendosi, mira infine alla rinascita. Il progetto architettonico che ne viene fuori, sia nell’accezione disegnativa sia in quella modellistica, si astrae dal mondo reale ed oggettivo non solo attraverso una nuova composizione delle forme riassemblate, ma anche e soprattutto attraverso il rifiuto di logiche economiche e funzionaliste che governano la società. L’architettura si eleva così a forma d’arte suprematista che nasce senza uno scopo predominante, un’architettura in sé e per sé, cui gli uomini possono attribuire una funzione solamente esperendola, attraversandola, penetrandola. Il percorso del cittadino della metropoli suprematista è quindi un cammino che lo pone in stretto contatto con la nuova arte attraverso la quale è egli stesso a divenire artefice della riformulazione di un mondo nuovo. Non è più l’uomo a chiedere all’edificio, all’architetto, di costruire secondo le proprie necessità, ma è l’edificio suprematista ad invitare l’uomo ad abitarlo, configurandone le funzioni solo a posteriori. È in questo procedimento ribaltato di progettazione a-funzionalistica e attribuzione della funzione a posteriori che forse risiede la portata rivoluzionaria dell’opera architettonica di Malevič. Questa diversa interpretazione della ricerca di trasposizione plastica dei principi suprematisti spiegherebbe il perché l’artista abbia previsto nei propri disegni e prototipi architettonici alcuni accorgimenti tecnici, quali il riscaldamento e l’illuminazione, che lasciavano intravedere una certa aspirazione abitativa degli edifici postulati.
Dunque, la rivoluzione della ricerca architettonica di Malevič non è da far risalire all’originalità o impossibilità realizzativa delle sue forme architettoniche, poco distanti dal panorama urbano delle metropoli americane dell’epoca, bensì è da ricercare nell’inversione del processo di attribuzione delle funzioni delle architetture urbane. L’edificio non nasce come atto economico per soddisfare bisogni umani aprioristici, ma come atto artistico in sé e per sé. È in questo capovolgimento di ruoli che risiede la purezza delle forme architettoniche suprematiste, non anche nell’originalità delle loro configurazioni estetiche.
Nell’azione di ricomposizione architetturale suprematista Malevič si comporta come un regista d’avanguardia che riconfigura criticamente lo spazio della metropoli attraverso la propria cinepresa. Non si tratta di un mero assemblaggio di immagini e suoni della città, ma dell’esplicitazione visiva e sonora di un’indagine critica sullo stato della stessa, dalla quale ripartire per costruire la città socialista. Come intuito da G. C. Argan in un saggio del 1950 dal titolo Cinematografo e critica d’arte nella rivista Bianco e Nero, l’occhio cinematografico sulla città si costituisce non solo della prospettiva del regista, ma anche dello sguardo dello spettatore. La città che ne risulta è “un’esperienza vissuta e da vivere; campo avvolgente e inglobante; realtà non data e immutabile, ma in continuo divenire” (Argan, 1969, p. 14)
Similmente, l’edificio suprematista si riappropria della dimensione dello spazio urbano sorvolandolo, superando la dimensione economico-utilitaristica e posizionandosi su un piano nuovo, esente dal caos provocato dall’ “accumulo delle funzioni per la mancanza di coesione tra i ceti e le classi sociali che ha reso la città come una nave alla deriva rigurgitante di una miserabile merce umana, in balia di una ciurma di negrieri e di pirati” (Argan, 1969, pp. 9-12). L’edificio si pone come opera d’arte in sé e per sé, come esplicitazione plastica della ricerca suprematista attorno alla quale sorgerà la città del futuro.