Résumé

This paper is an analysis of Malevič’s Suprematist works, interpreted as a dismissal of the symbolic order of vision within the image. In this regard, Malevič’s operation will be described as a politics of the gaze in the face of future catastrophe, guided by the question: how can we imagine future catastrophe if we only have images of the past? It will thus be seen how, by taking this paradigm of vision seriously, it will be possible to imagine a politics of the gaze in the face of catastrophe, through the icon.

Plan

Texte

Non ci sono più “immagini della realtà”, non ci sono più
rappresentazioni ideali, non c’è nient’altro che un deserto!

Kazimir Malevič

1. Premessa

Il simbolico è, almeno in parte, la casa della legge. Questo si intende quando la rappresentazione di un oggetto o di un fatto è vista anche nei suoi aspetti prescrittivi (Wittgenstein, 2009). Rappresentare delle “immagini della realtà” (Malevič, 2020, p. 390), in questo senso, significa ordinare ritagliando, in un modo determinato, la materia disponibile allo sguardo di un soggetto. Questo gesto di porzionamento del reale, tuttavia, non ha nulla dell’autonomia di chi da sé costruisce uno spazio proprio. Il gesto rappresentativo è infatti sempre collegato a un habitus o, per dirlo in altro modo, ad aspetti convenzionali di immaginari dati (Peirce, 2021a, p. 165). Essere invischiati nella rappresentazione, allora, vuol dire essere costitutivamente disponibili alla mediazione di una grammatica delle immagini già ordinata, in un mondo che prescrive disposizioni determinate nei suoi aspetti simbolici. La rappresentazione ci dota così di strumenti per orientarci nel mondo, costruendo, nello stesso tempo in cui ci dispone, i limiti del nostro orizzonte. La realtà è questo stesso sistema simbolico.

Una simile condizione di premediazione (Grusin, 2018) dello spazio simbolico o rappresentazionale non crea particolari difficoltà alla vita nel suo commercio quotidiano con il mondo. Lo sguardo già orientato – in grado di anticipare l’evento futuro derivandolo da una collezione previamente organizzata di immaginari ben strutturati – è quello di una vita placida, pratica e trasparente, la quale, esprimendosi all’interno del quadro rappresentativo senza avvertire frizioni o opacità, non percepisce la costruzione di ancoraggi nel campo visivo. Tuttavia, cosa accade a un simile sguardo nel momento in cui la rappresentazione mondana di cui dispone inizia a vacillare, come avviene quando si è di fronte alla catastrofe – una catastrofe dello sguardo, come nelle opere Quadrato nero su fondo bianco (1915) e Quadrato bianco su fondo bianco (1918) di Malevič? Se per mondo intendiamo uno spazio rappresentazionale qualsiasi, allora la catastrofe dello sguardo è innanzitutto un evento che ne mette alla prova la tenuta. Con Malevič scopriamo così lo spazio immondo di una vita sensibile che agisce internamente allo spazio del simbolico come suo spazio d’invisibilità. Se per Peirce la fuga dell’interpretante verso una semiosi illimitata è arrestata dall’istituzione di habiti semiotici (Peirce, 2021b), di fronte alle forme iconiche di Quadrato nero e Quadrato bianco questo non pare verificarsi. La catastrofe è allora una possibilità radicale della semiosi, in quanto capace di riarticolare la forma del possibile al di là di ogni istanziazione nel simbolico: essa è cioè un’operazione destituente del simbolico stesso.

2. Ciò che è vivo e freme

È per seguire un modello estetico di tipo classico che
l’artista mette mano a una materia già disponibile: della
natura fa arte, della materia forma.

Gustav Sjöberg

Nell’apertura del suo Dal cubismo al futurismo al suprematismo. Il nuovo realismo pittorico, Malevič afferma: “Quando sarà scomparsa l’abitudine della coscienza a vedere nei quadri la rappresentazione di angolini della natura, di madonne, o di veneri impudiche soltanto allora potremmo vedere l’opera pittorica” (Malevič, 2000a, p. 30). L’obiettivo polemico del suprematismo è allora chiaro sin dall’inizio: contestare una certa “partizione del sensibile” (Rancière, 2016a) operata in seno all’habitus rappresentazionale. Ma cosa vuol dire rifiutare un’arte come ritaglio o duplicazione della natura? In prima istanza, ad essere messa in crisi è una certa modalità del vedere come apprensione di oggetti, cattura o estrazione scopica di una natura semplicemente disponibile, ossia il rappresentare nel suo senso immediatamente mimetico, che distingue una materia informe e inerte da una forma in grado di conferirgli significato. Da questa prospettiva, ogni rappresentazione mimetica del reale è infatti solamente “aspirazione a rendere il visibile” (Malevič, 2000a, p. 35), ma, come si è segnalato, di fronte alla catastrofe dello sguardo ogni mondo che possa essere semplicemente colto finisce per perdere la stabilità delle proprie forme, i propri schemi d’orientamento. A emergere così dal tumulto del reale – non più disponibile alla semplice apprensione della natura – è l’esperienza della morfogenesi della materia nel proprio farsi sensibile. Il progetto del suprematismo è allora quello di “azzerare ogni cosa [...] al di là dello zero” (Malevič, 2000b, p. 16), ponendosi in “opposizione assoluta” (Di Milia, 2000, p. 129) a ogni arte mimetica in grado di premediare – rendendolo stabilmente ancorato ad immagini definite e anticipanti – lo spazio sensibile delle forme di vita. Un simile azzeramento delle forme, tuttavia, non ha nulla della soppressione totale del possibile. Al contrario, si tratta di operare un doppio movimento: nello stesso momento in cui le forme date sono azzerate, la plasticità suprematista coglie la vita come “condizione di possibilità” (Carboni, 2019, p. 47) del sensibile nell’arte. In questo senso, suprematismo “non significa altro che la supremazia assoluta di questa sensibilità pura nelle arti figurative” (De Micheli, 2020, p. 271).

Ciononostante, riferirsi a una catastrofe dello sguardo di fronte all’opera di Malevič ha anche l’obiettivo di indicare qualcosa di ulteriore rispetto alla semplice possibilità di uno sviluppo progressivo dell’arte, in grado ora di cogliere un aspetto del reale altrimenti messo in ombra dalla sussunzione della natura operata dalla mimesi. Possiamo qui rintracciare, infatti, un tentativo ulteriore di dismettere il dispositivo1 che separa le forme proprie delle belle arti dalla morfogenesi di una materia sensibile in generale. Una materia non più considerata come polo passivo di una partizione, sulla quale apporre il sigillo della forma, in grado di ritagliarla e di dargli sussistenza. Ciò che “è vivo e freme” (Malevič, 2000a, p. 38) è ciò che scava la via di fuga da ogni contenimento e da ogni disposizione, perché non può essere catturato come oggettivo da uno sguardo che vede in ogni angolo d’esistenza solamente la distinzione tra natura e messa in forma. Una fuga che – per così dire – continua a fuggire di fronte a ogni istituzione simbolica. La materia è allora ciò che contiene “nel proprio seno l’inizio di tutte le forme, così che da esso trae e fa scaturire tutte le cose” e non “quella pura privazione che accoglie in sé tutte le cose dall’esterno, quasi come straniere: giacché fuori del grembo della materia non esiste forma alcuna, ma tutte si celano in esso e da esso tutte pullulano” (Bruno, 2000, p. 516).

L’arte tradizionale, così come le avanguardie futurista e cubista, non fanno altro, per Malevič, che assumere il punto di vista di chi vede nella natura solamente oggetti inerti da reduplicare o, al massimo, da rielaborare dal punto di vista figurativo. Prendiamo ad esempio questo passaggio di una lettera di Malevič a Matjušin del giugno 1916: “Nel futurismo e nel cubismo quasi esclusivamente si elaborava lo spazio, ma la sua forma, essendo legata all’oggettività, non permetteva neppure di immaginare la presenza dello spazio del mondo; il loro spazio veniva limitato dallo spazio che separava gli oggetti su questa terra” (Malevič, 2000b, p. 24, corsivo mio). Si possono qui individuare almeno due ordini di problemi che riguardano lo spazio rappresentazionale nel suo aspetto mimetico: a) nel suo separare il mondo in oggetti definiti, l’arte mimetica non fa altro che produrre “isolamento e alienazione” (Malevič, 2000c, p. 120) dalla vita in generale; b) questa separatezza può avvenire solamente all’interno di un radicamento terrestre, in quanto la terra definisce una determinata immagine dello spazio geometrico2.

Per quel che riguarda il primo problema, siamo di fronte, ancora una volta, a un mondo di forme ritagliate dal ritmo vivente della materia sensibile. Tuttavia, essendo dinnanzi a concetti quali individuo e alienazione, troviamo qui la prima caratterizzazione politica dell’opera di Malevič. Il termine “politica” però non deve essere confuso con il suo significato pratico, istituzionale o sociale. Si tratta, al contrario, di tracciare una nuova sensibilità estetica – come aisthesis3 – che della dismissione totale di un modo tradizionale di avvertire le forme della natura fa il proprio manifesto. Il suprematismo, allora, come supremazia di una materia sensibile sulle forme stabilite, oltre ad essere azzeramento delle figure tradizionali dell’arte e delle avanguardie artistiche coeve, si presenta anche come dismissione radicale delle forme di vita umana contemporanee, radicate nella distinzione tra un soggetto predatorio e un oggetto esanime estratto da una materia altrimenti in fermento. In questo senso, il suprematismo si dà il compito di “costruire un mondo nuovo, il mondo della sensibilità” (Malevič, 2020, p. 390), in opposizione radicale al mondo dell’oggettività naturalistica. Per Malevič “creare vuol dire vivere” (Malevič, 2000a, p. 36), contro quelle forme dell’arte oggettiva che egli stesso definisce pittura della morte (p. 45). Una simile rappresentazione mortifera della natura, tuttavia, non ha nulla a che vedere con il fare deserto, nonostante la metafora potrebbe suggerire uno spazio tutto sommato inerte. L’arte oggettiva è arte della morte in quanto non fa che strappare frammenti di materia, rinchiudendoli in apposite teche e “mentre tutto respira e corre, nel quadro, invece, non ci sono che pose congelate” (p. 53). Il suprematismo, al contrario, affermando la supremazia della materia sensibile sulla rappresentazione degli oggetti, libera “tutti gli uccelli dalla loro gabbia eterna” e apre “le porte alle belve dei giardini zoologici” (p. 54). In questo modo, l’opposizione radicale all’“ordine della rappresentazione” (Rancière, 2016b, p. 59) operata da Malevič si dà il compito di mostrare “ciò che fa a meno delle parole, l’orrore degli occhi strappati” (ib.). Il che ci porta a riflettere, ancora una volta, sulla portata semiotica del suprematismo. Se da un lato, infatti, all’interno dell’ordine rappresentativo troviamo un immaginario premediato dalla forza prescrittiva del simbolico, in cui il possibile non è altro che ciò che è anticipato dalla rappresentazione stessa; dall’altro lato, nella pittura suprematista vi è un privilegio assegnato al momento iconico della semiosi come moltiplicazione del possibile, anche all’interno dell’ordine simbolico di riferimento. Rinunciare alla rappresentazione, al ritaglio ordinato del sensibile che fornisce schemi d’interpretazione dei corpi, installandosi all’interno delle pieghe dell’icona, significa partecipare a pieno titolo a quella catastrofe dello sguardo incapace di riconoscere alcunché come vincolato dalle polarità oggettive o soggettive, senza rinunciare – nello stesso momento in cui lo si dismette – alla possibilità di vedere nello sguardo ciò che era altrimenti invisibile.

3. Il possibile al futuro

L’infinita crudeltà delle catastrofi è che diventano visibili
troppo tardi [...]. Le più visibili [...] sono catastrofi che
furono, catastrofi del passato; quelle che qualcun altro,
prima di noi, non ha saputo o voluto veder venire, quelle
che qualcun altro non è riuscito a impedire.

Georges Didi-Huberman

Volgere lo sguardo alla catastrofe significa porsi il problema di come immaginare un possibile futuro. Tuttavia, come si è osservato, installarsi all’interno del programma rappresentazionale vuol dire derivare il futuro da un immaginario dato, costituito da una collezione di immagini del passato premediate dall’ordine simbolico. Come tracciare, allora, una via di fuga da una simile prescrizione a immaginare solamente ciò che si è già immaginato? Soprattutto nel momento in cui ogni possibile futuro sembra volgere verso la fine del possibile? In questo quadro interpretativo, che riconosce una priorità alla materia nel suo aspetto sensibile, anche orrido e immondo, la catastrofe dello sguardo precedentemente segnalata non vuole essere una tale immagine della fine. Al contrario, essa si accompagna a un pathos particolare, a una drammatizzazione, a un “accanimento maniacale a sapere ciò che sarebbe meglio non sapere”, a una catastrofe come “sapere insopportabile [...] che obbliga a sottrarsi al mondo del visibile” (Rancière, 2016b, p. 60). Questo sapere che costringe a cavarsi gli occhi – come nel caso dell’Edipo descritto da Rancière – è, propriamente, quello tratto dal regno delle icone. Malgrado ciò che si è detto, non è a un “sapere insopportabile” che ci richiameremo, bensì a un insopportabile vedere che, allo stesso modo, ci costringerà a scardinare il visibile nella sua accezione rappresentazionale. Carboni scrive del Quadrato nero suprematista che esso

non è più segno, nel senso che non ha più niente a che fare con alcuna semiomachia, con nessuna guerra combattuta tra i segni allo scopo di venire riconosciuti dall’altro, dal contendente, dal nemico. Pace è [...] ciò che si dà finalmente, al pari della visione beatificata, in praesentia. L’inapparenza è anche un’inappartenenza: il Quadrato nero, che nulla raffigura o restituisce di precedente o di presupposto, di ciò che illusoriamente-oggettivamente appare, [...] non chiede né ha bisogno di essere riconosciuto in senso identitario, non appartiene né risale ad alcunché, e da ciò consegue che non può neanche essere oggetto di contesa (Carboni, 2019, pp. 48-49).

Ma cosa espone il richiamo di Carboni a un asemiotico implicato nel gesto iconico di Malevič? Se – per commutare un’espressione di Peirce – la semiotica è solamente un altro nome per la logica (Peirce, 2021a, p. 147), allora l’icona smette di interessare una scienza dei segni solamente nel momento in cui questa è limitata o ai suoi aspetti diadici (indicali) o triadici (simbolici)4. Tuttavia, si ritiene che l’ambito semiotico non possa essere circoscritto in questi termini e che in esso, al contrario, l’icona in quanto primità trovi un suo spazio rilevante5. Ossia, l’icona in se stessa, essendo un primo, si sottrae alla rappresentazione – anche se non alla possibilità di essere usata per rappresentare, venendo però considerata, in questo modo, come in altro e dunque non iconicamente – pur rimanendo semioticamente significativa, in quanto è ciò che potremmo indicare come spazio di possibilità sensibile da cui il segno si struttura.

Cosa si intende, in questo modo, affermando che Quadrato nero – ma in generale la produzione – si presenta come uno spazio di possibilità iconiche e, di conseguenza, sensibili? Innanzitutto, bisognerebbe osservare come le icone di Malevič, benché in se stesse si diano come primità assolute, lavorino anche all’azzeramento dello spazio geometrico nel quale precedentemente il sensibile era disposto e rappresentato. Ossia, l’icona è una catastrofe dello sguardo rappresentazionale, come abbiamo mostrato in precedenza. Solamente a partire da questo fare deserto della figura, l’opera di Malevič può essere letta anche come un fare spazio al possibile in un’ontologia che è, primariamente, un’estetica e, di conseguenza, una posizione del sensibile. Della tradizione rappresentazionale il suprematismo ha fatto deserto, ma un deserto “riempito dallo spirito della sensibilità non-oggettiva, che lo penetra tutto” (Malevič, 2020, p. 391). Questo deserto di possibilità sensibili è iconico, ma non in un senso irenico, come installazione in una monadica placidità – una chiusura dell’icona in se stessa e, di conseguenza, una inibizione del possibile. Al contrario, l’iconicità è propriamente la possibile apertura a ogni operazione abduttiva, a un futuro non anticipato dalla grammatica del simbolico. Questo è possibile solamente perché nell’iconicità è interrotto qualsiasi rapporto distintivo tra oggetti rappresentati, collocati all’interno di uno spazio premediato. È vero dunque, in qualche senso, che “con le icone, il pensiero è a riposo” (Kohn, 2021, p. 117), ma è altrettanto corretto scrivere che esse – rappresentando al contempo l’interruzione della catena simbolica dell’interpretante (Peirce, 2021a, p. 165) e ogni possibile ulteriore sviluppo del semiotico in generale – fungono anche da campo aperto per una costruzione al futuro di possibili non anticipati da immaginari dati, in quanto sono la base dell’abduzione, di un argomento originario perché questo è l’“unico genere di argomento che dà origine a una nuova idea” (Peirce, 2021c, p. 126). L’icona è allora quel materiale sensibile che rende possibile ogni sensazione: il sensibile che – preso in quanto primità – è senza soggetto senziente o oggetto sentito.

Malevič esprime una simile dimensione di iconicità nel suprematismo in questa maniera: “Tali forme non saranno la ripetizione di oggetti viventi nella vita ma esse stesse un oggetto vivente. La superficie colorata è la forma reale vivente” (Malevič, 2000a, p. 47). In questa maniera, nel suprematismo, a differenza che nelle forme d’arte della tradizione e delle avanguardie, troviamo nel colore – le superfici di Quadrato nero e Quadrato bianco – una massa sensibile che funge, in se stessa, da materia vivente in grado di morfogenesi. Di nuovo, un deserto in cui lo sguardo allenato dall’habitus rappresentazionale non può riconoscere alcunché di noto. Una superficie iconica capace di svilupparsi in immagine per mezzo di un ritmo suo proprio. In questo modo, l’arte suprematista somiglia a qualcosa come una pura materia sonora. Tuttavia, questa riscoperta del suono non è, in Malevič, un tornare indietro a un regno dell’inarticolato, precedente alla parola, al linguaggio o al simbolo. Al contrario, il suprematista “ha mantenuto tutte le parole e la loro predestinazione. Ma ha estratto da esse il suono come elemento di poesia” (Malevič, 2000b, p. 23). Questa vocazione poetica del suprematismo – il fare del colore un elemento di poesia – si dà come un superamento del visibile rappresentato tutto interno alla rappresentazione del visibile, così come il gesto poetico è un superamento del linguaggio partitivo immanente al linguaggio stesso. Nell’iconismo suprematista di Malevič non c’è altro che colore, ed esso non indica altro se non se stesso, il suo ritmo vivente. Tuttavia, allo stesso tempo, il suprematismo non è possibile senza fare deserto di ogni sguardo rappresentazionale, il quale non può essere semplicemente azzerato come se fosse stato nulla – per questa ragione l’obiettivo di Malevič è quello di “azzerare ogni cosa [...] al di là dello zero” (p. 16, corsivo mio). L’iconicità del suprematismo presuppone il gesto d’azzeramento di ciò che era stato differenza nella rappresentazione e i Quadrati, lungi dall’essere un regresso all’infanzia della storia, non sono altro che modi d’essere di una materia sensibile colorata che, riconoscendo nel frattempo altri aspetti della semiosi, sono in grado di riarticolarne le forme sclerotizzate. L’icona – per riconnetterci a ciò che ne dice Carboni – non sarà allora propriamente un segno, in quanto non rimanderà ad altro da sé6, pur rimanendo un operatore semiotico, dando da immaginare un possibile futuro in grado di riarticolare i vincoli delle forme rappresentative.

4. Conclusione: l’ultima icona?

Il suprematismo iconico opera così una catastrofe all’interno del simbolico, liberando un possibile svincolato dalla forma prescrittiva di immaginari dati. Quel che ci resta da chiedere è allora se abbiamo definito una possibilità pura, l’ultima icona. Se siamo di fronte alla catastrofe come davanti alla morte, a un possibile che è al contempo impossibilità di ogni ulteriore possibilità, alla “possibilità più propria, incondizionata e insuperabile” (Heidegger, 2009, p. 301). Possibilità pura, in questo senso, significherebbe anche possibilità assoluta, unica strada aperta al cospetto dell’ordine simbolico. Impossibilità di ogni forma di nomadismo o di erranza nel possibile schiuso dalla materia sensibile. Oppure potremmo domandare se il possibile, di fronte alla catastrofe, è ancora in grado di partorire – per così dire – dei figli mostruosi (Deleuze, 2019, p. 15).

Considerando il possibile dell’icona suprematista nella sua purezza, come l’ultimo assoluto che attrae a sé ogni ulteriore modificazione del sensibile, istituiremmo, attraverso di esso, una sorta di polarità sovrana. Un’eccezionalità – o forse sarebbe meglio scrivere un’eccedenza – in grado di azzerare ogni altro possibile in virtù di se stessa. Ma l’icona suprematista, lontana dall’essere l’istituzione di un simile potere, si presenta piuttosto come una potenza che opera in un immanente campo potenziale7. Essa è l’impuro, proprio in virtù del suo essere generatrice. Non è ultima icona proprio perché non mette un punto al possibile, ma è sempre penultima (Deleuze, 2015): essa cerca di liberare le potenze iconiche del visibile, scardinando il simbolico e operando al futuro, in quanto matrice dell’abduzione (Peirce, 2021a, p. 166), senza forma né contenuto. Di conseguenza, l’icona suprematista è sempre popolata da “figli mostruosi”, in quanto essa, non desiderando il potere per sé, non ha da istituirsi necessariamente in nessun ordine simbolico. Essa non ha che da fremere. In questo senso, l’istituzione di una sovranità simbolica è sempre una possibilità interna all’iconismo suprematista. Ciononostante, essa non si comporta come una possibilità pura – come la più alta, la più perfetta – ma come una possibilità tra le altre.

I Quadrati di Malevič, infine, si sottraggono a una differenza già scritta. In essi tutto sembra lo stesso – è anche qui il loro carattere iconico. Eppure, non siamo di fronte a masse di colore astratte, pura forma o puro contenuto pittorico. Al contrario, ciò da cui Malevič viene affetto all’interno dell’iconicità suprematista è una materia viva e sensibile, irraccoglibile, non-totalizzabile, sempre disponibile a irritare un potere che è altrimenti stabilito. L’icona non è scoperta come possibilità di una natura precedente all’umano e da esso separata, ma come un vivente immanente già sempre semiotico. Ciò da cui Malevič si allontana, per così dire, è l’inseguimento passivo delle forme, la precedenza assegnata ad esse dalla produzione estetica in generale. In questo modo, mentre gli immaginari dei futuristi sono popolati di aeroplani, macchine, e da ogni genere di premediazione di modelli tecnici già disponibili, costretti a mostrare le proprie forme in altro, ciò che il suprematismo dispone è un nuovo mondo della sensibilità, in cui il bianco e il nero si presentano come spazio per ogni possibile declinato al futuro. Uno spazio di possibilità an-archiche, in un senso forse più radicale di quello esposto da Lévinas (Lévinas, 2011, p. 126): nello scardinamento dell’essere come piano del simbolico e della storia come sua configurazione diacronica, è scoperta l’erranza del sensibile nell’essere e nella storia come possibilità dell’esperienza inumana. Si tratta allora di un divenire-futuro dell’icona, attraverso la produzione abduttiva che da essa genera. L’opera di Malevič, così, in quanto destituzione dello spazio simbolico, è immediatamente politica. Essa mostra per mezzo dell’arte uno spazio minore, invisibile al potere normativo dell’istituzione simbolica. Individuare una faglia nella quale poter svolgere una via di fuga dal «legisegno» (Peirce, 2021a, p. 153) significa aprire spazi a possibili futuri alternativi, non già inscritti nel simbolico stesso. Percorrendo questa via non ci viene incontro nessun al di là, non si produce nessuna separazione, nessuna salvezza trascendente in altro. Solamente immanenza, ma un’immanenza che vive.

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Notes

1 Con il termine dispositivo si intende qui qualcosa di prossimo all’uso che ne fa Giorgio Agamben: “Chiamerò dispositivo letteralmente qualunque cosa abbia in qualche modo la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi” (Agamben, 2006, pp. 21-22). Questo per quel che riguarda la categoria in generale. Tuttavia, benché la funzione partitoria resti simile, è proprio nel caso singolare che devono essere rintracciati, di volta in volta, i nessi che vengono ad articolarsi e che permettono al dispositivo di funzionare propriamente. Retour au texte

2 Ci limitiamo a segnalare questo secondo problema, senza approfondirlo nel resto dell’articolo. Tuttavia, per un’analisi dei dispositivi – anche scopici – di “articolazione materiale dello spazio” in seno alla terra, che potrebbe fornire la base teorica per leggere alcune dichiarazioni di Malevič in tal senso, cfr. Sferrazza Papa, 2020; cfr. Carboni, 2019, per una riflessione sul carattere non “geo-metrico” (p. 46) dell’arte di Malevič. Retour au texte

3 L’estetica come aisthesis, alla quale si fa qui riferimento, è definita in questa maniera da Rancière: “Il termine aisthesis indica [...] la trama sensibile dell’esperienza in cui esse [le opere d’arte] sono prodotte. Si tratta di condizioni del tutto materiali [...], ma sono anche modi di percezione e regimi di percezione e regimi di emozioni, categorie che le identificano, strutture di pensiero che le categorizzano e le interpretano” (Rancière, 2017, p. 37). In questo senso, attraverso la definizione rancièriana, possiamo indicare nell’aspetto sensibile della materia un modo d’espressione sia della percezione, da una parte, sia del pensiero, dall’altra. Retour au texte

4 “Un Indice è un segno che si riferisce all’Oggetto che esso denota in virtù del fatto che è realmente determinato da quell’Oggetto. [...] Un Simbolo è un segno che si riferisce all’Oggetto che esso denota in virtù di una legge, di solito un’associazione di idee generali, che opera in modo che il Simbolo sia interpretato come riferentesi a quell’Oggetto” (Peirce, 2021a, p. 153). Retour au texte

5 Ci si riferisce sempre a Peirce, per il quale “un’Icona è un Rapresentamen la cui Qualità Rappresentativa è una Primità dell’Icona in quanto l’Icona è un Primo: cioè una qualità rappresentativa che l’Icona possiede in quanto cosa e che la rende atta a essere un rapresentamen” (pp. 164-165). Retour au texte

6 Una definizione di “segno” forse più completa la possiamo trovare sempre in Peirce: “Un Segno è qualsiasi cosa riferita a una Seconda cosa, il suo Oggetto, rispetto a una Qualità, in modo tale da portare una Terza cosa, il suo Interpretante, in rapporto con lo stesso Oggetto, e in modo tale da portarne una Quarta in rapporto con quell’Oggetto nella stessa forma, e così via ad infinitum” (Peirce, 2021c, p. 123). Retour au texte

7 Jullien espone bene questo concetto di una potenza che non si fa potere nella sua caratterizzazione del rapporto tra saggio e idee: “Il saggio teme il potere ordinatore del primo elemento. Quindi, baderà a mantenere le ‘idee’ sullo stesso piano – e proprio in questo consiste la sua saggezza: tenerle ugualmente possibili, ugualmente accessibili, senza che nessuna, passando davanti, finisca per nascondere l’altra, faccia ombra all’altra, insomma senza che nessuna sia privilegiata” (Jullien, 2002, p. 5). Retour au texte

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Référence électronique

Alessandro Calefati, « Malevič, la catastrofe dello sguardo », K [En ligne], 9 | 2022, mis en ligne le 01 décembre 2022, consulté le 17 février 2025. URL : http://www.peren-revues.fr/revue-k/745

Auteur

Alessandro Calefati