Kazimir Malevič e Jurij Tynjanov: assoluta ribellione e opera fluida

DOI : 10.54563/revue-k.738

Résumé

In this essay a light will be shed on Kazimir Malevich’s post-1927 so-called return to figurative painting, through the rereading of some of his texts, particularly God Has Not Been Cast Down (1922) and The Theory of the Additional Element (1926) as well as comparing them to those of the Formalist Yuri Tynianov from the same years. The hypothesis of a “wcthird way” beyond Suprematism and Socialist realism will be dismissed in favor of an interpretation consistent and coherent with the artist’s cosmic, rebel, and fluid aesthetic vision.

Plan

Texte

L’idea non può esistere senza essere opposizione.
Karl Wilhelm Ferdinand Solger

1. Piazza Sant’Isacco, Leningrado

Siamo nel febbraio del 1927 a Leningrado, piazza Sant’Isacco all’incrocio con via Počtamtskaja. Nell’edificio al civico nove risiede Kazimir Malevič con la sua famiglia. Fino al dicembre precedente, nello stesso edificio, l’artista aveva diretto la sua creatura più ambiziosa, l’Istituto Statale di Cultura Artistica (Ginchuk, Gosudarstvennyi institut chudožestvennoi kultury), singolare fusione laboratoriale di ricerca artistica e scientifica. Sospettandone il carattere borghese, monastico-individualista e anti-sovietico, le autorità avevano deciso di chiudere definitivamente l’istituzione e di accorparne i dipartimenti all’Istituto Statale di Storia dell’Arte (Giii, Gosudarstvennyi institut istorii iskusstv), dall’altra parte della strada. Malevič ottiene il corso di Arte Moderna e gli è concesso di restare nell’appartamento che già occupava. Nel febbraio del 1927 l’artista si sta preparando per la sua prima sortita fuori dall’Unione Sovietica: lo aspettano le mostre retrospettive a Varsavia e Berlino. Finalmente il suo lavoro può essere presentato a un pubblico ampio e non più relegato alla connoisseurship di un piccolo gruppo internazionale di artisti “di sinistra”. Daniil Charms, allora giovane poeta alla ricerca del suo spazio e non ancora ostracizzato, visita l’amico Malevič nel suo appartamento. Questi gli regala una copia di un suo libro di qualche anno prima, risalente al periodo in cui insegnava a Vitebsk, Dio non è stato detronizzato, e vi firma la dedica: “Andate e fermate il progresso” (Vakar, Mikhienko, 2015, p. 593, trad. mia).

Cos’è successo al Malevič che normalmente ci si aspetta, al campione del cubofuturismo e del suprematismo, delle utopie Unovis a Vitebsk e Ginchuk a Leningrado? All’improvviso, egli non guarda più al futuro o non ha più un’idea di futuro? Certamente la delusione per la chiusura forzata della sua creatura per ragioni ideologiche è dolorosa se non straziante, ma essa non è stata la prima né sarà, tragicamente, l’ultima. Forse è semplicemente nostra consuetudine quella di legare il nome di Malevič a un’idea – modernista e lineare – di progresso, mentre, nei fatti, nel suo pensiero e nella sua opera questa idea non è per nulla o non così rilevante, ma solo una contingenza. Se c’è un Malevič che crede nel progresso e c’è un Malevič che incita Charms a fermare il progresso, non è che Malevič abbia cambiato opinione. Semplicemente, il progresso non è l’idea rilevante per comprenderne l’opera e la fede estetica.

Possiamo quindi avvicinarci con lo sguardo a Malevič, attraverso cornici di evoluzione lineare o secondo biografia e psicologismi? Io direi proprio di no, analogamente a quanto sostenevano – e perciò lottavano – i suoi di poco più giovani contemporanei, i “vicini di casa”, docenti e critici letterari al Dipartimento di Storia delle Arti Verbali del Giii: i Formalisti dell’Opojaz (Società per lo studio del linguaggio poetico), come Viktor Šklovskij, Jurij Tynjanov e Boris Ejchenbaum.

2. Suprematismo e realismo rispondono presente

Torniamo, più o meno, a dodici anni prima, quando la città si chiamava Petrogrado. Nel dicembre del 1915, presso la Galleria Dobyčina al Campo di Marte, inaugura 0,10. L’ultima mostra futurista, una collettiva che riunisce gli artisti più “di sinistra”, capitanati da Malevič da una parte e Vladimir Tatlin dall’altra. Le due pareti contigue occupate dal primo sono divenute leggendarie: Malevič espone, per la prima volta, il suo “ismo” più convinto e sovversivo, il suprematismo. Le tele presentano forme geometriche piane, nere e dai colori accesi, che fluttuano su un fondo bianco. L’allestimento – oggi diremmo curatela – è altrettanto radicale: le opere stesse fluttuano sulle superfici parietali, a formare due grandi iper-tele. Nello spigolo in alto, il Quadrato nero, il manifesto visivo e suono terribile e sordo del suprematismo, fissa magnetico lo spettatore1. A posteriori, questa mostra e il suprematismo saranno interpretati dagli studiosi come uno dei trionfi della narrazione modernista, per effetto del definitivo abbandono della rappresentazione come referenzialità del mondo delle cose, degli oggetti, della natura. Allo stesso tempo, Malevič confonde la nostra percezione logica, indicando invece titoli referenziali per alcune opere, come il comunemente detto Quadrato rosso, in realtà Realismo pittorico di una contadina in due dimensioni.

Lo sconcerto del pubblico – ma anche di artisti a lui vicini – di fronte alle tele suprematiste suggerisce a Malevič di scrivere qualcosa, almeno un pamphlet, che possa spiegare il perché e il come egli sia arrivato alla rappresentazione non-oggettiva. Qui comincia a insinuarsi l’artista scienziato e filosofo e qui nasce il suo primo libricino, Dal cubismo e dal futurismo al suprematismo. Il nuovo realismo pittorico, pubblicato nella sua versione definitiva nel 1916. Come, realismo? Non abbiamo già buttato i realisti, insieme ai simbolisti e a tanti altri, giù dal battello a vapore della modernità2?

Malevič non intende per realismo il naturalismo, cioè il “riflesso della natura sulla tela, come in uno specchio” (Malevič, 2000, p. 33) o la tensione che va dal naturalismo e giunge all’idealismo, cioè l’estetismo. Il realismo, in quanto soggetto di un dipinto e non come modo di imitazione, poteva funzionare con gli Ambulanti come Ilja Repin, ma non oggi, bensì nell’Ottocento – e il grande vecchio Repin godeva ancora di enorme credito nel mondo dell’arte e spesso era intervenuto nel dibattito sulle istanze più moderne3. No, il realismo è pittorico, è linguaggio vivente e assolutamente presente: “La superficie colorata è la forma reale vivente” (p. 47). L’arte è sempre realista, quando intuisce e interpreta il proprio tempo e il realismo attuale è la pittura in quanto tale. In quel preciso momento, il 1915-1916, il suprematismo diviene l’arte più presente di tutte le altre, quella che ha trasgredito e scardinato la convenzione artistica più antica, la rappresentazione referenziale degli oggetti, non già per “riduzione” o “semplificazione ma verso la complessità” (p. 35). Da una tale visione del realismo, come cuspide lungo un processo, si comprende come per l’artista il flusso, il dinamismo, la lotta tra fattori contraddittori assumono una centralità temporale nella sua opera e non solo nel suprematismo: il tutto confluisce sempre nel presente e gli opposti tenderanno a coincidere. “Creare vuol dire vivere, produrre eternamente cose sempre nuove” (p. 36). La ribellione contro le convenzioni è assoluta e costante, eterna, è una verità – e non un indice di sincerità.

3. Una gaia scienza

Nel 1919, in qualità di professore all’Istituto artistico popolare di Vitebsk – dove era stato chiamato da Marc Chagall – Malevič pubblica un altro libricino, un’evoluzione di quello del 1916, ma spuntato delle massime apodittiche e misticheggianti, Sui nuovi sistemi in arte, dove chiarifica la sua idea di flusso.

Rifiutare il naturalismo non significa rifiutare la natura – nella quale l’artista include parimenti il progresso tecnologico. Essendo l’essere umano natura, questa non si può in alcun modo negare, anzi bisogna goderne. La natura, come l’artista, crea incessantemente, mai si ferma e mai si guarda indietro. E “[l]’arte avanza inesorabilmente; molto è stato scoperto sin dai tempi di Greci e Romani, si sta scoprendo ora, e verrà scoperto dopo di noi. La vita si sviluppa accanto a nuove forme; una nuova arte, un nuovo mezzo e una nuova esperienza sono necessarie a ogni epoca” (Malevich, 1968, p. 89, trad. mia).

L’inesorabilità del flusso naturale e artistico può essere colta dall’energia corporea (p. 84; p. 116), ma si deve accompagnare alla facoltà creativa principale, l’intuizione. Essa è necessaria per liberarsi dalla percezione degli oggetti, per restituire nuovi segni. L’oggettività lasciamola alla fotografia e al cinema (pp. 92-93). Ancora, l’intuizione

è il nucleo dell’infinito. Tutto ciò che è visibile sul nostro globo si disperde in essa. Le forme hanno origine dall’energia intuitiva che conquista l’infinito. [...] Il globo è […] un ammasso di saggezza intuitiva che deve percorrere i sentieri dell’infinito. Tutto è sorto dalla terra e sta correndo e ogni passo è un’epoca della cultura, ogni passo affronta una nuova conquista e così deve sempre cambiare, con enfasi differenti; le forme del passato si disintegrano nuovamente in elementi, continuando in questo modo fino alla scomparsa della loro energia. La cultura e i mondi cambiano in questo modo (p. 104, trad. mia).

Le culture e i mondi cambiano secondo evoluzione, a volte secondo rivoluzione, ma entrambi i mutamenti hanno lo stesso obiettivo: la formazione di segni e non la ripetizione della natura (p. 94). Il passaggio dal vecchio al nuovo è dinamico, naturale, vige la coincidenza degli opposti:

nulla è disgregato o separato o proveniente da una direzione opposta, ma tutto segue lo stesso ampio tracciato e si origina dalla stessa fonte – dalla fine del movimento. [...] La perfezione del mondo è la perfezione dell’uomo, del suo organismo che cambia eternamente e si rinnova differentemente, poiché la sua costruzione, il suo sistema è semplicemente uno strumento per conquistare l’infinito. Ogni passo lungo tale cammino provoca la catastrofe e l’estinzione del mondo esistente [...] (p. 101; pp. 103-104, trad. mia).

Ciò che è assai interessante è la consapevolezza di Malevič che il suprematismo non è certo una conclusione in sé o che possegga una sua teleologia: “È altresì possibile che la nuova conclusione suprematista ci conduca a nuovi sistemi, al di là della confusione dell’oggettività, verso una potenza puramente energetica del movimento” (p. 116, trad. mia).

Corrispondendo epistolarmente con il filosofo Michail Geršenzon, Malevič si rende conto di dover andare più a fondo nella comprensione di sé e del suo lavoro, specialmente in seguito a una sua conferenza a Vitebsk finita male (Vakar, Mikhienko, 2015, p. 114). L’anno successivo dichiarerà quindi, in Suprematismo. 34 disegni, che da quel momento in avanti lavorerà “non più con il pennello, ma con la penna”, che la “pittura ha fatto il suo tempo” e affiderà “l’evoluzione ulteriore del suprematismo, che è ormai architettonico, ai giovani architetti nel senso più ampio del termine”, poiché si è “ritirato nel dominio per me nuovo del pensiero” (Malevič, 2000, pp. 70-71). Malevič si veste sì da filosofo, ma da filosofo-artista da gaia scienza, colui che, “senza volerlo, fa tuttavia ciò che è il suo ufficio: parodiare le nature scientifiche e antiartistiche. Un atteggiamento rispetto alla scienza diverso da quello parodistico, egli non dovrebbe cioè averlo, finché è appunto artista e solo artista” (Nietzsche, 1981, p. 191). Non dobbiamo dunque preoccuparci della non sistematicità o della fragile consistenza discorsiva delle sue argomentazioni, rese particolarmente evidenti dalla sua formazione non accademica. Se è certo che Malevič smette – per ora – di fare il pittore, egli non può smettere di essere artista. E così fa filosofia: da artista. Le norme della logica filosofica non valgono per lui e l’ermeneutica dei suoi testi deve essere per necessità anch’essa artistica.

La compresenza degli opposti, la tensione verso l’infinito, verso la perfezione, ritorna nel suo testo più affascinante del periodo vitebskiano, sin dal titolo nel segno, critico, di Nietzsche: Dio non è stato detronizzato, pubblicato nel 1922 – proprio il libro che egli regala a Charms con la dedica “Andate e fermate il progresso”. Dio non è stato detronizzato è un’estetica, che è anche filosofia della vita e visione del mondo e del cosmo. È anche un testo “difficile”, apparentemente ambiguo e incoerente, tanto che neppure il carissimo El Lissitzkij lo accetta o comprende (Vakar, Mikhienko, 2015, pp. 170-171).

Affine agli innovatori tedeschi dell’Ottocento – per i quali alla base dell’attività creativa è l’entusiasmo (Solger) o l’amor fati (Nietzsche) – così come al più contemporaneo Bergson dello slancio vitale, il principio primo della vita è per Malevič l’eccitazione, “fiamma cosmica”, non più una non ben precisata energia, e il pensiero ne è il raffreddamento. L’eccitazione è motore estetico e tende alla perfezione dell’infinito, questo è il messaggio dell’artista (Malevič, 2013, p. 42). Nell’interazione tra eccitazione e pensiero, la natura genera mondi e l’artista rappresentazioni. Ora, il problema degli esseri umani è che confondono l’eccitazione col pensiero, creando una serie di menzogne e inganni che permettano alle comunità di stare insieme (p. 48). Anche qui l’eco nietzscheano è assai forte. L’eccitazione però rimane e punta alla perfezione, che Malevič chiama semplicemente Dio. L’essere comunitario, che scambia l’eccitazione per pensiero, tende anch’esso a Dio, ma gli dà un corpo finito, attraverso la fabbrica o la chiesa, verso la perfezione in questa o nell’altra vita. La prima produce santi, scienziati la seconda, ma ben pochi saranno i santi e gli scienziati autentici! È forse proprio in questo momento, che Malevič comincia a dubitare dell’effettiva rivoluzionarietà in atto in Russia e a intuire l’equivalenza “religiosa” tra il Dio dei cristiani e il Dio dei materialisti (pp. 58-62).

Invece, il processo che tende alla perfezione estetica attraversa diversi momenti di cambiamento: un sistema muta, quando una delle sue unità costitutive ne oltrepassa i limiti (evoluzione verso il nuovo); un sistema evolve linearmente, quando le unità non oltrepassano i suoi limiti; esso è perciò un “sistema ereditario” (pp. 54-55). Secondo questa cornice interpretativa, per Malevič ogni evoluzione-rivoluzione prevede che un sistema soppianti un sistema, così come una forma soppianti una forma.

Ma in che cosa consiste questa unità? L’unità che “víola la norma”, vi “si oppone” e la “distrugge” è l’elemento addizionale, che “può sviluppare e creare nuove forme, avendo conquistato o mutato una norma precedente e creato una nuova circostanza” (Malevič, 1976, pp. 148-149, trad. mia). Solo un’individualità fluida sarà anche libera, in grado di trasgredire le norme e creare nuove immagini (p. 155). Generalmente, “[l]’immagine è la nostra incapacità di vedere l’originale” (p. 153, trad. mia), ma non è importante vedere questo originale, se riusciamo a vedere i dinamismi e i cambiamenti in atto, cioè a individuarne gli elementi addizionali. Per esempio, l’addizionale cézanniano è la traccia fibrosa del pennello, quello cubista la formula della falce, quello suprematista la linea retta. Non dobbiamo però convincerci che tale analisi sia formale e punto: l’elemento che dall’esterno irrompe nel sistema e lo víola può essere anche extra-artistico (il contesto urbano piuttosto che quello rurale), perfino utilitaristico, come il “politico” nel realismo storico degli Ambulanti (p. 172). In questo senso, l’arte “non progredisce” (p. 165): non c’è progresso nel passaggio da un elemento addizionale all’altro, da una cultura all’altra, da una forma all’altra, bensì un conflitto costante tra gli stessi, catastrofi e distruzioni.

Verso la fine del testo, stabilendo che il contesto rurale della cultura contadina si accordi all’elemento cézannista, quello urbano della cultura metallica al cubismo e al futurismo e l’aria al suprematismo, Malevič si chiede cosa potrebbe succedere se questi ultimi fossero trasferiti nel mondo della provincia, questione che lo lascia piuttosto scettico (pp. 189-190).

4. Tynjanov: parodia ed evoluzione

Malevič non gode di grande fortuna: a Leningrado ha un piccolo gruppo di artisti amici e sodali come Michail Matjušin e di ex-allievi fedeli, alcuni vecchi amici e conoscenti nei piani alti della politica culturale (Kirill Šutko e Anatolij Lunačarskij), ma l’incedere inesorabile di un’arte ideologica di Stato fa di lui un artista isolato intellettualmente. Un’eccezione è rappresentata da Jurij Tynjanov, uno dei Formalisti attivi al Giii, specialista di letteratura russa e tedesca dell’Ottocento, ma anche finissimo critico della poesia contemporanea4. Per un breve periodo Malevič e Tynjanov sono colleghi – anche se in diversi dipartimenti – e la loro singolare affinità intellettuale e metodologica farebbe pensare che i due possano aver messo in atto una qualche forma di collaborazione all’Istituto a beneficio di studenti e studentesse. Non ci sono tracce che documentino un’effettiva conoscenza o amicizia. In ogni caso, la galassia degli artisti “di sinistra” e quella dei Formalisti del Giii erano rimaste in stretto e mutuo contatto anche negli anni Venti, grazie a Šklovskij, Vladimir Majakovskij e Osip Brik.

Come Malevič per i processi visivi, Tynjanov propone per quelli letterari un modello dinamico e fluido di evoluzione, in nessuno modo lineare: “Si può parlare di successione solo per i fenomeni d’una scuola, dell’epigonismo, non per i fenomeni dell’evoluzione letteraria, il cui principio è la lotta e il mutamento” (Tynjanov, 1968, p. 28). Flusso e dinamismo sono i principi fondamentali per comprendere unità e integrità dell’opera letteraria (Tynianov, 1981, p. 33). L’opera non è dunque conclusa in se stessa, autonoma, bensì un sistema in interazione con altri sistemi. Essa, dinamica a sua volta, agisce in contesti e sistemi tra loro in opposizione: solo all’interno di una lotta, di uno scontro, l’opera diviene un fatto rilevante nell’evoluzione letteraria. L’elemento che chiamiamo di novità, la “nuova forma”, avviene attraverso l’introduzione di un mutamento del principio costruttivo nel sistema di riferimento (Tynjanov, 1968, pp. 32-33). Questo principio, definito più avanti come “dominante”, prima da Tynjanov stesso e poi da Roman Jakobson, reca non casuali analogie con l’elemento addizionale di Malevič. Scrive Jakobson negli anni Trenta da Praga: “La dominante può essere definita come la componente centrale dell’opera d’arte: essa governa, determina e trasforma le altre componenti. È la dominante che garantisce l’integrità della struttura” (Jakobson, 1978, p. 82, trad. mia). Non occorre ricordare come verso il 1913-1915 Malevič e il giovanissimo Jakobson si frequentassero spesso e si ammirassero l’un l’altro5.

I mutamenti, le violazioni, le opposizioni alle abitudini e alle norme, formali e non, di cui Malevič spesso scrive, trovano uno spirito simpatico in ciò che Tynjanov legge proprio nei poeti futuristi, già compagni di viaggio del primo negli anni Dieci: “In sostanza, ogni mostruosità, ogni ‘errore’, ogni ‘deroga’ alla poetica normativa è, potenzialmente, un nuovo principio costruttivo (tale è, in particolare, l’uso delle trascuratezze linguistiche e degli ‘errori’ come espedienti di spostamento semantico nei futuristi” (Tynjanov, 1968, p. 35). E non che il nuovo principio costruttivo sia necessariamente letterario, anzi sono i fenomeni di costume, spesso da feuilleton, le piccole forme dell’inezia, le epistole, che assumono il ruolo di errore nel sistema letterario “alto”, contribuendo all’evoluzione letteraria.

Il sistema critico di Tynjanov presenta notevoli affinità elettive con quello di Malevič. In relazione al problema della convenzione, dell’automatizzazione e dell’epigonismo dei linguaggi poetico e prosaico, Tynjanov differisce dall’artista e introduce una di queste piccole forme, funzione e motore dell’evoluzione letteraria: la parodia. La parodia, come la stilizzazione, vive una doppia vita, in secondo grado direbbe Genette6, laddove è percepibile il piano di ciò che è parodiato o stilizzato. La differenza tra le due funzioni risiede nel fatto che l’interazione tra il parodiante e il parodiato è discrepante, discorde. La funzione parodica è diretta verso o contro un materiale o dispositivo che è giunto a convenzione, automatizzazione, ne svela l’epigonismo (i vestiti nuovi dell’imperatore), ne detronizza la presunta autorità per generare un nuovo materiale o dispositivo (pp. 138-139; p. 150). E il ciclo dell’evoluzione letteraria riprende, all’insegna della funzione critica della parodia, che avviene

con una […] ripetizione [del procedimento verbale], che non coincida col piano compositivo, e con l’inversione delle parti (una parodia comune di questo tipo è la lettura di una poesia dal basso verso l’alto), e con lo spostamento del significato mediante un gioco di parole ([…] il refrain parodistico de Le rane di Aristofane ai versi di Euripide […]); infine segregandolo dai procedimenti analoghi e unendolo a procedimenti che lo contraddicono (p. 150).

Malevič non utilizza quasi mai il termine parodia, se non come farsa o vuota allusione: “[L]a Venere di Milo è un modello palese di decadenza – non è una donna reale ma una parodia” o “[u]n viso dipinto in un quadro è una pietosa parodia della vita e questa allusione è soltanto un ricordo della vita” (Malevič, 2000, p. 35; p. 52). Tynjanov la intende però come funzione e questa funzione può ben essere tracciata strutturalmente nel processo artistico di Malevič – l’elemento addizionale conquista e muta la norma (Malevič, 1976, p. 149), come la funzione parodica tynjanoviana. Il percorso verso il suprematismo è costituito di ripetizioni e appropriazioni, ma restituiti con differenza e discrepanza: così sono le sue interazioni in secondo grado con il simbolismo di Petr Utkin o il neo-primitivismo di Natalija Gončarova, i cubismi di Picasso e Léger o il futurismo di Severini. Tali interazioni – diciamo in funzionalità parodica nel senso tynjanoviano – automatizzano “quei” linguaggi pittorici (simbolismo, neo-primitivismo, cubismo, futurismo) al fine di generare nuove forme ed elementi addizionali. Il Bagnante dello Stedelijk Museum (1911)7 si appropria criticamente di elementi tratti dai Matisse e dai Cézanne nella collezione Ščukin, così come dalla collega Gončarova e perfino intermedialmente dal Manifesto tecnico della pittura futurista8. Con quest’opera, Malevič decostruisce il suo presente attraverso la parodia dei codici visivi esistenti, al fine di generare o scoprire nuovi materiali, nuove possibilità, nuovi elementi addizionali.

Lo stesso Quadrato nero può essere interpretato, parzialmente, come parodia, non solo per la discrepanza assoluta con il mondo della rappresentazione referenziale e per lo spostamento semantico – alla mostra 0,10 esso occupa lo spigolo tradizionalmente dedicato all’icona religiosa: ribellione e blasfemia senza condizioni. C’è un ulteriore elemento di parodia, che viene dalla tradizione della stessa. Nel 2015, un’indagine scientifica sul dipinto ha rilevato, sul fondo bianco in basso a sinistra, la traccia di una scritta, autografa o no, non si è sicuri: “bytva negrov”9. Il riferimento è ovviamente alle Arti incoerenti parigine degli anni Ottanta dell’Ottocento e all’immagine monocroma nera di Paul Bilhaud, Battaglia di ne*ri in una caverna durante la notte (1882), portata alla popolarità da Alphonse Allais. Ora, questa citazione trovata sul Quadrato nero ha creato sconcerto tra gli specialisti, ma cosa ci sarebbe di così perturbante nello scoprire che Malevič conoscesse – e bene – questo monocromo-inezia? Tynjanov nota che, mediante la funzione parodica in poesia possono generarsi opere o serie ibride, in cui metro e sintassi da un sistema sono posti in interazione discrepante con vocabolario e semantica da un altro: proprio in poesia, osserva, è accaduto che un metro comico venisse utilizzato con un vocabolario eroico – ed ecco che si creava un nuovo materiale. Esattamente così è per Majakovskij stesso, compagno “di sinistra” di Malevič. In questo, Tynjanov segue il Bergson de Il riso (1899), per il quale la parodia più interessante avviene nella trasposizione dalla commedia alla tragedia e non dalla tragedia alla commedia – come generalmente si intendeva la parodia (Bergson, 1991, pp. 94-95). Dalla commedia del monocromo di Bilhaud-Allais alla tragedia dell’“infante regale vivo” (Malevič, 2000, p. 52): ecco il Quadrato nero!

5. Forma soppianta forma

Dopo aver intimato al giovane amico Charms di andare e fermare il progresso, Malevič parte per l’Europa occidentale, esponendo i suoi lavori più importanti a Varsavia (marzo 1927) e a Berlino (maggio-settembre 1927). Durante il suo soggiorno berlinese, l’artista cementa i suoi contatti con il Bauhaus di Dessau, presso il quale pubblicherà in dicembre Die gegenstandslose Welt, impaginato da Moholy-Nagy. Insieme a Hans Richter nasce un’idea di collaborazione per un film non-oggettivo, purtroppo mai realizzato.

Per cause sconosciute, ma sicuramente legate a sospetti ideologici della Čeka, nel giugno 1927 Malevič torna precipitosamente a Leningrado. Verrà a lungo sospettato di spionaggio, tanto da essere incarcerato per due mesi nell’autunno del 1930. La mostra berlinese non tornerà mai più e finirà, dopo vicissitudini e trasferimenti, in larga parte allo Stedelijk Museum di Amsterdam, dove ancora oggi risiede.

Nel 1928 Stalin annuncia il primo piano quinquennale. Anche la produzione artistica è compresa: pian piano prende forma quella cultura visiva di Stato, che si definirà realismo socialista. Malevič comincia un lavoro che lascia apparentemente interdetti: da una parte, egli dipinge opere chiaramente pre-suprematiste, delle copie si potrebbe dire, retrodatandole; dall’altra dipinge lavori nuovi, nei quali l’oggetto torna ad affiorare, che in qualche occasione, sul retro di una tela, rubrica sotto il termine “supranaturalismo” (Petrova, 2014, p. 201). La questione delle copie retrodatate si può spiegare con la necessità dell’artista di avere opere di un determinato periodo a disposizione per future mostre. Vien però da chiedersi se non ci sia anche una motivazione estetica. Siamo sempre nel flusso? Può il tempo essere piegato da Malevič per eccitazione e intuizione, tanto da rendere irrilevante la sua percezione lineare? Esistono contemporaneamente più presenti? Uno dove l’artista vive la propria unità e si sposta a piacimento o volontà lungo il segmento temporale – un presente intuito – e un secondo presente, per ragione. E la ragion (di Stato) afferma: realismo socialista.

Infatti, è innegabile che i lavori nuovi di Malevič siano in interazione con la contemporanea arte ideologica, da cavalletto o da stampa. Si potrebbe avanzare l’ipotesi che esista un suo “ritorno”, sia alla pittura sia alla figurazione, e che ciò sia dovuto a qualcosa di drammatico (un interrogatorio violento?), in grado di incrinare o spezzare l’artista. Può il ribelle Malevič piegarsi alle – pur violente – norme e convenzioni? L’artista pratica un linguaggio visivo esopeo, un cripto-realismo, una “terza via” tra suprematismo e realismo socialista in grado di esprimere un velato dissenso (Wexer Katsnelson, 2006, p. 90)? Eppure: il contesto culturale è contro Malevič nel 1913, nel 1916, così come nel 1929 (mostra alla Galleria Tretjakov di Mosca). Gli attori sono cambiati e il furore ideologico di carattere conservatore ha solo cambiato uniforme e linguaggio. Malevič è solo, allora come ora. Le convenzioni (artistiche e ideologiche) da una parte, lui dall’altra. Oppure ci teniamo il suprematismo e ci convinciamo che esso confluisca in questo “supranaturalismo” e si mantiene in parallelo al realismo socialista (Petrova, 2014, p. 201; p. 203). Non credo: ancora una volta, è il suo senso del flusso della vita e dell’arte a far risuonare Malevič con un nuovo presente. Non è più tempo di suprematismo – quasi tutte le tele sono rimaste in Germania, tra l’altro – e una nuova forma deve soppiantare la vecchia.

Già Rainer Crone e David Moos avevano notato che le opere post-1927 fossero figurative sì, ma non descrittive o referenziali (Crone, Moos, 1991, p. 178). Da una parte, esse testimoniano la ripresa di una pratica tynjanoviana della parodia che già era visibile nella sua lotta precedente con gli “ismi” modernisti (simbolismo, neo-primitivismo, cubismo, futurismo): la convenzione da parodiare è ora il realismo socialista, sia nelle forme della pittura – Kuzma Petrov-Vodkin, il vecchio compagno Ilja Maškov o il giovane Isaak Brodskij – sia in quelle della stampa di propaganda, celebrante i lavoratori nelle fabbriche e nei campi o gli atleti nelle competizioni sportive. Dall’altra parte c’è anche un rinnovato sguardo al passato, la fascinazione per la terra d’Ucraina dove Malevič era cresciuto e il cui ricordo mai l’aveva abbandonato, se ancora nel pieno del furore suprematista scriveva a Geršenzon da Vitebsk:

è passato tantissimo tempo, da quando crescevo sui campi più sperduti della provincia, dove sembrava che tutto fosse muto e che tutto parlasse con te, eppure solo dentro di te potevi sentire i raggi emanati dai campi, dal cielo, dalle foreste e dalle montagne […], mentre i suoni muti dell’interiorità ti riempivano il petto e ti sembrava di doverti alzare in punta di piedi per vedere qualcosa da vicino, al di là di essi. Mi piacevano – e mi piacciono ancora oggi – i luoghi alti o gli interstizi, attraverso i quali si possono vedere campi ondulati e montagne all’orizzonte. In gioventù, mi arrampicavo sulle alture come per ascoltare tutto ciò che accadeva in lontananza; vedevo come la superficie colorata della terra si snodava in nastri colorati, in tutte le direzioni (Vakar, Mikhienko, 2015, p. 112, trad. mia).

È il 1919 e Malevič descrive campi e montagne all’orizzonte o a volo d’uccello, così come la superficie della terra segnata da tanti nastri colorati. Difficile non rimanere sbalorditi da queste parole, guardando a opere successive di dieci anni come Contadino nei campi del 1928-192910. Il flusso rimane, l’artista crea in continuazione, come la natura. Malevič sente di appartenere sempre meno a quel mondo urbano, nel quale l’elemento addizionale ideologico, la dominante, sta divenendo norma per ragione e non per intuizione. Anche il tempo non gli appartiene più. Non è questione di passato, presente, futuro – bisogna fermare il progresso – ma di compresenza dei vari Malevič, la quale è unità e dinamismo interno. Lo sguardo a quel mondo contadino ucraino, che già tanto gli aveva dato, rende le ultime pagine dell’Introduzione all’elemento addizionale ancora più significative: perché non inserire gli addizionali futuristi, cubisti e suprematisti su quelli del villaggio – l’icona, le decorazioni native e i cicli naturali (il dualismo cielo-terra dominante i dipinti del 1928-1932)? Il rapporto tra il centro e la periferia come incunabolo del mutamento trova eco ancora in Tynjanov:

risultano incerti non solo i confini della letteratura, la sua “periferia” e le sue zone di frontiera; qui si tratta proprio del “centro”. Non che nel centro della letteratura si muova e si evolva una tendenza secolare che si tramanda come un’eredità, e i fenomeni nuovi si diffondano solo ai margini; questi nuovi fenomeni vanno a stabilirsi nel centro e il centro si trasferisce in periferia. In epoca di decomposizione di qualche genere, esso si trasferisce dal centro alla periferia, e al suo posto affluisce, dalle inezie della produzione letteraria, dagli angoli più nascosti, dalle pieghe, un fenomeno nuovo […] (Tynjanov, 1968, p. 27).

Malevič, innestando tra loro diversi elementi addizionali, genera un nuovo materiale visivo. “Per quanto i miei nemici mi accusino, io so che le mie forme sostituiranno a ogni modo le vecchie e lo stanno già facendo” (Vakar, Mikhienko, 2015, p. 225, trad. mia). Ancora Tynjanov: “Tutta l’essenza della nuova costruzione può essere nel nuovo uso dei vecchi procedimenti, nel loro nuovo significato costruttivo” (Tynjanov, 1968, p. 29).

Malevič passa da volti schematizzati, “iconici”, come nel Contadino citato, a volti vuoti, cancellati, suoni sordi e terribili come quello del Quadrato nero. Il ruolo del volto nella rappresentazione pittorica è un’allegoria ricorrente nei suoi scritti. Nel 1916 egli scriveva: “[U]n viso dipinto in un quadro è una pietosa parodia della vita e questa allusione è soltanto un ricordo della vita” (Malevič, 2000, p. 52). Nel 1926 ribadisce il concetto sia dal punto della mimesi naturalistica, cioè come modo (Malevič, 1976, p. 151), sia da quello della celebrazione ideologica, cioè come oggetto (p. 193).

L’opera Uomo che corre (post-1930)11 del Pompidou di Parigi è fondamentale per comprendere la complessità cui è arrivata la pittura di Malevič. Se la prendiamo dal punto di vista della parodia, ma solo a livello di vocabolario, l’obiettivo è senza dubbio Corsa (1930)12 di Aleksandr Dejneka, in particolare l’atleta in primo piano. Dunque la pittura di Malevič non subisce l’arte di Stato, né si pone in parallelo: il realismo socialista è materiale normativo da sfruttare, da criticare. All’atleta naturalista si sostituisce il contadino ucraino, schematizzato, rovesciato nell’incarnato e scarnificato nella fattura pittorica. Un “dipingere male” che non può non far venire in mente l’elemento addizionale cézanniano. La corsa è peraltro un concetto sia filosofico sia biologico per l’artista, che non può smettere di fermarsi e creare, inserito nel flusso cosmico della natura. I campi, i nastri colorati, scorrono sotto i piedi dell’artista-contadino, come le linee bianche di una pista di atletica, mentre statici rimangono il potere degli uomini di chiesa e di partito, di croce e spada, di casa bianca e casa rossa. Una visione titanica del sé nel flusso della natura e dell’arte, sconfiggendo il tempo e il pensiero. Sarebbe straordinario se fosse dimostrabile che l’Uomo che corre fosse veramente l’ultima opera dipinta dall’artista (Martin, 1980, p. 137).

Per Malevič non esiste una terza via, come non ne esiste una seconda, da scegliere o subire, e neppure una, quella più modernista, di continuità. Esiste l’artista ed esiste la sua opera, sempre presente e sempre nel flusso della natura, entrambi lottano incessantemente con le convenzioni, generando errori, mostruosità, elementi addizionali, sconcerti e odio ideologico. I sistemi si rinnovano sempre, guarda e passa. Scrive Malevič all’amico Šutko nel maggio del 1930: “Io soffro, come [Giordano] Bruno. Ma le mie forme resteranno, come sono rimaste le dimostrazioni di Bruno” (Vakar, Mikhienko, 2015, p. 225, trad. mia).

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Notes

1 Chi ha visitato la mostra su Malevič allo Stedelijk Museum di Amsterdam nel 2013-2014 e la parziale ricostruzione di 0,10 comprenderà l’effetto di straniamento nella percezione spaziale causato dal Quadrato nero. Retour au texte

2 Come dal manifesto del futurismo letterario russo Schiaffo in faccia al gusto del pubblico del 1912 (Burljuk, Burljuk, Kručenych, Kandinskij, Livšitz, Majakovskij, Chlebnikov, 1912). Retour au texte

3 Cfr. il gustoso volumetto Galdjaščie “benua” i Novoe Russkoe Natsionalnoe Iskusstvo del 1913, in cui il futurista David Burljuk fa un collage parodistico dei commenti contemporanei di Aleksandr Benois e Repin sulle mostre dei gruppi modernisti (Burljuk, 1913). Retour au texte

4 Cfr., per esempio, il suo bellissimo saggio Intervallo, una disamina, allo stesso tempo lirica e critica, dei poeti del suo tempo – Sergei Esenin, Vladislav Chodasevič, Anna Achmatova, Vladimir Majakovskij, Velimir Chlebnikov, Boris Pasternak, Osip Mandel’stam e Nicolai Aseev – oppure quello su Velimir Chlebnikov (Tynjanov, 1968, pp. 239-276 e 277-290). Retour au texte

5 Cfr. Jakobson, 1999, pp. 34-37. Tynjanov e Jakobson scrivono a quattro mani il manifesto Problemi nello studio della letteratura e del linguaggio, pubblicato sulla rivista Novij Lef nel 1928 (Tynjanov, Jakobson, 1978). Retour au texte

6 Cfr. Genette, 1982. Retour au texte

7 https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Bather_(Malevich,1911).jpg (ultima consultazione: 07 ottobre 2022). Retour au texte

8 Questo bagnante espressionista in corsa, dalla pelle rossa, gialla e bianca, con accenni di verde, blu e violetto sembra essere uscito dal Manifesto del 1910: “Allora, tutti si accorgeranno che sotto la nostra epidermide non serpeggia il bruno, ma che vi splende il giallo, che il rosso vi fiammeggia, e che il verde, l’azzurro e il violetto vi danzano, voluttuosi e carezzevoli!” (Boccioni et al., 2008, p. 31). Il manifesto fu parzialmente tradotto e pubblicato sulla rivista Apollon, no. 9, luglio-agosto 1910, pp. 14-18. Retour au texte

9 Cfr. Vakar, 2019, pp. 18-28. Retour au texte

10 https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Peasant_in_the_Fields.jpg (ultima consultazione: 07 ottobre 2022). Retour au texte

11 https://upload.wikimedia.org/wikipedia/en/9/96/Malevich_running-man.jpg (ultima consultazione: 7 ottobre 2022). Retour au texte

12 https://artsandculture.google.com/asset/the-run-alexander-deineka/cAEYid0YaRtJAw?hl=cs (ultima consultazione: 7 ottobre 2022). Retour au texte

Citer cet article

Référence électronique

Beniamino Foschini, « Kazimir Malevič e Jurij Tynjanov: assoluta ribellione e opera fluida », K [En ligne], 9 | 2022, mis en ligne le 01 décembre 2022, consulté le 17 février 2025. URL : http://www.peren-revues.fr/revue-k/738

Auteur

Beniamino Foschini