A dispetto dell’interesse che gli riserva, quello di Malevič con il cinema è, in più di un senso, un incontro mancato, incompiuto come la realizzazione del film suprematista, che Malevič avrebbe voluto realizzare a partire da una sceneggiatura scritta di suo pugno, e con la regia di Hans Richter. È il 1927, Malevič è a Berlino su invito del Novembergruppe a esporre più di settanta tele in occasione della annuale Grosse Berliner Kunstasstellung. Conosce in quella occasione Richter e insieme cominciano a discutere l’idea di un film di animazione, divulgativo e popolare, per il quale il pittore russo conia la definizione di “Film Artistico-scientifico”. Il film avrebbe dovuto mostrare in maniera didascalica i principi e gli sviluppi possibili della pittura suprematista. Si trattava da un lato di attuare – con gli strumenti a disposizione del cinema – l’intimo dinamismo della composizione pittorica, sul quale Malevič aveva a lungo riflettuto (Malevič, 2016), dall’altro di realizzare un film “non-oggettivo” che liberasse definitivamente il cinema dall’unica – o almeno massicciamente preponderante – vocazione foto-realista. Nella prospettiva di Malevič, che nel film avrebbe trovato la sua esemplificazione visiva, il Suprematismo – sebbene nato in pittura – doveva trasformarsi in uno stile vero e proprio, simile ai grandi stili delle epoche passate e valido per ogni forma d’arte, a cominciare ovviamente dal cinema. Il progetto fallisce per una lunga serie di ragioni, alcune delle quali documentate e ricostruite (Benson, Shatskikh, 2013), altre solo ipotizzabili, a partire da questioni teoriche che hanno a che fare, più genericamente, con l’idea di cinema che Malevič sembra maturare proprio negli anni della stesura della sceneggiatura, riferendosi, per esempio, – in termini estremamente problematici – al lavoro di registi come Ejzenštejn e Vertov1.
Comunque la si voglia interpretare – è questa la nostra ipotesi – la storia di quel film incompiuto non si limita solo a motivi contingenti e circostanziali. È piuttosto la storia complessa di un incontro mancato, le cui ragioni teoriche non è difficile rintracciare, leggendo le pagine che Malevič dedica al cinema, in più di un’occasione. Fra queste, c’è senz’altro una innegabile resistenza, che il Malevič pensatore dell’astrazione dimostra a più riprese di non voler superare, nei confronti di un’arte come il cinema che, già alla fine degli anni Venti, si era imposto come un insostituibile strumento per catturare la realtà, trasportandola nella dimensione nuova di una immagine capace di riprodurne, oltre all’apparenza fenomenica, anche il movimento.
Ciononostante, non c’è nulla di banalmente mimetico o “oggettivo” nella trasposizione artistica della realtà che il cinema mette in atto: essa, infatti, è un’invenzione esattamente come la creazione pittorica a cui pensava Malevič. I registi che costantemente, a partire dagli anni Venti, lavoravano (in Russia soprattutto) alla messa a punto di una nuova idea di montaggio che rifiutasse ogni linearità narrativa (raffigurativa, potremmo anche dire), lo sapevano bene. Lo sapeva bene Vertov che concepiva il montaggio come l’istituzione di una cesura, in senso letterale di un taglio, dentro la continuità del flusso ininterrotto del tempo reale. Dal nero di questo taglio – paragonabile forse al nero della tela più nota di Malevič – passa la possibilità di pensare il cinema come uno strumento capace, contemporaneamente, di cogliere “la vita sul fatto” e ripensarla in una forma nuova: non più semplicemente come ciò che semplicemente è dato, ma come reinvenzione rivoluzionaria di quello stesso oggetto complicato che chiamiamo comunemente realtà2. Kinoglaz (Cineocchio, 1924) è il primo progetto vertoviano di un film costantemente ampliabile, fallito il quale, il regista realizza i film che Malevič cita con più frequenza nei suoi scritti: Odinnadcatyj (L’undicesimo, 1928) e Čelovek c kino-apparatom, (L’uomo con la macchina da presa, 1929), ai quali riconosce – proprio per le questioni qui brevemente accennate – la posizione più avanzata rispetto alla sua idea di cinema suprematista3.
Ben più dure sono invece le accuse rivolte, nella stessa sede, a Ejzenštejn, che a Malevič risponde con argomenti all’altezza teorica delle critiche ricevute, in almeno un paio di occasioni, che più avanti ricorderemo in dettaglio. Ricostruire, anche in questo caso, il dialogo frammentario quanto spigoloso fra i due è un modo, neppure troppo indiretto, per comprendere l’ordine delle questioni in discussione sul finire degli anni Venti in Russia, quando cioè – esauritasi la forte spinta creativa post-rivoluzionaria – c’era, in un certo senso, da fare i conti, allo stesso tempo, con l’esperienza avanguardistica e con la sua complicata eredità. Limitatamente al destino di un’arte giovane, come allora è il cinema, la fine (o almeno il drastico ridimensionamento) di un decennio di sperimentazioni determina il ritorno – più o meno globalmente condiviso – di quella vocazione narrativa che è stata del primo cinema muto e che in seguito era stata abbandonata dal cinema avanguardista, in favore di una tendenza figurativa che aveva trovato nella pittura di inizio Novecento la sua più diretta fonte di ispirazione.
Da protagonista di quella stagione, Malevič legge dunque in chiave unicamente regressiva il momento che il cinema vive, proprio alla fine degli anni Venti, quando l’avvento del sonoro si presenta come un’occasione per aumentare ulteriormente il grado di realtà di cui l’immagine cinematografica sa farsi garante. Sono in molti a vedere in questo scenario inedito la ragione di una prematura fine del cinema, nato come arte muta, ontologicamente fondata sul primato dell’immagine più che su quello della parola: condizione che l’arrivo del sonoro avrebbe messo ben presto radicalmente in discussione4. Di questo tipo di preoccupazione si legge, fra le altre cose, negli scritti di Malevič, quando per esempio, rivolge a Ejzenštejn l’accusa di alimentare, con i suoi film, la spinta realista a cui il nuovo cinema sonoro avrebbe inevitabilmente aderito. Certo egli è (o meglio è stato) un innovatore, anche Malevič deve ammetterlo, “ma è allo stesso tempo un vecchio artista della Scuola Itinerante5 che non desidera soltanto apportare delle novità nel cinema, ma anche dare espressione alla vecchia pittura itinerante, usando tutti gli strumenti tecnici a disposizione del film” (Malevič, 1997, p. 78)6.
C’è da pensare che “gli strumenti” a cui Malevič fa qui riferimento siano connessi proprio alle possibilità dischiuse dal sonoro e dalle sue, allora recentissime, applicazioni. Ejzenštejn, va ricordato, non si iscrive, infatti, alla lunga lista di detrattori del sonoro, non vede in esso il segnale di una regressione formale, stilistica e persino politica del cinema, né l’annunciarsi della vittoria dello stile realista più conservatore. Si sbagliava, evidentemente, perché di lì a qualche anno il sonoro si sarebbe imposto come pratica comune anche in Unione Sovietica e, congiuntamente ad altre contingenze storiche e politiche, sarebbe stato lo strumento di un radicale e definitivo “ritorno all’ordine”, anche nel cinema; il movente per l’affermazione di quello stile, noto come “realismo socialista”, i cui dettami tutti – Ejzenštejn compreso – non poterono esimersi dal seguire7.
Quando nel 1928 sottoscrive, insieme a Pudovkin e Aleksandrov, una Dichiarazione sul sonoro, questo scenario sembra però ancora molto lontano ed Ejzenštejn, pur considerando il sonoro “un’arma a due tagli”, pensa piuttosto alla possibilità che il nuovo strumento, ancora in via di sperimentazione, sia utilizzato in senso apertamente anti-naturalistico, o come si legge, in modo “asincronico” e “contrappuntistico”:
Soltanto l’impiego contrappuntistico del suono rispetto all’immagine offre possibilità di nuove e più perfette forme di montaggio. Pertanto le prime esperienze di fonofilm debbono essere dirette verso una non coincidenza tra immagine visiva e immagine sonora: questo sistema porterà alla creazione d’un nuovo contrappunto orchestrale (Ejzenštejn, 2003a, p. 270).
Soltanto se inteso non come semplice commento esplicativo al contenuto visivo delle immagini (come avviene, invece, nel caso di un “film parlato”), ma come elemento espressivo autonomo, come strumento al servizio del “progresso del montaggio”, il sonoro potrà dirsi capace di aprire una “quarta dimensione del cinema”8, e mostrare ulteriori possibilità di un’arte ancora tutta da inventare. Soltanto così la scoperta tecnica di cui si parla può non essere semplicemente, nell’interpretazione che ne dà Ejzenštejn, “un fattore casuale nella storia del cinema; ma lo sbocco naturale dell’avanguardia cinematografica” (ib.).
C’è insomma, in Ejzenštejn, la stessa avvertita consapevolezza che anima la riflessione di Malevič, attorno all’innegabile tentazione realista che avrebbe minacciato il cinema, come arte del montaggio, e il suo sviluppo, in virtù dei cambiamenti resi possibili da nuovi strumenti tecnici, come il sonoro. Ma c’è anche il desiderio e la necessità di pensare una strada diversa da quella che, di lì a poco, si sarebbe dimostrata maggioritaria. Forse proprio per immaginare alternative possibili nello sviluppo futuro del cinema, nell’agosto 1928, Ejzenštejn invita Malevič a scrivere alcune note sulla relazione fra teatro, cinema e pittura.
Come testimoniato da una lettera, datata 13 agosto 1928, e conservata nell’archivio Ejzenštejn a Mosca9, Malevič rifiuta però l’invito, disapprovando la linea assunta dal LEF10, sulla cui rivista l’articolo sarebbe stato pubblicato. Un anno più tardi, un articolo di Malevič, intitolato Živopisnye zakony v problemach kino (Leggi della pittura nei problemi del cinema) viene pubblicato su una nuova rivista «Kino i kul’tura» (Cinema e cultura). Sebbene non sia stato scritto in risposta diretta all’invito di Ejzenštejn, è esattamente del rapporto fra teatro, cinema è pittura che il saggio si occupa. I capi di accusa ai “registi, i critici e gli studenti di cinema” sono essenzialmente due: anzitutto, considerare il cinema come un’arte del tutto indipendente dalle altre e se stessi come “i nuovi luminografi, completamente non influenzati dalla pittura, le cui immagini non possono essere espresse da nessun medium se non dall’arte cinematica” (Malevič, 1997, p. 77). Ma il punto è, sostiene Malevič, che la cineticità delle immagini cinematografiche da sola non basta “ad allontanare il film dallo stato illusionistico dell’immagine pittorica” (p. 78). Così, sebbene rivendichi la propria autonomia (e qui siamo al secondo, ben più rilevante, capo d’accusa), il cinema dimostra in realtà di non sapere usare le proprie possibilità tecniche (anche le più recenti, come il sonoro) per porre il “problema della forma cinematica, in quanto tale, peculiarmente inerente al film” (ib.). In paradossale contraddizione con quanto sostenuto da cineasti e studiosi, la conclusione provocatoria non può che essere, nell’argomentazione di Malevič, una e una soltanto: i problemi già emersi in pittura diventano, cioè, anche i problemi dell’arte cinematica. In questo senso, neppure in considerazione dei suoi sviluppi tecnici più recenti, il cinema può considerarsi un’arte innovativa, perché finisce per porre problemi ormai vecchi in pittura: “le produzioni cinematiche si sviluppano in conformità con un materiale pittorico che appartiene già agli archivi della storia della pittura. I nuovi film sulla vita di tutti i giorni portano il segno di un’epoca storica ormai archiviata, come quella degli Itineranti” (ib.). È qui che il nome di Ejzenštejn viene convocato, come erede di questo vecchio tipo di rappresentazione pittorica.
La risposta non tarda ad arrivare ed è contenuta in un saggio intitolato La quarta dimensione del cinema, pubblicato sulla rivista «Kino» nell’agosto del 1929. È questa la prima occasione in cui Ejzenštejn avanza l’ipotesi di una nuova forma di montaggio che definisce obertonnyi (armonico) e che giunge dopo i processi di montaggio già conosciuti: il montaggio metrico, quello ritmico e quello tonale. Ora, il montaggio armonico si presenta come: “un interessante criterio per valutare il montaggio dal punto di vista della sua ‘pittoricità’. La pittoricità qui si oppone alla cinematograficità. La pittoricità estetica alla sensualità fisiologica” (Ejzenštejn, 2013, p. 66). Ciò che, replicando a Malevič, interessa a Ejzenštejn dimostrare è, insomma, l’esistenza di una specificità del cinema e del suo funzionamento, insieme alla novità dell’ordine di problemi che esso è in grado di sollevare. Tale specificità risiede, a ben vedere, nella dimensione intimamente sonora alla quale risponde il processo di montaggio che sostanzia l’essere stesso del cinema. C’è infatti una sonorità che appartiene al cinema ben prima dell’avvento del sonoro e in essa vanno ricercate le ragioni più profonde della distanza fra pittoricità e cinemograficità, il senso del movimento che al cinema trova il suo più profondo inveramento e non semplicemente la sua manifestazione esteriore.
Discutere sui valori pittorici dell’inquadratura cinematografica sarebbe ingenuo. È ciò che fanno, in genere, le persone con una buona cultura pittorica, ma del tutto incompetenti di cinema. A questo tipo di considerazioni possono essere riportate, per esempio, le dichiarazioni sul cinema di Kazimir Malevič. Ma a nessun giovane cineasta verrebbe mai in mente di esaminare i fotogrammi di un film dal punto di vista della pittura da cavalletto.
Io penso che un criterio per valutare la “pittoricità” di una di una struttura di montaggio, nel senso più ampio della parola, possa essere il seguente: che il conflitto si risolva all’interno di una qualsiasi categoria di montaggio, senza invadere il rapporto tra diverse categorie di montaggio.
Il cinema invece comincia là dove comincia la collisione tra diverse misure cinematografiche di movimento o vibrazione.
Per esempio, sarà “pittorico” il conflitto fra figura e sfondo (nella statica o nella dinamica) oppure l’alternarsi di pezzi diversamente illuminati soltanto dal punto di vista del conflitto delle vibrazioni luminose, oppure della forma dell’oggetto rispetto alla sua luminosità e così via (ib.).
Occorre leggere fra le righe per comprendere, mi pare, la reale entità delle critiche rivolte a Malevič da Ejzenštejn, che superano di gran lunga il problema teorico, pure centrale, della contrapposizione fra cinema e pittura e riguardano il modo in cui debba intendersi la categoria del conflitto, come questione rivoluzionaria tout court. Il punto in discussione è di centrale importanza perché apre a implicazioni sulle quali la riflessione di Ejzenštejn si concentrerà negli anni successivi alla stesura de La quarta dimensione del cinema e che ora trovano una prima, fondamentale definizione.
Molto sinteticamente si può forse dire che qui Ejzenštejn voglia rivendicare, prima di ogni altra cosa, la propria sincera adesione al pensiero dialettico e alle possibilità che esso dischiude nella prospettiva teorica di una “storia generale delle arti”11 e di una filosofia autenticamente comunista della storia, considerate nelle loro reciproche implicazioni. Il richiamo alle parole di Lenin è funzionale esattamente a questo:
Questi sono a quanto sembra gli elementi della dialettica. Si possono presentare questi elementi della dialettica anche in modo più dettagliato […]
11. Processo infinito di apprendimento della conoscenza delle cose, dei fenomeni, dei processi ecc. a opera dell’uomo, dal fenomeno all’essenza e dall’essenza meno profonda a quella più profonda.
12. Dalla coesistenza alla causalità e da una forma di connessione di dipendenza reciproca a un’altra, più profonda, più universale.
13. La ripetizione di certi tratti, proprietà ecc. dallo stadio inferiore nel superiore e…
14. L’apparente ritorno all’antico (negazione della negazione) (Lenin, 1970, pp. 216-217)12.
Lo schema qui esposto dalla dialettica leniniana consente a Ejzenštejn di concepire un modello storiografico nuovo che supera il vincolo dell’opposizione binaria fra le arti e con esso l’impasse in cui sembra finire inevitabilmente la riflessione di Malevič come accade, per esempio, quando prende in considerazione la relazione fra pittura e cinema. Il punto più rilevante in discussione è, senza dubbio, il rapporto fra quelli che Lenin definisce “stadio inferiore” e “superiore” (delle arti, ma non solo), pensati in reciproca e costante connessione, in una idea di storia che si garantisce così la possibilità teorica del progresso, come processo continuo che non necessariamente prevede un punto finale d’approdo. Se si assumono radicalmente le conseguenze che l’applicazione del pensiero dialettico all’orizzonte delle arti comporta, ha persino senso chiedersi ancora – alla fine degli anni Venti – cosa sia “avanguardia”.
Ed è a questo punto che le strade di Ejzenštejn e Malevič si separano definitivamente, perché – relativamente al cinema che il primo ha in mente – il termine “avanguardia” non indica più il compimento di un cammino e in nessun modo comporta l’azzeramento del passato in un “uno” in cui non si danno più differenze. La sintesi che dialetticamente il cinema deve raggiungere è piuttosto il luogo della confluenza, l’occasione dell’incontro fra istanze che provengono da epoche ed espressioni artistiche diverse. “Avanguardia” diventa così il nome di questa sintesi che, fra l’altro, non è mai definitiva, ma destinata a riconfigurarsi ogni volta che un nuovo elemento espressivo (il sonoro, per esempio) entra a far parte del lavoro complesso della messa in forma artistica. Nella prospettiva di Ejzenštejn, ciò che può definirsi “avanguardia” è insomma soltanto l’esito provvisorio di un processo a tappe che porta inscritti in sé i segni di un “prima”, diretti in direzione di un “dopo”, sempre ancora da raggiungere.
Alla messa a punto di questa idea – fondata su solide basi dialettiche – Ejzenštejn si dedica praticamente per il resto dei suoi giorni. Di Malevič torna a scrivere in un capitolo delle sue Memorie (Ejzenštejn, 2003b), datato 29 aprile 1939. È il racconto di un incontro che si perde nella notte dei tempi, nelle faglie di ricordi ormai lontani, che risalgono al primo incontro fra i due, in casa di Kirill Ivanovič Šutko e Nina Ferdinandova Agadžanova, con i quali Ejzenštejn lavorava, a quei tempi, per la stesura della sceneggiatura di un film in otto episodi che avrebbe dovuto intitolarsi 1905 god (L’anno 1905)13. È il racconto del racconto che Malevič fa di sé stesso in una di quelle occasioni di incontro. La storia di un uomo, un pittore, che “deve la sua forza alla frantumazione dei denti, alle percorse e all’umiliazione” (p. 555).
Adesso è suprematista. Un tempo non lo era. Allora, con modestia, dipingeva paesaggi dal vero. Usciva umile, con la scatola dei colori, il cavalletto e il seggiolino pieghevole. Sistemava la sua “capanna” vicino al fiume. E si sforzava di imprigionare l’estasi e lo splendore della giornata soleggiata nelle strisce variopinte dei colori a olio, che sfuggivano nervose da sotto i pennelli di diverse misure, in direzione degli angoli della superficie rigata della tela. Poi all’ombra della scatola chiusa si raffreddavano, ma, come gli spruzzi di lava, mantenevano nelle proprie anse le tracce del temperamento che un tempo le aveva determinate. Il temperamento era grande. I colori vividi. Dal punto di vista pittorico tutto ciò era audace e un po’ grossolano. Lui stesso era relativamente gracile e in genere si scatenava sulla tavolozza. Era così anche il giorno in cui un gruppo di ragazzi del villaggio, passando vicino, lo mise in ridicolo (pp. 555-556).
Tutto ciò che è venuto dopo non è che l’esito di un desiderio di rivalsa nei confronti di quel passato e quella umiliazione subita. Malevič trova, molti anni dopo, il modo di vendicarsi: ritrova uno di quei ragazzi e a forza di botte gli fa saltare i denti, a uno a uno. Il Suprematismo opera la stessa vendetta nei confronti di tutta la pittura figurativa precedente. È così che, a sua volta, Ejzenštejn tratteggia la figura imponente e forzuta del poeta e insieme della sua opera. Il racconto che costruisce è quello del passaggio dalla Russia pre-rivoluzionaria alla Russia del 1917. Alla fine degli anni Trenta, Ejzenštejn evidentemente sa ormai con certezza una cosa: che per essere una realtà del presente non può in nessun caso limitarsi ad annientare il passato, piuttosto deve trasfiguralo, reinventarlo in una immagine nuova. È questo il compito inesauribile del cinema politico, almeno quello che Ejzenštejn aveva in mente: il solo che ci permette di pensare la rivoluzione, persino oltre la sua fine, ancora oggi.