Vedere un paesaggio com’è quando io non ci sono.
Simone Weil
Ecloga XI, Anagoor, 2022, foto di Andrea Macchia
Ecloga XI, recente lavoro di Anagoor, è una scena teatrale completamente nera offerta come abitazione alla lingua poetica di Andrea Zanzotto. Prima dell’apertura del sipario, la platea cala nell’ombra. Una sola luce fioca e tremolante bagna la tenda di fronte alla quale è posto un microfono pronto a raccogliere e ad amplificare un annuncio. Mentre cresce un fragore di folla in delirio, l’atmosfera crepuscolare è squarciata da lampi violenti. Le parole di un banditore invisibile (nessun corpo a pronunciarle) fendono l’aria e la tenebra come folgori, tra echi di campane a festa e a morto, e il frastuono di esplosioni pirotecniche. La voce incita, sprona la moltitudine, un coro al lavoro tra urla di giubilo nell’atto di issare, con argani immaginari, la rappresentazione dalle acque del nulla. È il Recitativo veneziano, l’incipit poetico composto, in un dialetto veneto fantastico, da Andrea Zanzotto per il Casanova di Federico Fellini del 1976. La lingua inventata inventa a sua volta un’immagine, la evoca, la suscita. Per mezzo della parola, una filastrocca che è anche scongiuro e anatema, formula magica apotropaica attraverso la quale si chiede salvezza, sprigiona un’immagine mentale: “vera natura, vera figura”. Si vede solo ciò che la parola indica e descrive per mezzo di allusioni e rovesciamenti, di ossimori e sberleffi. È l’immagine di un volto in negativo, come impressa nella retina dai lampi accecanti della lingua: si delineano i tratti invisibili di una bambina, matrona, megera, generosa e crudele, sfuggente, desiderata, potente, temuta, vilipesa, perduta, oscura, infernale. È un’immagine prodotta dal fulmine delle connessioni linguistiche, partorita dal buio della mente, tra paure e desideri, angosce, squarci di memoria e cortocircuiti dell’immaginazione. Parimenti, anche nel sogno felliniano, per cui i versi furono composti, l’idolo sorge dal liquido amniotico di un Canal Grande della psiche, dalle cui rive si specchia un carnevale di fantasmi, una festa del Redentore o più propriamente della Salute, una Salvatrice. Nel film, infatti, è la grande testa di una divinità femminile ad emergere dalle acque. Ma se in Fellini non ha nome, in Zanzotto il nume ha epiteti resi espliciti dal vocativo – tratto da un falso reperto paleoveneto di invenzione zanzottiana (a fare lo sgambetto a qualsiasi pretesa di identità linguistica): REITHIAI SAINATEI VEBELEI, a Reitia sanatrice riparatrice/cucitrice. L’immagine fantastica, partorita dalla poesia, va ben oltre il riferimento ad una archeologica divinità. La poesia, capace di produrre un’immagine che non c’è, è essa stessa la dea che rammenda, cuce lacerti, colma strappi, tiene i frammenti, sutura le ferite. Come nell’Atlante di Aby Warburg, Mnemosyne, altro nome della dea, in cui il fondo nero su cui sono appoggiate le immagini della storia dell’arte funge da connettore, così la Reitia di Zanzotto è anche lo spazio nero stesso, lo squarcio, la mancanza, il vulnus e il suo rimedio, il colmante oltre che il vuoto da colmare. L’immagine di questa speranza appare nei versi fugace come un lampo. Promette consolazione per le perdite, ma sprofonda rapidamente nell’abisso di tenebra dalla quale era emersa. Nel film come nella poesia di Zanzotto vacillano e si spezzano gli argani. Federico Fellini ce la mostra, dopo il crollo, sul fondo limaccioso e quieto della laguna. Al buio. In silenzio. Nascosta.
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“Ora tutto crolla. Ma cosa crolla?”
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Una natura tensiva e quasi antinomica accompagna la ritualità della Pasqua cristiana e l’utilizzo delle immagini in questo preciso contesto: i temi di luce e buio, manifestazione e nascondimento, morte e rinascita si oppongono e rincorrono. In questo, come in molti altri casi, Zanzotto al termine antinomie avrebbe preferito quello di polarità. Appare subito con evidenza infatti un rapporto strettissimo e speculare tra sofferenza, morte e salvezza e i concetti di svelamento e ri-velazione: nelle processioni del Venerdì Santo in molti borghi italiani, l’esplosione epifanica delle immagini è quasi accecante; nell’ora dell’impero delle tenebre la fuoriuscita delle immagini sacre dal tempio, illuminate solamente dalle fiamme, e la conseguente invasione iconografica dei borghi sono il segno tradizionale di un mistero che si palesa, ed è talmente prorompente da alludere al suo contrario – il rilascio di una tensione –, come se per tutto il restante tempo dell’anno le immagini fossero nascoste, velate. La velatio del resto è un altro rito antichissimo oggi un po’ desueto che prevedeva di coprire con panni e veli le croci e le immagini sacre durante l’ultima settimana della Quaresima, per liberarle solo la domenica di Pasqua. Un altro rito della liturgia che precede la Pasqua, oggi poco frequentato, e che prevede un’analoga forma di accecamento è l’Ufficio delle Tenebre quando durante la lettura dei salmi ad una ad una vengono spente le luci della saetta o tenebrario facendo precipitare progressivamente il tempio e la congrega in uno stato di buio totale a cui segue il terremoto, uno strepito fragoroso, come di tuono, provocato dallo sbattere dei piedi, delle mani e dei libri sui banchi: puro suono all’apice della manifestazione dell’invisibile – “vere tu es Deus absconditus”.
Ecloga XI, Anagoor, 2022, foto di Andrea Macchia
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In Ecloga XI, all’apertura del sipario, si svela sulla scena una grande riproduzione della Tempesta di Giorgione con la sua minacciosa saetta (prima rappresentazione naturalistica del fulmine). Ma dal celebre enigmatico paesaggio sono state rimosse le tre figure umane, l’uomo con l’asta e la donna nuda che allatta il bambino. Puro paesaggio, eppure non pura natura. L’opera di Giorgione è presa a simbolo del paesaggio veneto caro al poeta di Pieve di Soligo e del paesaggio tout court, paesaggio come invenzione culturale, ma anche paesaggio capace di fare l’uomo (“O mio paesaggio perché mi hai… paesagg… paes…gg / Paesaggito molto?” così balbetta eloquentemente un verso di Zanzotto nelle sue IX Ecloghe, 1964), e ancora come paesaggio interiore e, infine, nella sua riduzione più scadente, come paesaggio cartolina, emblema identitario e immagine merce. La natura all’apertura della scena appare già compromessa, come del resto lo è sempre nella poesia di Zanzotto, irrimediabilmente toccata dalla sua traduzione culturale (persino nella produzione di un’idea di natura), dunque irraggiungibile, eppure non inviolabile, anzi violentata, venduta, distrutta. Al cospetto di questa immagine giungono, sulla scena, due attori, una donna ed un uomo. La osservano e conversano. Il molteplice livello della discussione tra i due attori, l’uomo e la donna, scivola presto da un piano di analisi storico artistica ed estetica, ad un piano di riflessione politica sul ruolo degli uomini nella gestione dell’ambiente anche inteso come generatore di immaginari:
Ché poi io non ce l’ho affatto con quelli che hanno messo su i capannoni o si sono fabbricate le case dove potevano pagare meno la terra. Spesso si tratta di ex emigranti che sono andati, senza aspettarsi nulla da un governo fantasma, a fare i servi all’estero. Molti sono morti sul lavoro, schiacciati dai macigni, stritolati dalle macchine o precipitando dalle impalcature. Quasi nessuno ha pensato a questa gente, al suo interesse, e poi a farle capire il suo interesse. Ora il peggio esiste.
Di lì, il discorso precipita a riscontrare in se stessi gli effetti della devastazione sulla psiche e sulla lingua: “Dimmi quale e che modo di collassarsi / Dimmi quale lingua ho perduto e lasciato collassarsi / Dimmi in che lingua ho perduto ho collassato / e perché in questa cinta amata per la sua tanta perdita / mi sono aggirato senza mai perdermi / ma pur sono stato perduto”.
Benché Zanzotto si sforzi, con poca efficacia, di sostenere che la poesia non nasca sempre dal dolore, per molti poeti – sismografi viventi in grado di registrare, con grave danno personale, le faglie del mondo –, un simile crollo è arginato, per sua stessa ammissione, dalla poesia stessa: “Molti poeti, la maggior parte purtroppo, hanno finito con lo scrivere poesie che si risolvono in lamentazioni, ma non dobbiamo dimenticare che, se non le avessero scritte, forse si sarebbero uccisi”.
Un tale precipizio nelle prime battute appare insospettabile, vertendo la discussione principalmente sugli aspetti della creazione artistica, delle arti visive e della poesia. Il dialogo teatrale inizialmente aveva fatto proprie le parole di un testo zanzottiano dedicato alla pittura tonale veneta (Un paese nella visione di Cima, in Premesse all’abitazione e altre prospezioni, 2021): “È facile ripetere cose già dette quando si parla dell’emersione del paesaggio nella pittura tra declino del medioevo e inizi dell’età moderna…” – in cui Zanzotto sembra quasi descrivere la rivoluzione del colore di Giorgione da Castelfranco e di Cima da Conegliano e degli altri come un processo analogo, ma contrario, al processo di astrazione di quel “punto zero della pittura” che fu il quadro nero di Malevič. La collocazione del Quadrato nero, alla prima esposizione del 1915, nel cosiddetto angolo bello o angolo rosso, che la devozione popolare e domestica russa dedicava alle immagini religiose, alludeva alla negazione stessa dell’icona, della figura, della rappresentazione. Allo stesso modo secondo Zanzotto la rivoluzione dei pittori rinascimentali veneti, e la Tempesta di Giorgione in particolare, sono l’acme di un lunghissimo processo di negazione dell’icona, che però procede dal colore neutro verso una molteplicità di colori infinita, e che risponde ad una osservazione della complessità del reale, per approdare ad una revisione della centralità dell’uomo, della sua autoproclamata supremazia. “La fine del ‘ciel d’oro’, sublimemente neutro, dagli sfondi ‘diminuiti’, e insieme la fine di un isolamento della figura umana tale da escludere la vita della superficie su cui essa doveva campeggiare”. L’oro delle icone non viene coperto, ma “…un soffio sulla polvere del colore unico e sotto di essa appare un oro più intimo, più vario e screziato, un oro sempre più gremito di cose umane, che si allarga, si moltiplica, s’incarna di tutti i colori. Ed ecco che la figura progressivamente coopta a sé, commuove di sé lo sfondo, toccandolo con la sua vita: è un processo che dura secoli…”
Un progressivo manifestarsi. Sembrerebbe che al paesaggio veneto, più che a qualsiasi altro, fosse toccato un destino particolare, escludendo per sempre la possibilità di una pittura che non rispondesse all’appello del colore come alla propria realtà più profonda. E questo per una vigorìa di stimoli coloristici cangianti del quadro naturale veneto che quasi negano forme e volumi, a tal punto da apparire impossibile, nell’atto stesso di evocarli, una loro staticità, una loro crudezza d’astrazione. Una variabilità infinita dei fenomeni atmosferici e naturali che impedisce quasi una differenziazione delle forme, che esclude un procedere per idealizzazione astratta, e chiede invece trasfigurazione in presente, perpetua vibrazione, in onda ed emozione cromatica. In questo giardino cangiante, l’uomo, la cui figura ora sfumata e senza soluzione di continuità con il fondo da cui emerge e non si staglia, pare sorgere dal nulla: “L’uomo che si crede signore, ed è signoreggiato dal suo stesso regno”.
La rivoluzione del colore dunque come uno svelamento progressivo (un processo durato secoli) del manto d’oro delle icone. Lo svelamento di una realtà cangiante, sempre mutevole, il trascolorare della luce, lo sfarfallio luce-buio, luce-buio, luce-buio del divenire (la fortuna), osservato e temuto, che nella Tempesta (il fortunale) raggiunge un climax capace di andare oltre le intenzioni stesse del suo autore, dove la folgore rappresenterebbe un cortocircuito del tempo, cristallizzazione non-ferma del momento vibrante, come una farfalla che punta da uno spillo continui a fremere sbattendo le ali, uno squarcio nel tempo, un’apertura e non un congelamento del tempo, un taglio vivo sulla tela, concetto spaziale capace di farsi premonizione:
Quella folgore-guida, non pedagogizzabile, è connessa ad uno squarcio, al venir meno di tutta una catena di rimozioni durate per secoli, è il cortocircuito di una fine e di un inizio: che tuttavia offre nuove ragioni anche a quanto resta e deve restare nascosto o seminascosto. È vero che d’allora pare che tutto sia cambiato: più ancora: continuamente stimolato a cambiare, in un gioco che conduce nelle vicinanze di quella luce che è propria dell’ombra. Così sentiamo che nella Pala non c’è la Pala, che l’opera “non è mai qui”. Ce lo insegna la semi religione che ha la sua tavola nella Tempesta e che ci porta ad accostarci all’opera d’arte come all’apertura provvisoria su una scena dove noi non saremo mai e dove filtra tuttavia la nostra storia confrontata con un altrove.
Così sempre Zanzotto su La Tempesta in un testo, recentemente incluso in appendice a una raccolta di testi curata da Andrea Cortellessa (Premesse all’abitazione e altre prospezioni, 2021), intitolato Scoppiò un cortocircuito e nacque la Tempesta, con un incipit che ancora una volta echeggia l’icona sostituita di Malevič: “Più di una volta ho pensato a quanto sarebbe stato bello trovare in aperta campagna una cappellina che al posto di un dipinto a dichiarato soggetto religioso tradizionale avesse presentato la Tempesta di Giorgione”.
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“È vero che d’allora pare che tutto sia cambiato”.
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“Ora il peggio esiste”.
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Agli inizi del XVII secolo il medico e filosofo inglese Robert Fludd, fortemente influenzato, oltre che dagli scritti neoplatonici, dalle interpretazioni cinquecentesche della cabala e insieme dalla tradizione paracelsiana, sviluppò una concezione del mondo legata a un complesso simbolismo alchimistico e magico, in cui i rapporti tra Dio e mondo sono sentiti come processo della primitiva unità, il ritorno alla quale costituisce il fine della conoscenza. Nel suo libro Utriusque Cosmi, maiores scilicet et minores, metaphysica, physica atque technica Historia inserì l’immagine simbolica di un quadro nero intitolandola “Et sic in infinitum”, rappresentazione senza figure della tensione infinita del molteplice verso l’unità.
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Fende la tela, come un taglio di Fontana, la prima vera e propria azione scenica. Per usare una parola cara a Zanzotto, la oltraggia. L’uomo della coppia, dopo aver espresso a parole la propria crisi, psichica e linguistica, di fronte ad un paesaggio che tace (“…Dimmi! E poi non fa niente”), si spoglia per rimanere completamente nudo davanti al quadro, quindi afferra un rullo da imbianchini e sciabola con vernice nera l’immagine – il paesaggio, la natura, la figura, la rappresentazione, il classico, la tradizione… più che assenza di significato, qui non c’è limite alla molteplicità di senso che si scatena. Fende, offende, oltraggia, traccia, sporca, copre, barra, stupra. In una scena tutta nera, il tracciato della rullata che passa in orizzontale la Tempesta, da parte a parte, equivale ad una frattura che spacca in due il quadro. Questa partizione è sancita dal segno nero, come un cancello all’altezza del ponte che nella composizione di Giorgione collega la città alle campagne circostanti da cui la separano la cinta muraria, il fossato, e lo spazio aperto del pomerio. Collassare e pomerio intitola Zanzotto il manifesto di questa crisi in Fosfeni (1983). Tuttavia il segno nero, pur così violento, equivalente ad una ferita inferta, ad una volontà persino di bestemmiare il paesaggio, ha il sapore di un oltraggio per eccesso d’amore. Oltraggio/oltranza sigla il poeta di Dietro il Paesaggio (titolo della sua prima collezione, 1951) che, da un certo momento in poi, era solito scrivere paesaggio con caratteri barrati. Il segno nero non vuole cancellare la cosa amata, bensì sottolinearla, esaltarla, rivendicarla, urlarne il nome a voce più alta, disperata, scuoterla, entrarne in contatto quasi fisicamente. Il segno nero, come un nastro, più che separare, contamina, lega, cuce.
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Dopo aver steso il tratto di vernice nera l’uomo si stende ancora nudo sotto al quadro, imitando la propria morte nell’atto di recitare i celebri versi di Fuisse (Vocativo, 1957), in cui Zanzotto immagina di parlare da oltre il tempo della propria morte e della decomposizione del proprio corpo, da oltre il tempo di ogni opera umana, da oltre il tempo umano, da un’era in cui i pericoli e i problemi della rappresentazione più non saranno, perché la terra sarà ancora, ma non il suo protagonista e osservatore umano. Ai piedi del quadro vergato, le mani incrociate sul petto candido, l’uomo regge fiori bianchi posti con cura dalla donna. Lo scintillio sinistro di questa rappresentazione ingenua, un po’ infantile, riverbera tra immagini di rinascimentali compianti sul Cristo morto e la reminiscenza di fotografie del funerale di Malevič, deposto sotto al quadro nero, in un trionfo di gigli bianchi a coronarne il capo. “Chiuso io giaccio / Nel regno della rovere e del faggio / Che ondeggia e si rifrange / In ombra là dove piovvero folgori. / Lontana ogni opera ogni umano / O sovrumano moto: e come or ora / Incatenati gli strati della terra / Nel silenzio ricadono. / Lontano ogni sospiro ogni furente / Ogni smorto desìo della vita. / Nel silenzio ricado”.
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Durante una fluoroscopia del dipinto originale, eseguita nel 2015, è stato svelato che sotto al Quadrato nero suprematista si celano altri due dipinti. Una composizione cubo-futurista e, realizzata sopra il primo dipinto, una seconda composizione suprematista. Dopodiché Malevič avrebbe dipinto su tutta la tela, creando il Quadrato nero. Ma è noto anche che i ricercatori sono riusciti a leggere un’iscrizione fatta a matita nera su uno strato secco di bianco, tre parole leggibili come “la battaglia dei neri”. La grafia sarebbe quella di Malevič stesso. Nell’iscrizione si fa riferimento probabilmente a un primo dipinto total black che Malevič non avrebbe mai visto, ma di cui avrebbe sentito parlare: Combat de nègres dans une cave, pendant la nuit (“Battaglia di negri in una caverna, di notte”), dipinto nel 1897 da Alphonse Allais, appartenente al gruppo degli Incoerenti, e già a sua volta opera che si rifaceva al dipinto Combat de nègres dans un tunnel (“Battaglia di negri in un tunnel”) realizzato nel 1882 da Paul Bilhaud: non un pittore, ma un drammaturgo. Due dipinti completamente neri che avevano come matrice concettuale non il raggiungimento dell’astrazione delle forme, ma un bieco umorismo razzista giocato sull’idea dell’indifferenziazione delle forme. L’indifferenziazione delle figure, insiste la battuta razzista, non dipende solo dalla notte e dal buio della caverna. Dipendesse da questi elementi, le figure sarebbero indistinte anche fossero uomini bianchi. Il razzismo invece pretende che l’indifferenziazione riguardi precisamente gli uomini neri che non sono altro che i loro corpi, indistinguibili, invisibili, ignoti, senza specifiche sociali o di ruoli, in lotta caotica l’uno con l’altro. Il dipinto di Allais infatti si inserisce in una serie di dipinti monocromi che giocano lo stesso gioco: un quadro rosso, Raccolta di pomodori sulle rive del mar Rosso effettuata da cardinali apoplettici, un quadro bianco, Prima comunione di giovinette clorotiche durante una nevicata e così via. Ciascuno di questi dipinti monocromi, che come le altre opere degli Incoerenti mirava ad irridere la Grande Arte, ha per titolo un gioco di parole che indica un gruppo socialmente differenziato, specifico, con caratteristiche specifiche e ruoli sociali specifici. Solo i neri vengono indicati come indifferenziati in quanto tali, null’altro che i loro corpi. Il rifiuto della rappresentazione per mezzo dell’ironia non ha nulla, in questo caso, di liberatorio. Solo apparentemente astratta, la rappresentazione resta, con tutti i suoi risvolti peggiori. Qualunque fosse l’atteggiamento di Malevič sulla questione, la sua iscrizione prende atto di una tradizione precedente e ne lascia traccia a matita sul fondo bianco, prima di seppellirla e nasconderla sotto una coltre di colori, una soluzione composta da vari pigmenti che non conteneva una sola goccia di nero.
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“Parole piene con colla di parole vuote / Presto troppo presto per far cenno ai linguaggi o ad altro / Prosa forma paesaggio. Napalm dietro il paesaggio. / Il paesaggio ha tutto confessato, essudato, / il paesaggio è in confessione, in sudore. / Il crimine. Il crimine.” Con queste parole la donna sulla scena afferra il rullo, prima brandito dall’uomo che ora si rialza per rivestirsi e la incita: “Un paesaggio-traino di fiori, di grida. Colpisci / Trafiggi dunque.” A questa incitazione la donna risponde completando l’oltraggio e il segno nero viene esteso ad oltranza. L’intero quadro viene coperto di vernice nera. L’azione è progressiva e dura tanto quanto il racconto del rastrellamento e dell’incendio del borgo natale da parte dei nazisti di cui Zanzotto fa un doloroso resoconto in 1944: FAIER.
Ha voluto fosse scritto così, il contadino vecchio, sulla facciata della casa ricostruita dopo la guerra; che fosse fermato l’urlo com’era uscito dalla gola dell’incendiario: “faier”, in quel giorno, mentre già le fiamme avvolgevano le case vicine e le donne venivano spinte fuori a calci. È un suono inarticolato, soprannaturale e bestiale a un tempo, è la formula che mobilita l’inferno.
Ancora un segno grafico, che si vuole lasciare come traccia, una scrittura testamentaria, la traduzione grafica di un urlo inumano. La parola feuer indica il fuoco, la luce, il calore, eppure il fuoco dell’incendio non ha nulla di domestico, di riscaldante, di nutritivo, di rituale e culturale, i roghi visti dall’alto dei monti, nel buio della notte, perforano furiosamente le tenebre come ulcere mortali e finiscono per bruciare l’intero paesaggio. È la coltre della notte a proteggere, consentendo ai corpi, appiattiti nei solchi della terra, di stare nascosti. Anche la luna è nemica nel racconto di Zanzotto, e non tace silenziosamente alleata come nel Libro II dell’Eneide di Virgilio: qui la terra densa e scura pare volersi rifiutare alla luce lunare. Sono gli attimi che precedono la manifestazione dolorosa del trauma. La donna in scena si accinge a terminare di stendere la vernice nera sulla Tempesta, e quando resta un solo squarcio di dipinto visibile, la saetta, l’uomo racconta di Gino, morto giovanissimo, falciato da una mitragliata delle SS mentre correva in campo aperto, troppo esposto e senza alcuna possibilità di nascondersi, e lì lasciato agonizzante per ore a chiamare la mamma. Gli altri compagni avevano scelto la via dei campi di mais e le pannocchie avevano offerto loro riparo e salvezza nascondendoli. Il quadro in scena ora è completamente nero. Anche la scena è completamente nera. È il punto zero. Quello della discesa nel regno delle ombre. Come quelle stampatesi sui muri di Hiroshima e sostituitesi ai corpi spazzati via dal calore e dalla luce dell’esplosione, atomizzati, sfumati all’infinito. Estrema indifferenziazione. Tuttavia una differenziazione dal contorno netto ed aspro resiste. Una differenza tra gli uomini. Tra quelli armati e gli altri, come dal cielo all’abisso; gli altri sono solo misere gocce di sangue e d’acqua, fatte per disintegrarsi al primo urto.
Ecloga XI, Anagoor, 2022, foto di Andrea Macchia
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Nel 1966 Ed Bullins, drammaturgo afroamericano, mette in scena la stessa assenza di figure di Malevič nel suo The Theme is Blackness: astratto, nero e completamente politico, e tutto incentrato sulla discesa in se stessi.
SPEAKER: The theme of our drama tonight will be Blackness. Within Blackness one may discover all the self-illuminating universes in creation. And now BLACKNESS –.
(Lights go out for twenty minutes. Lights up.)
SPEAKER: Will Blackness please step out and take a curtain call?
(Lights Out.)
BLACKNESS
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L’ultima parte di Ecloga XI è completamente votata all’oscurità. (Perché) (Cresca) è una poesia di Zanzotto contenuta in Galateo in Bosco (1978) che fin dalla resa grafica del titolo, con le parole isolate tra parentesi, indica negli spazi (neri per troppa fittezza), negli spazi tra i frammenti, il principio generativo connettente che tanto separa, quanto lega i pezzi di un’immagine rotta.
Perché cresca l’oscuro
perché sia giusto l’oscuro
perché, ad uno ad uno, degli alberi
e dei rameggiare e fogliare di scuro
venga più scuro –
perché tutto di noi venga a scuro figliare
così che dare ed avere più scuro
albero ad uniche radici si renda – sorgi
nella morsura scuro – tra gli alberi – sorgi
dal non arborescente per troppa fittezza
notturno incombere, fumo d’incombere:
vieni, chine già salite su chine, l’oscuro,
vieni, fronde cadute salite su fronde, l’oscuro,
succhiaci assai nel bene oscuro nel cedere oscuro,
per rifarti nel gioco istante ad istante
di fogliame oscuro in oscuro figliame
Cresci improvviso tu: l’oscuro gli oscuri:
e non ci sia d’altro che bocca
accidentata peggio meglio che voglia di consustanziazione
voglia di salvazione – bocca a bocca – d’oscuro
Lingua saggi aggredisca s’invischi in oscuro
noi e noi lingue-oscuro
Perché cresca, perché s’avveri senza avventarsi
ma placandosi nell’avventarsi, l’oscuro,
Ogni no di alberi no di sentieri
no del torto tubero no delle nocche
no di curve di scivolii lesti d’erbe
Perché cresca e si riabbia, si distolga in spazi
in strazi in paci in armi tese all’oscuro –
mano intesa all’oscuro, mano alla bella oscura,
dita di mano mai stanche
di per vincolarsi intingersi addirsi all’oscuro –
Lingue sempre al troppo, al dolcissimo soverchio
d’oscuro agglutinate, due che bolle di due –
clamore, alberi, intorno all’oscuro
clamore susù fino a disdirsi in oscuro
fino al pacifico, gridato innesto, nel te, nell’io, nell’oscuro
Innesto e ritorni di favore, fòmite oscuro
oh tu, di oscuro in oscuro innestato, tu
protratta detratta di foglia in foglia/oscuro
di felce in felce lodata nel grezzo nel rifinito d’oscuro
Ma vedi e non puoi vedere quanto è d’oscuro qui dentro
hai bevuto lingua e molto più e sentieri e muschi intrusi
ma ti assicuri ti accingi ti disaccorgi
ti stratifichi, lene, benedetta, all’oscuro
Non-memoria, millenni e miglia, stivate nel fornice
sono un dito dell’oscuro, levalo dalla bocca, rendilo nocca
rovina e ripara l’oscuro, così sarà furto e futuro
Troppo dell’inguine, del ventre, di ghiande e glandole
s’inguina in oscuro, genera generi, intride glie
Precipitare fuori bacio, scoagularsi, venire a portata
d’ogni possibile oscuro
Possibili alberi, alberi a se stessi oscuri
mai sazi mai d’accedere a frotte
a disorientarsi a orientare, lievito intollerabile
Limo d’oscuro che dolce fòrnica pascola
nei fornici dove s’aggruma di fughe (l’oscuro)
E pluralità innumerabile di modalità
dell’oscuro, secarsi in innumerevoli – non due –
d’oscuro sessi
Qui in feccia, all’oscuro, immanere
Là in volta, all’oscuro, esalarsi
Possibile, alberi – Possibile, oscuri, oscuro.
Oscuro ha sé, sessuata, umiltà,
tracotanza, pietà.
*
La donna enuncia questi versi al microfono, nuda, pallida e a malapena distinguibile, come il lacerto della nuda di Giorgione conservato a Venezia alle Gallerie dell’Accademia, unico ed evanescente strappo superstite del complesso programma di affreschi della facciata del Fondaco dei Tedeschi. Alle sue spalle sorge una nuova selva che eccede gli spazi limitati del quadro su cui prima compariva il paesaggio di Giorgione. È una nuova pittura, il segno di un artista vivente, il palermitano Francesco De Grandi, che concepisce insieme ad Anagoor una traduzione di un suo ciclo di opere. Le selve fluorescenti dipinte da De Grandi su lacerti di carta vengono ricomposte sulla scena come fondali, quinte e cieli di un teatrino desueto eppure ancora capace di suscitare meraviglia. Questi brandelli di carta prima giacevano a terra e apparivano sulla scena come un orizzonte di macerie nere, cumuli di detriti, catene montuose scure nell’ombra della scatola nera. Ora vengono issati rivelando lo scenario dipinto di un paesaggio boschivo, fitto di arborescenze, una selva il cui groviglio di tronchi, rami, fogliame e liane è dipinto in varie gradazioni di nero su un fondo di pittura gialla fluorescente che, illuminata dalla luce nera delle lampade di Wood, reagisce spandendo una acida luce verde. È una foresta di cenere e chimica, commovente, tenera ma esausta, arsa e radioattiva insieme. L’opera assume qui il titolo di WOOD #12 AZ, Wood per le lampade che calando dall’alto della scena come fulmini violacei spandono luce nera, e wood come bosco. Il bosco avvelenato eppure rinascente di Andrea Zanzotto. La scena buia, illuminata dalla sola luce di w Wood, è ora di un nero profondissimo in cui come galleggiano solo gli oggetti le cui superfici reagiscono per fluorescenza. Quinte e fondale appaiono come continenti alla deriva, separati/connessi da oceani di nero. Lo spazio nero diventa ora dominante: induce la mente dello spettatore a disegnare, a colmare attivamente il vuoto tra le parti di questo fondale frammentato.
Ecloga XI, Anagoor, 2022, foto di Andrea Macchia
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“Ora tutto crolla. Ma cosa crolla? Quello che stava in piedi solo sulle spalle e sulle schiene di altri”.
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Nella recensione che il 22 ottobre 2022, Il Manifesto ha dedicato a Ecloga XI, Anagoor e la discesa negli inferi: alle radici del male, Gianni Manzella descrive così l’ultima scena: “All’uscita non ci aspetta il riveder le stelle ma un’altra selva oscura, dove pendono come strani frutti dei neon violacei”. L’espressione utilizzata crea un cortocircuito istantaneo e doloroso che folgora, e oltre a trattenere il viaggiatore all’inferno, connette brandelli di memoria e paesaggi distanti, continenti diversi, distinti ambienti rurali e storie che improvvisamente si toccano e si legano. L’allusione è agli strange fruits cantati da Billie Holiday alla fine degli anni ’30. Lo strano frutto di cui si parla nella canzone di Abel Meeropol è il corpo di un nero linciato che penzola da un albero. C’è sangue sulle foglie:
Southern trees bear a strange fruit,
blood on the leaves and blood at the root,
black body swinging in the Southern breeze,
strange fruit hanging from the poplar trees.
*
“…tracotanza, pietà.”