You’ve got your mother in a whirl
She’s not sure if you’re a boy or a girl
Hey babe, your hair’s alright
Hey babe, let’s go out tonight
You like me, and I like it all
We like dancing and we look divine
[…]
They put you down, they say I’m wrong
David Bowie
Je suis un homme / homme / en marche / et c’est / en marchant / que / je me / compose / tel / que je / me veux / et que je / comprends / ce que je veux / en marchant / et / en chantant.
Antonin Artaud
Nel celebrare i loro riti di iniziazione o sacrificio, i membri delle primitive culture tribali appaiono sempre ben consapevoli che l’eccesso rituale unito a immancabili ferite e mutilazioni, altro non era, in fondo, se non pura commedia
W. G. Sebald
BROMIO. La vita indistruttibile è un’opera performativa che nasce da un progetto di ricerca sul movimento prodotto da Anagoor, compagnia teatrale italiana di Castelfranco Veneto, e Theater an der Ruhr, teatro fondato nel 1980 nel bacino della Ruhr e da allora modello di sperimentazione nel teatro di ensemble tedesco. La sua prima rappresentazione è stata realizzata in seno al festival RAUSCH, diretto ed organizzato dal teatro tedesco nel 2023. L’opera si inserisce a pieno nella declinazione di uno specifico interesse di Anagoor per l’Antico e per il Teatro insieme, un interesse dispiegatosi in vent’anni di creazioni e in un discorso artistico precipitato in molteplici esiti formali: dal teatro alla performance, dalla videoarte al cinema. Un discorso sul canone, sull’eredità culturale, sull’archeologico e sulla loro relazione vitale (e non mortifera) con il Contemporaneo.
In un percorso di lungo periodo a tappe, attraverso diversi passaggi di pratiche tra esperti e neofiti, per contagio, il processo di ricerca guidato da me e dalla danzatrice, coach e didatta Marta Ciappina, insieme al performer e dramaturgo Piero Ramella, ha messo e continuerà a mettere insieme diversi gruppi di professionisti della danza, del teatro e della performance a contatto con non professionisti, con l’intento di riflettere sull’evento teatrale in sé, le sue origini, il suo statuto, i ruoli assunti da spettatore e attore. La pratica della trance autoindotta è il cuore del lavoro, una pratica individuale ma svolta collettivamente, non solo per indagare lo stato di alterazione dell’io – fuoriuscita dell’io e svuotamento (estasi) e/o possessione o invasamento (enthusiasmos) –, ovvero l’incarnazione di un’alterità, di un carattere, una psiche, una storia altrui, che è il centro dell’arte teatrale; ma anche per stimolare la collettività alla riaffermazione delle proprie istanze, al riconoscimento delle proprie componenti e alla riappropriazione del teatro come spazio extra-ordinario che appartiene alla comunità, come spazio politico. L’esito formale di questo percorso di ricerca è una performance che allo stesso tempo si inserisce nella sperimentazione linguistica contemporanea e guarda ad una dimensione performativa arcaica, pretragica, prototeatrale, in cui ricerca storica ed immaginazione si mescolano alla ricerca delle condizioni che preludono all’invenzione dell’istituzione teatrale vera e propria.
Dal programma di sala:
Nell’incrocio di danza, performance e teatro, BROMIO dispiega un rituale poetico di trance. Qui, un gruppo di individui si imbarca alla ricerca di stati di coscienza che permettano loro di uscire dal tessuto sociale di normalità in cui vivono. BROMIO è la possibilità di un incontro con l’Altro in noi e intorno a noi. E l’invito a una società urbana a incontrare se stessa in una relazione mutata e a sperimentare nuovamente la comunità. Lì, dove le memorie individuali e collettive si incontrano seminascoste. […] Il gruppo dei praticanti la trance non è una setta, un gruppo ristretto, un’associazione ripiegata su sé stessa e confinata nel suo segreto. Esige di partecipare a pieno titolo al rango delle attività e delle funzioni della vita civica. È qui che la trance individuale praticata collettivamente sprigiona tutto il proprio sovvertitore potenziale politico. L’ambizione del gruppo è di vedere le diverse forme della sua pratica riconosciute e, magari, esercitate da molti: la trance controllata, il mascheramento, il gioco, la festa, la danza, l’esperienza luminosa dell’arte, il gesto estetico, il teatro per tutta la città. L’irruzione vittoriosa di Bromio significa che l’alterità si installa, con tutti gli onori, benché nella sua forma transitoria ed effimera, al centro del dispositivo sociale.
1. Diónysos Brómios
L’opera trae titolo dal nome sacro con cui il coro de Le Baccanti di Euripide si riferisce a Dioniso. L’etimologia più probabile del termine “Bromio” è la radice della parola greca che indica il fragore del tuono: Bromio, il tonante; fragoroso come il ruggito del mare e spaventoso come il boato del terremoto. Il nostro BROMIO, tuttavia, getta il suo sguardo oltre il confine dell’opera poetica antica, per posarlo più in generale sul dionisiaco, come dimensione universale e atemporale, come si può interpretare dalle sue manifestazioni storiche e dalle analogie rilevabili dalla comparazione con altre culture. Un complesso sfondo storico reso ancora più complesso da sopravvivenze e riapparizioni che si confondono con le costanti stesse del mito. Dall’origine minoica con il suo specifico rapporto con i cicli della natura secondo la lezione di Kerényi (in Dioniso, la vita indistruttibile), alle sue riemersioni o rinascite (e pretese di autenticità) del tutto particolari in diverse epoche: la forma cultuale orgiastica, il menadismo, nella Grecia arcaica, la formalizzazione del tiaso in quella classica, la sua riapparizione sovversiva a Roma e nella confederazione italica, le epidemie di ballo medievali, la riscoperta nella Firenze medicea, le sue nuove primavere nel pensiero visionario di Nietzsche, così come ancora nella lettura di Aby Warburg sulla sopravvivenza mnestica delle forme nella storia dell’Arte. Pur senza un riferimento diretto ed esplicito alla tragedia di Euripide e a questo complesso sfondo storico-filosofico, BROMIO traccia un arco drammaturgico e di senso tutto innervato dallo spettro infinito di questioni aperte dal dionisiaco, dal dionisismo e in generale dai culti estatici e dalle pratiche della trance in diversi tempi e diverse culture: la danza e il dinamismo fisico con elementi di ripetizione ossessiva portata al parossismo; la musica ritmica e l’ebbrezza; il problema dello sguardo, la postura di chi guarda e di chi si offre allo sguardo – fondamento filosofico e financo architettonico del theatron; la maschera dallo sguardo cavo, simbolo di un’assenza presenza, di un originale assente; la relazione con i defunti, e in generale con un altrove, al-di-là; una specularità e una alterità percepite o pensate come assolute da particolari sistemi culturali che nell’esperienza dionisiaca, o, in generale, di chi pratica l’estasi rituale, appaiono invece confuse: rifiuto categorico delle antinomie, una rilettura del binarismo sotto altra luce, non più come conflitto, ma polarità infinita e infinite dimensioni intermedie tra l’uomo e l’animale, l’umano e il divino, il maschile e il femminile, il passato e il futuro, il giovane e il vecchio, il diverso e il simile, lo straniero e il cittadino, l’individuo e la collettività, il sano e il folle, il dolore e l’eros, fusi in un unico ed insondabile e, forse, salvifico abisso di forme del pathos.
Gli antichi temi del dionisiaco riemergono oggi con prepotenza come discorso alla e della contemporaneità: la relazione con l’altro, con lo straniero, con il femminile; la concezione del genere come gamma infinita tra polarità non binarie e frutto di molteplici fattori, non esclusivamente culturali e non solo biologici, la percezione nuova ed antichissima di noi nell’ambiente e una frattura tutta da ricucire; l’adunanza e la danza come strumenti di resistenza ed eversione.
2. Costanti di movimento, di suono e ambiguità nel mito e nel culto dionisiaco
Il mito del riconoscimento di Dioniso come divinità ha, nelle sue varie forme, narrazioni, rappresentazioni e riscritture poetiche, delle costanti. In primo luogo il dio viene alla luce attraverso il più violento (ma non meno comune) dei parti: estratto dal corpo morto della madre. Atroce simbolo della nascita. L’individuo è catapultato nell’esistenza ed è immediatamente, irrimediabilmente solo, tagliato dal corpo della generatrice. Dal momento iniziale, il dio viaggia, osteggiato, cacciato, perseguitato. Impara, potremmo dire, l’arte del dolore e della fuga. Quindi, appare (epifania) in diverse città, provenendo dal di fuori, da terre lontane, come straniero, estraneo, forestiero – o appare su navi che solcano il mare, in transito. Il dio insediandosi in queste città istituisce il proprio culto per mezzo di processioni sonore, trascinando con sé i devoti che lo seguono da terre lontane e travolgendo chiunque lo ostacoli.
Il culto si propaga per contagio (epidemia), di praticante in praticante, per forza di un richiamo sonoro e per imitazione del movimento. Il dio spinge i gruppi di devoti lontano dalla città, verso l’esterno. Li mette presto in relazione con lo spazio al di fuori della cerchia delle mura, come una mandria prima tenuta in cattività ed ora sospinta al di fuori del recinto, li libera dalla morsa della città, negli spazi aperti e non domi: la selva, il vuoto del deserto non urbano, le necropoli. La prima infrazione esercitata è spaziale, ne conseguono infrazioni temporali, economiche, sociali. Così facendo infatti spezza le abitudini, le convenzioni, interrompe il tempo del sistema economico e i legami sociali che ne dipendono.
Le prime costanti, dunque, insistono sul movimento: l’arrivo da fuori, la spinta verso l’esterno. Spinta e trascinamento, propulsione, energia. Da questo derivano le forme della pratica del suo culto. La danza. La corsa verso gli spazi aperti, isolati, selvatici. Le processioni tumultuose. Le parole d’ordine sono: “largo!”, “fate strada!”. Anche l’idolo non ha la fissità della statua, ma la provvisorietà di una maschera legata ad un tronco di albero. Una maschera. Non la scultura di una testa, ma la superficie cava di un volto, pura sembianza, larva dagli occhi cavi: è il paravento di un vuoto, il simbolo di un’assenza e al tempo stesso un’intensa manifestazione di presenza. L’essere eterno e insieme un presente instabile, sempre rinegoziato. Anche le foreste di alberi si muovono: così poteva sembrare guardando danzare le Menadi, che, nei loro cortei, brandivano rami di pino o di abete fiammeggianti o pertiche di pioppo o betulla adornate con foglie di conifere e pigne, e cingevano tra i capelli fronde, pampini, serti di edera e ghirlande di fiori anche d’inverno a sancire l’eternità vegetale.
Spinta vitale. Corsa a perdifiato. Precipizio. Caduta pelvica. Sisma. Nulla nel culto di Dioniso parla di stabilità. Una mobilità sottesa e continua: la simbolica del suo manifestarsi contiene la sinuosità strisciante delle serpi, dei tralci e delle edere rampicanti, delle erbe infestanti, l’irruenza vigorosa dei tori, la smania del predatore, e il battito del cuore della preda in fuga, l’instabilità della terra scossa dal terremoto e dai fiumi infernali, i movimenti del feto nella placenta, le onde e le vibrazioni dei liquidi e degli umori, l’esalazione della nebbia e le volute dei vapori, la lenta densità vischiosa delle linfe, del miele, della bava delle lumache, il fiotto caldo del sangue vivo della vittima, il sangue mestruale, le maree, lo sperma, la cascata del liquido amniotico.
A questo movimento è associato un rombo sonoro, qualcosa di simile al tuono che si propaga sulla terra in seguito all’evento della scarica elettrica: e non è difficile immaginarlo ricorrendo alla fantasia uditiva, pensando a masse di persone in corsa che pestino la terra, o a branchi di animali in fuga con gli zoccoli a percuotere il suolo. È un rullare sordo, tellurico, ovattato. Il residuo di una memoria acustica del nostro primo più violento movimento, il venire alla luce: oltre il primato della vista, oltre il comprensibile squarcio di luce dal buio, è uno squarcio uditivo che forse regna nei recessi della nostra più atavica memoria, il fragore dei nostri timpani esposti a suoni, prima attutiti dalle acque uterine, e ora percossi come strumenti dall’aria della vita esterna.
Un altro insieme di costanti insiste su una ossimorica dualità di fondo del dio e del suo culto, irrisolvibile, o meglio, inconciliabile solo per chi lo osteggia: il culto appare simultaneamente nuovo e antico, straniero e domestico, come se manifestandosi in un dato tempo, nella storia di una comunità, la comunità stessa riconoscesse qualcosa di desueto ma familiare, che è stato dimenticato, o rimosso, o pigramente e colpevolmente abbandonato. Il riconoscimento è tutto nuovo, ma il sapere rimosso è antichissimo, è sempre stato lì, sotto gli occhi di tutti, e non è una conoscenza estranea, ma semplicemente riemerge attivata dall’incontro con elementi esterni.
Anche il culto di Dioniso nella Grecia antica sembra essere comparso per ultimo nel novero delle devozioni del politeismo ellenico. Tuttavia il mito stesso sembrava alludere a uno sprofondamento dell’origine in un’epoca molto più antica, una storia che poteva aver avuto come sfondo genetico la Tracia, come si sosteneva inizialmente, o meglio ancora, l’isola di Creta, come poi è stato straordinariamente messo a fuoco da Karol Kerényi. Secondo i suoi studi, condotti attraverso l’analisi delle immagini dell’arte, la preistoria della civiltà Minoica fu epicentro di una elaborazione culturale a fondamento di questo culto attraverso uno sguardo sull’esistenza, sull’uomo e la natura (la flora, la fauna terrestre e marina, gli uccelli, gli insetti, le stelle, la trasformazione della materia, la putrefazione, la fermentazione…) del tutto particolari. Ma anche questo stadio della genesi aveva radici altrove, in altri continenti, in Africa, in Asia, e in altri tempi, altre elaborazioni culturali, altre immagini, altri racconti avevano attraversato il mare importando a Creta feste ancora più antiche, altre ritualità, altri calendari, una relazione con i fatti naturali prodotta dalle vicende di altri gruppi umani.
La dualità di fondo del dio, espressa nel culto, torna come colpo di frusta a colpire, sconvolgere e confondere ogni altro binarismo imposto, di genere, di età, di specie: il maschile e il femminile, il vecchio e il giovane, l’uomo e l’animale, il dio e la bestia, il mortale e l’immortale. Quest’ultima duplice categoria era forse il centro pulsante del culto, la sua rivelazione, capace di dissolvere l’angoscia derivante dalla percezione della fine e dell’annientamento: la dissoluzione del limite di vita individuale nell’indistruttibilità della vita delle specie.
3. La polis, la morale e lo spazio pubblico: repressione e concessione
Questo principio di “movimento instabile” non poteva che essere osteggiato da tutti quei sistemi che in ogni tempo si sono disposti alla conservazione ostinata e violenta dello status quo, della norma, della stabilità, della fissità. Così anche il principio di “dissoluzione e mescolamento” non può che essere percepito come minaccia per la sopravvivenza di tutti quei poteri che impongono il controllo classificatorio (divisione, separazione, spartizione) come strumenti del proprio dominio – dagli imperi coloniali terrorizzati da zombie e possessioni del Vodu ed i suoi successivi sincretismi, al cattolicesimo vaticano che deve tenere a bada tarantolate e santi estatici.
Sebbene associato ai misteri che si celebravano ad Eleusi e in altri luoghi precisi, e che prevedevano l’impegno degli iniziati alla segretezza attraverso un giuramento, il culto di Dioniso non è pienamente misterico e occulto, avviene in molte sue forme alla luce del sole. Una tipologia di santuario di Dioniso tra le maggiori e più diffuse in epoca classica in tutto il bacino del Mediterraneo è il teatro e gli eventi sacri che vi si tengono sono celebrati sotto il cielo diurno. Spazio all’aperto, per manifestazioni religiose pubbliche, ben diverso dal naos con peristilio dei templi più consueti, il teatro nasce seguendo, assecondando, favorendo la disposizione dei corpi all’atto delle cerimonie: l’orchestra circolare replica le forme del corteo quando la processione si richiude per danzare in cerchio in campo aperto, attorno a un altare, a una vittima, a un tumulo, a un sepolcro; la cavea insegue le linee della disposizione della moltitudine accorsa per vedere le danze e ascoltare il canto: la necessità di vedere bene da parte di tutti suggerirà l’utilizzo di luoghi in pendenza. Tuttavia nelle pratiche di fuga dalla città come l’oreibasia (la corsa sulle montagne), o come le danze nei boschi, il tiaso, questo il nome del gruppo di individui che si riunisce per celebrare Dioniso, assume forme appartate. Anche la preparazione delle rappresentazioni teatrali da parte di un gruppo ristretto (quasi un sacerdozio, che prevede un training specifico – una costante, questa del training in preparazione alle manifestazioni del pathos, che accomuna attori del teatro occidentale e prefiche del sud Italia, monaci Vodu dell’africa occidentale e “performer” in trance del Theyyam in Kerala), indica infondo una tendenza settaria della pratica rituale: questa separazione genera un’aura affascinante di mistero e segreto, diviene oggetto di curiosità morbosa e di sospetto.
L’ultima e più ambigua delle composizioni poetiche teatrali trasmessaci dal canone tragico, Le Baccanti di Euripide, ad oggi l’unica superstite ad avere tema dionisiaco, grattacapo per generazioni di filologi, mette in scena proprio il conflitto tra il potere del governo della città e il culto dionisiaco, sospettato di anarchia e sedizione: forze conflittuali, e sanguinarie, che si scatenano tuttavia solo quando il dio non viene riconosciuto e l’armonia dei suoi devoti viene minacciata.
Tanto nel mito, quanto storicamente, due convinzioni, se non vere e proprie calunnie, ricadono sugli adepti e su queste adunanze appartate, devote e festose: la scelleratezza sessuale, e quella del crimine sanguinoso. La coesistenza armonica con la natura, i riti di fertilità agreste, le falloforie, i sacrifici animali e certe usanze alimentari relative alla carne, e certe pratiche come lo sparagmos (lo squartamento rituale a mani nude delle vittime animali cacciate), la frenesia delle danze, l’estasi e in taluni casi l’ebbrezza dovuta all’uso del vino e delle droghe, sono la base per una narrazione negativa del tiaso greco come per altre forme di celebrazione estatica in altre culture. La vicinanza agli animali è percepita come prossimità eccessiva al bestiale, così è percepita eccessiva la vicinanza tra uomini e donne, tra maschi, tra giovani e adulti, e, come nel caso del Vodu haitiano, tra vivi e morti. Tutti questi fattori, insieme alla licenza al mascheramento e al travestimento, generano racconti di promiscuità, dissoluzione morale, incesto, violenza, tradimento della patria, sedizione politica, omicidio, omofagia, inganno e falso. Il tiaso mette alla prova le regole fissate dal gruppo sociale in relazione al genere, all’estrazione sociale, alla provenienza, le abbatte per rinegoziarle, rovesciando i principi di esclusione e separazione, persino di identità della persona, la cui psiche può apparire dominata da una alterità, fino alla possibilità per chi pratica la trance di parlare (o “essere parlati”) da altre voci, altre lingue, e questo minaccia l’ordine costituito scatenandone la violenza repressiva. Il più noto dei casi storici fu la repressione, tutta politica, prima che religiosa, da parte del Senato di Roma, in una fase di crisi come quella che seguì la fine delle guerre puniche, con fenomeni dolorosi di spostamenti di massa e migrazione, con lo spopolamento delle campagne e l’inurbamento massivo di quartieri periferici di Roma, improvvisamente invasa da genti provenienti dall’intero territorio confederale. Gli incontri notturni, le feste rituali, la promiscuità maschile e femminile, ma soprattutto di romani e stranieri, e tra ceti diversi, tra schiavi, liberti e liberi, erano tutte minacce dirette all’ordine costituito dall’oligarchia repubblicana. Vale la pena riprendere il celebre passo di Tito Livio, per ritrovare nelle accuse rivolte ai Baccanali le costanti di una denigrazione sistematica contro questo tipo di libere associazioni, e il potere eversivo della festa:
Nell’anno [186 a.C.], la repressione d’una congiura interna deviò i consoli Spurio Postumio Albino e Quinto Marcio Filippo dal comando di eserciti e guerre e province.
[…]
Ad ambi i consoli fu assegnata per senatoconsulto l’inchiesta sulle società segrete. Un ignoto Greco venne in Etruria, non recando una delle molte arti che quel popolo più erudito di tutti ci dette per ingentilire gli animi e i corpi, bensì sacrifici e vaticini.
Non uno che empisse le menti di errore religioso con pubblici riti, professando pubblicamente l’arte sua per guadagno, bensì un officiante di riti occulti e notturni.
Erano misteri a cui pochi furono iniziati, all’inizio; ma poi cominciarono a divulgarsi, senza discriminare uomini e donne! Al rito si aggiunsero i piaceri del vino e dei cibi, per adescare di più.
Perso il discrimine d’ogni pudore (pei fumi del vino, la notte buia, il mescolarsi di maschi e femmine, fanciulli e adulti) iniziarono atti di depravazione d’ogni sorta; trovando tosto ognuno dei piaceri a cui il suo istinto era incline.
Reati d’associazione a delinquere di stampo tiasoso, nonché stupri promiscui di uomini liberi e di donne, sono false testimonianze, falsi contratti, falsi testamenti.
Per non dir venefici e delitti omertosi che neppur lasciavano corpi da seppellire. Molto si faceva coll’inganno, ma di più colla violenza. Ad occultar la violenza c’erano ululi e strepiti di timpani e cembali, che coprivano i gridi di aiuto fra stupri e stragi.
Tale male giunse a Roma dall’Etruria come per contagio.
Ma le repressioni storiche non si contano e tracciano una costante di scandalo che transita senza differenze tra le forme di governo più distanti: la messa al bando della Santeria e del Candomblé nelle colonie dell’America Latina, la proibizione del Vodu in Benin ad opera del regime marxista, fino alla decreto legge del 31 ottobre 2022 n. 162 ad opera del governo Meloni che introduce la norma “anti rave” in Italia. Persino la forma contraria della repressione, la concessione, è sintomo di una necessità di controllo: la stesso complessa istituzione del teatro attico, e il quadro politico entro cui si inserivano gli agoni tragici, nella loro rigida scansione lungo il calendario sacro, con precise regole di finanziamento privato e controllo poetico da parte degli Arconti, che comportò, tra i tanti interventi, la proibizione dell’emersione di temi “d’attualità” che potessero turbare eccessivamente la polis, sono un esempio lampante della predisposizione tutta greca di concedere uno spazio alla dimensione dell’alterità organizzato e ben definito, per così dire contenuto e recintato. Anche il carnevale, che fin dal nome indica una licenza di festa alimentare nel calendario liturgico cristiano, rappresentava tanto la ribellione all’ordine quanto lo spazio minimo concesso allo sfogo sociale senza che questo compromettesse l’ordine stesso. Ancora oggi nella pratica spettacolare del Theyyam in Kerala i “performer” in estasi che vengono adorati come divinità in occasione delle cerimonie sacre annuali provengono dalle caste inferiori: un’occasione unica, meticolosamente controllata, di ribaltamento sociale, in cui un membro di una casta inferiore si ritrova più in alto degli stessi bramini.
4. Forme e rappresentazioni della mania: iconografia della danza del dolore
Uno degli emblemi più identificanti del mito dionisiaco e delle sue rappresentazioni poetiche e figurative, così come delle sue manifestazioni cultuali e delle forme della rappresentazione di queste pratiche, è la mania. Nell’ordine sociale greco la follia non è malattia, ma una forma di violento stato alterato dell’essere che partecipa di qualcosa di divino, ctonio e infero o supero, ma comunque capace di pungolare e squassare, di svuotare e riempire l’individuo. Nel mito paradossalmente la mania appartiene di più ad un altro dio, storicamente percepito come antitetico a Dioniso, Apollo, dio violento che si manifesta come forza dominante quando entra nei corpi per farli profetare. Nel mito dionisiaco, invece, la mania compare come punizione per chi non riconosce il potere del dio o ostacola i suoi devoti. Non compare cioè come condizione generale del devoto e praticante del culto, le cui pratiche invece mirano ad una forma armonica e “terapeutica” (il termine appare associato al culto dionisiaco per la prima volta nelle Baccanti di Euripide). La pazzia nel mito dionisiaco colpisce, dunque, chi si oppone all’armonia dell’alternanza che il dio rappresenta: questo Principe della Danza, il Nataraja dell’esistenza, una forza rivoluzionaria che distrugge per ricreare, con il quale è bene scendere a patti pena l’insania. Tuttavia le forme della rappresentazione, poetica e figurativa, insistono su un dinamismo dei corpi che racconta esplicitamente di contrazioni e spasmi, di membra squassate, di gole rovesciate, di bocche spalancate, di occhi sbarrati o vacui, e lingue di fuori e bave alla bocca, di teste che scuotono chiome di capelli sciolti come serpi o fiamme (il capello sciolto maschile e femminile rappresentava uno stato selvatico e ferino, e sono molteplici i passi poetici che indicano l’abitudine delle menadi di mettere serpi tra i capelli o dell’abilità di portare fuochi sul capo). Un catalogo di forme “danzanti” del pathos, una fibrillazione o un’oscillazione di stampo warburghiano, il corpo come sismografo di una faglia psichica, e la ricomparsa di queste stesse forme in epoche e contesti diversi. Un catalogo che indica una universalità delle forme, forse, oppure una loro sopravvivenza mnestica e una loro trasmissione, un loro uso, dunque, per una rappresentazione della sofferenza, una messinscena. Una mistificazione? Un’ambiguità che si trascina fino ai giorni nostri, transitando per il teatro dell’isteria organizzata da Jean-Martin Charcot all’ospedale della Salpêtrière.
“Nel celebrare i loro riti di iniziazione o sacrificio, i membri delle primitive culture tribali appaiono sempre ben consapevoli che l’eccesso rituale unito a immancabili ferite e mutilazioni, altro non era, in fondo, se non pura commedia, ancorché spinta a volte sino ai limiti della morte”. Del resto anche coloro che soffrono di gravi disturbi della psiche conservano nel più profondo recesso della mente la sensazione di recitare un ruolo, di indossare panni altrui cuciti su misura per loro, essere attori di una pièce teatrale. Riscatto, risarcimento, compensazione, sdoppiamento, maschera, ombra, imitazione: “pura commedia”. E in fondo le menadi, le vociferatrici e le prefiche, la cui condizione patologica era determinata, pur nel delirio, da un estremo autocontrollo, potrebbero forse distinguersi in misura irrilevante dalle “sonnambule, che sulle scene dei teatri lirici borghesi da due secoli cadono preda, sera dopo sera, di parossismi isterici calcolati fin nei minimi dettagli.
Questo commento al testo Campo Santo di W. G. Sebald appare in Una festa tra noi e i morti (2020), riflessione sull’Orestea di Eschilo messa in scena da Anagoor nel 2018. Nel trattare la trilogia tragica, Anagoor aveva già spinto un affondo in tal senso, conducendo la propria ricerca nel tentativo di scandagliare il dinamismo fisico che precede il testo poetico. L’obiettivo, che ora prosegue con il progetto BROMIO, era di rintracciare, in uno stadio pre-tragico, nella dimensione della danza del coro, un sintomo psicofisico, ciò che unisce (o contagia) un gruppo di individui che si raccolgono per cercare di scrollarsi di dosso maglie che li rendono schiavi, attraverso una gemmazione delle membra, una fioritura, uno sbocciare, una primavera dei corpi “spettacolare” non scevra di risa, lacrime e urla.