La poésie ne s’impose plus, elle s’expose
Paul Celan
1. Entsetzen
La danza e la lingua: possibile? Si tratta forse di un legame della separazione, della destituzione?
Di cos’è nome Jane Avril? Certo, della danza. Un gesto, la danza, la cui vicinanza con il linguistico e il comunicabile non potrebbe essere più dubbia e problematica. Eppure, senza con questo ridurre la danza a una mera declinazione dei linguaggi non verbali, la questione Jane Avril, l’esperienza Jane Avril, si lascia configurare anche e soprattutto come una questione di lingua Jane Avril – forse, persino di scrittura Jane Avril.
Di quale lingua i movimenti di Jane Avril sono segni? Che cosa viene tracciato nella danza e attraverso la danza? In che misura, infine, è lecito vedere nella danza una relazione alla comunicabilità e al mediale, e non siamo qui forse costretti a ipotizzare un altro modo dell’attraverso-cui, del per-mezzo-di?
Un primo momento di avvicinamento alla lingua Jane Avril è forse schiuso dal concetto di “mezzo puro” elaborato da Walter Benjamin. L’ambito dei mezzi puri è notoriamente delineato da Benjamin in uno dei suoi testi politicamente più densi, Per la critica della violenza (1921). Nell’economia del discorso che ci si appresta a intraprendere, decisivo è che in questo stesso scritto Benjamin faccia luce, seppure solo fuggevolmente, sulla categoria del destituente.
A una teoria del destituente rimanda la distinzione tra una logica della Setzung, cioè della (im-)posizione (e della costituzione), e una logica della Entsetzung, cioè della de-posizione (e della destituzione1). Solo in forza di tale distinzione è possibile anticipare, secondo le parole in cui culmina il saggio, “una nuova epoca storica” (Benjamin, 2008c, p. 487). La giustizia (Gerechtigkeit), che allora avrà potuto regnare, deve cioè afferire a una sfera altra rispetto a quella della legge (Recht) e della violenza/potere (Gewalt) attraverso la quale questa si applica. Ma a quale concetto di mezzo rinvia il potere di cui si serve la legge positiva, nel momento in cui si pone e impone?
A differenza della giustizia, tutta la legge dipende da una (im-)posizione, e nessuna (im-)posizione riesce a prescindere dalla violenza. Ma quest’ultima, proprio in quanto (im-)positiva, al contempo nega e compromette sé stessa. L’“ambiguità” (p. 484) strutturale della violenza diviene particolarmente visibile ogni volta che questa si preoccupa, come non può mancare di fare, della propria conservazione. Tuttavia, passando dalla postulazione alla conservazione della legge, la violenza deve anche scontrarsi, circolarmente e ambiguamente, contro le forze della postulazione e, dunque, contro la propria stessa ragion d’essere: il principio del (im-)porre come tale. Momento cardinale della teoria politica benjaminiana è, dunque, che la soppressione della violenza su cui si regge lo status quo non richieda l’intervento di una violenza altrettanto positiva e, per quanto op-posta, ancora imponente; piuttosto, la liberazione dalla violenza presente è resa possibile dal processo stesso per cui essa si pone e, insieme, si ostacola, facendosi così fine esterno a sé stessa.
Se, tuttavia, ogni violenza positiva non può che aspirare alla propria durata stabile e continuativa, una violenza non-positiva, quale la si potrebbe configurare con Benjamin, non si lascia ridurre ad alcuna forma temporale conosciuta e riconoscibile. Mentre – fin dall’antichità e culminando nella “epoca capitalistica” tematizzata altrove da Benjamin – la storia delle condizioni giuridiche ha sempre proceduto secondo una ritmica circolare, “sull’interruzione di questo ciclo che si svolge nell’ambito delle forme mitiche del diritto, sullo spodestamento (Entsetzen) del diritto insieme alle forze a cui esso si appoggia (come esse a esso), e cioè in definitiva dello stato, si basa una nuova epoca storica” (p. 487). A questo riguardo, Benjamin stabilisce un’analogia tra “pura violenza” e “puri mezzi”. Ma se, in questo modo, alla violenza/potere
è assicurata realtà anche al di là del diritto, come violenza pura e immediata, risulta dimostrato che è come sia possibile anche la violenza rivoluzionaria, che è il nome da assegnare alla suprema manifestazione di pura violenza da parte dell’uomo. Ma non è altrettanto possibile, né altrettanto urgente per gli uomini, stabilire se e quando la pura violenza si sia realizzata in un determinato caso (pp. 487-488).
Come avvicinare la sfera della Entsetzung, se questa è caratterizzata proprio da una costitutiva irriconoscibilità, non essendo possibile determinare se e come sia realizzata sul piano temporale? Certo è che la destituzione richiede un agente o, meglio, come si proverà a mostrare, un “portatore”, un “sostegno”. Il quale, però, non può essere configurato quale soggetto giuridico collettivo o individuale, né, infine, quale agente tout court, cioè quale soggetto positivo – secondo la duplice accezione di riconoscibile e di capace di assumere posizioni. Destituente non può essere un mezzo atto a realizzare e assicurare un fine determinato e determinabile (ciò in cui la violenza positiva sempre si traduce storicamente); tuttavia, il destituente afferisce ancora, stando a Benjamin, alla sfera dei mezzi.
A questo riguardo, ritroviamo, ancora in Per la critica della violenza, due esempi emblematici di “mezzi puri”: il linguaggio e lo sciopero generale proletario. Quest’ultimo consente d’intravedere quale sia la traduzione politica possibile di un gesto destituente. Il mezzo dello sciopero generale proletario “non ha luogo nella disposizione a riprendere, dopo concessioni esteriori e qualche modificazione nelle condizioni lavorative, il lavoro di prima, ma nella decisione di riprendere solo un lavoro interamente mutato, un lavoro non imposto dallo stato” (p. 480). Quello attraverso cui avviene lo sciopero è, in questo senso, un “mezzo puro”, perché obiettivo degli scioperanti non è produrre una nuova legislazione o un lavoro modificato all’interno dei vincoli della violenza di stato. Non si tratta di uno scopo positivamente determinabile al di là dello sciopero, bensì proprio dello sciopero stesso quale medium in cui accediamo a quello cui Benjamin si riferisce come a un “ordine superiore di libertà” (p. 474). Come non-azione, lo sciopero è un rifiuto incondizionato di agire positivamente e, per questo, non può essere che nichilistico. Non, tuttavia, nel senso che esso sia diretto all’annichilimento della medialità, del proprio esser-mezzo, bensì nel senso di un annichilimento dell’istanza del porre e delle sue istituzioni2. La teoria politica di Benjamin si declina, in questo modo, come una teoria dei mezzi puri, i quali non pongono né producono, poiché questo li renderebbe circolarmente mezzi per qualcos’altro, al servizio dell’assoggettamento e dello sfruttamento in vista della propria sussistenza duratura nel tempo.
2. Medium
Lo “sciopero generale proletario” costituisce un punto di riferimento fondamentale per indagare le possibili implicazioni politiche della figura di Jane Avril. Tuttavia, una lente per avvicinare l’apparizione della danzatrice francese è fornita forse soprattutto dall’altro esempio di una medialità pura: quello della lingua.
Nello scritto da cui origina tutta la riflessione benjaminiana sulla lingua, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo (1916), leggiamo che “non c’è un contenuto della lingua; come comunicazione (als Mitteilung) la lingua comunica (teilt mit) un essere spirituale, e cioè una comunicabilità pura e semplice (eine Mitteilbarkeit schlechthin)” (Benjamin, 2008a, p. 286). E ancora: “ciò che in un essere spirituale è comunicabile è ciò in cui esso si comunica; vale a dire: ogni lingua comunica se stessa. O più esattamente: ogni lingua si comunica in se stessa, essa è, nel senso più puro, il ‘medio’ della comunicazione (das ‘Medium’ der Mitteilung). Il mediale, cioè l’immediatezza (Unmitteilbarkeit) di ogni comunicazione spirituale, è il problema fondamentale della teoria linguistica” (p. 283).
Nella prospettiva di Benjamin, non esiste cosa che non sia in qualche relazione con il linguaggio. Ma che cosa comunica la lingua? La lingua comunica solo quanto vi è di comunicabile nell’“essere spirituale” (l’idea), e ciò coincide con la propria comunicabilità, con la propria medialità. A partire da un riferimento implicito al Cratilo platonico, Benjamin mostra come il non chiarito rapporto fra idea e lingua stia alla base di un duplice rischio che ogni teoria della lingua corre. L’affermazione di una semplice identità (la lingua, il nome, svela ed esaurisce in sé l’idea, senza residui), sostenuta da quella che Benjamin chiama “teoria mistica” della lingua, fa da contraltare all’affermazione di una mera differenza (la lingua rappresenta convenzionalmente una realtà in sé inaccessibile), propria della teoria strumentale (“borghese”) della lingua. Sia la comprensione mistica dell’essenza totale delle cose nella lingua, sia la comprensione solo concettuale di tale essenza, sono in realtà incapaci di cogliere il vero carattere (in-)espressivo della lingua, quello che si potrebbe chiamare: il suo volto. Se la lingua non è l’idea in quanto tale, ma l’idea nel medium in cui si esprime, essa non è tuttavia un mero strumento con cui veicolare l’idea. Piuttosto, come scrive Benjamin, “è fondamentale sapere che questa essenza spirituale si comunica nella lingua e non attraverso la lingua. […] L’essere spirituale si identifica con quello linguistico solo in quanto è comunicabile. Ciò che in un essere spirituale è comunicabile è il suo essere linguistico […]. [Pertanto] la lingua comunica l’essere linguistico delle cose (p. 282)”.
Ci avviciniamo a questo punto alla distinzione benjaminiana tra Erkenntnisvermögen e Sprachvermögen, e, in particolare, a quella potenza mimetica (mimetisches Vermögen), che costituisce una possibile chiave di accesso alla lingua Jane Avril. Le potenzialità della lingua danno origine a un processo significante, a una dýnamis che non si esaurisce (così come, secondo Benjamin, gli Erkenntnisvermögen kantiani) nell’adeguatezza dei concetti alle intuizioni: in questo senso, la lingua porta con sé non solo la possibilità, ma anche l’impossibilità di raggiungere il significato.
Richiamando ancora Platone, i criteri di una buona mimesi nel senso della somiglianza non possono essere quelli della mimesi nel senso della riproduzione. Un’immagine che riproducesse le dimensioni e tutte le caratteristiche del suo modello non sarebbe più un’immagine, bensì un doppio identico all’originale. Non avremmo più Cratilo e l’immagine di Cratilo, ma due Cratilo: “vedi dunque, amico, che bisogna cercare un’altra correttezza dell’immagine e delle cose di cui parlavamo or ora, e non costringere un’immagine, qualora manchi o si aggiunga qualcosa, a non essere più tale? O non ti accorgi di quanto siano lontane le immagini dal possedere le stesse caratteristiche delle cose di cui sono immagini?” (Platone, 1998, p. 123).
Che differenza sussiste tra mimesi e rappresentazione? Come pensare la somiglianza dell’immagine? Come pensare, cioè, quest’altra correttezza (orthòtes) che presuppone uno scarto tra il prodotto dell’imitazione e l’oggetto imitato? Come possiamo conciliare la definizione referenziale di mimesi con l’idea che l’imitazione possa essere accurata pur restando inadeguata al suo modello?
Di non sopravvalutabile rilevanza è, infine, che, in Benjamin, la manifestazione forse più estrema della struttura non significativa e strumentale dei nomi sia resa visibile dal nome proprio. Il nome proprio resiste alla lingua come sistema significativo: espone la relazione immediata di un significante puro con un’esistenza singolare. Mentre il Cratilo si apre con la domanda “se ‘Cratilo’ sia o meno il nome per lui secondo verità” (p. 4), Benjamin, che conosceva perfettamente Platone ma era a contatto anche con il concetto di nome della mistica ebraica, si chiede in un frammento: “Sono io, colui che si chiama Walter Benjamin? O semplicemente mi chiamo W. B.? […] Il nome è attaccato a noi, o siamo noi a essere attaccati al nome?” (Benjamin, 2000, pp. 948-949).
E quando ha incominciato, Jeanne Louise Baudon, a portare il nome Jane Avril?
3. Mimesis
J. A. - “Ripercorrendo i miei passi, mi accorgo di aver attraversato un’epoca svolazzando nella ressa vorticosa degli individui più diversi senza aver lasciato intravedere nulla della mia natura più profonda. Ma non è forse meglio così?” (Avril, 2015, pos. 1286).
Anche Benjamin, nel rievocare le proprie esperienze di vita, fa riferimento a qualcosa che non avrebbe potuto essere lasciato intravedere, a un non-espresso. L’incipit della Cronaca berlinese allude, più precisamente, a una “impotenza”: “probabilmente chi non ha conosciuto l’impotenza (Ohnmacht) riguardo a una cosa non l’apprenderà mai alla perfezione, e chi è d’accordo saprà anche che questa impotenza non si colloca all’inizio o prima di un qualsiasi sforzo, bensì proprio al centro dello stesso” (Benjamin, 2003a, p. 236). Anche lo spazio della memoria rimanda a un attraverso-cui, al “centro dello [sforzo] stesso (mitten in ihr)”, cioè a un medium.
È notevole, a questo proposito, che entrambi, Benjamin e Jane Avril, si apprestino a ricostruire la propria biografia tra il 1932 e 1933. In tutti e due i casi, però, non si tratta di rievocare il passato per come esso è stato, bensì di scorgervi le tracce di una vita futura: la propria. I luoghi verso cui la loro memoria vuole ritornare portano quasi tutti “i tratti dell’avvenire” (Benjamin, 2003b, p. 379). Eppure, lo sguardo all’indietro di Benjamin, soprattutto in Cronaca berlinese e in Infanzia berlinese intorno al millenovecento, incontra altresì immagini in cui scorgere non tanto la propria figura, quanto le trasformazioni dell’ambiente storico-sociale che presto sarebbero diventate oggetto della sua riflessione. Come si legge nella postfazione, l’Infanzia berlinese fa parte di quella preistoria dell’epoca moderna cui Benjamin avrebbe lavorato negli ultimi anni della sua vita. Si vorrebbe però qui ipotizzare che il Passagenwerk – ossia il lavoro in cui tale riflessione si riversa – costituisca una chiave per una possibile lettura benjaminiana di Jane Avril per più di una ragione. Non solo perché Benjamin rintraccia nella Parigi in cui si esibisce Jane Avril la “capitale del XIX secolo”, ma anche e soprattutto per la forma in cui quest’opera monumentale e incompiuta è stata scritta, per il metodo che Benjamin ha ritenuto consustanziale al proprio oggetto di studio.
È la stessa scrittura, una scrittura gestuale, a mirare a una fisiognomica della modernità, a farsi mimetica del passaggio a una nuova età – quella del “capitalismo avanzato” – mantenendosi nel mezzo tra due secoli. Come un fisionomo o un robivecchi, Benjamin enuncia così il principio metodologico che intende seguire: “non ho nulla da dire, solo da mostrare” (Benjamin, 2000, p. 514). Ritroviamo qui un’attenzione singolare alla morfologia, a una tensione verso quei tratti della storia non (ancora) ricomposti in un convenzionale quadro sistematico, bensì raccolti in una costellazione di frammenti, di dettagli, di scarti rimasti ai margini dalla prospettiva dominante. Ancora una volta, proprio in un’attenzione del genere trova espressione una specifica idea della lingua, la quale, proprio in questi stessi anni, è interpretata come “il più perfetto archivio di similitudini immateriali” (Benjamin, 2003d, p. 524).
Nel momento in cui si prepara il trionfo dei totalitarismi, Benjamin non è certo l’unico a interessarsi ai mutamenti sociali, politici e culturali della Parigi di fine Ottocento. Per fare solo un esempio, Siegfried Kracauer, nella sua biografia sociale Jacques Offenbach e la Parigi del suo tempo (1937), si occupa analiticamente non solo della capitale francese, ma anche della funzione che la danza – e, in particolare, proprio il cancan – vi assume. Nello stesso modo in cui, mediante culti specifici, le comunità mettono in scena strategie per depotenziare ciò che sperimentano come opprimente (si pensi, innanzitutto, alla repressione della Comune), analogamente la danza diventa un modo di addomesticamento mimetico di situazioni di sconvolgimento politico. La rivoluzione, si potrebbe dire, non può più che essere danzata e, così, mimata. Vi sarebbero allora, secondo Kracauer, uno spostamento e un mascheramento delle energie rivoluzionarie (ciò che d’altronde era già stato riconosciuto da Marx nell’avvento del Secondo Impero di Luigi Napoleone). Il culto del leader caratteristico dei fascismi troverebbe, in questo senso, il suo modello estetico-ideologico nello scorcio storico analizzato ne Il XVIII Brumaio di Luigi Bonaparte3.
Un ulteriore momento genealogico del discorso simbolico fascista si potrebbe forse recuperare nello sguardo del potere fatto proprio dalla medicina alienista, con particolare riferimento all’isteria. Anche in questo caso, è in seguito alla caduta della Comune che l’isteria esplode a Parigi con una violenza inaudita. Le pazienti della Salpêtrière – per la maggior parte prostitute, mendicanti, criminali o semplicemente ragazze di strada – avevano visto svanire sotto i loro occhi ogni speranza di liberazione. Sotto lo sguardo del loro salvatore e padrone, si fanno modello in miniatura di quella folla che stava diventando oggetto privilegiato della nascente psicologia collettiva. Per questa folla, non casualmente concepita come una donna oltremodo emotiva e suggestionabile (allo stesso modo, gli “attacchi” di un’isterica si propagavano mimeticamente a tutte le altre), non poteva che essere necessario un uomo capace di dominarla: Luigi Napoleone e, più tardi, Mussolini o Hitler, entusiasti estimatori di Gustave Le Bon4.
J. A.: “C’erano quelle donne folli la cui malattia, chiamata isteria, consisteva soprattutto nel simulare dei sintomi inesistenti” (Avril, 2015, pos. 142).
Tanto più emblematico è, a questo punto, che Benjamin, proprio all’inizio della dittatura nazionalsocialista (e del proprio esilio personale), declini l’elaborazione di una “nuova teoria del linguaggio5” nei termini di una dottrina della facoltà mimetica. Il parallelo temporale tra l’elaborazione di una teoria della mimesi e gli sconvolgimenti politici in Germania deve essere tenuto presente nella misura in cui Benjamin, di fronte a un sistema totalitario il cui dominio ed esercizio del potere si estendeva anche alla sfera estetica, giunge a considerazioni che mettono fondamentalmente in discussione il concetto di imitazione così come questo stava prendendo forma nell’estetica fascista. Le sue riflessioni su una teoria della somiglianza sono incompatibili con una concezione della mimesi che cerchi una “somiglianza” perfettamente corrispondente a un determinato status quo. Questa comprensione di imitazione come somiglianza imposta è minata da Benjamin a partire dal concetto fondamentale di somiglianza “non sensibile” o “immateriale” (unsinnliche Ähnlichkeit), il cui archetipo si ritrova, presso gli antichi, nella danza. “Ma anche noi”, precisa, “abbiamo un canone che può aiutarci a chiarire, almeno in parte, il concetto di similitudine immateriale. E questo canone è la lingua” (Benjamin, 2003d, p. 523).
La percezione delle somiglianze immateriali, le uniche a contare per i fisionomi come Benjamin, è “sempre legata a un baleno. Guizza via, forse è possibile recuperarla, tuttavia non può essere fissata allo stesso modo di altre percezioni. Si offre allo sguardo nel modo altrettanto fugace e passeggero di una costellazione astrale” (Benjamin 2003c, p. 440). E ancora, come si legge nella versione definitiva del testo: “la produzione della somiglianza da parte dell’uomo - come la percezione che egli ne ha - è affidata, in molti casi, e soprattutto nei più importanti, a un baleno. Essa guizza via. Non è improbabile che la rapidità dello scrivere e del leggere rafforzi la fusione del semiotico e del mimetico nell’ambito della lingua” (Benjamin, 2003d, p. 5246).
Così come vi è identità e, al contempo, differenza tra lingua ed essere spirituale (la lingua, irriducibile a dispositivo referenziale, rimanda a un’inesauribile potenzialità espressiva), allo stesso modo la “somiglianza non sensibile” permette di pensare la mimesi non a partire da una corrispondenza funzionale a un modello, bensì come una differenza che sfugge alla percezione, come uno spazio di possibilità di relazione. In questo senso, è significativo che – come, è stato argomentato (cfr. Didi-Huberman, 2020) – Charcot fondi il proprio potere alla Salpêtrière su categorie visive, a partire da paradigmi plastici e figurativi volti alla codificazione clinica del linguaggio mimetico delle proprie pazienti. Eppure, è proprio alla Salpêtrière che Jane Avril muove i suoi primi passi nel medium della danza. Come dissociare il nostro sguardo da quello di Charcot e, più in generale, da quello del potere e della violenza (im-)positivi? Vi è, forse, una certa “ambiguità” anche nella danza: consegnare un’immagine all’appropriazione dello sguardo e, insieme, rimandare a un’immagine inespressa e indecifrabile, che lo ecceda e ne sfugga la cattura?
Un indizio per provare a orientarsi in questo interrogativo può essere rintracciato in un ulteriore momento della teoria lingusitica di Benjamin. “L’elemento fonetico” – leggiamo in un passaggio del 1935 – “è fondato su quello mimico-gestuale” (Benjamin, 2004, p. 219). Sviluppando quest’idea, Benjamin prosegue citando un testo celebre di Valéry, L’âme et la danse, in cui Valéry “vede le radici dell’espressione linguistica e di quella che avviene attraverso la danza in una sola, identica facoltà mimetica”, e “tocca le soglie di una fisiognomica del linguaggio che va molto oltre i primitivi tentativi della teoria onomatopeica” (ib.). Come pensare questa fisiognomica del linguaggio auspicata da Benjamin?
Prima ancora che a una dimensione corporale, e sicuramente al di qua del corpo come totalità organica, si deve qui pensare a qualcosa come un “sostegno” o un “portatore” della pura comunicabilità della lingua:
Questo aspetto della lingua come della scrittura [la loro capacità mimetica] non corre isolato accanto all’altro, quello semiotico. Anzi, tutto ciò che è mimetico nella lingua può invece – come la fiamma – rivelarsi solo in una sorta di sostegno (Träger). Questo sostegno è l’elemento semiotico. Così il nesso significativo delle parole e delle proposizioni è il portatore (Träger) in cui solo, in un baleno, si accende la similitudine (Benjamin, 2003d, p. 524).
4. Vergogna
Jane Avril:
Non appena risuonarono le prime battute di un valzer, quasi sollevata da terra da quel ritmo trascinante, mi lanciai come un capriolo, trasportata da un vortice meraviglioso, senza vedere più niente o nessuno […]! Avrei voluto nascondermi tre metri sottoterra per la vergogna di essermi così tanto lasciata andare a un istinto che fino a quel momento non avevo mai nemmeno sospettato di possedere. E poi, per mia sventura, guarii! (Avril, 2015, pos. 192-205).
In uno dei paralipomeni della sua incompiuta Teoria estetica, Theodor W. Adorno dedica poche, densissime pagine al destino del poema ermetico, alla fine delle quali si rivolge alla poesia di Paul Celan. Il termine chiave attraverso cui prova ad avvicinare l’opera di Celan è quello di vergogna (Scham): la vergogna dell’arte in rapporto a un dolore che sfugge tanto all’esperienza quanto alla sublimazione. Le poesie di Celan, scrive Adorno, “vogliono parlare dell’orrore più estremo attraverso il silenzio. Il loro contenuto di verità diventa esso stesso negativo (Celans Gedichte wollen das äußerste Entsetzen durch Verschweigen sagen. Ihr Wahrheitsgehalt selbst wird etwas Negatives)” (Adorno, 2009, p. 294).
Laddove la vergogna ha luogo, nel suo medium, qualcosa non può più essere afferrato e appropriato. Qualcosa – il dolore – non può più essere esperito e blocca le vie della sublimazione, l’apriori stesso dell’arte. Tuttavia, dev’esserci ancora un’esperienza possibile: quella in cui all’arte sia dato di confrontarsi con la propria vergogna. Qui si è posti a contatto con un’esperienza alle soglie del tautologico (o, con un termine tradizionale ripreso dall’ultimo Benjamin: del monadologico) – “senza vedere più niente e nessuno”. Come un segnalatore e un sostegno precario di qualcosa che manca, la vergogna nomina il non-dolore che si fa avanti allorché il ritiro del dolore dall’esperienza non può più essere esperito come doloroso, poiché è l’assenza stessa del dolore a configurare questo non-dolore finale: das äußerste Entsetzen, l’orrore più estremo. La vergogna segnala il non-dolore provato nell’impotenza a esperire un dolore. Ma questo deve significare che l’esperienza non è ancora del tutto perduta.
Ancora con Benjamin, la questione promette di poter essere ulteriormente approfondita. L’Entsetzen di cui scrive Adorno, infatti, non può essere pensato (solo) come un affetto esperibile: l’“orrore” in cui, pure, può essere tradotto. Entsetzen traduce al contempo, benjaminianamente, il rovinare, cioè la de-posizione e destituzione della lingua nel cui medium ci si prova a esprimere: l’Entsetzen si dice (sagen) attraverso il silenzio (durch Verschweigen)7. Certo, l’Entsetzen, il destituente non può mai essere riferito a un contenuto linguistico; eppure, influisce e insiste nella struttura stessa della lingua che, fallendo, cerca di esprimerlo. Una lingua (del) destituente è forse già sempre anche una lingua destituita (entsetzt) – una lingua che ha realmente cessato di essere una lingua (oppure, forse, una lingua che ha cessato di essere riconoscibile come lingua). Ma come può, una lingua, dire la (propria) destituzione, se la possibilità di dire qualcosa, di dire qualsiasi cosa, richiede che la lingua non sia destituita?
Jane Avril:
Aggiungendo alla parola i gesti, con o senza il minimo pretesto, mi picchiava con efferatezza svariate volte al giorno; sempre evitando tuttavia di segnarmi il viso per la paura che nel vedermi i nostri conoscenti potessero insospettirsi. Per contro, il resto del mio corpo mostrava tutti i colori dell’arcobaleno e portava addosso - per così dire - la sua firma (Avril, 2015, pos. 52).
A proposito di Robert Walser, Benjamin scrive che “il ‘come’ del lavoro è tanto poco una cosa secondaria che tutto ciò che egli ha da dire passa completamente in seconda linea di fronte all’importanza dello scrivere. Si potrebbe dire che si esaurisce nello scrivere” (Benjamin 2010, p. 355). Con il narratore svizzero, saremmo posti a confronto con un “pudore […] nei confronti del linguaggio” (Sprachscham) o con una vergogna del linguaggio: “non appena ha preso in mano la penna entra in uno stato di disperazione. Tutto gli sembra perduto, è sopraffatto da un profluvio di parole in cui ogni frase ha solo il compito di far dimenticare quella precedente” (ib.).
Jane Avril:
Non ero propriamente bella (pur essendo abbastanza carina, credo), ma a quanto pareva da me emanava un certo fascino – inquietante, dicevano alcuni – e, come mi è stato ripetuto numerose volte, nel complesso la mia figura era molto graziosa. Ciò di cui sono assolutamente certa è che ho sempre danzato con grande pudore (Avril, 2015, pos. 497).
Come le potenzialità della lingua in Benjamin, la danza insieme perviene e non perviene al significato: è sempre, al contempo, arte del controllo, della chiusura e del pudore, perché il suo fine coincide con la propria effettuazione. Il nesso che incatena mezzo a fine perde qui la propria cogenza, e si scioglie nella potenzialità immanente al gesto danzante: un modo di apparire in cui il corpo espone la propria medialità, laddove ciò che appare e il modo in cui appare divengono indistinguibili. Eppure, il corpo che così diviene visibile, non è disgiungibile da qualcosa come uno squilibrio, una deviazione (“non ero propriamente bella”) che interrompe ogni (presunto) equilibrio del corpo come unicum in sé armonico.
È in un frammento scritto tra il 1919 e il 1920 che Benjamin tratta direttamente della vergogna. Il rossore della vergogna “non macchia la pelle, non fa venire alla luce un qualche travaglio, un conflitto (Zersetzung) interiore. Non preannuncia proprio nulla di interiore” (Benjamin, 2014, p. 66). Non vi è qui alcuna direzione (ancora secondo una logica del riconoscimento) verso uno “smascheramento” della profondità dell’animo di chi si vergogna; piuttosto, si tratta di “fare morire con il rossore […] ogni motivo di vergogna, qualsiasi elemento interiore […]. Chi si vergogna non vede nulla e lui stesso non viene visto” (ib.).
Un volto di questa specie è quello consegnatoci da Toulouse-Lautrec sotto il nome: Jane Avril. Un volto indifferente e inespressivo, persino cadaverico: “il rossore della vergogna – conclude Benjamin – è una manifestazione significativa ma priva di espressione di ciò che è evanescente8” (p. 67). Un volto che destituisce “la tesi di chi pretende di poter predire agli uomini, in base a questi o quei segni, il loro destino”: un destino che, come tale, “è già, in qualche modo, presente, o, detto con più cautela, è già sul posto” (Benjamin, 2008b, p. 453).
Jane Avril: “Mi accorsi ben presto che non avevo alcuna inclinazione per i ruoli tragici, nonostante l’opinione di tutti coloro che mi dicevano che sia il mio volto che la mia voce erano adatti” (Avril, 2015, pos. 1082).
Come ci lascia scorgere Toulouse-Lautrec, questo volto può essere colto (certo, solo come evanescenza, in un baleno) nel suo accedere alla danza, nel suo fare un passo nella danza e, così, nel suo non essere già più “sul posto” (zur Stelle), bensì fin da sempre de-posto: destituito e destituente.
Questo passo sostiene, porta avanti qualcosa, ma senza portarlo a termine. È una porta – una porta al di qua o al di là del vincolo identitario del significato (del destino), una sua sospensione fugace che, pur restando ermeticamente chiusa in sé, apre a qualcosa di diverso da sé, alla propria inappropriabile “stessità” (mêmité9). Jane Avril – porta già adesso, ma ormai senza alcun peso, nient’altro che sé stessa.