1. (S)figurare il destituente
L’ipotesi che vorrei sviluppare attorno alla figura di Charlot indaga la leggibilità di Tempi moderni a partire da alcune categorie estetico-politiche elaborate da Walter Benjamin negli anni Trenta.
Il film del 1936 si presenta come un’ultima e straordinaria condensazione di motivi e situazioni cruciali della vicenda del personaggio interpretato da Chaplin. Attraverso Benjamin, in particolare, è forse possibile prospettare come Tempi moderni tracci il compimento del percorso intrapreso da Charlot con Kid Auto Races at Venice del 1914. In che modo, però, può un percorso essere compiuto, allorché a percorrerlo non è altri che un vagabondo? Ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica Benjamin attribuisce notoriamente al regista britannico una funzione centrale. Charlot risulta qui leggibile come il medium attraverso cui Chaplin monta l’uomo all’interno del cinema, mettendoci a confronto con una paradossale e spettrale presenza: quella di qualcuno che, non rappresentando alcuna determinata istanza individuale o collettiva, resiste a ogni possibile cattura.
Charlot: costantemente fuori posto persino nei contesti e nelle situazioni più ordinarie, impossibilitato (nonostante i propri sforzi) a adattarsi alle esigenze della società in cui si ritrova a dover sopravvivere, sempre pronto a improvvisare una scappatoia alle minacce da cui è braccato. In giro per il mondo attraverso il cinema, appare come una forma di vita anarchica, una vera e propria incarnazione di una marginalità non integrabile.
Come decifrare la (non-)relazione tra il personaggio chapliniano e i dispositivi di potere (innanzitutto, la macchina cinematografica) con cui non smette di entrare in contatto? I gesti di un piccolo vagabondo senza nome e, addirittura, la sua semplice presenza dicono ancora qualcosa a proposito di una possibile profanazione del mondo in cui viviamo?
Con ogni probabilità, non bisogna cessare di prendere sul serio le pur provocatorie accuse di cui Chaplin è fatto oggetto dai membri più radicali dell’avanguardia lettrista. I quali, in occasione della conferenza che Chaplin si apprestava a tenere a Parigi per pubblicizzare Luci della ribalta (1952), organizzano un’azione di sabotaggio, sparpagliando dei volantini (il cui testo sarebbe poi confluito nel primo numero dell’Internazionale Lettrista). Chaplin è definito nientemeno che un “insetto fascista” e un “ricattatore emotivo, maestro cantore della disgrazia”, di cui va demistificata l’auratica intoccabilità: “Poiché ti sei identificato con i deboli e gli oppressi, attaccarti è stato attaccare i deboli e gli oppressi, ma nell’ombra del tuo bastone da passeggio di bambù alcuni potrebbero già vedere lo sfollagente di un poliziotto” (Marcus, 1991, p. 355).
L’incatturabilità di Charlot è qui direttamente connessa a una sua effettiva istituzionalizzazione: attraccato in Europa dopo essere stato ufficiosamente esiliato dagli Stati Uniti in quanto sospetto sovversivo, Chaplin viene accusato di essere antirivoluzionario. Al di là delle azioni del personaggio pubblico, pronto a vendere ai mass media l’immagine di sé come vittima della paranoia maccartista, il peso specifico di queste accuse va misurato rispetto alla stessa opera cinematografica chapliniana; la quale risulterebbe tesa a una tipizzazione della figura dell’oppresso, culminante, grazie alla maschera di Charlot, con una implicita connivenza e una consegna di tale figura a un universo di relazioni immaginale irreprensibile e propriamente improfanabile.
Alcuni anni più tardi, nel 1967, uno dei firmatari di quel volantino avrebbe messo a nudo questo universo di relazioni come il fondamento de La società dello spettacolo. Che l’organizzazione capitalistica della società in cui viviamo si riveli a Guy Debord come un’accumulazione inaudita di immagini, offre allora l’occasione per provare a ripensare Charlot proprio su questo piano: laddove estetica e politica ci si mostrano come non più separabili. Se, in effetti, “considerato secondo i suoi propri termini, lo spettacolo è l’affermazione dell’apparenza e l’affermazione di ogni vita umana, cioè sociale, come mera apparenza” (Debord, 1997, pp. 55-56), fino a che punto, nonostante tutto, il modo in cui Chaplin lascia apparire il vagabondare di Charlot può ancora indicarci un paradossale gesto di sottrazione proprio a quello spazio preallestito in vista della sua stessa apparizione?
2. Gesto e montaggio
Può sembrare soprendente confrontare il netto giudizio di Debord e dei suoi amici con le considerazioni concepite da Benjamin intorno all’opera chapliniana. Quest’ultima, infatti, diviene un punto di riferimento imprescindibile in tutti gli interventi benjaminiani intorno al cinema; fino a culminare, naturalmente, nel saggio su L’opera d’arte del 1935-36. Seppure sviluppati a partire da esigenze polemiche non sovrapponibili, l’apprezzamento incondizionato di Benjamin per Chaplin e lo sforzo demistificatorio debordiano sembrano insistere, tuttavia, su un problema comune: la vicinanza vertiginosa e, più precisamente, l’ambiguità di Chaplin nei confronti della “società del capitalismo avanzato”. Ma come pensare quest’ambiguità?
Nel corso degli anni Trenta a Benjamin diviene sempre più chiaro come la figura del diseredato, il týpos del povero sia non solo funzionale, ma addirittura fondamentale per l’avanzamento del capitalismo. Eppure, pur intravedendo come il fascismo (che per Benjamin costituisce innanzitutto la concrezione e il disvelamento di alcune istanze capitalistiche) abbia bisogno di creare e di far circolare un’immagine cristallizzata dell’emarginato, non rinuncia ad attribuire al cinema di Chaplin una rilevanza decisiva. Come difendere questa interpretazione dalle critiche radicali a cui, contemporaneamente, si presta la figura di Charlot? Possiamo ancora pensare questa figura, proprio alla luce del suo peculiare modo di figurare al cinema, all’interno di una genealogia di una relazione non contemplativa con le immagini?
Per provare ad avvicinare la costellazione problematica in cui Benjamin inserisce Chaplin, bisogna però chiedersi, al contempo, perché il cinema assuma una rilevanza cruciale nel tentativo benjaminiano di sottrarre spazi di resistenza al processo di integrazione spettacolare della società in atto. È interessante notare, innanzitutto, che Benjamin non prende mai in analisi il contenuto di singoli film; piuttosto, la sua attenzione è posta ogni volta sui caratteri tecnico-formali e, si potrebbe dire, metodologici resi visibili dal cinema. Che per Benjamin si tratti essenzialmente di una questione di metodo, è possibile scorgerlo a partire dal rilievo da lui attribuito alla tecnica del montaggio cinematografico. È proprio intorno a questa questione che Charlot assume la sua enorme rilevanza “come figura storica”: attraverso il proprio modo somatico e psichico di agire e di reagire, Chaplin
Monta l’uomo all’interno del film secondo la sua gestualità – quindi secondo il suo portamento sia fisico sia spirituale. È questa la novità del gesto di Chaplin: egli disarticola il movimento espressivo umano in una serie di piccolissime innervazioni. Ogni singolo suo movimento è composto da una serie di scattose particelle di movimento. Sia che ci si attenga alla sua andatura o al modo in cui maneggia il suo bastoncino o alza il suo cappello, è sempre la medesima e frammentata successione di piccolissimi movimenti, che eleva la legge della successione delle immagini filmiche a legge della motricità umana (Benjamin, 2016, p. 264).
Che Benjamin rintracci in Charlot una vera e propria incarnazione del montaggio cinematografico, ci riconduce all’ambigua relazione che lega quest’ultimo al medium immaginale. Senonché, montare l’uomo nel cinema non corrisponde – per il Benjamin interprete di Chaplin – a un perfezionamento dei dispositivi che, fissando le immagini in una dimensione inattingibile di apparenze, neutralizzino preventivamente l’eventualità di un gesto profanatorio. Piuttosto, ciò che dell’uomo è montato nel film è proprio quanto di lui, apparendo, resiste all’apparenza illusoria di una temporalità lineare e omogenea. Nell’uso chapliniano del montaggio, Benjamin scorge un modo di riprodurre e di contrastare dall’interno la continuità inesorabile di un tempo cronologicamente scandito, su cui si fonda la società dei tempi moderni. In quest’ottica, le riflessioni benjaminiane sul cinema sembrano riconnettersi alle esigenze metodologiche già poste come premessa a Il dramma barocco tedesco: procedere secondo una “elaborazione micrologica” ed esercitare “l’arte di interrompersi contro il fluire della catena deduttiva” (Benjamin, 2001, p. 74). È a partire da questa logica del frammento che sembra possibile una lettura benjaminiana del cinema di Chaplin e, in particolare, di Tempi moderni.
Che cosa mette in scena Chaplin nel film del 1936? Come sempre, uno straordinario intrecciarsi delle situazioni in cui Charlot è casualmente catapultato dal proprio girovagare privo di meta. Tuttavia, il tema della casualità, uno degli elementi cardinali dell’intera vicenda di Charlot, assume in Tempi moderni una portata speciale. Che, senza alcuna intenzionalità, il vagabondo si ritrovi di volta in volta scaraventato da un luogo a un altro, lascia intravedere un nesso tra la casualità – che segna il succedersi delle scene del film – e la potenziale messa in crisi del principio di causalità. A caratterizzare i gesti del personaggio chapliniano è, in effetti, la mancanza di un soggetto come fondamento che li sorregga. Che cosa resta, però, nel momento in cui un gesto si prova del tutto inspiegabile a partire da una determinabile costellazione di cause, producendo così, al contempo, un’imprevedibile eterogenesi dei fini? Resta, forse, soltanto la traccia di un passaggio. La sfida che Chaplin fa propria con Tempi moderni si fonderebbe proprio su questa scommessa: per dire qualcosa dei tempi moderni, bisogna mostrare le minuscole e insospettabili crepe da cui sono segretamente attraversati i luoghi più tipici della modernità.
In questa prospettiva, una pista per leggere Tempi moderni può essere rintracciata in una delle ipotesi teoriche alla base del Passagen-Werk. Momento cruciale di questo lavoro dedicato alla città di Parigi è, infatti, decifrare quello che per Benjamin si configura come il luogo più proprio della modernità: la metropoli. In particolare, si pongono qui le premesse per cogliere la capitale francese nel momento della sua trasformazione nella prima vera città moderna; vale a dire, nel momento in cui viene messo in atto il vasto e, addirittura, omnicomprensivo piano di ristrutturazione urbanistico haussmanniano.
Le strade in cui Charlot si ritrova a girovagare nel corso del film sembrano potere essere inquadrate, allora, a partire dal modello dei boulevards parigini: quei viali ampi e lineari, progettati da Haussmann a partire dagli anni Cinquanta del XIX secolo, volti a garantire alle forze dell’ordine la facoltà di intervenire in ogni momento e in ogni luogo. Non solo la polizia di Tempi moderni si dimostra, come un fantasma, sempre pronta ad accorrere ovunque sia necessario ripristinare l’ordine delle cose, ma lo stesso Charlot appare come una presenza spettrale in un luogo altrettanto spettrale.
Che, nel film del 1936, Chaplin riservi una posizione in ogni senso centrale all’esplorazione di Charlot dei piani fantasmatici di un grande magazzino, assume qui una straordinaria rilevanza. In prima istanza, ciò apre alla possibilità di interpretare Tempi moderni come un confronto radicale con le trasformazioni in atto nelle dinamiche del rapporto che, quotidianamente, intratteniamo con le immagini. È proprio intorno a questo rapporto che la chiave di lettura benjaminiana diviene, probabilmente, persino irrinunciabile per afferrare la potenziale carica sovversiva che Chaplin mette in scena. Peculiare della società a “capitalismo avanzato” messa a fuoco dal Passagen-Werk è, infatti, fondare il proprio dominio entro la dimensione estetica delle immagini: ciò che Benjamin, nel saggio su L’opera d’arte, legge come un processo, sempre più pervasivo, di “estetizzazione della vita politica” (Benjamin, 2016, p. 266). A partire dalla categoria marxiana di “fantasmagoria” della merce, Benjamin individua in questa dimensione il centro attorno a cui si struttura la società moderna, soprattutto grazie all’allestimento di uno spazio assai ambiguo: quello dei passages parigini, luoghi sfuggenti, né chiusi né all’aperto, in cui le immagini della merce, esposta nelle vetrine dei negozi, si intrecciano in un universo fantasmatico, completamente slegato da qualsiasi rapporto con le condizioni storico-sociali in cui la merce stessa viene prodotta.
In che modo, però, la silhouette del vagabondo potrebbe lasciare intravedere la possibilità di una pratica di rifiuto e di sottrazione rispetto a questo processo? Se nessun progetto di rovesciamento guida il peregrinare inconsapevole di Charlot, quale chance politica è in gioco in Tempi moderni?
L’episodio ambientato nel grande magazzino consente a Chaplin di fare confluire i motivi fondamentali del film in una sfera estetica peculiare. Nello specifico, l’andatura e lo sguardo del vagabondo divengono i mezzi attraverso cui il cinema chapliniano si addentra pienamente nel moderno processo di spettralizzazione delle nostre esistenze. Per una lettura benjaminiana di Tempi moderni, dunque, risulta cruciale iscrivere il personaggio chapliniano entro un piano specifico: quello architettato nella modernità in vista dell’apparizione di immagini. Pensando il comportamento di Charlot come una forma di resistenza immanente al piano delle immagini, possiamo forse cominciare a intravedere come questo, incuneandosi nell’impero spettacolare dell’apparenza, lasci apparire dei margini per un gesto profanatorio inatteso1. Deragliando serialmente rispetto a una meta che possa predeterminarla, l’andatura vagabonda costruita da Chaplin crea una serie di vuoti tra le immagini; in questo modo, rende partecipabile allo sguardo degli spettatori un processo in cui è possibile deviare dal consumo visivo ordinario, mettendo in crisi la logica della separazione tra contemplante e contemplato.
3. Una fuga immanente
Un tratto peculiare del film del 1936 è che gli elementi della diserzione involontaria di Charlot siano lasciati emergere per contrasto rispetto agli spazi in cui lo squinternato, di volta in volta, si ritrova a vagabondare. Perché Chaplin scommette proprio su questa strategia? Molto più che da una narrazione lineare, in effetti, le scene di Tempi moderni appaiono montate a partire da una concatenazione di ordine spaziale. Nello specifico, a essere esplorati sono quegli spazi che segnano altrettanti momenti di autodefinizione della società moderna: la fabbrica a impianto tayloristico; il porto; la stazione di polizia; la casa unifamiliare. Certo è, però, che le fughe di Charlot non coincidono mai con un ritiro deliberato da questi spazi: il suo è, piuttosto, uno sguardo paradossalmente profanatorio, in grado di mettere in discussione l’assetto dicotomico alla base dell’organizzazione moderna degli spazi. Per Charlot, infatti, le linee di demarcazione tracciate dalla società in cui vive risultano sempre incerte e traballanti; anzi, non le riconosce affatto.
All’inizio di Tempi moderni, lo vediamo confondere irrimediabilmente tra un dentro e un fuori rispetto alla fabbrica e, successivamente, scompaginare i confini tra prigionia e libertà. Non che il vagabondo non si applichi, una volta uscito di galera, nel cercare un lavoro. Al contrario, il leitmotiv dell’intera pellicola non sembra riscontrabile in altro che in questa ricerca: Charlot trova e prova una grande quantità di mestieri; lavori per cui si rivela immancabilmente inadeguato. Nonostante gli sforzi, finisce sempre per mandare tutto a rotoli, quasi preda di una resistenza irriflessa.
Come decifrare l’impermeabilità somatica del vagabondo a qualsivoglia mestiere in cui provi a impiegarsi? Certo, non è possibile attribuire a Charlot alcuna consapevolezza tale da tenerlo in guardia rispetto a un inganno che la società starebbe tramando ai danni delle masse moderne; la dimensione immaginale entro la quale Chaplin ci introduce con Charlot, invero, si trova al di qua di qualsiasi eventuale cognizione ideologica. Se Tempi moderni può essere letto come il fulcro per una paradossale riabilitazione “politica” di Chaplin, questo non potrebbe risiedere affatto, per esempio, nel possibile impiego della figura del vagabondo in chiave anti-fordista. Provare a seguire fino in fondo la traccia ermeneutica benjaminiana richiede invece, con ogni probabilità, di dover andare persino al di là della dichiarata prospettiva ideologica dello stesso Chaplin. Come mostra esemplarmente l’incipit del film del 1936 ambientato nella fabbrica, Charlot non si fa portavoce di alcuna polemica nei confronti dello status quo e, anzi, sembra capace di replicarne i ritmi meglio di chiunque altro. Tuttavia, attraverso i suoi gesti puerili e sconnessi, questa replica assume la forma della parodia più satirica, proprio perché non si esprime in giudizi morali di condanna, come tali sempre passibili di essere fatti rientrare in un ordine del discorso che trovi nelle nozioni di potere e di possesso il proprio cardine. La replica di Charlot, la sua resistenza, si esprime semplicemente in un riso delirante e gioioso, che non giudica nulla e nulla rivendica. Cionondimeno, un riso del genere custodisce la possibilità della più radicale delle rivendicazioni: prendersi gioco, attraverso “un riso rivoluzionario” (p. 264) capace di sorgere proprio nel luogo del più severo e metodico sfruttamento della vita, della violenza di una legge che punta a imporsi come destino. Come annota Benjamin, “Chaplin è diventato il più grande comico perché ha assimilato il più profondo orrore dei contemporanei” (Benjamin, 2014, p. 100) incarnando un ritmo ultra-fordista e facendosi infine addirittura “più capitalista del capitalista” (Deleuze, Guattari, 1975, p. 36).
Una delle sfide che Chaplin sembra far proprie con Tempi moderni sembra allora essere quella di mostrare il modo in cui la pervasività del tempo lavorativo si traduce in una configurazione destinale degli spazi. Decisivo è che tale operazione non riguardi soltanto quegli spazi esplicitamente predisposti al rispetto di questa temporalità, di cui la fabbrica è la concretizzazione estrema. Essa coinvolge, allo stesso modo, i luoghi del tempo libero, del possibile incontro con gli altri e finanche dell’abitare. È solo entro questo contesto che sembra potersi cogliere la portata della diserzione di Charlot: quelle trovate da quest’ultimo non sono vie di fuga dalla fabbrica e dalla prigione, bensì nella fabbrica, nella prigione e lungo l’intera metropoli di Tempi moderni.
Se, come prospettato da Benjamin, Charlot può essere letto come incarnazione del montaggio cinematografico, allora il suo desiderio di un non-lavoro porterebbe con sé un’altra esperienza del tempo: un tempo che continui a resistere a una sua definitiva spazializzazione, alla neutralizzazione preventiva di ogni movimento di sottrazione. Tenendo conto di questa tensione, appare sempre meno casuale che, proprio nello stesso periodo (tra il 1935 e il 1936), l’approccio filosofico benjaminiano e quello poetico chapliniano non abbiano mancato di misurarsi con una medesima sfida. Con strumenti e livelli di consapevolezza diversi, per entrambi ad essere in gioco è innanzitutto la possibilità di sottrarre dei margini di resistenza entro il campo dove la posta in gioco è la più alta: il campo estetico delle immagini.
4. Per una nuova barbarie
Può il cinema aprire al divenire visibile di un’esistenza veramente marginale? Per Chaplin si tratta addirittura, fin dal primo Kid Auto Races at Venice del 1914, di guadagnare un accesso al centro della cinepresa, nel bel mezzo dello spettacolo. Da dove viene questa irruzione? E, ancora di più, da quando viene, da quale tempo? Come vediamo nei sette minuti del primo cortometraggio in cui appare, Charlot non ha proprio niente da raccontare, nessun determinabile obiettivo politico da raggiungere: persino nel guidare lo sciopero, come ci mostra Tempi moderni, non manifesta in nome di alcuna ideologia. Tanto più straordinaria appare l’ostinatezza con cui, nonostante tutto, sopravvive agli sforzi di allontanarlo dalla macchina da presa. Ci avviciniamo forse a intendere questa forma di sopravvivenza, se la pensiamo come il sopravvivere di un altro tempo, capace di inquietare il tempo di ogni possibile racconto. Se la pensiamo, cioè, come lo spettro di un passato che si riteneva definitivamente passato, il ritorno di un rimosso, proveniente da un tempo che si credeva espunto e che, invece, ancora sopravvive. Avremmo così a che vedere con immagini di spettri che “non ricompaiono per entrare nella storia, ma per attraversarla” (Didi-Huberman, Giannari, 2019, p. 58). Esse ci mettono a confronto con il prendere forma di esistenze minoritarie; esistenze che resistono e sfuggono a ogni definizione e fissazione in (una) immagine.
Per provare a rendere conto di questo nesso tra immagine e sopravvivenza, è forse possibile accostare Esperienza e povertà a una celebre scena di Tempi moderni.
Nel 1933, Benjamin, prospetta i modi in cui “l’umanità si prepara a sopravvivere alla cultura, se questo è necessario” (Benjamin, 2003, p. 544). Ma come prepararsi a una simile sopravvivenza e, soprattutto, quale “umanità” è qui in questione? Che il legame con il cinema sia qui garantito dalla figura di Topolino, assume una rilevanza particolare. Come in un sogno, questa figura prende corpo in una creatura che, sfuggendo ogni gerarchia antropocentrica, rende visibile la possibilità di una dislocazione continua dei confini prestabiliti e dell’universo fantasmagorico di immagini cui la cultura occidentale è pervenuta. Non a caso, sono proprio Mickey Mouse e Chaplin le due figure attorno a cui ruota l’attenzione di Benjamin per il cinema occidentale; in entrambi, a entrare in crisi sono quei confini che separano il naturale dal meccanico e, soprattutto, l’umano dall’animale. Attraversando e profanando da ogni parte questi confini, ciò che la creatura rende plasticamente visibile è una resistenza non esercitata da alcun soggetto riconducibile a un týpos funzionale alla gerarchizzazione delle identità sociali2.
Neppure il dispositivo della marginalizzazione e dell’esclusione riesce a rendere conto del sopravvivere di forme di vita simili. Queste ultime, al contrario, aprono a un possibile ripensamento della logica dicotomica che unisce e separa inclusione ed esclusione, interno ed esterno: quella stessa logica che Tempi moderni lascia apparire nella sua insospettabile vulnerabilità. Senonché, le creature anonime cui rimandano Charlot e Mickey Mouse non sono altro, per il Benjamin di Esperienza e povertà, che la prima incarnazione di un “nuovo positivo concetto di barbarie” (p. 540). La posta in gioco e la radicalità del testo benjaminiano sembra così potersi condensare in un’interrogazione vertiginosa: come pensare una barbarie slegata da ogni rapporto, per quanto oppositivo, che la contrapponga polarmente alla civiltà e alla cultura?
Per avvicinarci ulteriormente alla “nuova positiva barbarie” di Esperienza e povertà, è illuminante la relazione tra barbarie e civiltà per come emerge nelle tesi Sul concetto di storia; laddove, nel momento del massimo pericolo, Benjamin riesce a decifrare, nella barbarie fascista trionfante, un tratto che accompagna da sempre la civiltà nella storia. In alcuni icastici e notissimi passaggi tra le tesi VII e VIII, Benjamin afferma che l’intero patrimonio culturale, cui non ci ricongiunge più alcuna esperienza, “deve la sua esistenza non soltanto alla fatica dei grandi geni che l’hanno creato, ma anche all’anonima servitù dei loro contemporanei. Non è mai un documento della cultura senza essere insieme un documento della barbarie” (Benjamin, 1997, p. 31). La radicale coappartenenza tra cultura e barbarie pone in evidenza la dipendenza costitutiva della civiltà dai suoi margini: gli esclusi dalla storia, i colonizzati, gli schiavi, le masse moderne. In questo senso, è impossibile pensare la cultura separatamente dalla barbarie; la prima, infatti, necessita della seconda tanto per la propria autodefinizione teorica a partire da ciò che esclude, quanto per le proprie realizzazioni materiali.
A essere in questione, in questo senso, è innanzitutto il tentativo di sottrarre un’altra barbarie alla barbarie fascista, liberando lo spazio da ogni partizione binaria e preparandosi così “a ricominciare da capo; a iniziare dal Nuovo; a farcela con il Poco” (Benjamin, 2003, p. 540).
La nuova nozione che Benjamin consegna con Esperienza e povertà si configura, in questo modo, come un tertium che sconvolge l’assetto dicotomico fondato sull’opposizione tra civiltà e barbarie. Come ci lascia vedere Chaplin, non si tratta di opporre alla fantasmagoria della cultura capitalistica un’altra cultura e, invero, neppure la barbarie. Immergendosi proprio nei luoghi fondanti della modernità capitalista, Charlot aggira qualsiasi dialettica oppositiva; la nuova barbarie che incarna, piuttosto, ne disattiva la cogenza apparentemente inscalfibile, squarciandola dal suo interno. Ma questo comporta che la barbarie di cui qui si tratta non è più semplicemente il polo negativo della civiltà, rispetto al quale questa possa misurare la propria cultura e la propria umanità. Riconnettendoci a una memorabile immagine di Tempi moderni, la bandiera-straccio con cui Charlot diventa improvvisamente il leader dello sciopero non è innalzata in nome di alcun contropotere. Trovando nel personaggio di Chaplin un precario ma ostinato segnalatore, la povertà e la barbarie che avanzano verso la cinepresa espongono l’eventualità di un terzo termine: laddove esse si svicolano dalla funzione di “esterno costitutivo”3 che è stata loro attribuita ab origine e, in questo modo, aprono a una dialettica tra dentro e fuori in cui non ne va più di alcun potere costituente, ma solo di una pura negligenza o destituzione di ogni potere, di una potenza costitutivamente non-costitutiva4.
5. Catastrofi
A partire da queste coordinate, possiamo provare a orientarci in una scena in ogni senso centrale di Tempi moderni. La gamma di movimenti schiusa dalla silhouette di Charlot trova forse l’apice delle proprie possibilità espressive proprio nel luogo che – con Benjamin – potremmo individuare come il cuore della società del capitalismo avanzato. Nella sua giocosa esplorazione del grande magazzino in cui si ritrova momentaneamente impiegato, Charlot giunge al quarto piano dell’edificio. Qui, dove l’esposizione della merce pervade l’intero spazio, l’attenzione del vagabondo ricade immediatamente su dei pattini a rotelle, sui quali Charlot comincia subito a volteggiare rapidamente tutto intorno, con una disinvoltura e una grazia eccezionali. Ma ecco che la cinepresa ci introduce nella stanza attigua, in cui la sala di esposizione della merce si prolunga fino a un precipizio, segnalato da un cartello di pericolo. Questo cartello però viene naturalmente ignorato da uno Charlot intento a mostrare alla propria compagna quali meravigliose piroette è improvvisamente in grado di realizzare. Sull’orlo del baratro che si apre immediatamente alle sue spalle, egli intende dare ulteriore prova delle proprie virtuosistiche abilità di pattinatore; cosicché, comincia a danzare in questa pista raffazzonata con gli occhi bendati, sotto il rischio di precipitare da un momento all’altro.
Bendato sui suoi nuovi pattini, lo Charlot di Tempi moderni riesce a sopravvivere, scampando solo di un soffio alla caduta nell’abisso fantasmagorico delle immagini della merce; in questo modo, lascia apparire qualcosa come un rovesciamento seriale – di immagine in immagine – delle giunture spazio-temporali, cioè estetiche, tramite le quali la fantasmagoria della merce si presenta come un continuum ininterrompibile.
Per inoltrarci ulteriormente in questa scena, possiamo riconnetterci alla tematizzazione benjaminiana della catastrofe. In Benjamin, l’esplorazione della catastrofe del moderno si gioca inevitabilmente su un terreno segnato dal tratto più proprio della modernità; vale a dire, a partire da quella “ambiguità che è propria dei rapporti e dei prodotti sociali di quest’epoca” (Benjamin, 2012, p. 23). Senonché massimamente ambiguo è, prima di qualsiasi altra cosa, il concetto stesso di ciò che è catastrofico. Benjamin, infatti, pensa la catastrofe secondo la sua ambivalente declinazione; non solo, quindi, come il compiersi di un processo inarrestabile che conduce a un esito disastroso, ma anche e soprattutto come un rivolgimento, un rovesciamento, una rivoluzione. Rintracciare il cardine della lettura dei tempi moderni nella categoria di catastrofe significa, in questa prospettiva, guardare il presente come ciò che, in ogni attimo, è attraversato dalle sue infinite variazioni: ogni istante presente, ossia ogni punto di catastrofe, è tale solo in quanto apre su una biforcazione del tempo. Come indica Charlot, proprio dove appare inevitabile lo sprofondamento nell’abisso in cui la fantasmagoria cementifica le relazioni spettrali della merce come un tutto inscalfibile, proprio su questa soglia (e non altrove) ha luogo la chance, impossibile da prevedere, di una salvezza, di una sopravvivenza malgrado tutto5.
È forse questo il luogo in cui, grazie al cinema, vengono fatte “le prove per un nuovo tipo di uomo” (Benjamin, 2016, p. 263)? Certo, Charlot sta semplicemente giocando, non vuole raggiungere – e, invero, non vede neppure – alcuna destinazione; se c’è un movente che lo porta al centro della pista, questo può essere rintracciato, al più, nel desiderio di far ridere la propria compagna di giochi. Decisivo è, in questo senso, che si tratti di “prove”. Rimanendo solo un tentativo, i gesti di Charlot non permettono di portare a termine alcuna azione, ma proprio per questo mantengono la loro peculiare potenza di inversione catastrofica, di liberazione imprevista da ogni teleologia.
In questo modo, ci è dato forse di pensare Charlot quale figura dialettica tra ciò che è stato – e che perviene fino a noi nella forma di una catastrofe ineluttabile – e quell’adesso in cui è serbata la possibilità di arrestare il progresso come decorso causalmente necessario della storia, infrangendo la sua aspirazione a presentarsi come un destino. “Ambiguità” è, infatti, per Benjamin “l’apparizione figurata della dialettica, la legge della dialettica nell’immobilità” (Benjamin, 2012, p. 23). Senonché, è forse proprio qui che il cinema, in quanto montaggio di immagini in movimento, prepara a un nuovo modo di pensare la rivoluzione. Charlot, che non vede la minaccia che costantemente lo incalza, non è da questa sospinto verso alcuna direzione determinata; al contrario, la leggerezza del suo libero movimento è tale proprio perché imprevedibile, in quanto su di essa non grava la pre-visione di un fine determinato o determinabile. In questo modo, la danza del vagabondo lascia scorgere plasticamente ciò che di veramente catastrofico, nell’ambigua accezione benjaminiana del concetto, si cela nelle pieghe della catastrofe del tempo del capitale: se a quest’ultimo corrisponde un unico e infermabile processo, la prima si consuma, invece, in biforcazioni che, in ogni istante, tagliano, mandandolo così in frantumi, il tessuto continuo di una temporalità omogenea.
È all’interno di questa costellazione problematica che, con Benjamin, possiamo rintracciare nel cinema “la forma d’arte corrispondente al pericolo di vita latente in cui vivono i contemporanei”, in quanto “corrisponde a profonde trasformazioni dell’apparato appercettivo; trasformazioni come quelle che vive, nell’esistenza privata, ogni passante nel traffico della metropoli e, su scala storico-mondiale, chiunque lotti contro l’ordine sociale contemporaneo” (Benjamin, 2016, p. 249).