Il fatto che non ci sia altro che un mondo spirituale ci toglie la speranza e ci dà la certezza
Franz Kafka
1. Crocevia tra il comico e il noir
Il paradosso di Monsieur Verdoux, è forse quello di restare sospeso su ciò che non può essere, di rinviare continuamente alla sua componente essenziale, solo nella misura in cui essa rimane irrealizzata. Detto in termini più espliciti, è come se il film di Chaplin stabilisse una tensione con il noir, eludendone continuamente i codici, e, nello stesso tempo, integrandone l’informe oscurità come parte non rappresentabile, vera e propria zona situata al di là del limite della visione. Il noir si condensa del tutto nel suo lato invisibile, oltre una soglia che il film indica senza poterla mai varcare, intensificando, in questo modo, la spettralità incodificabile del genere (a dimostrazione del fatto che il noir è tanto più presente laddove non si lascia classificare come tale).
La via che conduce in prossimità di quel limite è il comico. È come se Monsieur Verdoux si inoltrasse fino alla linea di confine del comico, scoprendo fatalmente di trovarsi allo stesso punto di non ritorno a cui approda il noir: una estremità oltre la quale si staglia l’invisibile. In pratica, avviene che il comico incorpori il noir al massimo grado, trasformando l’impossibilità di formalizzarlo secondo una grammatica della visione, nel gesto propedeutico a condividere con esso il medesimo senso della presenza di una barriera insuperabile.
Di certo, non riscontriamo nella struttura del film i fattori che di solito costituiscono l’ossatura tipica della situazione-noir1, vale a dire, in sintesi, un tratto stilistico in grado di conferire alle immagini una determinata atmosfera, e alcune tipologie di azione che si snodano principalmente con l’intento di creare la suspence che circonda di solito l’immersione del detective nella spirale infernale del mondo del crimine. In Verdoux, nonostante la presenza di elementi accostabili allo schema tipico del noir (cioè, delitti in sequenza, fuga continua dell’assassino, procedimento poliziesco dal quale, esattamente alla maniera del detective che segue la propria pista di indagini, l’ispettore Morrow si distacca per incastrare il criminale), l’intelaiatura e il ritmo che consentirebbero di decretarne l’appartenenza al genere, evidentemente mancano. Non c’è l’atmosfera del delitto negli incontri tra Verdoux e le sue vittime, non vediamo mai Verdoux uccidere (assistiamo a un tentativo di farlo, che si risolve in una gag per via del suo fallimento), né durante il film compare alcun cadavere; e nemmeno la scena del crimine è mai oggettivata come luogo nel quale si concentrano le ricerche allo scopo di reperire indizi che possano consentire di risolvere il caso. Ciò non può accadere perché il reato, sebbene sia elemento fondamentale per lo sviluppo della trama, non assume mai forma di enigma, e l’azione della polizia si arena nella consapevolezza che tutto è già spiegato, non c’è nulla che l’investigazione debba chiarire: si tratta di una serie di donne scomparse, che hanno determinate caratteristiche comuni, e che soprattutto hanno sposato lo stesso uomo, un “Barbablù che lavora in tutta la Francia”. La polizia, esattamente come i parenti dell’ultima vittima, sa già tutto, e l’ispettore Morrow che scova il ricercato senza seguire l’iter procedurale, è appostato dietro il vetro della fioraia, da dove appunto osserva Verdoux fare acquisti per sedurre le sue potenziali vittime. La polizia rimane letteralmente dietro il vetro e, quando entra in scena, dichiara semplicemente di conoscere già da tempo l’uxoricida, e di essere al corrente dei suoi crimini. Non c’è bisogno dell’indagine poliziesca, l’incontro di Verdoux col poliziotto ha come unico effetto la morte di quest’ultimo; morte che si pone sullo stesso piano di quella delle altre vittime, dato che per ucciderlo basta un espediente minimo che consenta di somministrargli il veleno del quale non resta traccia, tanto che la morte appare del tutto naturale. Lo stesso Verdoux, nel breve dialogo con Morrow, sostiene che sia impossibile accusarlo giacché manca il “corpus delicti”, e dunque non c’è effettiva materializzazione del resto cadaverico che testimoni il compimento del reato. La morte, compresa quella del poliziotto, è assorbita all’interno del sistema del quale Verdoux è ormai un consolidato operatore intrinseco. È allora proprio il venir meno del “corpus delicti”, divenuto definitivamente e in tutti i sensi non rinvenibile, a segnare, in particolare, il duplice legame del film di Chaplin col noir, che verte da un lato sulla estraniazione dai suoi canoni consueti, e dall’altro sulla intensificazione del senso di prossimità a un limite al di là del quale si trova il fondamento invisibile su cui l’intero impianto narrativo si regge.
Per spiegare meglio questo passaggio, si possono assumere come riferimento comparativo alcune riflessioni di Fredric Jameson sui romanzi di Chandler, a proposito del fatto che “la morte stessa è in Chandler qualcosa di simile a un concetto spaziale, come lo è la natura, quando dalla sua vetta più alta – guardando giù verso l’inconsueta profondità di Fawn Lake – bordeggia lo spazio esterno dell’essere stesso” (Jameson, 2018, p. 121). È qui evidente che, nella prospettiva di Jameson, l’al di là non semantizzabile sia da intendere come una “costruzione spaziale”, dunque compresente in quella accezione sinottica – che Jameson precisa all’interno del testo, anche facendo ricorso al confronto con Heidegger – che la rende una curvatura dello spazio stesso, coincidente con una dimensione esteriore non integrabile dalla superficie topografica. Invece, per quanto riguarda il prosieguo del discorso poc’anzi abbozzato, è necessario tenere ferma la premessa secondo la quale la marcatura del limite tracciato dalla morte, restituisce piuttosto il rapporto tra eternità e finitezza a uno iato trascendentale, per cui il riaffiorare dell’eternità produce lo scarto che sottrae alla finitezza il preteso assestamento continuativo e automatizzato, per riconsegnarla al suo status di provvisorietà e contingenza.
Ma prima di procedere, è necessario fare un passo indietro e porsi una domanda circa il modo in cui Monsieur Verdoux si smarca dal noir per poi giungere alla sua medesima soglia limite attraverso il comico. Detto altrimenti: com’è possibile che il comico delinei una traiettoria al termine della quale approda a una linea di demarcazione analoga a quella del noir, oltre cui c’è solo la morte come universale non iscrivibile nella processualità delle azioni, perché assoluta alterità rispetto a essa?
Per provare a rispondere a questa domanda è opportuno soffermarsi sul senso del comico che si dispiega a partire da Monsieur Verdoux (investendo, in fin dei conti, in modalità retroattiva il cinema precedente di Charlie Chaplin), verificandone la valenza mediante un confronto con uno dei momenti cruciali di Tempi Moderni, vale a dire la celebre scena del pattinaggio di Charlot ai grandi magazzini.
Rivista attraverso il filtro dello sguardo di Verdoux, quella sequenza diviene rivelativa di come la fuga dal mondo del lavoro verso una libertà anarchica, inseguita da un individuo non codificabile secondo le logiche sociali capitalistiche, né catalogabile mediante schemi inerenti al principio di divisione della società in classi, si risolva, in definitiva, nella trasposizione in uno spazio falsamente libero, dove si finisce in fondo per compiere il medesimo movimento della macchina che, nella fase iniziale del film, catturava l’operaio all’interno del suo ingranaggio circolare. Ovviamente, la scena del pattinaggio è collocata in un contesto differente rispetto alla chiusura sistemica degli apparati produttivi scandita dalla catena di montaggio (dove la ripetitività dei gesti è recintata dentro il perimetro del fotogramma, come chiaramente evidenziato dalla posizione della camera parallela allo spazio ripreso), poiché in essa la componente figurativa supplementare è costituita dallo spazio sottostante, baratro nel quale il personaggio corre inconsapevolmente il rischio di cadere, sfiorando, mentre pattina bendato, il bordo senza ringhiera sospeso sul precipizio. Allora la scena si traveste da apparente celebrazione del funambolismo involontario e folle, che accomuna la silhouette di Charlot all’ideale della libertà autentica e sottratta a qualsiasi forma di identificazione mediante categorie sociali e politiche, pura dimensione anarchica esposta al rischio rappresentato da una sorta di bisettrice che taglia lo spazio, separando la superficie dal vuoto. Ora, l’opportunità di proporre una differente interpretazione, nasce proprio dall’idea che l’interruzione della superficie si possa intendere non come elemento integrato nella immagine, bensì quale supplemento effettivamente invisibile eppure a essa compresente, vero punto di disgiunzione tra lo sguardo di Charlot, difatti oscurato dalla benda, e quello della macchina da presa, che vede ciò che il personaggio non può vedere, e dunque si smarca da una possibile ricomposizione autoriflessiva e sintetica tra visione del soggetto incluso nella scena e inquadratura. In questi termini, Charlot bendato è espressione di una doppia cecità: da un lato non vede di essere inserito in un ulteriore congegno che reitera un movimento circolare, illudendosi, al contrario, di incarnare la libertà creativa e giocosa non sottomessa alla automatizzazione del lavoro, quasi indulgendo verso la codificazione simbolica più elementare e decifrabile del suo personaggio; dall’altro lato nemmeno vede la partizione della superficie spaziale, discontinua perché sospesa sulla prossimità del precipizio, ovvero su un dislivello che espone il pattinatore al pericolo di morte. È questa articolazione che Verdoux, invece, arriverà a scorgere pienamente; in essa si riconfigura un significato del comico che si costituisce attraverso la relazione disgiuntiva con un abisso non rappresentabile, e rimane dunque pensabile solo nei termini di una contraddizione incongrua e irreversibile. Il rapporto con la morte che in Verdoux si rivela essere la parte compresente eppure invisibile nell’universo di Charlot, conduce il comico al suo limite, facendolo fatalmente coincidere con il noir. In fondo, si può dire che in Verdoux i due generi entrino in una relazione basata su un comune modo di avvicinarsi a una dissimmetria inaccessibile.
La vicinanza del comico a una siffatta zona-limite, fa dipendere la sua possibilità di realizzazione da uno scarto esterno all’immagine. Per illustrare meglio quanto appena affermato, è opportuno un riferimento alla inclusione del comico all’interno di una classificazione delle immagini, operata da Deleuze nel primo volume del suo studio sul cinema, L’immagine-movimento. Per Deleuze, il comico rientra in una particolare forma della “immagine-azione”, vale a dire quella che egli definisce “piccola forma”, per distinguerla da una “grande forma”, in cui l’azione si dispiega a partire dalla situazione. Nella “piccola forma” è l’azione localizzata a dare seguito a un progressivo disvelamento della situazione, generando un movimento ellittico che fa slittare il significato dell’azione, rovesciandolo fino a produrre persino il suo opposto:
È come se un’azione, un comportamento, celasse una piccola differenza, che basta tuttavia a rinviarli simultaneamente a due situazioni completamente distanti ed estranee. Oppure è come se due azioni, due gesti, fossero assai poco differenti, e tuttavia, nella loro infima differenza, rinviassero a due situazioni opponibili e opposte (Deleuze, 2016, p. 198).
Nel ragionamento di Deleuze, il comico, sebbene non esaurisca interamente lo schema della “piccola forma”, tuttavia è a essa riconducibile per quanto riguarda la spiegazione della sua essenziale dinamica costitutiva, per la quale lo stesso Deleuze indica Chaplin tra gli esempi fondamentali, riscontrando il funzionamento del meccanismo appena delineato in film come Charlot soldato, e appunto Monsieur Verdoux: “Nel procedimento comico, l’importante consiste in questo: l’azione è filmata dalla angolazione della sua piccola differenza rispetto a un’altra azione (sparare una fucilata – tirare un colpo) ma svela così l’immensità della distanza tra due situazioni (partita di biliardo - guerra)” (p. 206).
L’effetto comico così delineato2, rispecchia il procedimento dell’inversione, indicato da Bergson come uno dei paradigmi funzionali alla individuazione del comico “nelle azioni e nelle situazioni” (Bergson, 1992, p. 49). Il congegno tipico sul quale l’inversione fa affidamento per innescare il comico, è rintracciabile, in sintesi, nelle seguenti parole di Bergson: “Provate a immaginare alcuni personaggi in una determinata situazione: otterrete una scena comica facendo in modo che la situazione si rovesci e che i ruoli siano invertiti” (p. 63). Dunque, il discorso sul comico chapliniano resta in Deleuze, sulla scorta di Bergson, implicato nell’analisi del plesso azione-situazione, o per meglio dire, nella ricerca dello scompaginamento che l’azione produce all’interno della situazione, lasciando però in sospeso una ulteriore concezione del comico riposta nella stessa apertura della scena a una trascendenza che ne eccede del tutto le dinamiche interne, impedendo di esaurirle nella relazione analitica secondo cui un’azione inverte la situazione nel suo contrario, rivelando così il rovescio già compresente3. Una articolazione del comico differentemente intesa, implica il fatto che la segnatura contraddittoria non si esaurisca nel meccanismo dell’inversione, ma sia spinta fino al limite estremo dove la frattura non è più semanticamente ricomponibile, poiché apre una voragine invisibile nella presunta compattezza materiale della scena, lasciando che essa si sporga su un abisso, simile a un vuoto in cui è costantemente sul punto di sprofondare. È in fondo qui che trova posto la lezione di Kierkegaard sull’amore quale forma suprema del comico, enunciata attraverso il discorso tenuto da uno dei cinque commensali che, sul modello del Simposio platonico, si confrontano appunto intorno al tema dell’amore, nella prima sezione di Stadi sul cammino della vita, intitolata In vino veritas. Il personaggio del “Giovane” prende infatti la parola per argomentare intorno all’amore e alla sua irriducibile contraddizione, che lo rende “un esperimento del pensiero per stabilire un rapporto tra la vita e la morte” (Kierkegaard, 2022, p. 118)4; dunque, la radicalizzazione della contraddizione è il crocevia dal quale si intravede una similitudine tra amore e morte, e insieme la loro comune matrice comica, giacché “il comico è sempre presente nella categoria della contraddizione” (p. 119), dimora in essa nella forma di un resto inspiegabile, che non si lascia afferrare.
2. Discontinuità dello spazio filmico
Seguendo una simile prospettiva, ci si ritrova a percorrere un sentiero diverso rispetto a quello tracciato dalla analitica deleuziana dell’immagine-azione, e pertanto il discorso intorno alla contiguità tra la serie di film in cui è protagonista Charlot, e Monsieur Verdoux, dovrà innanzitutto avvalersi di un altro criterio metodologico. In sostanza, si tratta di far emerge un coefficiente sintetico, attraverso il quale la figura di Verdoux irradia una nuova luce su Charlot, e in questo modo lascia trapelare una differente possibilità di comprensione del comico non più deducibile da un procedimento ellittico, bensì definibile secondo una articolazione trascendentale non sovrapponibile al differenziale minimo dello scarto prodotto dalla azione, ma concepibile solo come traslazione nella abissale irriducibilità della contraddizione. Diviene ovviamente necessario a questo punto, e non solo nell’ottica del discorso che qui si intende portare avanti, un confronto con il saggio di André Bazin, Il mito di Monsieur Verdoux. La tesi di fondo di Bazin risiede nell’affermazione che attraverso Verdoux assistiamo a una sorta di compimento di Charlot, al punto che la “metamorfosi di Charlot in Verdoux” (Bazin, 2014, p. 240), coincide con un’erosione del comico da cui scaturisce un “affinamento del mito” (p. 242). In quello che, secondo Bazin, è a tutti gli effetti un “processo mitologico”, la comprensione del significato di Verdoux si realizza solo riconoscendo il modo in cui “Charlot persiste in Verdoux come sovrimpressione: e ciò avviene perché Verdoux è Charlot” (p. 223). La torsione descritta da Bazin, mediante la incorporazione di Charlot nella organizzazione sociale a cui finisce per adeguarsi, crea la figura di Verdoux quale cellula nella quale risuona la colpa della società. Il nucleo cruciale delle osservazioni di Bazin, consiste dunque nella condanna a morte di Verdoux attraverso la quale Charlot porta la società a giudicare se stessa colpevole: “Verdoux con il suo solo esistere rende colpevole la Società […] Charlot si è rivestito del simulacro del suo contrario. Nel senso preciso e mitologico del termine, Verdoux non è che un ‘avatar’ di Charlot” (pp. 226-227). Appare chiaro come in questa lettura il dispositivo sociale determini la messa a morte di Verdoux, rendendola consustanziale alla condanna della sua stessa dinamica costitutiva. Il discorso di Bazin, risulta così orientato verso una riconfigurazione strutturale che definisce secondo una logica delle posizioni l’inquadramento di Charlot nella sagoma di Verdoux: in pratica, il ribelle che muta se stesso accettando le regole del sistema sociale viene condannato producendo la nemesi della società che condanna in questo modo le sue intrinseche norme di funzionamento. Una analisi di questo tipo sembra trovare un valido sostegno nel discorso di Verdoux alla conclusione del processo, dopo la pronuncia della sentenza di condanna per crimini che ha effettivamente commesso. Il tema fondamentale rimarrebbe, così, quello dell’individuo che si trova costretto a reprimere la sua indole originaria in funzione della sopravvivenza, propria e dei suoi cari, altrimenti impossibile all’interno di un contesto malvagio. È inevitabile ammettere che in molti momenti il film sembrerebbe confermare questa prospettiva, basti pensare alla frequente allusione di Verdoux alla condizione dell’uomo nel mondo e al conseguente pessimismo che da essa trapela, nonché agli accenni al trattamento mortificante ricevuto da Verdoux al momento del licenziamento subito nel periodo della crisi economica. In realtà, la possibilità di formulare una interpretazione alternativa passa principalmente attraverso una distinzione tra il particolare della condanna inflitta a Verdoux tramite procedimento giuridico, e l’universale della morte che difatti resta per tutto il film uno sfondo invisibile. In sostanza, la tesi della originaria bontà del personaggio, che finisce per cedere alla tendenza all’omicidio a scopo di lucro, a causa del dissesto morale che permea l’intera società, può essere intesa come l’estrema ipocrisia di cui Verdoux si fa portavoce, pura condensazione del cinismo borghese, convinto che ai buoni di animo non è mai possibile restare fino in fondo tali, giacché si trovano inevitabilmente invischiati all’interno di strutture impersonali che li portano a agire come criminali, o comunque a divenire indifferenti rispetto al male che essi stessi, loro malgrado, finiscono per contribuire a diffondere. C’è, però, una domanda cruciale che, sempre sulla scorta delle riflessioni di Bazin, scaturisce dalla ipotesi di lettura appena delineata: la mimesi che, secondo Bazin, si instaura tra Verdoux e Charlot, rende la loro dualità coestensiva alla unificazione del circuito sociale e al compimento che prosciuga la alterità trascendente, oppure non è, forse, questa stessa dualità nient’altro che una sintesi parziale, che lascia fuori di sé una assoluta dissimmetria non sintetizzabile, di cui la morte segnerebbe la presenza/assenza, riconsegnando la stessa chiusura operativa della società alla sua finitezza ineludibile?
Seguendo la seconda opzione, si può allora ritenere che la negatività radicale della morte porti al suo compimento metafisico il significato del vuoto che taglia lo spazio del pattinaggio disinvolto e leggero di Charlot in Tempi Moderni: in esso si disvela il baratro in cui precipita l’intera costruzione del sistema sociale che intende assorbire la morte nel suo apparato produttivo, assimilandola all’interno dello sviluppo autopropulsivo del capitale, attraverso l’eliminazione del resto cadaverico eccedente. E, dunque, se il vero principio a cui Verdoux si è adeguato non fosse quello di uccidere per sopravvivere, ma si celasse sotto di esso, annidandosi in fin dei conti nella illusione di neutralizzare il negativo assoluto della morte, attraverso l’omicidio inteso come procedura interna e necessaria allo sviluppo del sistema? E se, ancora, messa in questi termini, la difesa di Verdoux, anziché chiamare in giudizio la società per addossarle la responsabilità dei delitti che lui stesso ha commesso, contenesse invece la vera ammissione della colpa principale dello stesso Verdoux, cioè quella di aver aderito al compromesso morale che la società richiede per sopravvivere al suo interno? Nell’ottica di queste considerazioni, la relazione tra Charlot e Verdoux non sarebbe più iscritta nel realizzarsi dell’uno nell’altro, ma si configurerebbe piuttosto come giustapposizione in grado di mantenere le due figure in un rapporto di polarità vincolante, rendendole simmetricamente compossibili solo in quanto espressioni intrinseche a una struttura sociale parziale, e quindi contingente e in alcun modo definitiva.
Un riferimento valido a sostenere la prospettiva fin qui emersa, può essere rinvenuto in un breve e geniale articolo di Jacques Rivette dedicato a Monsieur Verdoux, nel quale si fa largo l’ipotesi che in Verdoux si attui una sorta di movimento riflessivo, per cui l’incarnazione del personaggio sullo schermo prende forma concreta davanti ai nostri occhi, mantenendosi in una relazione dialettica con l’idea a cui è dinamicamente legata5. Si configura, in tal modo, una immagine-idea, di cui Verdoux è espressione: “L’idea è già un’idea del mondo, una visione concettuale (spettacolo o metafora): un’idea-immagine” (Rivette, 1963, p. 43). Attenendosi alla formulazione proposta da Rivette, si può prospettare una integrazione del suo discorso, a partire dalla seguente considerazione: il movimento dialettico che coinvolge l’idea nella sua dinamica di incarnazione concreta, lascia fuori di sé un universale negativo che espone la figura incarnata alla sua disastrosa dissoluzione, facendola letteralmente galleggiare sulla alterità assoluta in cui è destinata a scomparire. E questa relazione con un al di là della scena come sfasatura che imprime uno strappo definitivo alla circuitazione dello spazio in cui le azioni si dispiegano, oltre a sostenere in misura fondamentale la possibilità del comico nella accezione kierkegaardiana del termine, funziona come crocevia a ridosso del quale si fronteggiano Charlot e Verdoux.
È dunque questo terzo elemento incodificabile e distruttivo (che in Tempi Moderni costituisce il vuoto in cui il pattinatore Charlot rischia di precipitare), a trovare semmai compimento in Verdoux, sebbene si tratti di un compimento non visivamente sagomabile perché sottratto alla scena, e dislocato nella invisibilità della morte, in cui si frantuma fino a sparire la presunta compattezza del circuito inscalfibile nell’ambito del quale i personaggi si muovono e agiscono. In definitiva, la interruzione dello spazio scenico (che si disgiunge operando al suo interno la separazione tra superficie e vuoto), lascia fuori di sè l’unità indifferenziata della morte, vero e proprio taglio del negativo, nonché assoluto opposto alla illusoria continuità autoriproduttiva del capitale.
La supposta univocazione dello spazio sancita dal denaro risulta, perciò, lacerata da una discontinuità che cerca forsennatamente di occultare, e che ne eccede la presunta implacabile coesione totalizzante, vale a dire l’incongrua trascendenza della morte6, e la sua radicale alterità rispetto al contesto sociale in cui Verdoux si muove come cursore endemico.
Verdoux, dunque, sulla scia delle parole di Rivette, dà forma a un’idea che si manifesta filmicamente come contrappunto di un residuo non significabile, un fuori dalla storia, dal quale, però, la storia si dispiega configurandosi nelle vicende dei personaggi che la innervano. Difatti, il film ha inizio con l’immagine della lapide su cui sono incise le date di nascita e morte di Verdoux, a cui fa da sottofondo la sua voce fuori campo, proveniente quindi da un soggetto morto e sepolto, che si autodefinisce mediante un duplice riferimento; egli, infatti, associa nella propria costellazione descrittiva la leggenda di Barbablù e l’irruzione ineluttabile del tempo storico, con l’accenno alla crisi economica del 1930 in seguito alla quale, avendo perso l’impiego in banca, ha cominciato a occuparsi “della liquidazione di distinte signore” (e mentre ascoltiamo queste parole, mentre la macchina da presa effettua una panoramica sul cimitero disseminato di tombe). Il “candido ottimismo”, necessario secondo Verdoux a svolgere il mestiere di Barbablù, lascia sin da subito intendere come il congegno narrativo iscriva la leggenda nello spirito capitalistico che nutre fiducia nella sua capacità di rigenerazione costante. Dopo la soggettiva vocale, la seconda apparizione di Verdoux avviene mediante una fotografia che i parenti di Thelma Couvais si passano di mano, mentre avanzano il sospetto che la scomparsa improvvisa della loro congiunta non sia dipesa da cause naturali, ma sia da imputare al marito ritratto in quella foto. In questa scena Verdoux si presenta come immagine senza voce, o meglio ritratto che si aggiunge alla voce, per comporre la forma/figura del personaggio. Voce e fotografia diventano così tracce di un’assenza: attraverso di esse il film Verdoux può avere inizio ripercorrendo le vicende di un soggetto già morto. La voce fuoricampo di Verdoux, che affiora dalla profonda invisibilità sotterranea del negativo, letteralmente ne dissotterra l’immagine facendola apparire nella sua spettralità di figura situata nell’intervallo incolmabile tra assoluto e storia. Se questo presupposto è valido, l’inizio del film, ponendo uno scarto che attinge la narrazione dalla sua fine già irreparabilmente avvenuta, fissa in partenza l’alterità della morte prefigurando così la sconfessione dell’intera operazione-Verdoux, che scopriremo ascrivibile, in sintesi, al tentativo di naturalizzare l’omicidio cancellandone le tracce, e di conseguenza dissolvere il residuo eccedente del “corpus delicti”, trasformando il cadavere in mediatore funzionale al processo di accumulo del capitale.
Decisivi risultano, in tal senso, i dialoghi di Verdoux con l’amico farmacista, riguardo a un composto chimico che ha “l’effetto uguale a un attacco di cuore”, e uccide senza che restino segni dell’avvelenamento. In questo contesto, osserviamo Verdoux sostenere esplicitamente che “la chimica è la materializzazione della metafisica”, facendo trasparire dalle sue parole la tendenza del dispositivo capitalista a prosciugare l’alterità metafisica, cancellandone il limite e dismettendo il senso dell’impossibile. In fondo, Verdoux uccide donne che sono già, nell’ottica della costituzione sociale del valore secondo la logica analoga al principio di circolazione della merce, sul crinale tra vita e morte. Fin dall’incontro con madame Grosnay, a cui Verdoux sotto la falsa identità di Monsieur Varnay cerca di vendere la casa in cui ha vissuto con la moglie defunta Thelma, emerge il profilo tipico delle vittime di Verdoux, ossia donne non più giovani, prevalentemente vedove, che hanno accumulato i loro depositi usufruendo di eredità o di colpi di fortuna, ma che la società pare aver tagliato fuori, o perlomeno costretto a rinunciare alle avventure più allettanti che essa possa offrire. La tecnica di seduzione adoperata è, del resto, strettamente connessa al principio di rivitalizzazione di ciò che sembrerebbe aver esaurito la spinta a investire su sé stesso, mostrando la propria analogia col criterio di riattivazione di un valore altrimenti azzerato dalla staticità. La reimmissione della ricchezza nel trofismo tempo-denaro, necessita però della uccisione di chi la possiede bloccandone la circolazione. Dunque, piena cooptazione della morte in funzione dell’esigenza di investimento e successivo incremento del capitale, o, in altre parole, modalità di realizzazione operativa di un sistema che ambisce a neutralizzare la negatività assoluta della morte, integrandola nella sua dinamica autopropulsiva. Rispetto a ciò, l’apertura con la voce fuoricampo di Verdoux, anziché funzionare soltanto da incipit, oppone, irriducibilmente, alle vicende narrate la spettrale invisibilità della morte quale rottura e collasso di un circuito intramondano apparentemente sclerotizzato e privo di vie di fuga, simile a un reticolo chiuso modulato in virtù di continue esigenze di calcolo. Verdoux è incessantemente impegnato a programmare tempi di percorrenza, acquisizioni e versamenti di denaro (regolati secondo il ritmo della apertura e chiusura delle banche), somme da investire in borsa e aspettative di guadagno. La sua attività frenetica si svolge all’interno di un contesto che appare pienamente coestensivo a essa, le cui linee di transito interne sono scandite dalle inquadrature della locomotiva, e dai successivi e frequenti stacchi su Verdoux seduto in treno. La geografia del capitale risulterebbe così unica mappatura dello spazio in grado di conferire senso al movimento. È importante sottolineare come anche la città venga osservata solo nelle scene di raccordo intersecate al continuo andirivieni del personaggio, seguendo una tessitura coerente e schematica, in cui si alternano immagini di folle in movimento nelle strade del centro, e momenti di pausa trascorsi al tavolo di un bar. In pratica, lo spazio urbano non può più essere terreno da cui si irradiano le vie di fuga di Charlot, essendo venuta meno quella idea di città come luogo multiforme e aperto a scorribande di vagabondi eccentrici che, si presume, ne incrinino l’organizzazione. Di essi restano solo fantasmi evanescenti, come la ragazza appena uscita di prigione, a cui Verdoux offre aiuto.
3. Uno sguardo indiretto su Charlot
Di primo acchito, l’incontro di Verdoux con la ragazza (che, è bene ricordarlo, rimane anonima, e mai nemmeno le viene chiesto il nome, come se si trattasse di una figura già nota, o se non altro immediatamente riconoscibile), e la conseguente reciprocità affettiva che tra loro si instaura, potrebbe concorrere a rinforzare l’ipotesi che sia la inevitabile dicotomia morale del protagonista il tema cruciale del film, la sua buona indole distorta da una società che lo costringe a sottomettersi alla propria logica spietata. Ma se ci si sofferma su alcuni aspetti rilevanti che contraddistinguono i due incontri tra i suddetti personaggi, si comincia a intravedere come la mescolanza di sentimenti sia la effettiva segnatura dell’etica borghese (di cui la vita di Verdoux costituisce uno specchio fedele), la cui decomposizione è, invece, possibile solo aprendo un varco che rivela l’infondatezza della sua pretesa istanza di totalizzazione. In realtà, Verdoux decide di non sperimentare, su quella potenziale vittima, la capacità del nuovo veleno di non lasciare tracce e simulare un decesso per cause naturali, dopo che entrambi hanno condiviso una riflessione sull’amore e la ragazza gli ha confidato di aver perso il marito già invalido, a causa della detenzione a cui era stato sottoposto. È chiaro qui l’immediato rinvio emotivo alla figura della moglie di Verdoux, apparsa insieme al figlio in una scena precedente del film. È opportuno, però, tenere presente che il dialogo ha avuto inizio con la dichiarazione, da parte di Verdoux, di amare le donne ma non stimarle, perché “sono di carne, realistiche”. Tale affermazione impone probabilmente una attenta riflessione proprio riguardo la scena in cui Verdoux si reca a trovare la sua vera moglie, e il loro figlio Piero. Anche in quel caso, il modo in cui è illustrato il rapporto suggerirebbe di ritenerlo una ulteriore controprova della effettiva umanità dell’assassino, che in realtà compie i propri omicidi solo per amore della famiglia, e per evitare la ricaduta in quella condizione di povertà, a cui pure la moglie allude alla stregua di un passato felice. Tuttavia, si può anche qui ipotizzare una lettura meno immediata rispetto a quella tendente alla apologia dei buoni sentimenti mai del tutto abbandonati. È utile, anche in questo caso, un confronto con Bazin, il quale propone una interessante ipotesi circa il fatto che, dopo la crisi economica che compromette gli affari di Verdoux, quando veniamo a sapere, durante il secondo incontro con la ragazza, che la moglie e il bambino sono morti, “nulla prova che non abbia avvelenato anche loro. Lo si può persino supporre, dal modo in cui aggiunge che essi sono certamente ‘più felici lassù’” (Bazin, 2014, p. 232). A questa notevole chiave interpretativa, si può però affiancare una ulteriore supposizione, iniziando col constatare che il momento in cui Verdoux giunge dalla moglie è l’unico non preceduto da indicazioni di coordinate spazio-temporali, che, come detto in precedenza, nel film sono sempre associate alla routine dei movimenti. Questo potrebbe far pensare che si tratti di un luogo altro rispetto a quello interamente assorbito dalla mappatura del nesso tempo-denaro, all’interno della quale anche il gioco improduttivo di Charlot risulta, in fin dei conti, cooptato. Allora, perché non ritenere possibile – anziché avvalorare l’ipotesi di un successivo ulteriore delitto come unico modo di sottrarre la famiglia ai contraccolpi devastanti della nuova ondata di crisi economica – che in realtà le figure che compongono la trama realmente amorevole del luogo familiare, siano collocate già fuori dall’ordine spazio-temporale capitalistico all’interno del quale Verdoux si trova necessariamente a agire, situandosi su una soglia tra vita e morte, come presenze ancora a stento trattenute nel mondo storico, ma già trasfigurate in una trascendenza che di quel mondo costituisce il punto irreversibile di decomposizione? In quest’ottica, lo sforzo di Verdoux di mantenere la loro condizione economica in uno status di agiatezza, finirebbe per coincidere con lo strenuo tentativo di finanziarne la sopravvivenza, entrando così in rotta di collisione con la contraddizione assoluta della morte. Verdoux parla alla moglie della stanchezza suscitata dalla “vita di affari” e del proposito di sistemare tutto e ritirarsi tra due anni, lasciando così emergere come il computo che associa tempo e denaro, sia un modo di non fare i conti con la finitezza. E se fosse proprio questa ossessione di “lottare per la vita” che si traduce nel voler con ostinazione tenere insieme, come due sfere equipollenti, i sentimenti nobili e le azioni cinicamente concrete che la società richiede per trovare posto al suo interno, l’origine del corto circuito Verdoux-Charlot? E se, in realtà, si trattasse di una diade simmetrica ma non esaustiva, perché anche la sua composizione rimane parziale rispetto alla dissimmetrica alterità dell’assoluto?
Se ciò fosse plausibile, di conseguenza, pure il discorso tenuto da Verdoux in tribunale si caricherebbe di una ambiguità evidente. Per spiegare meglio questa considerazione, ripercorriamo brevemente i momenti che precedono la decisione di Verdoux di rinunciare a una fuga ancora una volta a portata di mano con un minimo escamotage, e consegnarsi alla polizia, dopo che i parenti di Thelma Couvais lo hanno identificato in un ristorante. Decisivo è, in questo caso, il secondo incontro con la ragazza, nonché il movimento autoriflessivo che esso innesca in Verdoux.
In realtà, nel momento in cui la figura della ragazza si rivela perfettamente duale (aggiungendo in maniera supplementare il cinismo di Verdoux alla ingenua inclinazione di Charlot a una felicità libera da condizionamenti sociali), Verdoux sconfessa la relazione speculare che le circostanze suggerirebbero di dare per scontata, congedandosi dalla ragazza per consegnarsi alla polizia, e sancire così la sua inevitabile condanna a morte. La possibilità di iniziare ancora una volta daccapo, facendo girare nuovamente nella direzione produttiva l’adesione al movimento del capitale, equivarrebbe a una conferma della univoca e pervasiva totalizzazione del circuito, che rende tutti nello stesso tempo Charlot e Verdoux. Morendo, Verdoux nega entrambi i personaggi, e di conseguenza rende una determinazione limitata anche la loro sintesi, rispetto a un assoluto impersonale che li eccede.
È proprio nel secondo, casuale, incontro, quando la ragazza scende dall’auto evidenziando immediatamente una sopraggiunta condizione di benessere, che la sua immagine getta luce sulla sua comparsa precedente, mostrando in che modo Verdoux abbia visto in lei il vero “avatar di Charlot”, e come adesso, quella originaria idea di una vita improntata alla inesauribile, quanto malinconica, ricerca della felicità pura e libera, anche a costo di passare continuamente attraverso la sventura e i disagi provocati da ottuse regole sociali, si rivela predisposta a accogliere il proprio doppio, costituito appunto dalla sagoma di Verdoux, personificazione della necessità di dismettere i buoni propositi, e di accettare le fredde regole del mondo esterno, pur conservando a livello interiore una autentica purezza.
La medesima complementare dualità delle sfere etiche, è, infatti, lampante quando la ragazza rivela il senso di colpa insito nel proprio raggiunto benessere, dicendo di aver incontrato un fabbricante d’armi e definendo questo suo attuale compagno “spietato negli affari”. Verdoux ribatte che quello è il mestiere che avrebbe dovuto fare, mostrando un atteggiamento disilluso e nello stesso tempo definitivamente consapevole che la morte sia divenuta endemica al processo che accomuna storia e sviluppo del capitale7. Particolare risonanza assume allora l’osservazione di Verdoux riguardo la “opaca follia di un mondo irreale”. Se il mondo è irreale, mera apparenza dissolvibile è anche la sua pretesa totalizzazione che faceva credere alla necessità del compromesso tra amore e ritmo inesorabile degli affari, e che lo aveva indotto a ritenere ineludibile la combinazione tra Charlot e Verdoux, mentre ora si ritrova a “sperare che tutto non sia stato vero”. Visto da questa angolazione, il discorso di Verdoux in tribunale, risulta del tutto estraneo al canonico atteggiamento autoassolutorio di chi rivolge al mondo l’accusa di averlo costretto a diventare un omicida sistemico, per rivelarsi molto più subdolamente argomentazione valida solo nell’ambito della stessa “industria del delitto” che la suscita in sua difesa. In tal modo, la comprensione della complementarità delle due figure e della loro oscillazione polarizzata, apre alla visione trascendente della morte come ciò che restando fuori da questo dispositivo di identificazione, ne mina essenzialmente la compattezza autoriproduttiva. Verdoux, più che la realizzazione di Charlot implicata dalla struttura sociale, finisce per esprimere la critica estrema alla prospettiva della completezza rappresentata dalla loro inevitabile mescolanza, portandoci così all’interno di una costellazione nella quale ci ritroviamo di fronte a alcune considerazioni di Schelling sulla morte, contenute nelle Lezioni di Stoccarda, e nel capolavoro Filosofia della rivelazione8. La visione che ricorre nelle pagine di Schelling, si basa sul rifiuto della idea che con la morte si verifichi dissoluzione del corpo materiale, da cui si separerebbe una sostanza spirituale eterna. Tale errore scaturisce dalla incapacità di vedere nella morte un superamento della dualità oppositiva tra spirito e materia, vale a dire della dualità a causa della quale “nasce una distinzione tra l’uomo esteriore e l’uomo interiore, tra l’uomo apparente e l’uomo essente” (Schelling, 2013, p. 89). Si può dire che, secondo Schelling, la morte, anziché sciogliere il legame con il corpo, realizza una connessione tra il mondo fisico e il mondo spirituale, mutando la determinazione finita della vita nella unità eterna e indifferenziata dell’infinito, in cui si inabissano le differenze singolari che pure da essa provengono, venendo separate “non dalla vita fisica in generale, ma da questa vita fisica” (ib.). La vita fisica particolare si ritrova così unita a quella universale, e “non c’è più, per la sua individualità, alcuno spazio per agire; non che essa venga superata completamente; solo, essa qui non può più agire” (Schelling, 1997, p. 1235).
L’assoluto, elevando a unità indifferenziata interno e esterno, costituisce l’alterità radicale rispetto alla loro composizione duale, che vorrebbe mantenere giustapposte l’introflessione sentimentale dell’animo, e l’estroflessione dell’agire condizionato dalla realtà esterna. È, allora, dal vuoto di questo sguardo sopraelevato (verticalmente inclinato rispetto alla posizione orizzontale dell’occhio che di solito fissa Charlot allontanarsi di spalle) che osserviamo Verdoux accompagnato dalle guardie camminare verso il patibolo, e la sua figura è vestita di bianco, segno appunto di azzeramento totale delle determinazioni particolari, per cui la morte non sarà né la sua né quella di Charlot, bensì il transito verso un assoluto impersonale e non-spazializzabile, che li renderà entrambi indifferenti.