Bellezza di donna non significa niente
Goethe
1. Euripide
La guerra di Troia è stata combattuta apparentemente per niente. Secondo Euripide, infatti, il motivo della guerra tra Troia e Sparta, tra Paride e Menelao è un’“immagine fatta di nuvole”; un eidolon (cfr. Bettini, Brillante, 2014, p. 119) che, alla fine della vicenda, svanisce “nell’aria” (Euripide, 2023, v. 1219, p. 153). La forma che seduce e inganna è Elena: malgrado sé stessa, la sua bellezza incomparabile, che “per altre donne […] è una fortuna”, mentre per lei “è stata la rovina” (vv. 304-305, p. 71), diviene la ragione dello scoppio del conflitto. Perché, in realtà, nella versione euripidea del mito, Elena non ha mai lasciato Sparta per Troia; non ha mai lasciato Menelao per Paride.
Ora vorrei raccontarvi le mie sventure. Tre dee che litigavano sulla loro bellezza si recarono da Alessandro in una grotta del monte Ida: erano Era, Cipride e la vergine figlia di Zeus, e volevano da lui un giudizio definitivo. Cipride offrì ad Alessandro il possesso della mia bellezza, se si può considerare bellezza la sfortuna, e ottenne la vittoria. Paride lasciò così i suoi pascoli dell’Ida e venne a Sparta, per conquistare il mio letto. Ma Era non sopportò la sconfitta, e fece svanire nel nulla ad Alessandro il possesso del mio corpo: al figlio del re Priamo non diede infatti la mia persona, ma un fantasma dotato di respiro, fatto con un pezzo di cielo e simile in tutto a me; lui credeva di avermi, ma non mi aveva, aveva solo un vuoto miraggio. A queste disgrazie si aggiunsero poi i disegni di Zeus: scatenò una guerra fra i Greci e i poveri Frigi, per alleggerire la madre terra dal peso di innumerevoli uomini e per dare fama al migliore eroe della Grecia. L’oggetto della difesa dei Troiani, il trofeo per cui combattevano i Greci, non ero io, era solo il mio nome (vv. 23-43, p. 46).
Nel prologo di Elena, Euripide presenta chiaramente l’innovazione del mito1: il motivo della guerra risiede in un’illusione fondata sullo scollamento del nome di Elena dal suo corpo; di un nuovo rapporto fra nome e immagine che pone una frattura insanabile tra apparenza e realtà. Elena, infatti, non è mai andata realmente a Troia: è stata per lunghi anni in Egitto; non ha mai tradito Menelao, che è stato preso nell’inganno di Era, la quale ha mandato presso Paride un perfetto simulacro della donna. Così perfetto che Menelao riconosce la vera Elena solo attraverso le parole del servo, che testimonia dell’evaporazione dell’Elena simulacrale “fra le pieghe dell’aria: si è levata in alto ed è sparita, nascosta nel cielo” (vv. 605-606, p. 101). Così è: si è sofferto per una nuvola, solo per questo (cfr. vv. 706-707, p. 109).
Sembra che il gesto di Euripide, nell’innocenza restituita a Elena, rifiutando la “verità omerica” del mito, voglia indicare che la guerra di Troia è fondata su un’illusione: la narrazione mitologica occulta che la guerra è scoppiata letteralmente per niente, dal momento che l’oggetto della contesa tra Paride e Menelao è un fantasma. D’altronde, fin dal prologo, Elena stessa è la voce del dubbio sul mito, innanzitutto rispetto alla sua nascita: “La mia patria è una terra illustre, Sparta, e mio padre è Tindaro; c’è però un racconto sulla mia nascita: nella forma di un cigno inseguita da un’aquila, Zeus sarebbe volato da mia madre, Leda, e avrebbe strappato con l’inganno un incontro d’amore; ma non so se credere a questo racconto” (vv. 16-21, p. 47).
L’Elena di Euripide, dunque, appare come un tentativo di disattivazione delle ragioni del mito: prima di tutto perché, a differenza di Omero, la bellezza di Elena non diviene motivo di adulterio2; piuttosto, la donna auspica quasi la cancellazione del suo “splendido aspetto” (cfr. vv. 262-266, p. 69) per mettere fine a dolori di cui non è pienamente responsabile. In Euripide, Elena destituisce il ruolo della donna adultera: è innocente, innamorata e fedele a Menelao (Bettini, Brillante, 2014, p. 113). Benché in Euripide si senta responsabile della guerra provocata dal suo doppio, dal suo eidolon, Elena non lo è realmente: assume la sua impossibile responsabilità pronta a rifiutare persino la sua bellezza. Preferirebbe divenire immagine della bruttezza pur di non essere più associata a una “immagine della morte” (p. 77), che, fin da Omero, è poi indice dell’“immagine della guerra, colta nei suoi aspetti più odiosi di distruzione e di morte” (p. 80).
Elena è il nome del conflitto, congiunto impropriamente a un simulacro del suo corpo, nonostante “nessun altro uomo, che non fosse suo marito, l’aveva mai toccato”: “l’impurità, il tradimento e la colpa appartenevano integralmente al simulacro, alla ‘nuvola’ fatta d’aria. Appartenevano al ‘nome’ e all’‘immagine’. Ed era solo sulla base di quel ‘nome’ e di quell’‘immagine’ che tutte quelle dicerie e tutte quelle opinioni si erano tanto diffuse e radicate” (Susanetti, 2023, pp. 133-134). Malgrado lo scollamento tra il corpo, il nome e l’immagine, dunque, Elena rimane, storicamente, il motivo dello scoppio della guerra di Troia; tuttavia, sembra che Euripide tenti di riportare la donna dalla parte dell’innocenza che la contraddistingue, innanzitutto distruggendo il mito di Elena.
L’innocenza dell’Elena euripidea potrebbe essere il segno di un femminile che si differenzia dalla guerra; che se ne dissocia nel segno della destituzione della colpa mitica di Elena. È forse possibile pensare che, attraverso l’innocenza di Elena, Euripide tenti di disattivare la ragione su cui la guerra di Troia si fonda? Ché, forse, Elena è il nome delle ragioni insensate al fondo di ogni guerra, attraverso cui mostrare che la guerra – ogni guerra – si combatte effettivamente per niente, per un’apparenza senza corpo, che si fa solo simulacro della morte? E tuttavia, cosa significa pensare questa sorta di nichilismo della bellezza femminile?
2. Fuori dal mito
Il nome di Elena, la vicenda dello scollamento tra nome e immagine, la rovina della bellezza, la questione dell’apparenza, intesa come inganno che innesca la guerra, sono argomenti ripresi, riscritti, rielaborati anche nella modernità. Il mito di Elena, in particolare, è confluito nel mito di Faust, il mago vissuto tra il XV e il XVI secolo. “Nella Storia del dottor Faust, pubblicata a Francoforte sul Meno nel 1587, l’immagine di Elena era evocata dal protagonista su richiesta degli studenti, che desideravano ammirare le forme della donna più bella della Grecia” (Bettini, Brillante, 2014, p. 206). Faust si innamora di Elena, e chiede a Mefistofele di unirsi materialmente a lei; “dall’unione nasceva un bambino, destinato a dileguarsi insieme con la madre dopo la morte di Faust” (ib.).
Sono note le vicende della lunga gestazione della riscrittura – che lo impegna per quasi tutta la sua vita – della Storia del dottor Faust da parte di Goethe, e in particolare della seconda parte del poema, quindi del “dramma di Elena”3. Proprio rispetto alla riscrittura, in chiave moderna, del mito di Elena, sembra che Goethe si ponga in continuità rispetto a Euripide, accogliendo i suoi temi fondamentali: l’apparenza di una bellezza che sottrae il femminile al marchio dell’infedeltà; lo scollamento del nome e dell’immagine dal corpo. Come nota Franco Fortini nella prefazione all’edizione italiana del Faust da lui curata, è a livello strettamente stilistico, nell’amalgama di antico e moderno che forma il poema, che anzitutto Goethe richiama esplicitamente Euripide nella composizione del dramma di Elena:
Quel che parlando della resa metrica si è detto per l’ambiguità e la tensione fra intenti didascalici e stilistici, può essere ripetuto per tutte le altre scelte più propriamente linguistiche. Ogni eccesso didascalico tende a trattenere qualche elemento di colore fra quelli che compongono la luce solare di una poesia; ma più di questa goethiana, se è vero che il carattere “mostruoso” del Faust si manifesta spesso nell’uso sarcastico del linguaggio, nella moltiplicazione delle referenze culturali e nella imitazione di una “natura seconda” o sovrapposizione enciclopedica e babelica di strati storici: il dramma di Elena, esemplato su Euripide […] (Goethe, 2016a, pp. LXII-LXIII).
Nei versi del Faust dedicati alla figura di Elena, i motivi stilistici si intersecano a quelli prettamente contenutistici, rivelando una veste rivoluzionaria dell’opera – un’innovazione, se non destituzione di derivazione euripidea, del mito.
È possibile indagare l’aspetto rivoluzionario del Faust, in vista dell’eredità euripidea che sembra accogliere, nei suoi caratteri stilisti e contenutistici – in una parola, formali – a partire dalle categorie che Walter Benjamin rintraccia in un saggio, scritto tra il 1921 e il 1923, che dedica al romanzo Le affinità elettive (1809) di Goethe.
Occorre ricordare preliminarmente che il saggio benjaminiano contiene “molte cose, a tratti troppe” (Solla, 2023, p. 226); svariati temi che, tuttavia, sembrano confluire nella riflessione intorno alla “dimensione che Benjamin definisce ‘il mitico’” (p. 230). A causa della complessità del saggio sulle Affinità elettive, sarebbe una mossa azzardata anche solo tentare di presentare nel loro complesso gli argomenti di Benjamin. Nell’economia di un discorso che tenta di chiarire la figura di Elena nel Faust in rapporto all’innovazione euripidea del mito, a partire dalla centralità dell’immagine fantasmatica della sua bellezza, è però possibile rintracciare alcune categorie che Benjamin maneggia nella sua lettura delle Affinità elettive.
Benjamin, in particolare, si concentra sull’importanza che, nel romanzo goethiano, riveste la bellezza apparente di Ottilia, una delle “quattro sostanze” che si scoprono immoralmente, sorprendentemente – per l’epoca in cui Goethe scrive il romanzo –, affini, ossia che “incontrandosi, subito si compenetrano e si influenzano a vicenda” (Goethe, 2016b, p. 67). Nel romanzo, Ottilia, nipote di Carlotta, la moglie di Edoardo, convive in casa dei coniugi assieme al Capitano, un amico di Edoardo. Le affinità elettive si svelano nel momento in cui la coppia dei coniugi si disfa: Carlotta scopre di essere affine al Capitano; Edoardo a Ottilia. La scoperta delle nuove connessioni fa dissolvere la relazione dei coniugi. Più tardi, il Capitano lascia la casa; Carlotta, allora, decide di trasferire Ottilia presso un’amica per ristabilire la relazione coniugale; per evitare la vicinanza con Ottilia e, allo stesso tempo, per impedire che la sua amata possa lasciare definitivamente la casa, anche Edoardo si allontana. Nel frattempo, Carlotta scopre di essere incinta; informa Edoardo, che decide di partire per la guerra per andare “in cerca della morte, ma non come un invasato, bensì come uno che spera di vivere” (p. 280), quasi per provare se il destino voglia effettivamente la sua unione con Ottilia. Edoardo torna dal fronte quando nasce il figlio Otto, incredibilmente somigliante a Ottilia e al Capitano. Edoardo e Ottilia dichiarano reciprocamente il proprio amore. Subito dopo l’incontro, il figlio dei coniugi, di cui in quel momento si occupava Ottilia, cade accidentalmente in acqua e muore. Ottilia si sente responsabile della morte, che interpreta come una punizione per la dichiarazione del suo amore per Edoardo, e si lascia morire di fame. Poco dopo, muore anche Edoardo.
Nelle Affinità elettive, Goethe, secondo Benjamin, lotta per liberarsi dal mito, nonostante “il contenuto mitico dell’opera era presente, se non alla comprensione, almeno al sentimento dei contemporanei di Goethe. Non è più così oggi, che la tradizione centenaria ha compiuto la sua opera e ha quasi sepolto la possibilità di una conoscenza originale” (Benjamin, 2014, p. 182). Il merito del saggio di Benjamin sta, tra altri, proprio nell’individuare la capacità della scrittura di Goethe di lottare contro il mito: “C’è, in lui, una lotta per liberarsi dalla sua presa, e questa lotta, non meno dell’essenza di quel mondo, è documentata nel romanzo goethiano. Nella tremenda esperienza fondamentale delle forze mitiche, che la conciliazione con esse è possibile solo a prezzo di un continuo sacrificio, Goethe si è ribellato contro di esse” (p. 204).
Benjamin pensa che Goethe stia lavorando a una liberazione dalla componente mitica. Ma, si potrebbe domandare, da quale specifico carattere del mito si tratterebbe di prendere le distanze. Occorre innanzitutto ricordare che, al di là di Goethe, la questione del mito notoriamente affolla di frequente gli scritti benjaminiani. Benché sembri non avere mai una definizione univoca, il mito, negli scritti degli anni Venti, tra cui rientra anche il saggio sulle Affinità elettive, è inteso da Benjamin “non come un retaggio del passato, ma come una configurazione del mondo che domina ancora la modernità capitalistica […] Benjamin qualifica come mitico un mondo in cui il vivente è inchiodato alla colpa, è in balia di potenze demoniche […] è soggetto a un potere violento che trova la sua massima espressione nel sacrificio” (Pinotti, 2018, p. 115). Più nello specifico, nel saggio sulle Affinità elettive è possibile individuare almeno due piani di riflessione critica sul mito: nel primo, Benjamin si scaglia contro il George-Kreis, che legge l’opera goethiana subordinandola alla preminenza “dell’artista come ‘creatore’ e come ‘eroe mitico’”4, dunque che analizza l’opera a partire dai contenuti della vita di Goethe5. Inoltre, Benjamin individua i “contenuti mitici” dell’opera nelle forze del diritto che sorgono dalla dissoluzione del matrimonio, quindi nelle forze del destino “naturale” – le “forze demoniche” – che decidono delle vite dei personaggi, ponendosi proprio contro quelle istituzioni del mondo borghese, altrettanto mitiche, che cercano di dominarle.
Il personaggio che sembra eludere la trattazione mitica è Ottilia. Infatti, nelle Affinità elettive, Benjamin riconosce che la destituzione del mito si compie attraverso il corpo di Ottilia: “Si presenta così la figura di Ottilia, in cui il romanzo sembra sottrarsi più palesemente al mondo mitico. Poiché anche se essa cade vittima di oscure potenze, è proprio la sua innocenza che – secondo l’antica legge, che esige l’illibatezza della vittima – la destina a questa sorte tremenda” (p. 214). La sua innocenza, però, “non è custodita da nessuna coscienza” (ib.). La figura di Ottilia appare cruciale nella misura in cui sembra suscitare “l’apparenza di un’innocenza della vita naturale” pagana che, però, non è mitica (ib.). La questione se l’innocenza di Ottilia sia destinata o meno alle forze mitiche diventa equivoca nel saggio benjaminiano, nella misura in cui la stessa “innocenza dell’inconsapevolezza è ambigua”:
Poiché sulla sua base la simpatia trapassa inavvertitamente in desiderio sentito come colpevole. […] Questa pericolosa magia dell’innocenza è stata conferita dal poeta ad Ottilia, ed è strettamente imparentata al sacrificio che si celebra con la sua morte. Poiché proprio nel suo apparire così innocente, essa non esce dall’ambito in cui esso ha luogo. Non è la purezza, ma la sua apparenza a diffondersi – con questa innocenza – con la sua persona. È l’intangibilità dell’apparenza che la sottrae all’amato. […] Ottilia, che fra tanti schemi è la sola apparenza (p. 215).
Nella figura di Ottilia, dunque, Benjamin interseca vorticosamente alcune questioni: la bellezza, l’apparenza, l’innocenza, la vita naturale; la questione del nome, il silenzio, la morte del corpo (e non solo dell’immagine), la colpa, il sacrificio e la sua inazione che la fa cedere al destino; tutti argomenti che potrebbero dare un’accezione mitico-tragica alla figura di Ottilia. Sennonché, “al di là della colpa e dell’innocenza si apre l’al di qua del bene e del male, che è accessibile solo all’eroe, e non mai alla fanciulla esitante” (ib.), così Benjamin, in poche battute continua a strappare Ottilia e la letteratura goethiana alle potenze mitiche.
Nello specifico, rispetto al problema della bellezza e dell’apparenza, a cui si lega anche la questione dell’innocenza, Benjamin rileva il tentativo goethiano di liberarsi dalle forze mitiche proprio richiamando in causa l’Elena del Faust, che paragona a Ottilia. In queste pagine cruciali, i motivi stilistici goethiani si incrociano, fino a rendersi indiscernibili, ai motivi contenutistici, là dove Benjamin individua anche la distanza dalle narrazioni mitiche – omeriche ed epiche.
Innanzitutto, Ottilia è solo una bellezza apparente: in lei, “la bellezza è veramente il primo e l’essenziale. L’impressione favorevole che essa suscita ‘deriva solo dal suo apparire’” (p. 219). L’essere pura apparenza di Ottilia si può rintracciare, in particolare, nel fatto che nelle Affinità elettive conduce una vita silenziosa: la dimensione linguistica della sua esistenza è rinvenibile solo nel suo diario; dunque sembra sottrarsi alla lingua senza cui nessuna azione – mitica o eroica – può avvenire. Come sostiene Benjamin citando un antico recensore “che dice con singolare esattezza: ‘Questa Ottilia non è una figlia genuina dello spirito del poeta, ma generata peccaminosamente nel duplice ricordo di Mignon e di un’antica immagine di Masaccio e di Giotto’” (ib.). Ottilia viene associata a Mignon, la figura femminile degli Anni di apprendistato di Wilhelm Meister (1795), per mostrare come, sommariamente,
Nella figura di Ottilia sono superati i confini dell’epica dal lato della pittura. Poiché la manifestazione del bello come contenuto essenziale in un essere vivente trascende i confini dell’epica. E al centro del romanzo è proprio questa apparizione. Poiché non si esagera indicando nella persuasione della bellezza di Ottilia la condizione essenziale per prendere parte al romanzo. […] In quest’opera Goethe si è scostato profondamente dal celebre modello omerico per la rappresentazione epica della bellezza. Poiché non solo Elena, nel suo scherno di Paride, si rivela più decisamente che mai Ottilia nelle sue parole, ma soprattutto nella descrizione della sua bellezza Goethe non ha seguito la famosa regola che è stata tratta dai discorsi ammirativi dei vecchioni sulle mura. […] Così quanto più essa è lontana dall’Elena omerica, tanto più è vicina a quella goethiana. Nella sua ambigua innocenza e nella sua bellezza apparente, essa sta, come lei, in attesa della morte riparatrice. E l’evocazione è in gioco anche nel suo apparire (ib.).
In questo passo fulminante, Benjamin richiama esplicitamente anche la bellezza apparente dell’Elena goethiana.
Nella riscrittura di Goethe, Elena non appare più di fronte agli studenti, come avviene nella Storia del dottor Faust del Cinquecento; appare, invece, già nel primo atto della seconda parte del Faust, dinnanzi alla corte di un imperatore, presso cui Faust è ospite. Proprio l’imperatore, infatti, chiede a Faust di evocare Elena e Paride: “I modelli dell’uomo e della donna / vuol poterli guardare in precise figure” (Goethe, 2016a, vv. 6185-6186). Per evocare Elena – così come, afferma Benjamin, “evocata, infatti, è sempre solo un’apparenza, in Ottilia la bellezza vivente” (Benjamin, 2014, p. 220) –, Faust chiede l’aiuto di Mefistofele, che afferma che evocare Elena non è facile “come il fantasma di carta dei fiorini…” (Goethe, 2016a, v. 6198, p. 593). L’unico modo è discendere alle Madri, una “lontananza eternamente / vuota” (v. 6246, p. 597). Le Madri, che, spiega Mefistofele, “avvolte dalle immagini di tutte le creature / non ti vedono. Vedono solo ombre” (vv. 6289-6290, p. 601). Mefistofele dà una chiave a Faust che lo guiderà alle Madri. Faust, quindi, le invoca:
Nel nome vostro, Madri, che regnate
dove non sono confini, eternamente
sole eppure socievoli. A voi cingono il capo
della vita le immagini, mobili, senza vita.
Quel che una volta fu nella splendida luce
si muove là; vuole essere eterno.
E voi lo ripartire, onnipossenti forze,
fra la tenda del giorno e la vòlta della notte.
Avvince quelle il dolce corso della vita,
evoca queste il mago temerario.
Egli, di sé sicuro, largo prodiga a tutti
quella visione splendida che ognuno desiderò (vv. 6427-6438, p. 617).
Il regno delle Madri è il solo luogo in cui si può ritrovare la paradossale immagine di Elena; le Madri, benché dalle parole di Faust potrebbero apparire come degli “archetipi mitologici”, in realtà ne sembrano ben lontane. Infatti, come nota Gianni Carchia nella sua riflessione intorno all’estetica del tardo Goethe,
Il nuovo concetto dell’origine che la scena delle Madri sottende è una nozione nella quale il prefisso Ur non tanto include un’ambigua e inestricabile valenza di senso (mitica e storica), ma piuttosto si pone propriamente al di qua di tale doppiezza. In quanto origine le Madri non costituiscono una regione ideale dell’essere che, come l’Urpflanze, sovraintenda all’eterna generazione del suo simmetrico esemplare reale. Fra l’ideale e l’empiria c’è bisogno di una mediazione che non sia puramente né naturale, né puramente storica, ma prevenga simultaneamente questa stessa alternativa. Se le Madri fosse essenze puramente sovrastoriche, archetipi mitologici, nulla sarebbe più possibile, l’azione stessa di Faust alla ricerca di Elena sarebbe assurda per definizione: la creazione di Goethe oscillerebbe fra un gelido e rigido neoclassicismo oppure un parodismo assurdo e sgangherato. Viceversa, se si desse solo l’Elena reale, dall’impresa di Faust svanirebbe ogni grandezza ed eternità; di più, ogni significato (Carchia, 2021, p. 77).
Quando Elena e Paride appaiono, Faust si innamora della donna: “Mi sparisca il respiro della vita / se ti sapessi mai dimenticare!” (Goethe, 2016a, vv. 6493-6494, p. 623), a tal punto che Mefistofele deve richiamarlo alla sua “parte” (v. 6501, p. 625). Alla corte dell’imperatore, il fantasma di Elena seduce Paride per poi sparire con lui. Faust tenta inutilmente di afferrare la donna. “Lo svolgimento dell’incontro, rinviato a un momento successivo, costituisce il contributo più originale di Goethe all’elaborazione moderna del mito” (Bettini, Brillante, 2014, p. 207). Infatti, Goethe inserisce, nella riscrittura della tragedia, l’incursione della modernità. Nella “Notte di Valpurga classica”, Faust continua a cercare Elena; riceve informazioni solo da Chirone, che, quando Faust gli domanda di parlare di Elena, della “donna più bella” (v. 7398, p. 713), afferma che “Bellezza di donna non significa / niente, è spesso un’immagine astratta” (vv. 7399-7400, p. 713). In seguito, dalle parole di Chirone si capisce che Elena vive solo nelle versioni del mito decise dai “filologi” (v. 7426, p. 715); tuttavia, Faust è innamorato di Elena, che è fuori dai “vincoli del tempo” (v. 7434, p. 715), quindi vuole “richiamare alla vita quell’immagine unica” (v. 7439, p. 717).
Elena riappare solo all’inizio del terzo atto, Davanti al palazzo di Menelao a Sparta; racconta che è stata condotta lì assieme ad altre prigioniere troiane (cfr. vv. 8488-8489, p. 811). Elena si dichiara innocente: è stata rapita da Paride. Disprezza la sua bellezza. Incontra poi Forcide, che, in realtà, è Mefistofele che ha assunto le sembianze della vecchia custode del castello. Assieme ripercorrono la storia di Elena. Mefistofele sembra anche richiamare la riscrittura del mito da parte di Euripide, quando afferma: “Però si dice che, duplice immagine, tu / in Ilio eri apparsa e in Egitto anche” (vv. 8872-8873, p. 841); cosa che aumenta lo sconvolgimento di Elena: “Non portare al delirio il mio spirito turbato. / In questo attimo stesso non so chi io mi sia” (vv. 8874-8875, p. 841). Nella ricapitolazione delle diverse versioni del mito di Elena, da parte di Forcide/Mefistofele, sembra presentato il rischio insito nella bellezza: “può celarsi un fondo di amoralità, di dissolutezza, essa può addirittura trasformarsi in oggetto di scambio, in vera e propria merce” (Venuti, 2014, p. 67). Come se, nelle numerose versioni del mito, ci fosse un commercio del nome e dell’immagine di Elena non solo fantasmatico, ma anche fantasmagorico (cfr. p. 69). Tuttavia, allontanando la sua bellezza apparente dall’epica per avvicinarla alla pittura (cfr. Benjamin, 2014, p. 219), dunque strappando il suo nome e la sua immagine al commercio delle narrazioni mitologiche, Goethe libera Elena; sgancia il suo dramma da un destino tragico6 – destino tragico già destituito da Euripide (cfr. Nietzsche, 1977; Amato, 2023).
La liberazione del nome e dell’immagine di Elena da un destino tragico è ravvisabile anche nella salvezza che le riserva Forcide/Mefistofele: infatti, dopo averle rivelato il suo destino – “cadrà sotto la scure” (vv. 8925-8930, pp. 847-849), cioè verrà sacrificata da Menelao – le offre la salvezza presso della gente insediatasi in una rocca alle spalle del Taigeto, come se il tentativo goethiano di liberarsi dalle forze mitiche dovesse innanzitutto spezzare il destino di una vittima sacrificale. Lì Elena incontra Faust; dopo essersi uniti – questa unione è il segno della relazione tra mondo antico e mondo moderno (cfr. Bettini, Brillante, 2014, p. 2077) –, i due danno alla luce Euforione, il cui animo è in continuo movimento; puro caos: “Sognate il giorno della pace? / Lo sogni chi lo può. / ‘Guerra!’ è la parola d’ordine, / e riverbera: ‘Vittoria’” (Goethe, 2016a, vv. 9835-9838, p. 929). Euforione è l’incarnazione di un “destino di morte” (v. 9896, p. 933); difatti, muore nel tentativo di volare8. Subito dopo essersi abbattuto al suolo, il suo corpo scompare; rimangono a terra un vestito, un mantello e una lira; l’aureola che indossava appare come una cometa. Da lontano, la sua voce chiede a Elena di non lasciarlo solo; quindi, lei lo segue: “Persefone, accogli mio figlio! Persefone, accoglimi!” (v. 9944, p. 939). Il corpo di Elena evapora mentre abbraccia Faust; rimangono sulle braccia di lui solo una veste e un velo.
3. Senza segreto
Nel suo Faust, Goethe libera la bellezza di Elena dalle forze mitiche, affrancandola, tramite Forcide/Mefistofele, dal suo destino di vittima sacrificale. Contemporaneamente, però, alla fine della vicenda, Goethe sembra suggerire che la bellezza di Elena non è posseduta né dal destino, né da Faust, lasciando proprio tra le braccia di quest’ultimo solo una veste e un velo. Innanzitutto perché, come nota Benjamin, la bellezza apparente di Elena manca assolutamente di corpo, ossia della materia dell’apparire. Infatti, l’Elena goethiana e Ottilia, seppur accomunante da una bellezza innocente (cfr. Benjamin, 2014, p. 219), si differenziano proprio perché l’apparenza della prima è priva di corpo:
Nei confronti del personaggio episodico di Elena Goethe conservò tutta la sua maestria, illuminando anche l’evocazione nella forma della rappresentazione drammatica; come in questo senso sembra tutt’altro che un caso che la scena in cui Faust avrebbe dovuto domandare Elena a Proserpina non sia mai stata scritta. Ma nelle Affinità elettive i principi demonici dell’evocazione penetrano fino al centro della forma poetica. Evocata, infatti, è sempre solo un’apparenza, in Ottilia la bellezza vivente, che s’imponeva direttamente e misteriosamente come “materia” nel senso più forte della parola. (p. 220).
Per evocare la bellezza vivente di Ottilia, Goethe tenta di accogliere “scarse parole”, di “origine spettrale”: non può che evocare la bellezza apparente di Ottilia, dal momento che spesso manca la possibilità di donarle una vera e propria forma (ib.). Elena, a differenza di Ottilia, è una morta bellezza apparente, che vive soprattutto nel ricordo dei racconti su di lei; la bellezza di Ottilia, invece, non vive nel ricordo; non è una sopravvivenza (cfr. p. 218): è pura apparenza, cruda presenza. Tuttavia, è possibile pensare che nell’apparente bellezza di Elena, nell’interruzione della cronologia dei tempi che la sua figura impone, nell’immagine della morte a cui è profondamente legata – essendo, appunto, sopravvivenza – ci sia un segreto impossibile, che risiede in una coesistenza di “apparenza trionfale della bellezza apparente” e bellezza che, come quella di Ottilia, si spegne al di là di ogni destino che può imporsi su di lei (cfr. p. 234). Perché, in realtà, la bellezza apparente sembra propriamente riguardare Elena, mentre per Ottilia, “non l’apparenza stessa della bellezza, che è duplice […] ma solo quella che è la sua, l’apparenza che si spegne. Ma solo quest’ultima permette la comprensione della bella apparenza in generale, e solo in essa l’apparenza si dà a riconoscere come tale. Onde ogni interpretazione della figura di Ottilia è posta di fronte all’antica questione, se la bellezza sia apparenza” (p. 234). Per Benjamin, inoltre, la questione del rapporto tra bellezza e apparenza si pone soprattutto, come avviene nel caso dell’Elena goethiana (e di Monna Lisa), solo nella “chiara polarità di apparenza trionfale e apparenza che si spegne” (ib.), ossia nel movimento dell’apparizione e della sparizione di Elena nel Faust, che, contro il Platone del Simposio, attesta che “un elemento di bellezza rimane anche in ciò che è meno vivo, quando sia bello essenzialmente” (p. 235).
Una bellezza essenziale che, però, è l’opposto della bellezza apparente, e che tuttavia “non si rivela, nell’arte, al di fuori di quest’antitesi, né si può chiaramente definire al di fuori di essa” (ib.). Nella bellezza apparente risiede un inespresso, cioè l’essenza della bellezza, che rivela come la bellezza è tale solo nella misura in cui appare: “poiché essa gli appartiene come l’involucro, e si rivela così la legge essenziale della bellezza, che essa appare come tale solo in ciò che è velato” (p. 2359). La bellezza, infatti, non è propriamente né apparenza, né involucro, “poiché né l’involucro, né l’oggetto velato è il vello, ma l’oggetto nel suo involucro. Disvelato, esso si rivelerebbe infinitamente appariscente” (p. 236). Ogni bellezza apparente, allora, contiene in sé l’inespresso, che è poi il suo segreto. Questa dialettica tra apparenza e inespresso viene disattivata solo “nell’arte e nelle manifestazioni della pura natura” (p. 237), dove, cioè, non vi è dualità di nudità e veste (cfr. Agamben, 2009, p. 121).
La questione della dialettica tra l’involucro e l’oggetto è presente nell’opera di Goethe, e si esprime nell’immagine del velo (cfr. Benjamin, 2014, p. 238). Nel Faust, in particolare, si manifesta nel momento in cui Elena, sparendo, lascia dietro di sé una veste e un velo, a differenza di Ottilia che, nel momento della sua scomparsa, lascia il suo corpo vivente, e solo “in lei si esprime chiaramente la legge che si annuncia più confusamente nelle altre: a misura che la vita si ritrae, si ritira anche ogni bellezza apparente, che può inerire solo in ciò che vive. […] Indisvelabile è solo la natura che custodisce un segreto, finché Dio le permette di sussistere” (p. 239). Perché la bellezza apparente non è altro dal corpo che la “possiede essenzialmente”: “Non soltanto, cioè, la possibilità di essere denudata condanna la bellezza umana all’apparenza, ma la disvelabilità ne costituisce in qualche modo la cifra: nel corpo umano, la bellezza è essenzialmente e infinitamente ‘disvelabile’, può essere sempre esibita come mera apparenza” (Agamben, 2009, p. 121). Solo nella nudità umana, allora, può apparire la pura apparenza: “nella nudità senza veli, l’apparenza viene essa stessa all’apparenza e si mostra, in questo modo, infinitamente inapparente, infinitamente priva di segreto. Sublime è, cioè, l’apparenza in quanto esibisce la sua vacuità e, in questa esibizione, lascia avvenire l’inapparente” (p. 122). La nudità inapparente, perché perfettamente disvelata, senza illusioni, pura esposizione senza segreti si esprime, in particolare, nel volto (cfr. ib.).
Nel momento in cui la veste e il velo rimangono tra le braccia di Faust, la dialettica tra oggetto e involucro, quindi, si potrebbe pensare, tra apparenza e realtà, viene disattivata: appare così il senso della bellezza di Elena, che risiede solo nella sua inspiegabile apparenza, di cui è impossibile una comprensione ulteriore, perché dietro quella veste e quel velo, in realtà, non c’è mai stato nient’altro, niente da disvelare – al massimo, solo uno spietato nichilismo. Il segreto del velo, allora, il suo senso ultimo, è che non esiste alcun segreto e alcun senso: “nell’inesplicabile involucro, invece, non vi è alcun segreto” (p. 127). “Bellezza di donna non significa niente”, dice infatti Chirone a Faust parlando di Elena, quasi suggerendogli che la sua azione per possederla finisce effettivamente nel nulla: nessuno può possedere la bellezza apparente di Elena, nemmeno lei stessa. Da questo punto di vista, allora, la guerra di Troia è stata davvero combattuta per niente: non c’era alcuna donna da conquistare, né da possedere. Elena è solo il nome di un’immagine incorporea, a cui si attribuisce un senso, quello di una guerra, che, però, come tutti i nomi, che in fondo indicano niente, elude o delude (cfr. Solla, 2016, p. 36).
Elena, in quanto immagine incorporea, può prendere le distanze dalla guerra, innocentemente e inconsciamente. Dietro al suo essere solo involucro che non nasconde niente, la figura di Elena destituisce la forza mitica che tende a identificarla con un’immagine di guerra, dunque di morte. Tuttavia, proprio la de-mitizzazione di Elena in quanto immagine della guerra potrebbe rivelare un gesto di ri-mitizzazione della sua figura, tanto in Euripide quanto in Goethe. Infatti, se in Euripide la ri-mitizzazione è ravvisabile proprio nel fantasma fatto d’aria inventato da Era, dall’altra parte, Goethe crea un nuovo mito di Elena, non lontano da Euripide, che si fonda sulla figura della donna costituita solo da “una veste e un velo”. Qual è il nuovo mito di un’Elena incorporea che, allora, nella paradossale destituzione del mito della guerra, potrebbe sorgere? Forse un mito che, nello scollamento dell’immagine e del nome dal corpo, nella rivelazione di una bellezza che “non significa niente”, potrebbe suggerire come ogni guerra sia legata a false credenze: un mito del nichilismo della bellezza che destituisce il mito della guerra.