Je ne sais ni A ni B

Giovanna d’Arco in controcampo: Dreyer-Godard

DOI : 10.54563/revue-k.677

Résumé

The paper aims to investigate the presence of Dreyer’s La passion de Jeanne d’Arc (1927) in Jean-Luc Godard’s Vivre sa vie (1962) and Notre musique (2004). Through an analysis of the shot and reverse shot technique employed by Godard in the sequences in which Nana and Olga converse with Dreyer’s film, the contribution attempts to show how the Godard work can open a destitute image of woman, the embodiment of an escape from any order of discourse.

Index

Keywords

woman, image, void, tears, war

Plan

Texte

Non sono un punto fermo
Né una realtà di base
Né un dato di fatto
Né un dato per perso

CCCP – Fedeli alla linea
 
Car, nos larmes, à mon avis,
sont l’expression de notre impuissance à exprimer,
c’est-à-dire à nous défaire par la parole
de l’oppression de ce que nous sommes...

Paul Valéry
 
Qui si fa il silenzio di questa guerra.
Tacciono i codici e le false misure.
Non si sa se è lotta o abbraccio.
Qui inizia il conversare in un’ora blu
al riparo dalle discorsività già date.
E che l’una si appoggi all’altra o che ancora
ci si guardi di fronte o anche si rida,
questa guerra è uno dei più puri riconoscimenti.

Angela Putino

Il compito di questo contributo è indagare la presenza del lungometraggio La passion de Jeanne d’Arc (1927) di Carl Dreyer nei lungometraggi Vivre sa vie (1962) e Notre musique (2004) di Jean-Luc Godard. Attraverso l’analisi della tecnica del campo-controcampo impiegata da Godard nelle sequenze in cui le donne che mette in scena dialogano con la Giovanna d’Arco di Dreyer, si tratta di mostrare come l’opera godardiana, proprio attraverso la crucialità della presenza della figura di Giovanna, possa aprire a un’immagine destituente/differente della donna, incarnazione di una incessante via di fuga da qualsiasi ordine di discorso.

1. Lacrime

Nana è una giovane donna che lavora come commessa in un negozio di dischi e che sogna di diventare attrice. Ha difficoltà a pagare l’affitto. Nei dodici “quadri” in cui è suddiviso il film, Godard mostra la passione di quella giovane donna che, rinunciando al sogno di divenire attrice, entra nel mondo della prostituzione per sopravvivere, inizialmente affiancandosi a una prostituta che sosta davanti a un cinema, proprio di fronte a una scritta: “vietato sostare davanti al cinema”. Come la Giovanna di La passion de Jeanne d’Arc di Dreyer, che Nana “incontra” in un cinema, Vivre sa vie è il racconto dell’impossibilità di una giovane donna di vivere la sua vita; di inventare, forse, una vita altra rispetto a quella catturata esclusivamente da necessità materiali. Nana non può abbandonare il suo protettore dopo aver incontrato un giovane cliente con cui parla di amore e di arte, con il quale accedere, forse, a una “vie avec la pensée” (Balso et al., 2014, p. 25); una vita indicata, poco prima, dal filosofo del linguaggio Brice Parain, che incontra in un caffè. Nana muore durante un conflitto armato tra il suo protettore e un altro, a cui il primo avrebbe voluto cederla.

Nella sequenza in cui Nana incontra Giovanna d’Arco, le lacrime sono l’elemento fondamentale; in quella in cui incontra Brice Parain, invece, l’elemento fondamentale è il linguaggio. Entrambe le sequenze presentano uno speciale uso, da parte di Godard, della tecnica del campo-controcampo. Per comprendere, in prima istanza, l’immagine del femminile nell’opera godardiana, dove la figura di Giovanna sembra giocare un ruolo cruciale, si porranno in dialogo le due sequenze di Vivre sa vie, attraverso l’analisi dei due elementi fondamentali – le lacrime e il linguaggio1 – e, insieme, della modalità in cui Godard impiega la tecnica del campo-controcampo.

Nana incontra Giovanna nel terzo “quadro” del film, che comprende lo sfratto e l’incontro con un giornalista a cui porta delle sue fotografie; il giornalista propone a Nana delle foto di nudo perché più vendibili ai produttori. Tra quei due momenti si inserisce il cinema: Nana ci va da sola; lì incontra un uomo da cui si fa pagare il biglietto, ma che abbandona subito dopo la proiezione del film. La sequenza di Nana al cinema si apre con un’immagine, in cui vediamo le scritte “ciné” e “Jeanne d’Arc” – quasi a indicare che il cinema, per qualche assurda ragione, è indissolubilmente legato alla figura di Giovanna d’Arco –; vediamo, poi, Nana di profilo, e un uomo, accanto a lei, che le cinge la spalla. Subito dopo, nel silenzio, appare il volto della Giovanna di Dreyer in lacrime: è in una cella; le fanno visita due monaci, che le annunciano la sua condanna a morte. Il dialogo tra i personaggi è riportato sui cartelli. Tra il campo-controcampo di Dreyer, ossia nella conversazione tra Giovanna e i monaci, Godard inserisce, per due volte, il volto di Nana: una prima volta, dopo il volto di Giovanna straziato e in lacrime, che segue l’annuncio del monaco – la pulzella è condannata al rogo. Gli occhi di Nana sono spalancati; pieni di lacrime. È solo quando il monaco chiede a Giovanna – questa volta, però, il dialogo non è inframmezzato dai cartelli: compaiono dei sottotitoli – quale sarà la sua vittoria (“et la grande victoire?”) e Giovanna risponde che sarà il suo martirio (“ce sera mon martyre!”); e quale sarà la sua liberazione (“et ta délivrance?”) e lei risponde “la morte” (“la mort!”), che, allo sguardo terrificato di uno dei due monaci, segue nuovamente il volto di Nana: i suoi occhi sono ormai colmi di lacrime, non può trattenerle; per farle scorrere via, chiude gli occhi; li riapre e guarda lo schermo, dove compare un ultimo cartello, che ripete la risposta di Giovanna precedentemente indicata dai sottotitoli: “La morte”2.

Dreyer utilizza la tecnica del campo-controcampo, passando dal volto di Giovanna a quello dei due monaci, e viceversa, ma è la ripresa dei volti attraverso “primi piani taglienti” (Deleuze, 2016, p. 133), che gli permette di sfuggire al tradizionale uso di quella tecnica:

Straordinario documento sul volgersi e deviare dei volti. Tali quadri taglienti corrispondono alla nozione di “disinquadratura”, proposta da Bonitzer per designare degli angoli insoliti che non sono completamente giustificati dalle esigenze dell’azione o della percezione. Dreyer evita il procedimento campo-controcampo, che manterrebbe per ogni volto un rapporto reale con l’altro, e parteciperebbe ancora di un’immagine-azione; preferisce isolare ogni volto in un primo piano, che è riempito solo in parte, in modo che la posizione a destra o a sinistra induca direttamente una congiunzione virtuale che non ha più bisogno di passare attraverso la reale connessione tra le persone (p. 134).

Attraverso quello speciale utilizzo del procedimento del campo-controcampo, Dreyer sembra operare anche una differenza nella ripresa della conversazione tra il volto di Giovanna che parla e quello dei due monaci: quando Giovanna parla, “les lèvres bougent, mais on n’entend pas ce qu’elle disent” (Anger, 2000, p. 35), quasi che i cartelli che riportano il dialogo diventano per lei “une loi definitive” (ib.). Come Giovanna, anche Nana subisce la legge dei cartelli attraverso il campo-controcampo godardiano (Cfr. Balso et al., 2014, p. 12): una morte inflitta dalla parola scritta. Come se tanto la passione di Giovanna, quanto quella di Nana, passassero necessariamente dalla violenza del linguaggio. Infatti, nella sequenza del settimo quadro, quando Nana incontra in un caffè Brice Parain, in un détournement della tecnica del campo-controcampo – la macchina da presa non è fedele al dialogo, ossia non riprende i volti che emettono la parola, ma lascia che le parole dell’uno e dell’altra scorrano sul volto di quello o questa –, Nana si interroga sul motivo per cui l’esistenza umana debba basarsi sull’uso del linguaggio. Nana vorrebbe vivere in silenzio – anche se non smette mai di parlare –: “Più si parla, più le parole non vogliono dire niente”. Parain le fa però notare come sia impossibile vivere senza parlare: per pensare e comunicare, le parole sono necessarie – è la vita umana. Tuttavia, secondo Parain, si può parlare bene solo se si rinuncia per qualche tempo alla vita; parlare è una resurrezione della vita, ma per vivere parlando, bisogna passare per la morte della vita senza parlare: si parla bene solo dopo che si è guardato alla vita con distacco; un’apertura alla “vie avec la pensée” che, però, abbia ucciso la vita quotidiana, la vita troppo elementare. Quando, infine, Parain sostiene che bisogna trovare le parole giuste, per non uccidere e non ferire gli altri, la macchina da presa è su Nana: i suoi grandi occhi ci guardano, le parole di Parain fluiscono sul suo volto. Proprio la prostituta che prima, nel settimo quadro, scriveva una lettera a una tenutaria di casa, per chiedere alloggio, in un cattivo francese, letteralmente sgrammaticato, si interroga adesso sul linguaggio; sulla parola che, dal suo punto di vista, sembra immobilizzare la vita e il pensiero.

Giovanna d’Arco non sapeva né leggere né scrivere: quando arriva a Poitiers, davanti ai suoi giudici, ossia davanti a uomini di Chiesa e dottori dell’Università, alle cui leggi una donna ignorante (perché analfabeta) non può che sottomettersi3, afferma: “Moi, je ne sais ni A ni B” (Cfr. Gauvard, 2022, p. 59). L’impossibilità di dire di Giovanna nella Passion di Dreyer è espressa dalle lacrime, quella materia fluente che invade anche gli occhi di Nana, nel silenzio della sala cinematografica, sotto i colpi dei cartelli dreyeriani che, nero su bianco, condannano le due donne.

Le due donne, l’una sgrammaticata, l’altra totalmente al di fuori della grammatica, non possono che rifugiarsi, per sfuggire alla violenza del linguaggio, nel pianto e nella sua espressione: le lacrime. Il pianto rivela “un’impossibilità di dire” (Agamben, 2016, p. 39); è “voce confusa […] che non si può scrivere, agrammaticale” e che “non ha nulla a che fare con la voce che è stata com-presa con le lettere (quae litteris comprehendi potest), che è la voce propriamente umana” (Agamben, 2023, p. 31).

Di fronte ai giudici, Giovanna piange; di fronte a Giovanna e alla sentenza di morte, Nana piange. Nel momento del pianto, poste al di fuori della lingua, è come se le due donne potessero scivolare via dalle imposizioni di una società governata da una certa lingua degli uomini, il cui verbo decide delle loro vite.

Se le lacrime di Giovanna esprimono un femminile che paradossalmente si manifesta sul volto di una donna che ha fatto la guerra e che continua a indossare abiti maschili, anche se in contrasto con gli abiti maschili dei dotti che la circondano (cfr. Sémoulé, 1962, p. 50), le lacrime di Nana, che scorrono quasi prolungando lo scorrere delle lacrime di Giovanna, manifestano, forse, l’esigenza di sfuggire all’ingabbiamento di qualsiasi rappresentazione o ordine di discorso sul femminile, quindi persino alla sua opposizione al maschile. È come se quell’impossibilità di dire espressa dalle lacrime rendesse un’immagine del senza immagine del femminile: la dissoluzione della sua rappresentazione; la restituzione di un’immagine del senza immagine che solo il cinema può restituire, perché solo al cinema le lacrime possono muoversi4, fluire, scivolare via, in silenzio.

E tuttavia, le lacrime appaiono per la prima volta al cinema come elemento dell’impotenza del femminile di fronte al mondo maschile. Pascal Bonitzer nota che le lacrime al cinema, di cui il primo grande maestro è Griffith, ispirato da Dickens, esigono un solido sistema narrativo (Cfr. Bonitzer, 1999, p. 97), e dipendono dall’invenzione di un elemento femminile,

Di un’elaborazione femminile del volto, cioè dello star system, di cui Griffith è l’inventore come lo è del montaggio. […] Come sappiamo, le star femminili sono sempre delle vittime; le sue prime star sono donne picchiate, violentate, perseguitate, uccise, i volti accartocciati, fragili e tremanti di Lillian Gish, di Mae Marsh. L’azione è a campo medio, punteggiata da primi piani “elaborati” di volti fragili, preda dei movimenti delle emozioni. Più che di primi piani, bisogna parlare di piani ravvicinati, che mettono il volto a nudo come nel quadro di Magritte Le viol, dove il corpo di una donna nuda forma un volto osceno, come una condensazione di due piani di visione, il campo medio e il primo piano. Le lacrime nascono da questa condensazione, da questa compressione sadica dei due piani sul volto (p. 98, trad. mia).

Il primo piano del volto in lacrime esprime brutalmente l’impotenza del femminile, schiacciando la donna tra i quattro lati del quadro; tuttavia, l’esposizione della nudità di quel volto, il sadismo di quella compressione, come afferma Bonitzer, la nuda presentazione del volto di donna trasformato dalle emozioni, può divenire l’immagine della fuoriuscita dalla violenza proprio attraverso l’esasperazione dell’impotenza. Ed è nella manifestazione di una “comune” impotenza che Nana sembra “identificarsi” con Giovanna. Rispetto alla questione dell’identificazione al cinema, Raymond Bellour nota che è il riconoscimento degli spettatori nella ricreazione del mondo che il cinema mette in scena a costituire la potenza del cinema stesso (Bellour, 2009, p. 303).

Possiamo quindi chiamare identificazione ciò che prendiamo e quindi incorporiamo all’interno degli insiemi nei quali ci proiettiamo. Deleuze non usa la parola identificazione, troppo psicologica; ma possiamo collocare ciò che la sua idea sottende al centro del processo che i tre avatar dell’immagine-movimento costruiscono, formando, a partire dall’immagine-percezione, altrettanti momenti o aspetti materiali della soggettività. Al cinema, ci identifichiamo con il mondo come immagine, con “il mondo che diventa la sua stessa immagine” (ib., trad. mia).

Secondo Bellour, l’identificazione al cinema, “sempre molteplice, che cambia, si modula, si gradua, diversifica, stratifica, mescola, ma anche più spesso ruota” (p. 311, trad. mia), si consacra proprio nella figura del campo-controcampo: “L’identificazione ruota quindi in base alla presenza o all’assenza di ogni persona nell’inquadratura, tutti giochi di in e off” (ib., trad. mia). Dunque, nell’uso della tecnica del campo-controcampo è in questione solo un processo di identificazione – in particolare se quell’uso è deciso dal movimento delle lacrime?

Nel suo importante studio De la dynamique des larmes au cinéma. Sirk, Kieslowski, Bergman, May El Koussa mette invece in luce una doppia dinamica delle lacrime, di separazione o di unione, ma che in ogni caso conduce a una trasformazione:

Questa capacità fondamentale delle lacrime conduce all’idea di trasformazione attraverso un effetto di proiezione. Attraverso le lacrime ci trasformiamo. Già il viso subisce trasformazioni (la fronte si corruga, le labbra si abbassano, gli occhi si arrossano, ecc.) che raggiunge l’interno della persona. La persona che versa lacrime è capace di cambiare. Come i “pleureurs” del Medioevo che si convertivano in santi attraverso le lacrime, tutti sono portati a subire un certo cambiamento (El Koussa, 2023, p. 82, trad. mia).

Nella “circolazione delle lacrime” (p. 172), allora, è innanzitutto in questione una ristrutturazione del mondo: cambia il corso degli eventi, come avviene alla fine della Passion di Dreyer5, laddove le ultime lacrime di Giovanna, soffocate dal rogo, circolano e invadono le donne che assistono alla sua morte. Allo spirare di Giovanna, tutto il popolo si ribella: è stata arsa una santa. Un popolo in rivolta sorge allora dalla commozione. Georges Didi-Huberman mostra come l’opposto dell’indifferenza di fronte a chi piange, di fronte alle lacrime che ci toccano e ci ri-guardano, non è l’identificazione: “Non piangiamo per coloro che piangono, non serve a niente e a nessuno. Esploriamo, piuttosto, il campo di possibilità, cioè le occasioni di trasformazione o di emancipazione legate a tutte queste figure in lacrime” (Didi-Huberman, 2020, p. 64). Le lacrime che circolano, dunque, letteralmente commuovono: “Nel Medioevo, commuovere significava ‘far uscire dalla calma, spingere al sollevamento’ e l’emozione designava per tanto il ‘disturbo’ sociale, la ‘sedizione’, la rivolta in atto” (p. 87).

Neppure la commozione di Nana di fronte a Giovanna sembra assumere il carattere dell’identificazione o della comunione: le due donne che piangono, nonostante le lacrime dell’una sembrano fluire e confluire in quelle dell’altra, rimangono sole, entrambe legate alla loro inevitabile morte. Tuttavia, è possibile pensare che proprio in quella separazione si ristrutturi il mondo: se la dinamica delle lacrime oscilla tra la separazione e la comunione, tra pubblico e privato – “le lacrime non solo sono visibili, ma conferiscono alla visualità il potere paradossale di un’espressione dell’intimo in uno spazio collettivo” (Toudoire-Surlapierre, Surlapierre, 2010, p. 13, trad. mia) –, è proprio nel passaggio incessante da un termine all’altro, nel fluire del movimento della figura del campo-controcampo deciso dal fluire delle lacrime e nella smorfia del pianto, che avviene una perdita di sé che nega qualsiasi identificazione. Nana non si può identificare in Giovanna; la puttana dal viso angelico non si può identificare nella santa “puttana degli Armagnacchi” – e tuttavia, si ricrea il mondo.

Alain Badiou mostra come l’enigma di Giovanna risieda nella sua diserzione radicale da ogni predicato: “Jeanne est toujours comme le reste non dit des tentatives de lui faire signifier ceci o cela” (Badiou, 1997, p. 27). Forse è questo che ci rivela l’utilizzo del campo-controcampo godardiano in Vivre sa vie, il suo passaggio dalle lacrime di Giovanna, a quelle di Nana, alle nostre: l’immagine femminile è un resto non detto e che non è possibile dire, di cui può essere segno solo una lacrima, che indica come, in realtà, né la santa né la puttana siano davvero tali.

La nuda esposizione del volto in lacrime di cui Griffith è stato il maestro, l’esibizione della donna violata cambia di segno nel campo-controcampo godardiano: le nudità, di Giovanna e di Nana, le loro intimità, sono esibite; ma è l’esibizione di una pura apparenza6 – “‘puro’ era il luogo che era stato sciolto dalla sua destinazione agli dèi dei morti e non era più ‘né sacro, né santo, né religioso, liberato da tutti i nomi di questo genere’” (Agamben, 2005, p. 83) –, che non ha niente da dire, né da dare a vedere, se non l’apparenza stessa, ma libera da ogni predicato. Né sante, né puttane: un nichilismo del femminile7.

2. Guerra

Un’altra importante occasione in cui Godard cita La Passion de Jeanne d’Arc di Dreyer è una sequenza cruciale del lungometraggio Notre musique.

Film controverso dedicato alla guerra, Notre musique è suddiviso nei tre regni danteschi. Al centro dell’opera, una domanda: cosa significa essere ebrei? (cfr. De Baecque, 2023, p. 788). La questione ebraica, il rapporto tra ebrei e musulmani, tra Palestina e Israele, come punto nevralgico della sua riflessione sul rapporto tra la guerra e il cinema, su cui Godard ritorna costantemente, è lavorata attraverso la tecnica del campo-controcampo, che permette di porre la questione dell’“identificazione” di israeliani e palestinesi, di ebrei e musulmani, lungo il corso della storia.

Nella parte centrale del film, ossia nel purgatorio, ambientata a Sarajevo, Godard tiene una conferenza sul cinema, soffermandosi sulla crucialità della tecnica del campo-controcampo. A quella conferenza prende parte anche Olga, una giovane ebrea di origini russe e di nazionalità francese, nipote del traduttore di Godard a Sarajevo. Olga arriva nella capitale bosniaca per annunciare allo zio la sua decisione: “Vuole andare a Gerusalemme per suicidarsi; la sua decisione è presa in nome di Albert Camus – ‘il suicidio è l’unico problema filosofico veramente serio’ – e della sofferenza del mondo” (pp. 792-793, trad. mia). Dopo la conferenza, Godard torna a Rolle, dove coltiva dei fiori; riceve, poi, la chiamata del traduttore di Sarajevo, che racconta la morte della nipote in un cinema di Gerusalemme: “È entrata con un grande zaino, avvertendo che si sarebbe fatta esplodere, invitando gli spettatori che ‘volevano morire per la pace’ a rimanere con lei e gli altri ad andarsene. Tutti se ne sono andati. I soldati israeliani sono arrivati e l’hanno uccisa. Nel suo zaino c’erano solo dei libri” (p. 793, trad. mia).

È proprio durante la conferenza sul cinema tenuta da Godard, e in particolare sulla tecnica del campo-controcampo, che riappare la Passion di Dreyer. Olga è tra gli studenti che assistono alla conferenza; la vediamo innanzitutto con gli occhi chiusi: immagina qualcosa. Godard spiega che “l’’immagine è felicità, ma accanto a lei c’è il niente; tutta la potenza dell’immagine si esprime attraverso di esso”; poi passa alla questione del campo-controcampo, “figure basilari del cinema”. Mostra due fotografie di His Girl Friday (1940) di Howard Hawks: una mostra Rosalind Russell, l’altra Cary Grant; entrambi tengono la cornetta del telefono in mano. La somiglianza tra le due fotografie permette a Godard di dire che l’utilizzo del campo-controcampo da parte di Hawks mostra un’inabilità a vedere le differenze tra una donna e un uomo (Cfr. Conley, Jefferson Kline, 2014, p. 1606). Per Godard, la tecnica del campo-controcampo entra in gioco come riflessione sull’accostamento di due termini simili ma opposti: l’immaginario e il reale; la finzione e il documentario; un ebreo e un musulmano; Israele e Palestina. Il discorso di Godard su quella tecnica incrocia rimandi alla storica preminenza del “testo sull’immagine”; al pensiero secondo cui il principio del cinema è “andare verso la luce e illuminare la nostra notte”, e confluisce nella sequenza fondamentale in cui appare la Passion di Dreyer. Innanzitutto, vediamo la scritta “et la délivrance?” in bianco su un foglio nero; quindi, un altro foglio: “et la victoire?”. Vediamo, poi, il volto di Olga: è lei che sta sfogliando dei “cartelli” che riportano il dialogo di La Passione de Jeanne d’Arc, già citato da Godard in Vivre sa vie. Poi un altro foglio: “ce sera mon martyre”, dopo il quale vediamo, nuovamente, il volto di Olga, il cui sguardo rimanda all’ultimo cartello: “je serai ce soir au paradis”. Infine, il volto di Olga.

Si direbbe che anche nella scena di Notre musique, che vede Olga confrontarsi con le ultime parole di Giovanna, sia in questione un processo di identificazione, come avviene per Nana in Vivre sa vie. Ma l’utilizzo della tecnica del campo-controcampo, per Godard, non ha niente a che vedere con l’identificazione:

Non sto dicendo che la Shoah e la Nakba sono la stessa cosa. Certo che no! È un’affermazione completamente stupida. Il campo e il controcampo non significano equivalenza né uguaglianza, ma pongono una questione. La retorica ufficiale del cinema ha imposto questo tipo di blocco del pensiero: uno sguardo deve seguire una direzione imposta. Tutto il resto è vietato, e di conseguenza non è più possibile pensare (p. 796, trad. mia).

È probabile che, attraverso quella tecnica, invece, Godard voglia provocare una frattura nell’identificazione; un’impossibilità per Nana di fronte a Giovanna, per Olga di fronte alle parole di Giovanna, di identificarsi tra di loro, identificandosi innanzitutto nelle loro sentenze di morte decise dalla parola scritta.

È proprio a partire da una riflessione sulla corrispondenza – quindi sulla parola scritta; d’altronde “la guerra per una donna è nel linguaggio: non consentire che si chiuda nei codici, spaziare, interrompere” (Putino, 1987) – tra Virginia Woolf e Vita Sackville-West che Angela Putino dichiara l’impossibilità, per le donne, di una comunione intesa in quanto fusione o identificazione, dunque anche l’impossibilità di un “proprio” per ciascuna donna: “Sono a rischio di non aver nulla di proprio, cioè di non avere ‘niente’ in comune” (Putino, 2018, p. 37). L’impossibilità di avere qualcosa in comune, ossia la possibilità di avere “niente” in comune, permette a Putino di richiamare la “funzione guerriera” di Dumézil8, per il quale “il guerriero – da non confondere con il militare che si occupa della difesa o dell’espansione territoriale e coordina la propria azione sul registro del potere sovrano – taglia con gli indiscussi vincoli sociali e, in opposizione con l’attività del mago che lega e seduce, sopraggiunge come colui che scioglie” (p. 40). Putino mostra quindi come la figura del guerriero che “slega”, che, cioè, permette un “divenire comune” di ciò che “non può essere messo in comune” (p. 39), sia ripercorsa da Deleuze e Guattari fino a farla “incontrare con il divenire-donna: la macchina da guerra delle Amazzoni nella Pentesilea di Kleist segna un allacciamento con una nuova scienza nomade” (ib.). Putino, in conclusione, evidenzia come sia interessante, nella riflessione di Deleuze e Guattari, il fatto di non circoscrivere la questione del “divenire-donna” “al solo mondo di donne” (ib.). In effetti, in Mille piani, il divenire-donna è una questione molecolare:

Sì, tutti i divenire sono molecolari; l’animale, il fiore o la pietra che diveniamo sono collettività molecolari, ecceità, non forme, oggetti o soggetti molari che conosciamo fuori di noi e riconosciamo a forza di esperienza o di scienza o di abitudine. Ora, se questo è vero, bisogna dirlo anche delle cose umane: c’è un divenire-donna, un divenire-bambino, che non assomigliano alla donna o al bambino come entità molari ben distinte (sebbene la donna o il bambino possano avere posizioni privilegiate possibili, ma soltanto possibili, in funzioni di tali divenire). Quel che chiamiamo qui entità molare, per esempio, è la donna in quanto viene presa in una macchina duale che l’oppone all’uomo in quanto è determinata dalla sua forma, dotata di organi e di funzioni e assegnata come soggetto. Ora, divenire-donna non è imitare quest’entità e neppure trasformarsi in essa (Deleuze, Guattari, 2017, p. 386).

Deleuze e Guattari spiegano meglio: il divenire-donna non ha niente a che vedere con l’imitazione, né con l’assumere “la forma femminile” (ib.): la bisessualità, per esempio, “non è un concetto migliore di quello della separazione dei sessi. Miniaturizzare, interiorizzare la macchina binaria è altrettanto increscioso che esasperarla, non se ne esce così” (p. 387). Una “politica femminile molecolare”, invece, deve anche “contaminare gli uomini” (ib.); deve insinuarsi in loro, senza mimesi9. Per questo motivo, Deleuze e Guattari notano come sia innanzitutto al corpo della ragazza – attraverso condotte – che viene “rubato il suo divenire per imporle una storia o una preistoria” (ib.). Dunque, il divenire-donna è l’inizio di tutti i divenire molecolari (bambino, animale, ecc…) proprio perché è il corpo della ragazza che innanzitutto è il luogo in cui si gioca la “sua produzione molecolare, la sua indifferenza alla memoria, il suo carattere non figurativo, ‘il non figurativo del desiderio’. Giovanna D’Arco? Particolarità della ragazza nel terrorismo russo, la ragazza con la bomba, custode della dinamite?” (p. 388). Non è un caso, allora, se anche Deleuze e Guattari citino Giovanna e una ragazza con la bomba – per noi, idealmente, Olga di Notre musique – prima di sostenere che il travestimento da donna dell’uomo di guerra non indica né bisessualità né omosessualità, ma “un’anomia essenziale all’uomo di guerra” (p. 389). Forse è questo che “accomuna” Giovanna, guerriera in lacrime, a Nana, prostituta in lacrime e a Olga, guerriera della pace: una costitutiva anomia; un’impossibilità di messa in comune perché tutt’e tre senza alcuna proprietà, e che, tuttavia, possono far scorgere, improvvisamente, “un popolo di guerriere: ‘arrivano come il destino, senza causa, senza ragione, senza riguardo, senza pretesto’…”10

Giovanna, però, ci costringe a pensare che quel popolo di guerriere non è composto solo da donne molari – per dirla con Deleuze e Guattari –; piuttosto, non accettando di ritornare al ruolo di donna dopo la sospensione del femminile per l’entrata in guerra (cfr. Gervais, Lusignan, 1999), l’immagine di Giovanna, al di là del binarismo, al di là di ogni codice, rimane in una sospensione infinita, indicibilmente tra maschile e femminile, là dove il femminile è in costante contraddizione con il maschile e che tuttavia, pur non integrandosi con quello, apre a un vuoto creando un terzo: pura immagine.

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Notes

1 In questa sede, non consideriamo il linguaggio nella sua distinzione rispetto alla lingua – distinzione, tra langue e langage, che Godard opera solo a partire dalla fine del primo decennio del ventunesimo secolo. Retour au texte

2 Sul raddoppiamento della parola morte, si veda anche Farocki, Silverman, 1998, p. 22. Retour au texte

3 Sulla lingua di Giovanna, si veda l’articolo Jeanne était-elle analphabète? che riprende il libro di Colette Beaune, Jeanne d’Arc, vérités et légendes: https://www.histoire-et-civilisations.com/thematiques/moyen-age/jeanne-darc-etait-elle-analphabete-80193.php. Retour au texte

4 Jean-Louis Leutrat mostra come le lacrime siano un soggetto eminentemente cinematografico: “Mi sembra che le lacrime siano un soggetto eminentemente cinematografico, per i processi con cui appaiono e per il modo in cui percorrono la superficie della pelle. Nella pittura e nella fotografia, le lacrime sono cristallizzate, come perle. In una famosa fotografia, Man Ray ritrae una lacrima, illustrando anche un vecchio confronto. Il cinema, invece, ritrae le lacrime che appaiono nell’angolo dell’occhio e poi rotolano via, lasciando una scia umida, e si può ripetere senza limiti” (Leutrat, 1996, trad. mia). Retour au texte

5 Facendo riferimento all’ultima sequenza di La Passion de Jeanne d’Arc di Carl Dreyer, ossia al momento in cui Giovanna viene giustiziata sul rogo, Hervé Dumont afferma: “La carnevalesca piazza del mercato dove le immagini di saltimbanchi, contorsionisti, culs-de-jatte, scagnozzi e animali contrastano con quelle del martirio di Giovanna e di un volo di colombe nel cielo, fino a quando la macchina da presa si capovolge, mostrando opportunamente il mondo alla rovescia” (Dumont, 2012, p. 47, trad. mia). Retour au texte

6 Sul femminile come pura apparenza sarebbe interessante un confronto con l’opera di Carmelo Bene (si veda Di Vita, 2019), laddove, come dichiara in un’intervista, la donna deve rimanere assenza; secondo Bene, è assente quanto Dio, e, precisa, che quando parla di Dio, parla della fine dell’io. Retour au texte

7 Le riflessioni di Agamben, che troviamo in un saggio dedicato alla Nudità, sono cruciali per concepire un nichilismo del femminile per immagini: “Si potrebbe definire ‘nichilismo della bellezza’ questo atteggiamento, comune a molte belle donne, che consiste nel ridurre la propria bellezza a pura apparenza, e nell’esibire poi, con una sorta di smagata tristezza, questa apparenza, smentendo ostinatamente ogni idea che la bellezza possa significare qualcos’altro che se stessa. Ma è proprio l’assenza di illusioni su se stessa, la nudità senza veli che la bellezza consegue in questo modo, a fornirle la sua più temibile attrattiva. Questo disincanto della bellezza, questo speciale nichilismo raggiunge il suo stadio estremo nelle mannequin e nelle modelle, che imparano innanzitutto ad annullare nel loro volto ogni espressione, in modo che esso diventa puro valore di esposizione e acquista, per questo, un fascino particolare” (Agamben, 2009, p. 124). Retour au texte

8 Sulla “funzione guerriera” nel pensiero di Putino, si veda Dini, 2014. Retour au texte

9 Nel saggio Giudicare la vita, Putino si sofferma sulla questione della “mimesi politica”, intendendola non come “identificazione coniata sull’’essere’ insieme”; piuttosto, attraverso una “trasparenza”; “è il ‘senza segreto’; ogni donna informa ‘spontaneamente’ della sua relazione tra donne, cioè della sua mimesi” (Putino, 2018, pp. 58-59). Retour au texte

10 Esercizi spirituali per giovani guerriere, incontri “nati per ottenere un’immersione totale di un vivere tra donne”, dedicati alla “funzione guerriera femminile” e organizzati, con altre, da Angela Putino a S. Marco di Castellabate, 30 maggio – giugno 1991. Retour au texte

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Citer cet article

Référence électronique

Irene Calabrò, « “Je ne sais ni A ni B” », K [En ligne], 11 | 2023, mis en ligne le 01 décembre 2023, consulté le 17 février 2025. URL : http://www.peren-revues.fr/revue-k/677

Auteur

Irene Calabrò

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