Di Sparta o Troia che la si voglia, Elena è una delle figure mitiche maggiormente convocate dall’immaginario occidentale, anche se spesso solo come icona di seduzione più che come “personaggia1’’ vera e propria. La sua grande fortuna, già in epoca classica, fu quella di essere riconosciuta come la più bella tra le mortali2, fama che le valse anche la sventura di diventare l’oggetto del contendere del conflitto più cruento dell’antichità. In suo nome furono radunati gli eserciti e venne falciata un’intera civiltà e, per i millenni a venire, il suo sarebbe rimasto “il viso che fece partire mille navi3”.
Il mito di questa donna e della sua folgorante bellezza era, ed è tuttora, talmente potente da aver attraversato i secoli nonostante le principali fonti greche che la vedevano protagonista siano andate per lo più perdute4 e la sua presenza, nei poemi omerici, non sia certo di spicco5. Inoltre, come sottolineava già Backès, la letteratura non ha riservato grande spazio al suo mito6. Nondimeno, Elena “per la quantità di opere letterarie e artistiche dedicate alle sue vicende, per i culti che le venivano professati, rappresenta un vero e proprio unicum nella storia della cultura occidentale. Essa infatti è venuta a identificarsi, nel nostro immaginario, con l’“eros” (Donadi, 2022, p. 7). In questo senso potremmo persino sostenere che la bellezza di Elena, minacciosa e perturbante già per il mondo antico in quanto capace di offuscare la mente degli uomini, abbia finito per irretire la sua stessa portatrice in una funzione simbolica che poco lascia intravedere dell’interiorità del personaggio.
L’assenza di profondità drammatica di Elena, già ampiamente riconosciuta dalla critica, ha fatto sì che la sua figura conservasse un’aura indecifrabile e che si prestasse particolarmente a riflessioni concernenti la moralità individuale, rimanendo tuttavia un’incarnazione del pensiero altrui più che manifestazione di un’essenza propria. A ben vedere, Elena è un nome che assume in sé tutte le sfaccettature stereotipate della femminilità che l’intelletto maschile è stato in grado di concepire. Da cagna traditrice a casta madonna, la bellezza della Tindaride di volta in volta viene inserita in una diversa cornice, a seconda dello sguardo che la racconta, eppure nessuno sembra mai riuscire a coglierne davvero la complessità. A questo proposito, e facendo eco a quanto sostenuto da Hélène Cixous in merito alla Gorgone Medusa, si potrebbe affermare che, in barba alla sua notorietà, Elena sia restata un continente nero inesplorato7. La diffidenza verso il femminile percepito come minaccia ha reso inafferrabile una creatura enigmatica come la regina di Sparta che, non a caso, trova nel distacco la massima espressione della sua essenza. Se già nella letteratura classica questo aspetto pare essere una costante delle apparizioni del personaggio nelle varie opere che la interpellano, col trascorrere dei secoli la tendenza non è cambiata8. In tempi recenti, questo aspetto della personalità di Elena è stato persino messo in relazione con la sintomatologia propria dei disturbi afferenti allo Spettro Autistico9. Senza entrare nel merito della questione, è interessante notare come la personalità di Elena e, più in generale, le sue ragioni, siano restate un rompicapo per gli artisti che si sono accostati a lei. La bellezza che ha messo in ginocchio il mondo antico, nella sua forza divorante, pare dunque aver avuto lo stesso effetto sulla sua portatrice, alla quale la tradizione riserva uno sguardo contemplativo più che indagatore, come se qualunque altro attributo del personaggio fosse irrilevante a fronte di tanta grazia (e grazie). Nella sua dimensione interiore, Elena perdura così come figura enigmatica, quasi vacua; il suo mistero resta tale probabilmente perché, “concepita in un’epoca in cui bene e male non erano ancora percepiti come unità distinte, Elena abbraccia entrambi” (Hughes 2007, p.35). Impenetrabile come unità ricomposta, la nostra eroina subisce di conseguenza uno sdoppiamento d’anima nella mitopoiesi post-arcaica, cosicché, come riassume Margherita Rubino:
Due sono le storie di Elena, e sono opposte. La prima fa capo a Omero ed Eschilo, la tramanda bella come nessuna, adultera, distruttiva. Seguirne le sorti equivale a tracciare la storia di tremila anni di civiltà e letteratura. La seconda tiene ferma la bellezza ma nega che Elena di Sparta sia mai stata a Troia, trasportata prima in Egitto o in altro luogo esotico, mentre i Greci assediavano la città per un eidolon fatto di aria10.
Sappiamo come da Stesicoro in poi, lungo la cosiddetta corrente innocentista, Elena abbia intrapreso un percorso di redenzione basato sostanzialmente su un’assoluzione per non aver commesso il fatto, per non aver davvero tradito il marito – secondo la teoria dell’εἴδωλον. A ben vedere, la variante egizia rappresenta, in alternativa alla voce colpevolista, una sorta di ridimensionamento dell’immagine della regina greca, che viene spogliata dalla sua essenza seduttiva/erotica per essere fasciata dalle più rassicuranti vesti dell’abnegazione e della moderazione. Ne consegue che l’innocenza di Elena dipenda dalla falsità delle accuse a lei rivolte e non da una vera e propria excusatio.
In linea generale sembrerebbe che alla più bella del mondo sia concessa la parola solo per smentire la propria fama di donna lasciva o, in alternativa, per scaricare le proprie responsabilità su altri11. In un certo senso, pare che la mitopoiesi riguardante Elena abbia risentito del più classico dei pregiudizi sessisti, ovvero della convinzione che tanto più una donna sia bella, tanto meno sia dotata di eloquenza. Così è avvenuto che la donna più discussa – per non dire chiacchierata –, di tutta la Grecia, accusata di essere responsabile di dieci anni di massacri, criticata, insultata e maledetta, non abbia mai avuto niente di interessante da dire, niente di particolarmente sagace o profondo. Le sue ragioni sono restate taciute.
Sull’idea che a tanta bellezza non si possa accompagnare un fine intelletto pare insistere, in tempi relativamente recenti, la pièce di Jean Giraudoux La guerra di Troia non si farà12, che porta in scena una Elena volubile e superficiale, che esordisce qualificandosi da sola con un “come sono sciocca!” (Giraudoux, 1982, p. 505, trad. mia), al quale si aggiunge, poco più avanti, un “non sono dotata” (ib.). L’impressione che si ricava dal ritratto giralducien è che la donna sia incapace sia di esprimersi sensatamente sia di ragionare logicamente. Confusa, spesso in contraddizione, Elena è un oggetto che vive nelle formulazioni altrui, una presenza verbale alla quale è concesso di esistere come oggetto del discorso degli altri13 personaggi. Una scelta di questo tipo finisce inevitabilmente, a parer nostro, per privare il personaggio di una propria personalità, ribadendone l’impalpabilità.
Il Novecento, pur non mostrandosi particolarmente disposto a intendere le ragioni di Elena, le offre finalmente un ruolo di spessore nel poemetto eponimo di Ghiannis Ritsos, il celebre poeta greco che ha fatto del mito un punto di riferimento della sua produzione. Il monologo lirico di cui la nostra eroina è protagonista lascia intravedere la dimensione interiore del personaggio, il cui carattere sembra finalmente trovare una consistenza. Tuttavia non vi è contraddizione con quanto affermato in precedenza a proposito del pregiudizio di genere: per poter dire la sua, infatti, la bellissima figlia di Zeus ha dovuto aspettare di non esserlo più. Il testo di Ritsos, composto nel 1970, concede infatti la parola a una Elena che non detiene più lo scettro di più bella del mondo. Sfiorita, sbattuta, quasi scomposta, la regina di Sparta è ormai invecchiata, trasfigurata, come confessa lei stessa:
Non tingo più i capelli.
Grosse verruche mi sono spuntate sul viso. Grossi peli intorno alla bocca – li tocco; non mi guardo allo specchio – peli ispidi, lunghi, – come se qualcun altro si fosse installato dentro di me,
un uomo sfrontato, malevolo, la cui barba
spunta dalla mia pelle. Lo lascio stare; – cos’ altro? –
temo che se lo cacciassi mi trascinerebbe con sé.14
Nella riscrittura di Ritsos, il distacco esibito dalla protagonista pare interporsi tra se stessa e la vita che ha vissuto. Adesso che non si preoccupa più di essere bella, Elena pare aver raggiunto la maturità dello spirito, procedendo a una rielaborazione lucida e spoetizzata del proprio passato. Questa Elena futura, tuttavia, non sembra in grado di sciogliere la curiosità circa la questione più spinosa, quella all’origine della spedizione contro Troia: la relazione con Paride e il suo coinvolgimento nella vicenda. L’interesse per il triangolo amoroso che è all’origine del tragico declino troiano e di cui restano pochi e frammentari testimoni, è attestato già nel mondo antico, anche perché, come ricorda Ieranò:
Nessun autore greco ci ha raccontato nel dettaglio come Paride ha sedotto Elena. Forse se ne parlava in qualche testo perduto, ma in quelli che ci sono rimasti la scena è descritta in modo molto sbrigativo: Menelao se n’è andato a Creta, la moglie è rimasta nel palazzo in balia del seduttore troiano, il misfatto amoroso si compie con la complicità di Afrodite. In età romana, però, la storia si arricchisce di molti particolari. Soprattutto grazie a un poema di Ovidio, le Eroiadi, una raccolta di lettere immaginarie che alcune eroine scrivono agli amanti.15
Tra le lettere in questione, vi sono quelle di Elena e Paride, il cui amore viene presentato nel loro primo scambio epistolare. Sapere con quali parole Paride abbia convinto la spartana a tradire il marito rappresenta di certo una delle grandi curiosità del pubblico di tutti i tempi. E, per convesso, un altro interrogativo pare porsi: che cosa mai avrà detto Menelao alla moglie una volta trovatosi faccia a faccia con lei? I regnanti riuniti dopo la guerra, come sappiamo, sono stati ritratti in diverse opere, dall’Odissea fino all’ Elena egizia di Hofmannsthal, sempre in frangenti temporali distanti dalla guerra. Quali parole si siano scambiati i due coniugi al primo incontro dopo dieci anni di separazione, non ci è mai stato dato saperlo. Almeno non fino a tempi recentissimi, quando a soddisfare questa curiosità è intervenuto Simon Abkarian con la sua Hélène après la chute.
Attore, regista e drammaturgo, l’artista franco-armeno porta in scena nel novembre 202316 la sua versione dell’atteso confronto tra marito e moglie, situandolo nel momento immediatamente successivo della presa di Troia. La pièce, dalla lunga gestazione, viene presentata per la prima volta il 15 luglio 2021 al Festival d’Avignone, dove ne viene data lettura di un estratto, trasmesso in seguito su Radio France, nella rubrica di France Culture. Insignito da pochi mesi del titolo di commandeur de l’ordre des Arts et des Lettres dal Ministero della Cultura francese, in quell’occasione, Abkarian rilasciò la seguente dichiarazione:
Ciò che mi ha sempre emozionato nelle tragedie sono quei momenti fatidici in cui il tempo si arresta e in cui i personaggi che dovrebbero reciprocamente appartenersi non sanno più riconoscersi.
Non sanno più credere né al ritorno né alla resurrezione dell’altro. A dispetto degli occhi e delle orecchie, negano l’evidenza persino della presenza e esigono altro rispetto a un corpo. Quello che vogliono è un ricordo venuto dal fondo delle loro memorie, un racconto che sapesse sciogliere i dubbi più coriacei, un segreto che li legasse nella notte dei loro abbracci perduti.
È per questa tanto temuta rimpatriata che ho scritto questa pièce. È per quel momento fatidico in cui due anime tremanti sono consegnate l’una all’altra. Un pasto nel quale non c’è niente da vincere né da perdere. In questa notte che non finisce di inghiottirli, lei e lui si misurano come una lupa col suo lupo. Non si credono più, non si riconoscono più. Eppure un tempo appartennero l’uno e altra alla stessa foresta, alla stessa luna, alla stessa notte.17
Il lavoro su Elena ha dovuto attendere un paio d’anni prima di essere messo in scena dal suo autore, al contempo impegnato a gestire la lunga e intensa tournée dell’Électre des bas-fonds18, pièce il cui successo viene coronato dal trionfo alla Nuit des Molières del 202019.
L’interesse di Abkarian per la casata spartana, ad ogni modo, risale ancora a più addietro: è infatti il 2012 quando viene pubblicato il suo primo testo teatrale e si tratta di una Rapsodia di Menelao20 che fa da preludio all’atteso incontro tra i coniugi proposto in Elena dopo la caduta21. A una rapsodia che è lo struggente monologo di un uomo innamorato ferito a morte, fa seguito – neanche a farlo apposta, una decina di anni dopo – il dialogo che lo contrappone alla donna responsabile di tanta sofferenza e segnando le sorti di schiere di valorosi combattenti, greci e troiani. Maestro dell’introspezione, Abkarian ancora una volta dimostra di saper sfruttare i vuoti del mito per riempirli con la propria abilità ermeneutica. Ritagliando quel fatidico momento in cui i poli dello scontro si riuniscono dopo tanta attesa, il drammaturgo francese scrive una pagina del mito che nessuno aveva mai scritto ma che chiunque avrebbe voluto leggere (o ascoltare, a seconda dell’epoca).
I bastioni cedono, le fiamme avvolgono la città: Troia è caduta, la razzia è cominciata. Dopo dieci anni di assedio, gli Achei hanno avuto la meglio e ormai non resta loro che spartirsi il bottino e le donne. Menelao fa irruzione nelle stanze reali e raggiunge la camera nuziale del principe troiano in attesa che Elena venga portata al suo cospetto. Come ricordavamo poc’anzi, non è la prima volta che la coppia reale si trova riunita in una narrazione letteraria, ma in nessun’altra occasione il confronto tra i due è stato cronologicamente situato così in prossimità della distruzione di Troia: la città infatti sta ancora bruciando quando la coppia reale spartana si riunisce. Il confronto tra i due, inoltre, non è mai stato viscerale come in questa occasione. In quest’ottica, Abkarian ripropone, in sintonia con la Rapsodie, un protagonista maschile molto distante dall’immagine classica del re coriaceo intento a ristabilire il proprio onore. Il suo Menelao è un uomo distrutto dal dolore eppure ancora capace di provare amore per la donna che tanto lo ha umiliato. Un uomo che un tempo era tutto feste e banchetti e che è stato costretto a portare un’armatura che non avrebbe mai voluto indossare. Un uomo dal cuore buono che è stato risucchiato dagli imperativi del trono e che, perduto l’amore, si è lasciato trascinare in una strage che grava su di lui come un fardello. Di un’altra pasta rispetto al fratello Agamennone, Menelao è un uomo governato dai propri sentimenti, che cerca un faccia a faccia sincero con la moglie ritrovata dopo dieci anni. I due22 protagonisti di Elena dopo la caduta, spogliati progressivamente dall’impaccio dell’etichetta reale, si misurano in uno scambio serrato che contrappone due visioni della vita e dell’amore e che non risparmia nessun registro. Un diverbio autentico in atto unico che, da un lato, ricostruisce le trame di un amore perduto e, dall’altro, fornisce (finalmente!) le ragioni che hanno portato Elena a lasciare il marito per seguire Paride a Troia.
Il focus stretto voluto dall’autore fa sì che l’apologia di Elena, per una volta, sia la diretta interessata a pronunciarla, evitando di fare ricorso a smentite o ad edulcorazioni. La donna è pienamente consapevole di essere giudicata colpevole ed è pronta ad accettare il destino che Menelao vorrà riservarle, senza nemmeno tentare di ammansirlo, come è evidente in questo passaggio:
MENELAO. Tranquillizzati, la fine del tuo calvario è vicina.
ELENA. Che arrivi alla svelta e mi liberi da questa angoscia.
MENELAO. Sediamoci. Parliamo.
ELENA. Nella tua lingua “parlare” vuol dire tutto salvo parlare.
MENELAO. Parlare, è guarire.
ELENA. Non c’è nessun “guarire” per il nostro male.
MENELAO. C’è il perdono.
ELENA. Il perdono?
MENELAO. Perché ridi?
ELENA. Non mi pentirò di un crimine che non ho commesso. Nessun rimpianto verrà a insozzare l’ultimo respiro della mia vita. Mai, non chiederò mai scusa né a te né a nessun altro Greco.23
Questa Elena, ha indubbiamente del carattere. Siamo di fronte a una rappresentazione davvero distante da quelle a cui la tradizione ci ha abituati. L’autoconsapevolezza, la prontezza nella risposta, l’atteggiamento irriverente accompagnato a un certo acume, danno forma a un personaggio solido, che ha una propria integrità. Fin dalle prime pagine, infatti, la regina mostra la propria tempra incalzando Menelao al fine di scoprire quale greco l’abbia avuta in sorte nella spartizione delle donne troiane e non si mostra per nulla remissiva, come mostra il seguente passaggio:
ELENA. […] O forse finirò a quattro zampe sotto il ventre di un fante qualunque?
MENELAO. Non parlare così, rispetta almeno la maestà del tuo rango.
ELENA. Rispettare cosa? Che rango? Quale maestà? Non ho forse perduto tutto, non sono ridotta a ciò che vi è di peggio?
MENELAO. Sei ancora una regina.
ELENA. Una regina sì, ma intrappolata nel corpo di una puttana.
MENELAO. Smettila.
ELENA. Hai ragione, perché proseguire e a quale scopo? Una prigioniera deve stare al suo posto. Bisogna che stia zitta e subisca. È inutile parlare, sì. Dopo tante sventure, cosa possono offrirmi le parole? Un’arringa, per quanto sia giusta, non può trasformare un sasso in spirito. Bisogna dunque che stia zitta, abbandoni questa vita, mi ingozzi di silenzio e deperisca sotto il velo della sottomissione.24
Mantenendo un atteggiamento al limite del provocatorio ed esibendo una sorta di audacia sovversiva, la protagonista abkariana dimostra di non essere disposta a scendere a patti con la tradizione nemmeno per aver salva la vita. Non è la prima volta, d’altronde, che Abkarian porta in scena donne (mitiche o meno) che rifiutano di essere sottomesse. Già con Elettra dei bassifondi, infatti, l’autore aveva strappato un plauso alla critica femminista – e alla critica in generale – per la dignità di parola resa alle figure femminili e per l’attitudine non remissiva delle “personagge” (da Elettra a Clitemnestra, da Crisotemi al coro di prostitute troiane25). In quello stesso testo, anche per via dei legami di parentela26 che intercorrono con gli Atridi, è possibile reperire diversi riferimenti a Elena che sembrano contenere in nuce quelle che saranno le caratteristiche del personaggio che emergono in Hélène après la chute. Presente solo in absentia, la sorella di Clitemnestra, votata all’amore quanto la gemella all’odio, è oggetto di dibattito tra le prigioniere troiane costrette a prostituirsi nei bassifondi di Argo:
COREUTA NOVE. Ringrazia Elena, è a lei che dobbiamo l’esser schiave.
[…]
COREUTA DIECI. Che tu sia maledetta Elena.27
[…]
CORIFEA. Che la terra vi inghiotta tutte!
Perché insultare Elena?
Non ha forse scelto da sé e per sé?
Non ha forse scavalcato il recinto della tradizione?
Non ha forse sfidato i limiti tracciati dalla mano dell’uomo?
Non ha forse strappato il picchetto della sottomissione?
Non l’ha forse spinto fino nell’ano di suo marito Menelao?
Non cercate oltre.
A causare la spedizione greca fu l’orgoglio perduto di un coglione al quale avrebbero sottratto l’onore.
COREUTA CINQUE. Come se l’onore di un uomo fosse annidato nel sesso delle donne.28
La bellissima spartana, nelle parole della coreuta prise de guerre troiana, acquisisce un’aura quasi eversiva. Su questo tratteggio Abkarian sviluppa il ritratto della regina après la chute: Elena è una donna che, come viene ribadito poche righe più avanti, “ha spiegato le ali per un colpo di fulmine” (ib.), che ha compiuto una scelta assecondando il proprio desiderio e non curandosi delle limitazioni imposte dalla tradizione. Questa scelta, la regina abkariana è pronta non solo a difenderla, ma anche a spiegarla:
ELENA. Gli dèi non hanno nulla a che vedere con la nostra storia. Avevo voglia di vita, è tutto.
MENELAO. E io fui d’ostacolo alla tua felicità.
ELENA. Ne avevo abbastanza di danzare sotto il grande capitello del mondo. Non volevo più girare attorno all’albero maestro.
Credi che avrei trottato il resto della mia vita in piedi sulle zampe posteriori come una bestia da circo?
Vivere una vita da principessa coronata d’oro e piume, condannata a danzare sotto minaccia della frusta?
Girare intorno in un anfratto di vita? Avevo voglia di spazio.
Avevo bisogno del vasto, dell’infinito.29
Le ragioni che hanno portato la regina a tradire il marito emergono in maniera dirompente. A quanto pare, Elena era una donna infelice a Sparta. Bellissima e votata al piacere, aveva voglia di godere della vita e dell’amore di Menelao – che era stata lei stessa a scegliere30; mentre invece si trovava imprigionata in un ruolo e in convenzioni sociali che le impedivano di sentirsi viva. Una bestia ammaestrata a rimanere in posa al comando del re, seppure questi fosse assente e sempre impegnato in questioni più importanti, questioni di Stato; così si sentiva Elena, per la quale tutto è invece questione di passione, di ardore. Il grigiore della vita coniugale reale la soffocava ormai da tempo quando Paride giunse a Sparta. La domanda che tutti vorrebbero rivolgerle, ovvero cosa l’abbia sedotta del principe troiano, cosa l’abbia convinta a fuggire con lui, è il marito stesso a formularla:
MENELAO. Furono l’oro, il fasto del Troiano a farti cedere? Furono il suo corpo, la sua bellezza?
ELENA. Il suo sorriso.
MENELAO. Il suo sorriso?
ELENA. Il suo sorriso.31
[…]
MENELAO. Perché il suo sorriso?
ELENA. Vuoi davvero saperlo?
MENELAO. Tocca a te adesso torcermi il cuore.
ELENA. Molto bene. Molto bene.
Elena beve
Lui amava chiudersi con me in quella camera in cui tutto si dà e tutto si prende.
Non ci poteva credere che Afrodite avesse mantenuto la sua promessa.
Dalla testa ai piedi, Elena era sua.32
La tirade della regina prosegue con una lunga descrizione, non troppo velatamente erotica, dell’intesa stabilitasi fin da subito con Paride. Menelao ascolta soffrendo terribilmente, ma allo stesso tempo pare comprendere le ragioni della moglie. La sua rabbia tenta una risalita dopo aver appreso i dettagli del tradimento, ma infine la sua indole lascia prevalere un sentimento che, seppur dilaniato, ancora resiste. Anche le posizioni di Elena paiono farsi meno aspre con l’incedere dello scambio, come se il rancore si consumasse man mano che le ragioni dell’uno e dell’altra affiorano. Quelle di Menelao sono sempre state note, quelle di Elena ci giungono per la prima volta e rivelano una verità troppo a lungo rimasta sotto la lingua dei cantori. L’immagine che si viene delineando è quella di una donna che rifiuta l’infelicità al prezzo dell’infamia e che rivendica con forza il proprio diritto alla felicità e all’appagamento (sessuale). La donna più bella del mondo rifiuta di vivere come una bella statuina abbandonata su uno scaffale e spolverata solo quando arrivano ospiti a cena. Il sorriso di Paride, la sua gioia di vivere, hanno fatto breccia nel cuore della più desiderabile delle donne, che chiedeva di essere amata.
La protagonista abkariana, scevra da qualunque attitudine frivola, è una donna che sa ciò che vuole e che non è disposta a scendere a patti con la mediocrità dell’esistenza. Contravvenendo inoltre allo stereotipo di genere che la vorrebbe sciocca in quanto bella (nonché bionda), dimostra di avere un certo acume rivelando un’altra verità scomoda: “la causa di questa guerra, era il fasto dei Troiani. / E quando dico fasto, non parlo di oro o di argento ma di un sapere millenario che [voi Achei] non comprenderete mai” (Abkarian, 2023, p. 34, trad. mia). La sete d’oro e gloria di Agamennone, per stessa ammissione del fratello, sono state alla base della spedizione contro Troia, seppur celebrata come atto dovuto per ristabilire l’onore del re tradito o le leggi dell’ospitalità. Pur accettando le accuse e i cori d’insulto dei guerrieri greci, Elena sa bene di essere stata solo un pretesto perché i condottieri potessero dar sfogo alla loro barbarie e vede chiaramente le vere motivazioni che hanno spinto i Greci in Anatolia.
Va notato inoltre che, interpellando il marito circa le sorti delle nobili troiane, la spartana pare sottolineare che sia un destino condiviso dall’intero genere femminile quello di venire sacrificate sull’altare dell’ambizione maschile. Particolarmente significativo, in tal senso, l’interesse verso Polissena, la più giovane delle principesse troiane, destinata, per volere di Pirro33, a essere offerta al deceduto Achille, che di lei si era invaghito. “Donare una vergine a un morto? Chi potrebbe mai immaginare un simile rituale? Chi? Quale mente sregolata immaginerebbe un simile matrimonio? Perché?” – domanda Elena. E ancora, rivolgendosi a Menelao:
ELENA. Nessuno ha preso le sue difese?
Nessuno a interporsi tra un morto e una ragazzina?
Povera Ecuba, povera Troia.
Tuo fratello infanticida non ha sicuramente fatto niente per impedirlo.
Ma tu, hai perorato in suo favore?
Dimmi di sì e riconquista un po’ il cuore di Elena.
So che in te resta ancora della bontà.
Non sei come tuo fratello. Salva Polissena e salva te stesso.34
La vicenda di Polissena coinvolge Elena in prima persona, dal momento che, secondo quanto riferito dallo stesso Menelao, Pirro esige che sia la regina spartana a preparare la principessa troiana per le sue nozze nere. Nel netto rifiuto della bellissima regina – “Preferisco morire” afferma, “Mai. Non lo farò” (Abkarian 2023, p. 30, trad. mia) – è possibile reperire non solo una componente di umanità, ma anche l’urgenza di farsi portatrice dell’istanza di un intero genere, quello femminile, come ben esemplifica il seguente passaggio:
ELENA. Povera Polissena, raggiungi Ifigenia morta sull’altare della guerra.
Così il ciclo di questa carneficina si chiude come era cominciato, col sacrificio di una ragazzina.
MENELAO. È il prologo del tuo castigo.
ELENA. Quando sacrificherete qualcos’altro al posto delle nostre vite?
Le vostre greggi sono a tal punto esangui?
Non c’è un toro che possa essere l’oggetto della vostra isteria votiva?
E tu mi chiedi perché me ne sono andata?
Ma che ci parlo a fare con te?
È a tuo fratello Agamennone, il distruttore di città, che dovrei parlare.
Dammi da bere. Il prologo del mio castigo?
E tu che cosa sei per Elena, l’epilogo?35
Nel testo abkariano, la splendida donna contesa tra due mondi mostra uno spessore e una dignità che non le erano mai state riconosciute in precedenza. Spesso sospettata di essere una manipolatrice, adombrata dall’accusa di essere priva di moralità, quando non lasciva, la personalità della più bella del mondo non era mai stata delineata in modo così netto. Nel prestarle giudizio oltre che bellezza, Abkarian compie un gesto coraggioso e si conferma dotato di una sensibilità fort féministe che, ancora una volta, gli consente di dare voce a donne troppo a lungo silenziate dal bavaglio della tradizione patriarcale.