E, anche in questo caso, si è dovuta prendere una decisione. Decidere, per esempio, di accettare che la vita di Melissa la morta possa essere reinventata solo attraverso frammenti di esistenza presi da altre mogli di tiranni; d’arricchire consapevolmente la personalità di Teano accreditando alla sua riflessione tutto quello che, nei circoli pitagorici, sembra si sia dibattuto tra donne, e di cui testimonia una ricca corrispondenza […]; di suscitare dietro Aspasia la schiera di belle Ioniche inclini all’amore e al potere, e dietro quella che si chiamerà Lisimaca (poiché questo è il nome della prima sacerdotessa di Atena Poliade di cui si ha notizia) la lunga lista di generazioni delle sacerdotesse della dea […] Ciò significa che ciascuna di [queste] donne è una e molteplice, contemporaneamente lei stessa e molte altre, illustri o a noi meno note, ma che le assomigliano sempre in qualche modo. […] Tutto sommato, c’è molto da imparare da queste stesse manipolazioni, o dalla loro necessità.
Nicole Loraux, Grecia al femminile
Mi chiamo Asclepio, e per così dire, ho avuto due nascite; una a Megara, in Grecia, che risale fino alla fondazione di Atene da parte di Cecrope; e un’altra, appena trentaquattro anni fa, tra i moderni. Se si vuole comprendere, la mia prima configurazione non è stata terrestre; sono nato nel mondo che Platone chiama mondo di nozioni o di forme, anteriore a questo; sono stato una categoria o un’essenza di ciò che ero destinato a essere, e, a causa di un mistero indecifrabile, mi sono incarnato sulla terra quando il mio lignaggio non esisteva più. In altri termini: sono una forma antica giunta alla modernità dei nostri tempi.
Miguel Espinosa, Asclepio
Sono Elena di Sparta, che è una nuvola.
Curiosa maniera di cominciare, lo so, ma ascoltate la mia storia.
Sono nata a Sparta, la grande città della Laconia, nel palazzo del re Tindaro, mio padre. Mi ricordo poco di mia madre; non mi resta nella memoria che la sua grandissima bellezza, che tuttavia io ho superato. Era bionda, e il suo collo era lungo e sottile, bianco come un cigno.
Mio padre non mi amava. Molti anni dopo, ho saputo che non era mio padre: mia madre era stata amata da Zeus, e io sono nata dall’unione di un dio e di una mortale. Ero quasi una divinità; questo quasi significa tutto.
Sono cresciuta nell’appartamento delle donne, tra le domestiche e le filatrici di lana. Per sette anni ho conosciuto il mondo esterno solo attraverso il caldo e il freddo che filtravano da sotto le tende, il rumore della pioggia in autunno e i raggi del sole illuminavano le stanze, mescolando le loro dita d’oro a quelle dei tessitori.
La mia infanzia è stata morbida e unita come un unico filo di lana. Pensavo che un giorno il mondo esterno mi avrebbe portato via dalla mia infanzia con le sue mani d’oro, un giorno molto lontano in cui sarei stata sposata.
Sono stata portata via, ma non ho mai visto le mani d’oro. Ho visto invece il bronzo delle armi, la criniera dei cavalli sudati, la paura e le urla. Sono stata issata su una sella, il cavallo è partito al galoppo… e allora, all’apice della fuga, ho sentito uno scoppio di risa. Mi sono voltata.
Ero sul cavallo di un uomo che rideva. Non avevo mai visto un uomo ed ero così piccola, io, così piccola, come ho potuto pensare che questo uomo fosse giovane? Tuttavia, mi ricordo chiaramente d’aver pensato un giovane uomo, e ho pensato è bello. E questo bel giovane uomo rideva, rideva, come se non avesse ucciso nessuno, come se non avesse rapito nessuno, e quando lo sentivo ridere, anche io credevo che nessuno fosse morto, e che semplicemente io fossi partita per un viaggio. Un suo amico cavalcava accanto a lui, anche lui era giovane, meno bello, sempre bello ma con dei tratti più seri, si capiva subito che era stato il suo amico a insegnargli a ridere.
– Chi sei tu e dove andiamo? Ho domandato.
Ero audace a quell’età, a causa dell’ignoranza. Lui è scoppiato a ridere di nuovo.
– Sono Teseo, eroe d’Atene, e il mio amico si chiama Piritoo. Ti rapisco perché sono il più grande degli eroi, e tu, quando sarai grande, sarai la più bella delle donne, perciò dovrai diventare mia moglie.
Non ero molto sicura del suo ragionamento, ma ero una bambina educata e ho aspettato, senza dire nulla, l’arrivo dei miei fratelli. Castore e Polluce mi hanno cercato dappertutto; quando alla fine mi hanno trovata e riportata al palazzo, ero diventata una giovane ragazza.
Bisognava che mi sposassi e mio padre, che non era mio padre, prese la cosa molto seriamente. Fece venire a Sparta i re e i principi di tutta la Grecia. Accorsero tutti, da quanto fosse grande la fama della mia bellezza. Ma tra tutti questi eroi, non riuscivo a vedere un solo uomo. I miei pretendenti suonavano la lira e cantavano il loro amore al sorgere del sole. Nel pomeriggio, si sfidavano alla corsa, alla lotta, al tiro con l’arco. La sera, parlavano di politica agli angoli della sala del banchetto, proponendo alleanze e trattati. La notte, li vedevo, senza che loro mi vedessero, seguire le domestiche dalle larghe cinture e afferarle nell’ombra. Ma dove sono gli eroi di un tempo?
Alla fine della primavera, sono diventata la moglie di Menelao.
Il giorno del mio matrimonio, indosso un abito color zafferano e sulla tempia una piuma di colomba. Quanto entro nel megaron, la grande sala del palazzo, piomba un grande silenzio. Poi mormorii. Mi sento ammirata, desiderata; so a che cosa assomiglio: a una statua.
Ho la pelle bianca come un marmo di Paro, bianca, ma non gessosa, no: morbida, viva come il marmo venato, brillante. I miei zigomi sono scolpiti secondo il profilo delle figlie dell’Asia, e quando cammino a testa scoperta, ho il portamento di una cariatide, sostengo sulla mia fronte un tempio invisibile. Ho lo sguardo brillante e tranquillo del mare sotto il sole. Ma nel mio tenero petto che tutti vogliono baciare, il mio cuore batte così forte che potrebbe spaccare le rocce.
Menelao, dunque. Alza gli occhi verso di me – timidamente. È biondo, bello, la bocca un po’ molle, ma le sopracciglia inquiete; ha paura della sua debolezza: sa che non è un eroe. Io, d’altro canto, so che non sono una statua. I nostri sguardi si incrociano. Quindi sarà lui mio marito, il mio sposo, il mio re. Sarò l’Ideale addomesticato al suo fianco.
Ha avuto subito paura. Sapeva di non essere all’altezza, e che in questo affare gli dèi avrebbero presto messo il loro lungo naso greco. E anche se l’avessi amato, non avrei potuto impedirlo. E anche se avessi avuto, oltre alla bellezza, la forza e il coraggio, non avrei potuto rispondere ad Afrodite il giorno in cui sarebbe discesa sulla terra per annunciarmi che il mio destino non mi avrebbe più riguardata.
Non credo proprio, riflettendoci, che lei abbia usato la parola destino. È troppo estraneo alle sue belle labbra che conoscono solo il fascino degli incontri, la vertigine delle coincidenze e il piacere delle casualità combinate.
Non mi ha spiegato niente, no, non sapevo nulla, non riuscivo a capire nulla. Ero sulle rive del fiume Eurota, tra la tenera erba, raccoglievo rose da intrecciare per creare una corona. Mi è apparsa in un bagliore d’oro e di colombe. L’ho riconosciuta immediatamente: Afrodite, la dea dell’amore, l’amica dei sorrisi, la Citerea col diadema. È arrivata all’improvviso come una disgrazia. Mi ha detto qualche cosa a proposito di una nuvola; ha schioccato le dita e le colombe, prendendo col becco i lati del mio vestito, mi hanno portata via per aria. Ho lasciato cadere dall’alto la mia corona di rose.
Sono atterrata su una riva sconosciuta. Le onde hanno bagnato i miei piedi nudi, avevo perduto i miei sandali attraversando una tempesta. La sabbia scottava. Ho camminato lungo il mare e sono arrivata alla porta di un palazzo. Ho domandato dove mi trovassi.
– Greca? Hanno chiesto le guardie sentendo la mia lingua.
Ho creduto che fossi arrivata in un territorio nemico, in guerra contro la Grecia. Non era così. Semplicemente ero lontana dal mio paese.
Le guardie mi hanno condotta presso il vecchio re. Ha uno sguardo dolce, parla la mia lingua. Mi ha detto che ero in Egitto. No, non potevo tornare a casa mia. Perché? Perché non si può disfare ciò che gli dèi hanno fatto. Perché? Non bisogna fare domande più grandi di sé.
Il re ha visto le lacrime nei miei occhi, e mi ha rivolto un sorriso pieno di bontà. Potevo restare. Non sarei né prigioniera, né schiava. Mi ha dato la sua parola, e sono rimasta.
Ho vissuto a lungo presso il palazzo del re Proteo, poiché era questo il nome del vecchio re. Mi chiamava sua figlia e io rispondevo mio padre. Ho cambiato costume e lingua. Ho intrecciato i miei capelli come le principesse d’Egitto, ho dipinto i miei occhi con il kohl e ho annodato sotto i miei seni un vestito stretto in mussolina. Ma io non sono cambiata.
Dopo molti anni, avrei perso il ricordo di Menelao. La sua bella bocca un po’ molle, i suoi capelli biondi che s’insinuano sul mio collo, non li ho amati, voglio dire che mi hanno commosso, hanno ammorbidito la mia fortezza interiore, ma non erano niente per me, solo pretesti per la nostalgia. Avrei anche dimenticato Ermione, la bambina nata da Menelao, mia figlia. Anche lei è un pretesto. Come lo straniero venuto dall’Asia, l’ospite troiano che si chiamava Paride e che mi guardava come se fosse abituato a baciarmi da molto tempo. Ospite di Menelao, come tanti altri, eppure era diverso, era venuto da più lontano, aveva portato più doni, ne aveva anche ricevuti di più. Era l’unico uomo che conoscessi che non giurava per Ares ma per Afrodite. Quando ci ripenso, credo che in realtà mi abbia guardata in modo molto ordinario.
Pretesti, pretesti, pretesti per la nostalgia del mio paese natale dove la terra si mescola con il cielo, quando appoggiavo la fronte sul davanzale, quando i raggi d’oro del sole tramontavano nel regno dei mortali. Non ho mai amato nessuno e, tuttavia, com’era grande l’amore che sentivo nel mio cuore! Ero stata fatta per vivere d’amore, e non ho trovato nessuno da amare. Tutti quelli che ho baciato, Menelao, Ermione, e pure il cavaliere ridente la cui sagoma sorge all’alba della mia memoria, non li ho amati, non ho mai amato abbastanza. So di essere ammirata, desiderata, sono una donna di valore, una donna per la quale si fa la guerra. Ma io non ho trovato niente di ideale in questo mondo. Avrei voluto essere il sogno di qualcuno.
Ogni mattina, esco dal palazzo e cammino sulla spiaggia. Instancabilmente, fino alla fine della giornata, guardo il mare.
Attendo una nave. Apparirà all’orizzonte, si avvicinerà il più possibile finché la sua chiglia non toccherà la sabbia ai miei piedi. Gli uomini dell’equipaggio parleranno greco, mi chiameranno con il mio nome, mi riconosceranno. Mi diranno che mi hanno cercata lungamente, perché sono attesa, perché sono amata. Mi diranno che c’è da qualche parte in Grecia una cosa o un essere che corrisponde al mio ideale, che la bellezza è di questo mondo, che in questo mondo c’è un’opera da compiere: un palazzo, un poema, un amore. Saranno felici di vedermi, diranno: È stata ritrovata. Chi? Elena di Sparta.
E un giorno, la nave appare all’orizzonte.
Gli uomini dell’equipaggio parlano greco. Saltano sulla spiaggia, appesantiti dalle loro corazze di bronzo. Si avvicinano. Mi chiedono:
– Che paese è questo, o straniera?
Rispondo che il paese si chiama Egitto, e che non sono una straniera. Sentendomi parlare greco, i loro volti si illuminano. Hanno combattuto tanti anni sotto le mura di Troia, e oggi che la guerra è finita, sperano solo una cosa: rientrare nelle loro case, vedere la Grecia.
– Una guerra, a Troia?
Dalla mia riva isolata, non ho sentito parlare di nulla. La mia ignoranza li stupisce. Ma come tutti i guerrieri e tutti i viaggiatori, bruciano dalla voglia di raccontare la loro storia, e allora la raccontano.
È stato a causa di Elena di Troia… Elena di Troia? Sì, quella donna, quella sgualdrina, quella cagna.
Ha lasciato suo marito e sua figlia, è fuggita da Sparta sulla nave di Paride, ospite di Menelao. I Greci li inseguirono fino a Troia, la città del Re Priamo al di là dei mari. Dieci anni di guerra, ve lo immaginate? Dieci anni ad attendere… (Non lo immagino: lo so. Ma naturalmente, rimango in silenzio).
Infine, Troia è caduta, i Greci sono vincitori. Ma Afrodite protegge Elena la maledetta, questo flagello dei Greci per cui sono morti tanti eroi: quando Menelao l’ha ritrovata, tremante come una colomba tra le rovine fumanti di Troia, ha alzato la spada per vendicare gli eroi… ma invece di ucciderla, l’ha presa tra le sue braccia. Le ha detto parole d’amore. Come se questa donna, questa sgualdrina, questa cagna meritasse l’amore. L’ha portata sulla sua nave, sono rientrati insieme a Sparta. Come se niente fosse. Come se non non esistessero, dieci anni. E adesso? Regnano. Sulla bellezza di Elena, si è già composto un poema che corre sull’immenso mare, e si chiama Iliade. È un poema immortale che dice la verità.
Ogni mattina esco dal palazzo, cammino sulla spiaggia, e instancabilmente, guardo il mare. Ignoro cosa attendo. I Greci sono venuti e non mi hanno riconosciuta. Sono venuti a dirmi che nessuno mi aveva cercata, perché nessuno aveva sentito la mia mancanza. Perché è sufficiente un doppio, una cosa – un’altra che prende il tuo posto. E se tornassi, ora, che farebbe Menelao di tutte le parole d’amore sussurrate all’orecchio del mio doppio? Cosa insegnerei a mia figlia? Che non ha senso cercare di vivere la propria vita?
E anche se tornassi, e se Menelao mi amasse, e se fossi per davvero la madre di mia figlia, la regina del mio paese… ci sarebbe sempre questo poema immortale che dice la verità, e contro il quale nessun mortale potrà fare niente.
Sono cambiata. Capisco ora che la guerra di Troia è finita, che non si riscrive la storia, anche quando è falsa, e che la poesia a volte ha l’ultima parola. Ma talvolta penso a quest’Elena di Troia che non è me, che abita nel mio palazzo, con mio marito, mia figlia, e che ha il mio volto. Per ottenere una tale somiglianza, cosa ha dimenticato? A quale paese natale ha rinunciato? Dev’essere nata nel paese delle nuvole, come tante creature che gli dèi si divertono a plasmare. E penso al suo esilio senza rabbia, senza odio, con simpatia. C’è da qualche parte sulla terra una nube strappata dal cielo e gettata sulla terra, chiamata Elena di Troia. Non siamo così diverse. Noi, donne, diventiamo cenere e polvere. Io, principessa scambiata per una nuvola, cammino ogni giorno lungo la spiaggia. Ora, e per l’eternità, sarò la nuvola, cioè il fantasma, l’ombra, tra visibile e invisibile. Sarò sulla terra senza esserci veramente: l’altra versione, l’altra verità, quella che viene ristabilita all’angolo di un asterisco senza mai fermare la corsa delle leggende. E chi saprà senza di me che Elena non è mai andata a Troia? Non ho diritto di cittadinanza nel grande poema dei mortali, sono la sola abitante del mio poema interiore. Sarò dimenticata. Elena di Sparta, la donna che non voleva vivere senza amore, si è trasformata in una nuvola.
Così finisce la storia di una donna e comincia la storia di Elena.
Sono una nuvola che è Elena di Troia. Curiosa maniera di cominciare, lo so, ma ascoltate la mia storia.
Conoscete Botticelli? Pensate alla nascita di Afrodite. La vedete uscire dal mare, nell’alba nebbiosa della sua conchiglia. Fuori dal guscio, posa un piede bianco, brillante sulla tenera erba. È nata.
Sono nata da un mare di nuvole. Sono uscita da una nuvola a forma di conchiglia, rosa a causa del sole al tramonto. Ho posato il mio piede bianco, brillante, su una pianura bagnata di rugiada, una pianura che non era altro che rugiada, biancore e brillantezza. Come conosco Botticelli? Andiamo, sono una nube, nuda, nata da un nubolo, sono immortale e conosco tutti i mormorii.
Ho guardato intorno a me, ho visto le onde a perdita d’occhio, la luce, lo spazio, il cielo senza la terra sotto di sé. Ero nella regione superiore delle nuvole, dove ci sono venti caldi e leggeri, dove cirri affusolati come pennelli dipingono un cielo dai colori effimeri.
Poi ho visto che ero nella mano di Zeus.
Zeus, l’assemblatore di nuvole, ha posato lo sguardo su di me e mi ha parlato con la sua voce ampia come un tuono.
– Benvenuta, Elena.
– Elena? Ho ripetuto. Chi è Elena?
È scoppiato a ridere.
– Elena è un sogno, un’idea, un poema.
L’ho guardato senza comprendere.
Ero appena nata.
– Cos’è un sogno? Ho domandato. Cos’è un’idea? Cos’è un poema?
Ha alzato un sopracciglio bluastro.
– Non bisogna porre questioni più grandi di sé.
Elena è un pretesto, l’ho capito subito. Zeus aveva toccato una nuvola con la divina punta del suo dito e io ne ero uscita armata della mia bellezza. Mi aveva fabbricata come i poeti fabbricano poemi e gli uomini le menzogne. Ero una creatura delle nuvole, una nube, e avevo la forma di una donna.
A dire il vero, non era solo la forma di una donna. Non ero stata creata come Pandora per tentare i mortali, non ero nata per popolare le fantasia. Non era la Donna. Ero la Forma, la Bellezza, l’Ideale. Ero colei che ricordava, con la semplice presenza, che la Donna è un’illusione, che ci sono solo donne tutte mortali, anche se tutti i mortali cercano l’eternità. E coloro che vedevano il mio volto tiravano sospiri di sollievo, pensavano: È ritrovata, l’eternità. Perché tutte le donne moriranno, ma non la bellezza, che è più immortale di tutte le belle. Tutte le fiamme si spegneranno, ma non i riflessi del tramonto sui miei occhi, perché sono nube e le nubi sono eterne. Una nube è vapore, le acque della terra sollevate nell’infinito del cielo, è il mare andato con il sole. La leggerezza della traccia. Niente marcherà il mio viso, né il tempo, né l’amore degli uomini. Sono un sogno, un ideale, un poema.
Zeus non mi aveva creata per sé stesso; ero per così dire una commissione. Mi ha offerto a sua moglie Era e a sua figlia Atena. Sono belle e immortali, e dall’angolo del loro sorriso imparo l’astuzia.
Le due donne non mi amano. Per loro sono un accessorio teatrale, una amans ex machina.
Accessorio di commedia o di tragedia, non lo so ancora, ma loro non mi amano, lo sento, e propendo per la tragedia.
E tuttavia, anche se non mi amano, anche se disprezzano la mia pelle morbida, le mie labbra che profumano di erba tenera, e i miei seni color colomba, mi parlano faccia a faccia, e mi spiegano perché sono nata. Sostengono, queste dee, che una donna debba conoscere il suo passato e il suo avvenire. Una donna, dicono, deve, più che un uomo, avere gli occhi persi, come dicono i Greci, cioè occhi abbastanza acuti da vedere la strada giusta attraverso i nugoli della loro vita. Fitta è la nebbia in cui vivono le donne, la loro ignoranza e la loro attitudine a soffrire, vertiginose sono le loro illusioni. Questo vale, dicono le dee, anche per le donne che sono delle nuvole.
Così, mi parlano. La loro generosità verso di me non va oltre, ma non ne conoscerò mai una più grande.
Elena è un pretesto, mi hanno spiegato. Esiste, da qualche parte sulla terra, una città chiamata Sparta, e in questa città un palazzo, e in questo palazzo una regina. Questa regina si chiama Elena. Al di là dei mari, esiste un’altra città chiamata Troia, e in questa città una roccaforte, e in questa roccaforte un principe. Questo principe si chiama Paride. Era e Atena lo odiano ferocemente, ma non mi diranno mai perché. Una storia di scommessa – o di mela, non è molto chiaro. Non faccio domande, il ricordo sembra irritarle. Mi dicono che quest’Elena è la donna più bella del mondo. È quasi una dea, aggiungono, insistendo sul quasi. Per misteriose ragioni che non mi riguardano, Afrodite ha promesso a Paride la mano di Elena. Ma Elena è sposata al re Menelao, il fratello del grande Agamennone. Tanto meglio, precisano: è lo scopo della loro operazione, quello di scatenare una guerra tra Menelao e Paride. Dieci anni di guerra avrebbero portato alla caduta di Troia, e sarebbe stata tutta colpa di Paride. Non accontentandosi di ricevere una morte violenta, dolorosa e molto precoce, sarà oscurato per sempre agli occhi dei posteri. Era e Atena saranno vendicate.
Ma il punto è questo. Elena non lo ama.
Ha guardato Paride con uno sguardo calmo e non ha provato alcun amore. Cerca l’amore come tutti, ma ama solo ciò che è bello e vivo al massimo grado. Ama il mare e il sole.
Ama le nuvole che danzano. Non ama questo principe troiano che la guarda con una passione legittima, come una cosa promessa, e non ha vertigine negli occhi.
Eppure, la più bella donna del mondo deve amare. È come la notte, il giorno, il sole o la pioggia, è inevitabile. Un ideale che non sarebbe di nessuno, questo non esiste.
Ma una donna, fosse anche una regina, è poca cosa: basta una nuvola per sostituirla. Guardati, mi dicevano, sei bella quanto lei e perfino più bella perché sei nata più vicina al sole. Afrodite vuole mandare a Paride l’Elena che gli ha promesso come sposa, e noi, noi vogliamo far cadere Paride nella nostra trappola. Noi e Afrodite siamo su due fronti opposti, ma per una volta i nostri interessi si accordano sulla necessità di fingere. Elena di Sparta, la mortale che non sa amare, sarà rimossa con discrezione dal palcoscenico dove si svolge la nostra commedia umana, e al suo posto infileremo una controfigura, una nube modellata da Zeus a sua immagine e somiglianza. Tu sarai la nostra invenzione, il nostro trucco. Seguirai Paride. L’amerai come amano le nuvole, d’un amore avvolgente che sfuma i contorni del mondo reale. Gli uomini faranno la guerra per una nuvola, non lo sapranno, e se lo sapessero, non gliene importerebbe nulla. Elena è un pretesto, loro amano la guerra ancor più della bellezza.
Così mi hanno lasciata sulle rive dell’Eurota, un fiume del Peloponneso. Ho trovato una corona di rose sulla riva.
Una giovane ragazza è apparsa in cima al pendio. Quando mi ha vista, il suo visto si è illuminato.
– O mia regina, ti ho ritrovata! Ti abbiamo cercato a lungo, lo sapevi?
Temevamo che fossi caduta nel fiume.
Si è girata e ha chiamato le sue compagne gridando. Da tutte le parti sono arrivate giovani ragazze con corone di fiori. Si udirono esclamazioni di gioia. È ritrovata!
Mi hanno condotto al palazzo su un bel carro trainato dai muli. Quando sono arrivata sotto le mura di Sparta, un uomo mi è venuto incontro. Non avevo mai visto un uomo, così lo guardavo attentamente. Era biondo. Non assomigliava per niente a Zeus.
Ecco che ora mi mette le mie mani nelle sue e mi accarezza i capelli. Mi chiama Elena, anima mia. È buffo. Non sapevo di essere l’anima di qualcuno.
Mi porta nel palazzo e nella sua camera. Giorno per giorno, capisco che il palazzo è il nostro palazzo, che la sua camera è la nostra camera. Quest’uomo si chiama Menelao e questa città si chiama Sparta.
Ogni sera, scendo dall’appartamento delle donne ed entro nella sala del banchetto per ascoltare l’aedo cantare la nascita degli dèi, e le cose che gli uomini e le donne hanno visto e fatto nel passato. Gli schiavi tagliano la carne e versano il vino color del mare. Gli ospiti ascoltano, mangiano, si lanciano dei versi al volo. Quelli che hanno viaggiato raccontano, quelli che hanno combattuto raccontano, ma c’è un uomo che tace. È giovane, ha i capelli neri e un profilo delicato. Mi guarda con degli occhi color del vino, color del mare. Domando a Menelao il nome di quell’uomo. Risponde:
– È Paride, figlio di Priamo, re di Troia al di là dei mari. È mio ospite.
È fiero di offrire ospitalità a un principe venuto da così lontano. Rimango in silenzio.
Alla fine dell’estate, Paride mi dice che mi ama.
Paride ha lasciato Sparta. La sua nave, ancorata a Citera, si è allontanata dalle coste del Peloponneso e si dirige verso Troia. Sono sulla nave.
Ancora oggi, quando chiudo gli occhi, sento sulle labbra il profumo del mare in autunno. Porta nelle sue onde le navi intrappolate nei naufragi, le perle, i gioielli, le boccette di profumo che popolano i letti di sabbia. Il cielo è di un azzurro fragile che tende al bianco, e basta che vi tenda un po’ di più perché cada la pioggia.
Lunghe nuvole si avvolgono a spirale sui nostri alberi. Non saprò mai perché sono salita a bordo. L’ho seguito, ecco tutto, un uomo come un altro, come una folata di vento. Sono una nuvola. Vado dove mi porta il vento.
Il Troiano ha occhi color del vino, color del mare. Beviamo molto vino allungato con acqua di mare e dormiamo in pieno giorno nella tenda di poppa. Se ero l’anima di Menelao, è senz’anima adesso?
Un giorno, la chiglia tocca la sabbia, siamo arrivati. Quando metto il piede su questa spiaggia sconosciuta, non sono più Elena di Sparta: da questo momento e per l’eternità, sono diventata Elena di Troia.
Che senso ha parlare della guerra…
Il passato appartiene ai poeti. Un poema sta già percorrendo l’immenso mare, si chiama: l’Iliade.
È un poema immortale che dice la verità.
Passano dieci anni. Vivo in una stanza profumata dove tutto è calma, lusso e voluttà. Ho intrecciato dei fili d’oro nei miei capelli. Ogni mattina, esco dalla mia camera e salgo sul cammino di ronda. Lì, dalle alte mura di Troia, guardo l’immensa pianura dell’Asia e i due grandi fiumi che abbracciano la roccaforte: lo Scamandro e il Simoenta. La pianura è circondata dal mare e le navi achee sono ormeggiate vicino a noi. Tutta la Grecia in armi si è accampata, una città ambulante di tele e di vele.
Il vecchio re Priamo mi guarda con bontà e mi parla nella mia lingua. Mi chiama mia figlia, lo chiamo mio padre. Ogni giorno, apprende che uno dei suoi figli è morto in battaglia, e mi dice: Non è colpa tua. Ogni giorno vede meno l’orizzonte. Ma instancabilmente mi domanda i nomi dei nemici accampati nella pianura, che combattono alle sue porte. Ascolta la mia voce. Se avesse avuto l’età di suo figlio, anche lui mi avrebbe rubata.
Il tempo scorre molto lentamente.
Nel decimo anno, Troia è presa. Nelle fiamme e nel sangue, nella sofferenza, nella morte, un uomo mi viene incontro. Mi nascondo tra le rovine. Mi ha visto da lontano, mi sta cercando da dieci anni. Nelle sue mani brilla una spada. Sussurro:
– Menelao, anima mia.
Ho parlato senza riflettere. Ma quando la spada cade a terra e lui mi abbraccia, sento tornare la mia anima nel suo bacio.
Alla fine dell’inverno, torniamo a Sparta.
Sono Elena di Troia che regna su Sparta. Quando attraverso il megaron, il silenzio si spalanca davanti a me come un mare. Non sono una donna, sono un ideale, un sogno, un poema. Una sgualdrina, una cagna. Sono la maga dei filtri d’amore e della dimenticanza, colei che lenisce la sofferenza, risveglia la nostalgia e il desiderio di tenerezza. Sono la quasi dea, la figlia di Zeus e di Leda, la Forma fatta corpo, viso, voce e vita. Sono la fortezza più impenetrabile del palazzo di Menelao e la sua unica ossessione. Menelao mi ama.
E anche io amo questo mortale che non assomiglia a Zeus. Lo amo con la carne e con il sangue, notte e giorno, senza che lui lo sappia, senza che io riesca a spiegarmi cosa lega la mia anima a questo umano fin troppo umano.
Ma ogni mattina, quando nemmeno il custode ha ancora aperto gli occhi, mi alzo dalla mia stanza dalle lenzuola di oro e scendo sulle rive dell’Eurota. Cammino lungo la sponda del fiume, instancabilmente, e osservo il percorso dell’acqua che muore in lontananza. Sono consapevoli, mortali e immortali, che stanno dando a una nuvola i loro baci e le loro poesie? Menelao dorme tranquillo accanto al suo sogno, e non ha forse sentito nell’abbraccio la meravigliosa fragilità delle goccioline?
E il mio sguardo va lontano, come il fiume, ma non abbastanza lontano da distinguere la traccia di Elena di Sparta, l’amante dell’ideale scambiata per una nuvola.
Aspetta forse da qualche parte, sperando.
Lei non sa niente, io so tutto.
Nubi, meravigliose nubi, a volte ricordo il mio esilio.