1. Di un doppio motivo, per iniziare
Nell’incominciare questa riflessione su Charlot confesso di avvertire un duplice sentimento, che ha tutti i tratti di un’ambivalenza indecidibile. Non c’è chi non veda che Charlot appartiene al destituente. Esiste, cioè, una concordanza molto forte tra la figura di Charlot e il compito che questa rivista si è assegnata. Accanto a questa evidenza e posto sull’altro lato avverto contemporaneamente anche un dubbio per così dire radicale sulla scelta della maschera di Charlot come figura del destituente.
Il motivo della concordanza è presto detto: come il progetto del numero mette subito in chiaro, leggere oggi filosoficamente la figura di Charlot significa interrogarsi su due nodi concettuali decisivi, quello della contingenza e quello dell’accidentalità. La call lo dichiara in maniera puntuale, proponendo di interpretare Charlot nel senso di una “contingenza della casualità” e della “pura frammentazione di accidenti nella vita di chiunque”. È proprio questa la strada decisiva, su cui intendo avviare le analisi che seguono, a partire dalla nozione di “incidente” che più avanti verrà meglio introdotta. Il mondo di Charlot è il mondo della casualità: è il mondo del gioco delle contingenze come condizione degli incontri, di quelli buoni come di quelli cattivi. Il caso incontrollato è ciò che determina le condizioni di una vita che è sempre messa a rischio da un caso qualunque che può intervenire in qualsiasi momento e in qualsiasi situazione. Del resto, l’irruzione di un incidente che interrompe il flusso continuo del tempo è, in un certo senso, l’ingrediente-base della dimensione comica. Sembra essere questo l’orizzonte entro il quale Charlot si muove. Così intendo l’aggettivo “pura” dell’espressione “pura contingenza” nel senso di un’assolutezza: pura contingenza sarebbe, dunque, una contingenza assoluta, che nessuno può controllare. E altrettanto vale per la “pura frammentazione”: essa riguarda tanto gli accidenti, quanto le vite che ne fanno esperienza. Nella contingenza la vita stessa risulta frammentata, è una vita a pezzi, a cui è preclusa la possibilità di far sfoggio di quella coerenza individuale e collettiva che è sempre stata il segno indiscusso del successo. Il tema dell’assoluta contingenza rappresenta, per altro, un tema trasversale a tutto il cinema muto: qui la trama dei casi non è mai una trama destinale, predeterminata, ma un’assoluta casualità degli incontri. Che poi a posteriori tali incontri possano disegnare qualcosa come una storia non ne smentisce il carattere contingente. Del resto, in questi incontri può succedere sempre di tutto e, in un certo senso, a Charlotte succede di tutto lungo i minuti del film. Solo che questo “tutto” non è una totalità, nel senso che è un tutto senza qualità: basta il minimo episodio, l’incidente più banale, e le cose prendono subito un’altra piega. Non è data perciò, quella minima consistenza individuale che permetterebbe di farvi fronte, di resistere all’opera della contingenza e di rimanerne indenne.
Rispetto a questa premessa, la difficoltà, che sopra chiamavo il mio “dubbio radicale” sulla scelta di Charlot, riguarda proprio la sin troppo grande e sin troppo evidente corrispondenza con il tema del destituente. Un troppo di evidenza non va forse insieme al rischio che la riflessione conosca sin dall’inizio le proprie conclusioni? Una quasi immediata riconoscibilità del tratto che lega Charlot al destituente non sarà a sua volta una forma di universalismo appagante ma appiattente? Non c’è, appunto, chi non veda come Charlot rappresenti una delle figure paradigmatiche di un discorso sul destituente. Ma mi chiedo se in questo tratto iconico, cioè iper-rappresentativo, non ci sia qualcosa a cui occorre resistere. Mi chiedo, in altri termini, se Charlot non sia una scelta sin troppo didascalica rispetto al tema del destituente e, dunque, in un certo senso se non sia una scelta in controtendenza rispetto al motivo stesso della destituzione, che è tra le altre cose destituzione delle forme rappresentative del nostro (presunto) sapere e del nostro stesso pensare. In ogni caso occorrerà trovare il giusto accesso perché questa ovvietà – vera o apparente, realistica o paventata – della connessione tra Charlot e il destituente, a cui questa rivista è dedicata, non risulti un impedimento, più che un aiuto.
Quando insisto sulla necessità di trovare il giusto accesso alla sua figura, penso intanto al fatto che esistono sin troppi Charlot, protagonista di 76 film (escludendo la confusione tra la figura del barbiere ebreo de Il Grande dittatore con Charlot, dato che quest’ultimo non parla, ma vive esclusivamente dei suoi gesti, cfr. Godin, 2016, p. 49), in un arco temporale che va dal 1914 al 1936 (con Modern Times), attraverso varie fasi che corrispondono anche a diverse condizioni contrattuali con i vari produttori. E proprio questi troppi Charlot e queste tante fasi richiedono un’estrema attenzione per non schiacciare il fenomeno-Charlot su un’immagine precostituita del suo carattere.
La domanda, a questo punto, sarà cosa resta di Charlot ovvero cosa occorra valorizzare affinché il gesto di una destituzione si stagli nettamente in Charlot, ma anche oltre Charlot, oltrepassandolo verso una figura che sia all’altezza di ciò che Charlot porta come esigenza, ma che forse non realizza o che realizza solo in parte. Sarà, pertanto, l’occasione anche di interrogarsi su cosa siano le implicazioni del tema stesso a cui questa rivista è dedicata, la destituzione.
2. Il cinema come testimonianza
Per trovare il giusto accesso alla questione, mi avvarrò come premessa teorica di un libro raffinato di Alain Brossat, che sento particolarmente congeniale all’ipotesi che vorrei costruire tramite questo saggio. La mia lettura, più che restituirne il tracciato filosofico, tenterà di farne un alleato nella comprensione teorica di Charlot. Il libro è recente e si intitola Maquiller ou démaquiller le réel? Le cinéma en première ligne (Brossat, 2023).
Il primo aspetto che attira l’attenzione è relativo alla testimonianza del cinema, laddove può darsi testimonianza in molti modi e di moltissime cose. Brossat scrive: “On partira ci de l’idée que certains films peuvent remplir une semblable fonction, en leur qualité de «témoins» des fissures ou des brèches qui se sont ouvertes dans le présent” (Brossat, 2023, p. 9, corsivo mio). In altri termini, la testimonianza non si dà di cose o di fatti; forse non si dà neppure testimonianza di eventi, per esasperare l’ipotesi che sto provando a formulare. Si dà testimonianza unicamente delle crepe e delle brecce, degli spazi vuoti che continuamente si aprono sul terreno all’apparenza compatto e solido del presente. È qui che si inscrive la testimonianza filmica, nella capacità di offrire gli indizi di tali brecce, aperte sul corpo del nostro tempo. Se provassi una traduzione ancora più personale, direi: quelle crepe sono i punti in cui il presente non coincide più con se stesso, né corrisponde più all’idea che i contemporanei hanno della propria epoca. Ecco perché può essere sorprendente guardare e guardarsi attraverso il cinema.
Qualche riga più sotto Brossat scrive ancora: “Ils exhibent une faille qui traverse l’époque et ils nous encouragent à en problématiser les conditions” (Brossat, 2023, p. 9). Ecco il senso di quella non-coincidenza del presente con se stesso che ho appena anticipato. Eppure da queste brecce probabilmente qualcosa esce, anzi fuoriesce non solo nel senso di una perdita, ma anche nel senso che qualcosa entra in un fuori che riguarda la nostra esperienza del tempo. In ogni caso, c’è uno spostamento che si produce al cinema. Questo spostamento ha a che fare con la distanza da cui al cinema possiamo guardare il mondo e provare in qualche modo a problematizzarne le condizioni. È un differente sguardo che il cinema ci consegna, è un punto di vista critico che il cinema può offrire nonostante tutto, nonostante anche il fatto che sia di produzione hollywoodiana, cioè che le sue condizioni di produzione siano le medesime dell’epoca che si intende sottoporre a critica. Potremmo dire che il cinema è un’arte della distanza ovvero che è una distanza assunta come arte. La sua potenza è quella di permetterci di guardare il mondo in maniera differente, spostando le maniere abituali con cui lo guardiamo. In particolare mi pare che questo sguardo che passa attraverso il cinema possa ri-guardare le trasformazioni soggettive, mostrando come la cosiddetta civiltà delle macchine che è oggi una civiltà dei dispositivi tecnologici trasformi in maniera veloce, ma coerente, le forme di soggettività del nostro tempo. È di queste trasformazioni che il cinema testimonia, nella misura in cui vi partecipa attivamente in quanto dispositivo. Questo aspetto mi sembra vada insieme al passaggio in cui Brossat parla di “une nouvelle forme de fragilité de la réalité vécue, dans sa dimension à la fois spatiale et temporelle” (Brossat, 2023, p. 10). Non si tratta con tutta evidenza di una fragilità psicologica, soggettiva nel senso della psiche individuale. È piuttosto una sorta di fragilità ontologica, una dimensione che potremmo chiamare disgraziata per richiamare le dis-grazie che accadono a Charlot. Come la call di K. ci ricorda in esergo con una citazione – “Chaplin è diventato il più grande comico perché ha assimilato il più profondo orrore dei contemporanei” – Walter Benjamin vedeva chiaramente come il segreto di Chaplin fosse legato a questa sua partecipazione viscerale al presente della propria epoca. E come questa partecipazione non andasse senza la percezione di una fragilità spazio-temporale della realtà, in cui i limiti dell’epoca immediatamente precedente già non valgono più, non costituiscono più, cioè, delle referenze per orientarsi nel mondo. Il paradosso è relativo allo sguardo del cinema che è prezioso nella misura in cui avanziamo nel mondo a tastoni, come dentro un buio nel quale la luce del film giunge insperata, come una risorsa a cui non ci siamo ancora del tutto abituati.
Così è per il mondo di Charlot: in fondo ci illumina sul fatto che l’accidentalità è vincolante. Fa luce proprio su quanto sia inaggirabile tale condizione. Certo, possiamo sorriderne e addirittura riderne, ma in fondo ci consegna al segreto di vite che apparentemente non ne hanno nessuno: ciò che loro accade, non accade né per un qualche loro potere, né in forza di una qualche necessità, ma senza potere e senza necessità. Questa è l’accidentalità in cui Charlot e il suo mondo vivono e insieme vanno a fondo. Su questo Brossat ci dà un’indicazione preziosa. Attraverso il cinema ovviamente abbiamo non una mimesi della realtà ovvero una rappresentazione mimetica della realtà, ma “des aperçus intermittents, furtifs, accidentels, approximatifs, de la réalité ou sur celle-ci” (Brossat, 2023, p. 11). C’è qualcosa qui di una particolare frammentarietà, di un carattere del lampo – blitzartig, come diceva Benjamin a proposito delle immagini della storia – che pare essere la materia stessa di cui il cinema è fatto. Questo lampeggiare, questa debole intermittenza delle immagini del cinematografo sullo schermo, è, al tempo stesso estraneo, nuovo, ma anche familiare. In esso sopravvive il carattere intermittente di tutte le nostre immagini, lì portato a esaltazione. Il cinema non fa scomparire il carattere intermittente delle nostre immagini, donando loro una maggiore continuità, ma in qualche modo ne assume profondamente l’accidentalità. Nelle sue immagini vive la contingenza stessa delle nostre vite. E lo può fare perché parla la stessa lingua della contingenza: non esiste alcuna immagine necessaria, ciascuna di loro è sempre segnata dall’accidentalità, che dà loro vita.
Questo carattere risuona, forse, anche nel punto del libro di Brossat in cui si parla di un divenire che è un “devenir futile” (p. 27) delle vite nel nostro tempo: un divenire inutile, superfluo. Dunque, ciò di cui c’è testimonianza non è altro che un carattere superfluo a cui le vite sono giunte. Ma in cosa consiste questa futilità? Facendo tesoro di un altro passaggio del libro, si potrebbe dire che essa consiste nel fatto che è stata abolita la dimensione storica dalle nostre esistenze, per sostituirvi un’“agitazione vibrante attorno agli aggiustamenti in corso nella civiltà dei costumi” (p. 29, trad. mia). C’è, dunque, qualcosa che ci permette di legare l’idea della futilità non solo e non tanto a una perdita di valore, perdita poi leggibile in termini morali, ma a una vera e propria fabbricazione della futilità, che è un’altra espressione di Brossat e che ha a che fare con la cancellazione della dimensione storica, quindi col fatto che qualcosa si sottrae alla storia. La storia è diventata una storia senza avvenimenti, per citare qui una formula della Società dello spettacolo di Guy Debord, su cui sarebbe naturalmente importante potersi soffermare più a lungo.
3. Il fenomeno-Charlot
Torniamo ora a Charlot. Sappiamo che questo nome compare solo nei titoli delle traduzioni francesi e italiane dei film, in cui Chaplin mette in scena la sua figura. È piuttosto come vagabondo (the Tramp) che prende parte ai film, anche quando è accreditato in maniera differente (per esempio in The Champion, un film del 1915, tradotto in italiano come Charlot boxeur o come Charlot eroe del ring, lungi dall’essere un pugile professionista, non è altri che un vagabondo che tenta di guadagnare sul ring qualche soldo per mangiare).
Interpretare da parte nostra questa assenza del nome come una condizione di non-identità non impedisce che l’escluso dall’ordine simbolico della società sia capace di trasformazioni intenzionali per fuggire, per nascondersi o, appunto, anche solo per guadagnare qualche soldo. Dall’altro lato, egli è anche subito preso in una sequenza di metamorfosi che non controlla. È questo che fa di lui il personaggio per eccellenza sempre fuori posto, che confonde anche gli altri nella loro presunta appartenenza a un luogo, a una professione, alla loro stessa una vita come si è svolta sinora. In questo senso, il barbiere ebraico de Il Grande Dittatore condivide con Charlot almeno una cosa: lui stesso non ha nome, dato che non è che il doppio del dittatore Hynkel. È là come portatore di una confusione più profonda, che agirà in termini di liberazione dall’oppressione.
Nelle varie occorrenze in cui Charlot compare, il nome è sostituito da un numero impressionante di occupazioni o di qualificazioni, che non sono spesso professioni vere e proprie o che sono singolarmente prive di quella qualità che è della professione. Esse arrivano a indicare – però non a descrivere né a circoscrivere – un individuo vago (Cfr. Godani, 2020). La vaghezza è quel tratto che fa della sua esistenza un’esistenza incerta, incostante, errante. E che naturalmente ha a che fare con l’occorrenza della contingenza, su cui torneremo presto. Questa vaghezza non è in rapporto a quanto Charlot sa di se stesso, dato che sa ben poco di sé, o a quanto noi sappiamo di lui, alla ristrettezza delle nostre conoscenze. Piuttosto la vaghezza è in rapporto al fatto che le cose di cui facciamo esperienza non sono che costellazioni di qualità ovvero molteplicità di tratti e pluralità di determinazioni. Il loro insieme vale in un determinato tempo. È per questo che ci capita di incontrarle in un tempo e non in un altro. Subito dopo sono già smarrite, perse nelle ricombinazioni degli elementi che avevano dato vita alle combinazioni precedenti.
D’altra parte, rispetto a questa vaghezza, bisognerà anche dire che Charlot resta totalmente riconoscibile: è vago, ma insieme talmente determinato, almeno da un punto di vista esteriore, da non ammettere malintesi. È al tempo stesso un individuo senza essenza, perso nella sua vaghezza, senza proprietà, e contemporaneamente un individuo dalla fisiognomia perfettamente riconoscibile. È tutto una serie di accidenti, eppure la maschera noi continuiamo a riconoscerla: l’immagine disegna una continuità, che è quella del personaggio. La permanenza di un’immagine pienamente riconoscibile apre, dunque, a questa sovrapposizione di due dimensioni: abbiamo contemporaneamente la vaghezza e il perfetto riconoscimento, l’erranza delle qualità e la permanenza di una medesimezza. Se il primo elemento indica, abbiamo detto, una mancanza di essenza, come può essere questa mancanza sempre la medesima? Come può assomigliarsi ciò che, a rigore, non fa altro che mancare, mancando anche alla propria somiglianza con se stesso?
Questo è un punto – più che una contraddizione, lo chiamerei uno scollamento o, forse, una breccia – che converrà tener presente anche più avanti. Così, anche se il personaggio è costruito in modo tale che tutto sia in contraddizione, come racconta Chaplin stesso nella sua autobiografia, parlando della scelta di un pantalone troppo largo e troppo corto, di una giacca troppo stretta, di una bombetta troppo piccola e di una canna da passeggio che di solito i vagabondi non possiedono ma che serve all’occorrenza a farsi passare per barone o conte, di che contraddizione stiamo parlando? Di una puramente esteriore? Della rappresentazione di ciò che una contraddizione reale sarebbe?
Le esperienze che Charlot fa dipendono dall’alea degli incontri, dalle qualità degli oggetti casuali. Prendendo in prestito un’immagine che si trova incarnata in quel titano che era Buster Keaton, diremmo che dipendono dall’incrocio: le sue esperienze nascono da chi si incontra dietro l’angolo della strada. Incontrerà la donna di cui si innamorerà all’istante o il poliziotto che lo insegue per arrestarlo?
Questa scrittura del personaggio si intensifica se consideriamo che viene intrecciata non di rado al tema del raddoppiamento. Nel cinema di Chaplin, i raddoppiamenti in tutte le loro forme (esemplare quella dell’impostore) pullulano ovunque, creando la situazione comica per eccellenza che è quella del malinteso, dello scambio di persona. Com’è stato notato, questi raddoppiamenti hanno una funzione emancipatrice, per cui il barbiere ebreo de Il Grande Dittatore è il doppio di Hynkel, ma appunto incarna l’istanza della libertà contro l’oppressione. Un altro esempio è nel film The Floorwalker (Charlot caporeparto o Charlot commesso) del 1916: lui e il ladro scoperto sono identici e sono sorpresi dalla loro stessa somiglianza, come si trovassero davanti allo specchio. Ma, in effetti, il doppio in Charlot non è mai ripetizione: il suo raddoppiamento è una forma di dissociazione. “Non solamente dissocia l’io dall’altro me, ma introduce tra i due una differenza oppositiva essenziale” (Godin, 2016, p. 83, trad. mia). Così, anche nel caso dello scambio dei sosia, “il doppio antinomico è l’immagine rovesciata più che il contrario del suo modello” (p. 169). È in forza di questo raddoppiamento che è un rovesciamento, ma anche una dissociazione, che è possibile avere l’opportunità di un’altra vita. E questo non accade nell’aldilà della trascendenza, ma in questo mondo. Del resto, come aveva notato già Claude Chabrol, Charlot vive come spirito ateo nel rifiuto di ogni forma di trascendenza. È, in questo senso, una figura dell’immanenza. In quanto tale rifiuta anche la trascendenza della legge, attraversando le maglie delle coazioni sociali con il suo carattere affermativo. Proprio in quanto è una vita senza qualità, senza nomi e senza titoli, oltre che senza appartenenza e senza progetto, è una vita inafferrabile, è piuttosto una vita che permette dell’altra vita e che rigioca la sua indeterminatezza in avventura. È, del resto, proprio come figura dell’immanenza che non sfugge e non può sfuggire all’insidia delle cose: “L’eroe è esposto all’arbitrio, all’imprevedibilità delle cose, fonti di frustrazione costante. L’umorismo della serie a cartoni animati è in massima parte riconducibile alle insidie delle cose. […] In Charlot usuraio, […] gli ingranaggi della sveglia fatta a pezzi diventano autonomi e si mettono in moto. Sembrano vivi” (Byung-Chul Han, 2022, p. 60). Questo senso dell’esposizione – dell’essere esposti – mi sembra la cifra più rilevante. Non indica tanto una catastrofe incombente, quanto il fatto che tutto incombe: anche quel po’ di buoni incontri che si possono fare in una vita non sono che il segno dell’approssimarsi di qualcosa che non sappiamo e a cui pure siamo rimessi.
Anche la frequente ubriachezza dei personaggi, compresa quella di Charlot stesso, accade sotto il segno del raddoppiamento, dato che – come si dice – nell’ubriachezza si vede doppio, senza avere in questo raddoppiamento una forma di aumento della potenza della vista. Invece incontra ogni immaginabile difficoltà a comprendere quale sia la realtà vera e quale il miraggio, confondendo le situazioni e finendo per apportarvi scompiglio. In Charlot l’ubriachezza diventa non solo un vederci doppio, ma un essere doppio (Cfr. Godin, 2016, p. 32). E, secondo un topos degli attori del burlesco, l’ubriachezza si fa spesso molesta. Così in molti suoi film assistiamo a corteggiamenti di sconosciute che oggi ai nostri occhi hanno qualcosa della molestia. Anche lì riconosciamo un tratto infantile che, anche quando appare strategico alla seduzione, è in verità un tratto regressivo che si ricollega a un piacere aggressivo contro ogni altro contendente. Questo perché, nella vaghezza dell’ebbrezza, nello stordimento della sbornia, Charlot è potuto essere un po’ di tutto, non solo il personaggio innocente e delicato che per lo più resta nella memoria comune. Soprattutto ha potuto non preoccuparsi di comprendere le conseguenze dei suoi atti e non rendersi conto della correlazione tra i suoi gesti e i loro effetti. In generale, c’è sempre un intervallo che si frappone, quasi un momento di amnesia o di inconsapevolezza, conseguenza del fatto che nel raddoppiamento l’io come istanza unificante si perde. È sempre sul punto di farsi puro movimento inconscio, ma di un inconscio che non si sa di chi sia e che senz’altro non è di una persona (Cfr. Bazin, 2000, p. 59). Parafrasando una formula di Kracauer, Bazin lo definisce un io senza ego, che manca di superfici e che quindi non ha un reale contatto con il mondo. Questo tratto appare in maniera inconfondibile anche ne Il Grande Dittatore: il barbiere non sempre comprende la situazione nella quale si trova a vivere. Non solo non coincide con la sua realtà, ma fatica anche a coincidere con se stesso, ad avere una qualche idea di sé. È qui che si spezza qualcosa del ferreo meccanismo che nella nostra cultura abitualmente lega i mezzi (e le azioni) ai fini? Se così fosse, diremmo allora che il raddoppiamento di Charlot disegna già una figura della diserzione. La si incontra a proposito della fuga: Charlot non si accontenta di fuggire, ma torna spesso là dove l’incidente ha avuto luogo e guarda beato gli effetti di tutto questo. Non è una fuga, senza essere contemporaneamente l’apertura di una dilazione temporale, tale però che impedisce la determinazione esatta delle intenzioni del soggetto. Il paradosso era stato già notato da Bazin nella forma: Charlot fugge, ma non lo fa come abitualmente fa ciascuno di noi nella fuga: si prende invece tutto il tempo per uscire (Cfr. Bazin, 2000, pp. 19-20).
4. Un’altra figura?
Quando gira i suoi primissimi film con la casa di produzione Keystone, la figura di Charlot è spesso quella di un insolente, sempre e testardamente fuori posto, segnata da un narcisismo aggressivo. La tenerezza non emergerà che più tardi, quando la sua maschera sarà sì quella di un personaggio maldestro, ma non privo di gentilezza. Eppure, anche più tardi, sollevando la bombetta per scusarsi, non è impossibile notare un residuo di quell’aggressività che sopravvive da questa prima fase. Da questo punto di vista è interessante rivedere Charlot e mettere a fuoco il contrasto che esiste tra la “familiarità” della sua maschera e l’effetto a sorpresa che si ha rivedendolo. L’inizio di Charlot, segnato da una cattiveria che raramente tende a essere associata alla sua maschera, emerge in maniera esemplare nel primissimo film mostrato in un cinema (non il primo a essere girato). Si intitola Kid Auto Races at Venice (tradotto in italiano con Charlot ingombrante o Charlot sul circuito o Charlot si distingue), ed è un corto di sei minuti del 1914. Vi fa la parte di un disturbatore, neanche troppo simpatico. Durante una gara di automobili per ragazzini, poste su uno scivolo e che si sfidano lungo un percorso in discesa, Charlot prova a farsi inquadrare da una camera che è lì per riprendere la corsa: si mette sempre davanti alla camera, per cui o l’operatore o il suo assistente lo spingono via a pugni o a schiaffoni o con dei calci, insomma: tutto il repertorio delle zuffe dei film muti. Sin dalle prime battute del film cerca sempre il centro della scena e prova ad occuparlo. Il film è realmente girato durante una gara a Venice Beach, per cui il pubblico presente è effettivamente incuriosito sia dalla discesa delle automobili sia dalle riprese. Nel finale si compie ciò che per sei minuti insistentemente Charlot prova a realizzare e, cioè, proporsi o, meglio, imporsi alla camera che sta girando il documentario su questa corsa di macchinette. Anche qui, si potrebbe dire, un raddoppiamento: è un film che nella sua schematicità elementare mostra la realizzazione di un altro. E Kid Auto Race termina con un primissimo piano della faccia fortemente grottesca di Charlot con cui si impone a questa altra camera che gira, prova a conquistarne l’inquadratura. Del resto, da lì a poco, questo sarà riconosciuto l’unico modo per una persona di dimostrare la propria esistenza in vita: divenire visibile su un supporto tecnico. Altrimenti l’esistenza, in fondo, resta indimostrata da nulla e da nulla garantita: un’esistenza senza immagine rimane al limite della propria sussistenza, affidata ovvero abbandonata alla casualità degli incontri, all’accidentalità del tessuto dei fatti che in una giornata si susseguono (si pensi qui nuovamente al tema della fragilità, com’era introdotto da Brossat). Questo personaggio forse si arrabbia proprio perché capisce di aver bisogno – un bisogno rabbioso – della camera per dimostrare la propria esistenza. È lui il personaggio del XX secolo, non la signora del pubblico che in una delle scene si copre il volto con un foglio di carta, per non farsi riprendere [fig. 1]. Solo qualcuno il cui sembiante sia stato registrato dalla camera può imporsi su tutti. Solo qualcuno di cui è stata filmata la presenza può dirsi realmente esistente.
Quel primissimo piano della smorfia grottesca di Charlot dice che il personaggio nasce come elemento di disturbo, come creatura molesta. Nasce come residuo irrequieto di una società che docilmente si prepara a essere il grande pubblico di un grande spettacolo che finisce per fagocitarlo. Eppure il modo in cui questi sei minuti di cinema strappati all’occasione della gara a Venice Beach terminano non ha niente dell’happy-end che quel pubblico dovrebbe sedurre, facendogli chiedere un “ancora” che avvicina l’iterazione del piacere del cinematografo all’atto sessuale. Ciò che Charlot qui incarna è, forse, l’impossibilità stessa di un happy-end da commedia per la sua maschera, come capiterà in tanti altri suoi film e in genere in tanti film dell’epoca del muto.
Qualcosa di simile accade anche in uno dei film che Chaplin gira con la grande Mabel Normand, Mabel at the Wheel (1914), tradotto in italiano come Isabella al volante o Charlot e Mabel, in cui Chaplin interpreta il personaggio di un uomo disonesto, geloso e aggressivo. La cosa decisiva è riuscire a comprendere questa aggressività alla luce del nuovo ruolo del cinema. In quanto è intimo alla natura accidentale delle cose, il cinema sembra essere la pratica che è in grado di operare uno smontaggio di quelle convenzioni umane che strutturano la realtà, imponendosi come imprescindibili e assolutamente necessarie, ma di cui il cinema (in quanto finzione) mostra la finzione sottostante e prova a rovesciarla. Da questo punto di vista, il cinema come arte dell’assoluta contingenza non ha bisogno di credere a nessuna necessità sociale, men che meno alla triade Dio-Patria-Famiglia e alle istituzioni che la sovraintendono, così come a tutte quelle doti che rendono possibile il soggetto mansueto di prestazione, pedina della produzione capitalistica: la puntualità, l’efficienza, il rispetto. Charlot disfa quel mondo attraverso la contingenza. Difficile dire, in effetti, se dopo che l’ha disfatto creda che sia possibile rifarlo e come. È per questo che nel comico non si tratta solo di una “difformità” – nel senso della formula sin troppo irenica del Riso bergsoniano per cui si tratterebbe di “toute difformité qu’une personne bien conformée arriverait à contrefraire” (Bergson, 1938, p. 18) – ma di una profanazione nella quale le regole sono abolite o quanto meno sospese e nessuna persona – nemmeno una “bien conformée” (qualunque cosa sia) – arriverebbe ad avere la meglio su questa dissociazione interna alla realtà che il comico contribuisce a mettere in evidenza.
Certo, in questa aggressività si annida un bisogno di libertà. Ma che forma possa poi assumere tale libertà – ammesso che una forma sia la sua conclusione, ciò non è affatto sicuro – non è facile dirlo. Nel tratto aggressivo c’è un elemento infantilmente regressivo, che non si tratta però di giudicare, ma di riconoscere come una mossa tanto più urgente, quanto più diventano vincolanti e insopportabili le nuove condizioni di vita nella società dell’epoca. Tutto questo mira all’invenzione di un gesto, di un gesto liberatorio perché portatore di un eccesso che non controlla, che anzi sfugge a qualsiasi controllo. Di questo gesto si potrà dire che, se non dà potere, non ne coltiva neanche l’illusione: chi se ne fa portatore, come Charlot, non smette per questo di essere una vita minuscola (Le Blanc, 2020). Forse potremmo dire: è un gesto di compiuta diserzione, che lascia campo all’anarchia del vivente, nella misura in cui questa anarchia è un informe che non si concretizza in nessun gesto già formalizzato. È un informe che, forse, cerca ancora la sua modalità e non smetterà di cercarla. Più esattamente, è una dinamica che travolge tutte le forme date, senza accontentarsi di nessuna nuova. È piuttosto un’esigenza, un avvenire, che un essere, una pura presenza.
In un certo senso è il tratto di anarchia che Artaud rinviene alla sua ennesima potenza nella comicità dei fratelli Marx e, in particolare, in un film del 1930, Animal Crackers. In un breve testo a loro dedicato, l’anarchia non è soltanto un modo per evadere dal mondo, ma soprattutto per inventarlo da capo: per inventare un nuovo mondo. Raccontando delle sue impressioni e di quello che descrive come il suo “entusiasmo”, Artaud scrive: “Animal Crackers mi è parso – ed è stato giudicato da tutti – una cosa straordinaria: la liberazione attraverso lo schermo di una particolare magia che i consueti rapporti delle parole e delle immagini di solito non rivelano; e se esiste uno stato tipico, un particolare grado poetico dello spirito che si possa chiamare surrealismo, Animal Crackers ne partecipa totalmente” (Artaud, 1977, p. 250)1. Non teme, Artaud, di ascrivere un prodotto della cinematografia statunitense dentro l’esigenza che prende il nome di “surrealismo” e di mettere in connessione questa sua potenza poetica con il fatto che “i consueti rapporti delle parole e delle immagini” qui appaiono sovvertiti e, in un certo senso, abbandonati nella loro conclamata incapacità di rivelare quella “particolare magia” che solo conta.
Naturalmente esistono gradi e modi differenti di questa anarchia. Non sono solo gradi diversi tra Buster Keaton o all’interno delle numerose apparizioni di Charlot. Anche tra i Marx Brothers di Animal Crackers e quelli di Monkey Business troviamo due differenti riuscite e differenti potenze, come Artaud non manca di mostrare:
Quando in Monkey Business un uomo braccato si getta su una bella donna che ha incontrato e danza con lei poeticamente, in una sorta di ricerca dell’incanto e della grazia degli atteggiamenti, qui la rivendicazione spirituale sembra duplice, e mostra quanto v’è di poetico, e forse di rivoluzionario, nei lazzi dei Marx Brothers […] e mostra che, quando entra in gioco, lo spirito poetico tende sempre a una specie di tumultuosa anarchia, a una totale disintegrazione del reale attraverso la poesia (p. 251).
La questione che a questo punto si pone è quanto di Charlot arrivi realmente a compiere questa radicalità. Quanto, cioè, la maschera-Charlot, così apparentemente aderente al tema del destituente, sia all’altezza di questa richiesta di radicalità. Certo, esiste nel cinema degli esordi un comune fondo di sovversione, ma il punto è chiedersi se tutti i gesti siano all’altezza della radicalità che portano in scena. Quanto lontano porta il proprio gesto? Quanto riesce a incarnare la forza destituente che porta con sé? Indubbiamente, se pensiamo a Charlot, forse egli non giunge mai al livello di anarchia dei Marx, se non nella fase della “cattiveria” che segna i suoi primi film. Forse a Charlot basta davvero introdurre una minima differenza, come diceva Gilles Deleuze a proposito della comicità di Chaplin, per fare la differenza? In questo senso parlerebbe il fatto che il burlesco derivi la sua definizione da un vocabolo latino che indica l’inezia, la minuzia, la cosa qualsiasi, appunto. Burlesca sarebbe, allora, quell’arte capace di fare delle cose da nulla la differenza decisiva che separa una cosa dall’altra, un gesto dall’altro, che differenzia una postura da un’altra, ritrovando nel dettaglio che altrimenti passerebbe inosservato la sua occasione poetica: “Le burlesque n’est pas seulement mélange de la grande et de la petite forme [secondo la formula di Deleuze], il n’est pas uniquement appel à une signature par le bas [secondo le analisi di Bachtin su Rabelais], il est invention d’un rire démocratique engendré par le pouvoir corporel du subalterne. Seule cette invention irrigue le pouvoir dévastateur du bas et suscite les mélanges, l’abolition des genres” (Le Blanc, 2020, p. 69). In generale, quel potenziale anarchico non lo si ritrova che nelle sue variazioni, ogni volta differenti. Basta un tratto minimo, sempre inatteso e sempre intermittente, perché si realizzi una “disintegrazione del reale attraverso la poesia”. Non la società, né lo Stato, ma il reale come esso ha preso forma nella realtà che sta davanti ai nostri occhi. In quello che Artaud chiama un “inno all’anarchia e alla rivolta integrale” (Artaud, 1977, p. 251), il gesto è centrale. Ma se il gesto è tutto, come diceva il grande Méliès, allora non c’è niente da fare, perché un gesto non si fa: un gesto si compie da sé. Un gesto o è un evento o nessun soggetto può realizzarlo. Ecco perché solo il gesto è reputato in grado di uscire dalla truffa della realtà in quanto è sempre una realtà precostituita, preconfezionata, condizionata. Occorre l’invenzione di un gesto che scomponga i dati e che li decostruisca veramente, disassemblandoli. Ma un gesto così esiste solo perché non sta al proprio posto, come Charlot in Kid Auto Races at Venice non sta nel posto che la società gli aveva preventivamente affidato.
Il gesto scompone ordini differenti di necessità. Scompone la necessità naturale in forma di un’acrobazia e di una danza che congiurano contro la gravità dei corpi, contro la loro mancanza di grazia o le loro forme imposte e irrigidite: “Chaplin change de gravitation. Il ne demeure plus au niveau de son corps de misère, il plonge dans la vie aérienne” (Rémy, 2005, p. 16). Come aveva intuito Fernand Léger nel suo cortometraggio Ballet mechanique (1924) [fig. 2], Charlot danzando abita uno stato tra la terra e l’aria, ma poi va anche in pezzi, scomponendosi come una maschera cubista (Cfr. Bergson, 1918, p. 22) [fig. 3]. Bergson parla di “raideur de mécanique” [rigidità meccanica] e di “mécanique plaqué sur du vivant”2. C’è qualcosa di una metamorfosi continua, che passa per una molteplicità di forme, gesti, espressioni per adattarsi a un mondo rispetto a cui non si sottomette, ma resta renitente. E non vi si sottomette rifiutando – questo sì con grande finezza – una delle soluzioni che la cultura ha previsto per quelli come lui: rifiutando di rappresentarsi come vittima delle situazioni. Anzi, imprevedibilmente, a suo modo le governa, senza neanche saperlo, fiutando immancabilmente il modo per salvare la pelle o per trarre il massimo vantaggio da una situazione disperata. Questo accade quando è preso da una furia cinetica, da un’instabilità che è già nella sua incapacità di star fermo. I suoi movimenti sono incoerenti, slegati da un telos, anche quando vorrebbero. Un’esitazione ne attraversa il corpo: va risoluto in una direzione, ma un istante dopo lo vediamo passare nella direzione opposta. È di per sé figura dell’impermanenza e dell’incostanza: medita di non fare qualcosa, ma poi finisce per farla. Una forza più forte della sua intenzione si impone? Ma questa forza non è mai finalizzata a un risultato, più spesso ricorda una pura e semplice distrazione: inizia a fare qualcosa e poi è distratto dai casi del giorno e dalle infinite contingenze di una vita. La distrazione è più potente di qualsiasi coscienza, che pare smarrita nella figura di Charlot: è – a tratti almeno – un uomo senza coscio. Così esistendo rinuncia, appunto, a quell’accordo tra mezzi e fini che è uno dei capisaldi della nostra cultura. In un corpo come quello di Charlot quell’accordo salta: la sua anarchia consiste lì nel fatto di slegare gli uni dagli altri e di avere così puri mezzi senza finalità raggiungibili o scopi ai quali nessuna via pare condurre. Avremo allora mezzi assolutamente inadatti o usati per fini incongrui… Certamente un corpo che incarna questa disgiunzione è un corpo che lui stesso va a pezzi, come si vede nel finale del Ballet mechanique e che a qualcuno ha ricordato il paradosso di Kleist e del suo Marionettentheater, in cui meccanicità e agilità, automatismo e grazia sono alleati strettissimi (Cfr. Godin, 2016, p. 45).
Basti prendere un film qualsiasi di Charlot per ritrovare una fluidità del movimento che sostituisce la narrazione, dove anche una lite può diventare un balletto e la danza porta con sé lo sviluppo filmico. Per esempio, in The Pawnshop (1916)3 abbiamo un senso di ripetizione in cui Charlot è preso da un doppio movimento, a volte centripeto (andare verso il centro dell’azione), a volte centrifugo (tornare là da dove si è venuti, ai margini del quadro), ma senza soluzione dialettica. A questo proposito è stata usata la formula di “sintesi instabile” tra i due movimenti opposti (Bordat, 1997, p. 49), in cui l’andatura è rotta, segnata da una forte discontinuità, marcata da un senso imminente di un incidente che sta per capitare. È questa la firma di Charlot e della sua presenza negli ambienti che attraversa. Altrettanto accade nella famosa marcia di Charlot soldato (Shoulder arms, 1918,) in cui la classica camminata diventa ancora più manifesta nella misura in cui bisognerebbe invece marciare compatti, in fila serrate, in maniera marziale. Là più che mai si vedono le sue rotule che stanno quasi sotto le spalle e i suoi piedi enormi che sbucano da tutte le parti4. Là qualcosa della danza scaturisce dove non ce lo si aspetta, proprio in contrasto con l’educazione militare impartita. Si tratta, a ben vedere, di un singolare tentativo di decostruire il peso dei corpi passando attraverso un peso ancora maggiore, un eccesso di sproporzione e di goffaggine. Passando, dunque, attraverso quello che René Schwob chiamava un “désaxement perpétuel” (Godin, 2016, p. 51).
D’altro lato, c’è in tutto questo anche il tentativo di decostruire la necessità delle istituzioni ossia della società, che è anche la necessità della cultura. La necessità di essere come gli altri: per esempio di essere quel buon partito che il padre vorrebbe per la figlia, topos del cinema dell’epoca che ricorre in Charlot più volte e che Buster Keaton ha portato a perfezione. Forse una parte consistente della destituzione operata dal cinema muto degli esordi si trova proprio qui, nel tentativo portato ostinatamente avanti di mettere le cose (i valori, le istituzioni, etc.) alla prova della contingenza e vedere non tanto se reggono (non lo fanno), ma quali effetti si producono a partire da questo gesto. Il gesto è qui quanto permette di disattivare le convinzioni, mettendo in gioco un’altra potenza e boicottando l’ingannevole apparenza della normalità di una vita. È proprio l’invenzione di un nuovo gesto – non più assoggettato al regime di congruenza tra mezzi e fini – che permette di prendersi del tempo, abitando lo spazio tra cielo e terra, che è lo spazio dell’acrobazia e della danza.
* Appunti per una teoria dell’incidente
Da dove deriva la potenza del gesto, se non può essere né azione né intenzione? Da dove riceve quella sua capacità di “liberazione integrale” che, nelle parole di Artaud, passa attraverso una altrettanto integrale “lacerazione di ogni realtà” (Artaud, 1977, p. 251) (in cui noi leggeremo un’eco della dissociazione in Charlot, di cui sopra)?
Per provare a dare risposta a queste domande, introduco la nozione di incidente. Esiste un primo modo di pensare la relazione tra gesto e incidente, per cui il primo scaturirebbe dal secondo: l’eccezionalità della situazione che l’incidente produce ossia l’interruzione del normale funzionamento delle cose chiederebbe altri gesti rispetto a quelli che la normalità abitualmente richiede e istituisce. Se pensiamo all’incidente nella sua accezione drammatica, potremmo addirittura dire che la sua occorrenza libera gesti di solidarietà e di soccorso che di solito sono trattenuti o negati nello spazio pubblico. Eppure anche questa prima accezione di incidente è capace di profonde trasformazioni. Ce lo rivela, meglio d’altri, un passo che Walter Benjamin compone per il suo saggio La Parigi del Secondo Impero (1938): “Una strada, un incendio, un incidente stradale fanno raccogliere persone che come tali sono libere da una determinazione di classe. Si presentano come assembramenti concreti” (Benjamin, 2007, p. 135). Esiste, dunque, una forza che raccogliendo degli individui differenti, altrimenti distanti all’interno delle loro diverse appartenenze sociali, produce l’unità di un assembramento. Questa unità può essere magari precaria e transitoria, ma non è per questo meno reale. C’è in questo una concretezza dell’accidentalità che non può essere trascurata. E questa concretezza è data da un movimento verticale di caduta che riguarda tutte le classi e tutte le attraversa nella misura in cui sono coinvolte dall’incidente-Charlot. Andrebbe semmai posta la domanda se l’incidente colpisca tutti con la medesima durezza, dato che è evidente che il milionario tornerà nella sua villa, il vagabondo sotto un ponte. Ma nel momento dell’incidente si produce qualcosa come una liberazione dalla determinazione della classe, per quanto impermanente tale liberazione possa essere.
D’altro lato, continua Benjamin, si considerano questi assembramenti per lo più dal punto di vista esclusivamente statistico, cioè numerico: contiamo le vittime. Ma il dato numerico è incapace di rivelare “cosa li rende tanto mostruosi”. Esiste, dunque, un tratto a tal punto straordinario da dover essere definito mostruoso. E tale tratto, dice Benjamin, consiste nel fatto che sia la “casualità” ad aver condotto là gli individui. C’è qualcosa della vita che si libera a prezzo di questa mostruosità. Questo “carattere ibrido” degli assembramenti a cui un incidente dà luogo, questa contaminazione che si presenta al loro interno e che gli stati totalitari e il capitalismo hanno tutto l’interesse di valorizzare, rendendo permanente il loro carattere di masse, strumentalizzandone la presenza, è ciò con cui un incidente abitualmente ci confronta. Il suo evento, restituendoci all’oscura fragilità di una “pura” casualità della contingenza – come abbiamo visto recita il progetto di questo numero di K. – ossia con la sua assoluta accidentalità. L’incidente ci rimanda all’intreccio costitutivo del suo caso singolare con i casi delle nostre vite, a cui spesso tendiamo ad attribuire un valore destinale o necessario (“le cose dovevano andare così”) e a rimetterli in gioco. La pura casualità dell’incidente disfa la trama della realtà, così come le abbiamo dato forma affinché avesse un qualche significato. In questo senso Charlot incarna la figura del senza destino, e come tale non poteva non portare un elemento di sovversione legato a un tratto involontario, non a una scelta. È legato all’alea della situazione, non a un eroismo soggettivo, che già da sempre si prepara per il grande momento.
Accanto a questa accezione di incidente dobbiamo, però, subito introdurne un’altra, che non veda nel gesto la conseguenza dell’incidente, ma che faccia del gesto qualunque l’incidente stesso. In questo senso il gesto è libero da intenzionalità nella misura in cui è pensato esclusivamente come quel punto di caduta su cui convergono una molteplicità di elementi di vario tipo (visivi, acustici, sonori, tattili…) e che trasforma la stessa percezione del tempo. Per pensare questo gesto che è già incidente – un incidente di percorso, come recita un’espressione abituale della nostra lingua – mi riferisco a una situazione che coinvolge il pianista Glenn Gould. Ne parla Bernard Stiegler nel suo testo Prendersi cura, descrivendo la situazione in cui Gould, suonando una fuga di Mozart,
incontra il rumore di un’aspirapolvere che produce congiunzioni accidentali nella sua esecuzione che filtrano la sua interpretazione: Gould usa il rumore come un prisma. Tra l’opera e l’esecutore si interpone una serie di schermi o filtri, tutti processi di desensibilizzazione materiale (eliminazione di parte dello spettro sonoro) e di dissociazione sensoriale (separazione tra tattile e sonoro). L’opera, a sua volta, può finalmente “decollare”, cioè proiettarsi idealmente su una superficie puramente mentale (Stiegler, 2014, p. 152).
Nei suoi scritti Gould riflette: “Quello che ho imparato dall’incontro casuale di Mozart e dell’aspirapolvere è che l’orecchio interno dell’immaginazione è uno stimolo molto più potente di qualsiasi cosa possa venire dall’osservazione esterna” (Gould, 1983, p. 52, trad. mia)5.
Qui il concetto di incidente non diventa forse sinonimo di quello di “incontro”? Incontrare le cose qualsiasi e riconoscere nella loro occorrenza una presenza inaggirabile nelle nostre vite implica però una sorta di cortocircuito tra reale e immaginario: non si sa più se si sia svegli o se si sogni o se, per caso, non stiamo sognando ad occhi aperti. I piani tenuti così attentamente separati si confondono (non era forse proprio quello che Deleuze diceva di Antonioni?). Le cose qualsiasi sono oggetti accidentali, sono realtà non necessarie, ma neppure impossibili, secondo la definizione classica di contingenza. Sono realtà la cui esistenza non può essere né dimostrata una volta per tutte, ma neppure negata definitivamente. È una realtà fluttuante tra le due determinazioni di necessità e di impossibilità, ed è la realtà del mondo moderno definito già da Baudelaire come “il transitorio, il fuggitivo, il contingente”. La Storia non segue più dei piani salvifici, ma non segue neppure i buoni propositi della vecchia intenzionalità, cara al soggetto prestazionale. Se ne fa esperienza non tanto nella forma di un divenire, quanto in quella di un survenir: una Storia fatta di ciò che d’improvviso sopravviene, nonostante tutto. È il mondo da cui è assente un essere necessario (Dio) la cui esistenza unifichi e così giustifichi tutte le creature accidentali e, in un certo senso, le salvi dalla casualità a cui la loro contingenza continuamente le espone. Il cinema è la loro arte, è il metodo cioè il modo delle cose che sono non necessarie, ma libere perché imprevedibili, e la cui realtà, anche se non è giustificata da una causa trascendente, resta inaggirabile: non ci si può limitare a ignorarla, ma chiede di essere descritta, come fa il cinema con la presenza della sua camera.
In questa congiuntura storica e teorica, che si trova a occupare, il cinema fa prova di una sua capacità nel cogliere il contingente nell’evento che incontra: nel cogliere l’inaspettato che si fa evento nella forma dell’incidente. È, cioè, capace di cogliere il punto di caduta, quel punto in cui una molteplicità di elementi precipita. Nel mondo di Charlot, che è un mondo di casualità, è il dogma di una causalità ricostruibile a essere contestato. Non c’è concatenazione di causa-effetto, esattamente come la fuga di Mozart e l’aspirapolvere non hanno nessuna relazione in comune. L’incidente è proprio il luogo in cui cose che sono irrelate arrivano a incontrarsi, generando un evento di un nuovo tipo. Questo evento non fa mai oggetto del desiderio. Per quanto l’incidente possa avere delle conseguenze anche magnifiche su ciascuno, è pur sempre un incidente, cioè alla lettera qualcosa che si incide con la sua inesorabilità sopra la superficie visibile e anche quella invisibile delle vite. Ecco perché legare il cinema al desiderio significa scegliere una cifra superficiale, un’idea fondamentalmente vuota sia del cinema sia del desiderio. Così Charlot non è una figura del desiderio, ma – se vale come movimento destituente – è quanto lega la sua figura all’evento che lo espone ovvero che ne fa un vivente movimento di esposizione. È questo l’eccesso che, come già dicevamo, segna le vicende di Charlot: sfortunato, sgraziato, sempre travolto dagli eventi, dunque impotente in senso radicale, cioè impossibilitato a fare uso di un qualche potere che lo protegga dal mondo esterno, se non i pochi passi di danza che ogni tanto improvvisa per levarsi da qualche situazione imbarazzante. Là anche le migliori intenzioni deragliano. Là le cose ci tradiscono nella loro promessa di funzionare a dovere. Là le relazioni non sono reti, ma slabbrature: è vero che perdono pezzi da tutte le parti, ma aprono – o promettono di aprire – a un’altra vista sul mondo. Non resta che affidarsi a questo imprevisto dove i meccanismi (sociali, prima ancora che tecnici) non sono mai all’altezza delle finalità che sono state loro assegnate. Questo mancato funzionamento del mondo – questo suo essere “out-of-joint”, come si dice – trova nella gag del cinema degli esordi la sua manifestazione decisiva. Ecco perché la teoria dell’incidente dovrà contenere al suo interno una teoria della gag. La gag è, alla lettera, il colpo che ritma la scena comica, che la fa uscire dai binari della normalità, ingenerandone la carica comica. Tutto lì precipita. In questo senso la gag è il punto di precipitazione di una situazione, che genera un incontro imprevisto. È un corpo che ruzzolando ritma. Ci riporta al danzatore che batte il tempo della sua danza sul terreno. In questo senso la gag fa delle cose quello che sono non sulla base di qualità, ma sulla base del ritmo. La gag produce qualcosa di nuovo, una terza cosa che, come nell’esempio di Gould, non è né la sola musica, né il solo fastidio dell’aspirapolvere, ma una situazione altra. È un evento generativo che assume forma e che lo fa al di là della contrapposizione tra distruzione e mantenimento, nel senso di quel carattere affermativo di cui abbiamo parlato sopra. In questo senso trattiene sempre il destituente rispetto alla possibilità di coincidere con un impulso distruttivo a cui, in determinate situazioni, pare difficile sottrarsi. L’affermazione, aprendo una breccia rispetto alle istituzioni qualsiasi esse siano (il lavoro, la famiglia, la relazione dei sessi, etc.), produce il gesto-Charlot: apre una breccia e la divarica sul corpo del reale. Di tutto questo abbiamo visto che Charlot è portatore, anche se resta una questione se sia in grado di portarlo alle estreme conseguenze.