Lucrezio

Natura senza fondamento

Traduit de :
Lucretius

Texte

Non esiste una Natura in Lucrezio. Eppure, accade che il poeta romano personifichi la Natura. Il suo immenso poema, il De rerum natura, inizia con un vibrante, e celeberrimo, omaggio a «Alma Venus»; in altri versi, si riferisce all’azione di una Grande Madre o di Cerere. Lucrezio, in realtà, rifiuta categoricamente l'idea di una natura-soggetto, capace di agire intenzionalmente.

Si tratterebbe di una contraddizione di uno spirito molto inquieto? Forse Lucrezio cerca di tanto in tanto dei nomi da dare alla Natura per dimostrare che niente nasce da niente, uno dei suoi postulati teorici più importanti, per chiarire che non si dà nessun intervento esterno sulle «cose di natura». L’idea è che sussista un’auto-produzione che caratterizza i fatti naturali. Una forza, una «opus infinita» che possiamo chiamare Natura, Amore o Demetra, le animerebbe dal di dentro. Attenzione, però: Lucrezio precisa che questi nomi non corrispondono ad alcuna verità; possiamo chiamare la terra come vogliamo, ma essa «invero è in eterno priva di senso» (DRN, II, 652). La Natura non ha nome perché, in realtà, non esiste, e le «cose di natura» sono quindi assolutamente prive di senso.

Il De rerum natura dimostra che è impossibile lasciare dipendere la varietà delle produzioni naturali da un piano o uno spirito o una Natura. La Natura in Lucrezio, per questo motivo, non si riferisce a una natura, ma alla spontaneità della produzione delle cose; all’incontro fra di esse.

Se non esiste la Natura, esistono dunque le cose di natura, e le relazioni, scontri fra di esse. Se la natura è assente, Lucrezio insegna che nessuna fusione, conciliazione, con il mondo è concepibile. La natura è uno spazio da inventare, nominare, per cui lottare continuamente.

Gli incontri tra le cose non sono il frutto di una ragione, non hanno (un) senso; sono assolutamente casuali. I mondi infiniti sono generati da relazioni fra atomi che hanno deviato dal loro percorso per «caso». La deviazione casuale ha un nome molto famoso: clinamen; è un neologismo in lingua latina coniato da Lucrezio, che non trova neanche riscontro nei testi originali greci di Epicuro, cui il poeta nato forse a Pompei, notoriamente, si riferisce costantemente.

Il clinamen: una leggera, infinitesimale, deviazione («nec plus quam minimum», DRN, II, 244); un accidenti nel flusso continuo degli atomi, che si spostano nella loro caduta verso il basso, in modo spontaneo e aleatorio, e si incontrano/scontrano con altri atomi, producendo altri incontri/scontri che creano corpi composti e mondi.

Il clinamen è una torsione, forse una catastrofe, nel senso etimologico del termine: dal greco καταστροφή, composto di katá («giù, in basso») e stréphein («girare, voltare»). Il clinamen sarebbe allora il fatto di rivoltarsi rispetto a una semplice caduta verticale; una forma di «rivolgimento» imprevedibile. Non è iscritto nelle cose, non è la loro anima, piuttosto si rivela il risultato del loro stesso movimento continuo che, ad un certo punto, in qualche luogo, va «fuori giro»; inizia a vorticare, a non seguire più il flusso consueto, si gira, devia, e va incontro ad altri atomi.

Il clinamen rovina le cose, sin dal loro sorgere; ritrae sia l’urto tra le cose stesse, effetto della loro stessa esistenza; sia, più profondamente, ineluttabilmente il movimento eterno, privo di clinamen, degli atomi. Si tratta, rispetto al movimento caotico ed eterno, di un fugace accidente che capita alla cosa, evoca il venire all'esistenza di un nuovo singolo, più duraturo dell’accidente; provoca, turbine-cosa, l’emergenza addirittura di un nuovo mondo, turbine di turbini. Se l'eterno movimento come caos è una forma enigmatica di regolarità sostanziale; come un'assolutizzazione della differenza; ossia una ripetizione senza differenza, il clinamen sprigiona una forma creativa di destituzione, imprevedibile sul piano ontologico, forse persino impossibile, che spezza l'ordine dell'ingovernabile (potremmo considerare il clinamen l’irruzione del negativo totalmente inatteso).

Il clinamen certifica che nel mondo non agisce alcuna trascendenza di una volontà provvidenziale né tantomeno alcuna immanenza di una necessità materiale.

Il clinamen accade, ecco. Ma, certo, può anche non accadere. La poesia di Lucrezio, a ben vedere, incarna la memoria di questo evento che può darsi ma anche non avvenire; la (sua) poesia ha il compito di evocare questa aporia tra il reale e il virtuale, di lasciare esistere ciò che potrebbe non accadere mai, ma che potrebbe essere accaduto oppure avvenire nell’avvenire.

Il «caso», la «fortuna», per riprendere un termine molto caro ai romani (e poi a Machiavelli), è tutto quello che avviene in modo imprevisto e coincide con l’essere stesso. Il caso, dal latino «casus», è qualcosa che succede. Che cosa succede? Che cosa c’è? Lo ripetiamo: avvengono incontri fra le cose che si realizzano senza Ragione, senza Senso, privi di una Causa. Come scrive Althusser, questo materialismo si riassume in un’unica proposizione: «Il y a».

Non c'è nessun principio in Lucrezio. Gli stessi atomi, come faceva notare Clément Rosset, non costituiscono la materia prima, non hanno nemmeno un termine specifico che li designi. Il mondo non deriva dagli atomi; il mondo è gli atomi; incarna l’esito dei loro incontri che accadono nel vuoto infinito. È in questo cosmo «infondato» che si muovono tutte le cose (DRN, I, 334).

Lucrezio, come gli capita spesso, fa un esempio «visivo» per alludere a questa immensità: lanciate un dardo nel cielo, secondo voi, se ne avesse la forza, troverebbe mai un limite? Il poeta lascia intendere che il dardo non arresterebbe la sua corsa perché «il suo poter fuggire via protrarrà per sempre il fuggire» (DRN, I, 983). Il dardo rivela che gli atomi non possono smettere di muoversi perché non «esiste il fondo di tutto» ove le cose possano confluire e porre la loro sede (DRN, II, 90-91).

Buona parte della tradizione della filosofia antica condanna il vuoto perché in esso un corpo non avrebbe motivo di muoversi, non avrebbe meta o luogo da raggiungere, o, più precisamente, il suo movimento non avrebbe «senso». Lucrezio, a modo suo, risponde che è vero, effettivamente il movimento del dardo non ha nessun senso; esso corre, punto. In verità, nessuna cosa ha senso: il mondo intero non ha senso, siccome non ha origine, siccome non ha fondo.

Il De rerum natura sconvolge, ancora oggi, perché decifra e rileva un mondo travolto da una casualità cieca, priva di qualsivoglia scopo o effetto che abbia valore.

A noi sembra particolarmente interessante notare che la moltiplicazione del diverso, gli incontri fra le cose si realizzino dentro uno spazio infondato. Non c'è un Ordine in ciò che accade. In una pioggia di atomi, che, da sempre, scorre nello spazio infinito, talora alcuni di essi deviano e danno origine a degli aggregati.

Cézanne scriveva a Gasquet che la storia del mondo comincia quando due atomi s’incontrano; quando due vortici, due danze chimiche si combinano. Quest'alba, che per Cézanne è anche l'occasione della pittura, si realizza al di sopra del nulla: una danza sull'abisso.

Sostenere che lo spazio in cui tutte queste casualità si dispiegano, in cui nascono arcobaleni immensi, prismi cosmici, è un «abisso», è un «senza fondo», significa cancellare qualsiasi idea di origine. Allora è qui che emerge la questione della destituzione del potere; di qualsiasi potere nel De rerum natura. E quindi la carica iper-politica, proprio perché ampiamente mascherata, del capolavoro lucreziano. Se non c'è un senso, se non c'è uno scopo, non bisogna nemmeno pensare che possa sussistere una potenza che produrrebbe il mondo una volta all'inizio, e poi, non la smetterebbe più, riproducendo all'infinito la propria carica energetica. Lucrezio, in effetti, sostiene che le cose possono sprofondare, ad un certo punto, «con grande fragore», nell'abisso.

Non è detto infatti che il clinamen produca sempre mondi. Il clinamen non è una potenza; rappresenta soltanto un movimento determinato dalla stessa caduta delle cose. Si produce nella pioggia e fa piegare le cose (gli urti sono le «piaghe»). È il clinamen che destituisce ogni idea di Natura, Ordine, Soggetto, Potenza; tanto è vero che esso, un giorno, non produrrà più niente.

Se non ci sono fondamenta, se non c'è una potenza, giacché tutto è stato costruito sul nulla, nel vuoto, per caso, in una ripetitiva ed eterna pioggia, un giorno tutto sarà spazzato via. Rimane, fin quando rimane, esclusivamente febbrile, indeterminata, un’imprevedibile combinazione di cose, materie, relazioni, eventi.

Un permanente rivolgimento: una catastrofe che riguarda la stessa possibilità di vita.

Non manca lo spazio né la profondità dell'abisso dove, dice Lucrezio, tutte le barriere del mondo possono disperdersi e andare distrutte. Le porte della morte non sono chiuse né alla terra né al cielo né al sole né all'acqua, anzi li attendono e li scrutano con vasta e immensa voragine (DRN, V, 366-376). L’abisso, il vuoto, il problema dell'an-archia evocano la questione della fine possibile di tutto. Si leggano i terribili versi del libro V del De rerum natura (soprattutto 93-109): si tratta proprio del tentativo di pensare la coppia sottrazione/distruzione, infondatezza e nichilismo.

Che fare dentro la catastrofe che è la natura stessa delle cose, la loro logica (il clinamen)? Come aveva intravisto Camus, la filosofia di Lucrezio, a differenza di quella del suo maestro ateniese, Epicuro, non è mai rinunciataria. Lucrezio non insegna a innalzare muraglie intorno all'uomo e a soffocare il suo grido. Nei versi di Lucrezio si avverte la voglia di giustizia, il desiderio di battersi, malgrado tutto. La sua poesia è un urlo, disperato, per immaginare un’azione comune (DRN, I, 43). L'atarassia diventa allora questione problematica in una filosofia di lotta, in un pensiero militante e mai pacificato, come appare quello di Lucrezio. La destituzione riguarda l’essere stesso; non anche chi dentro la destituzione dell’origine, del senso, del fondamento, dell’autorità, deve abitare.

Saggio si rivela per Lucrezio chi è renitente al fato; il ribelle alle ferree leggi delle cose. Non è detto, sembra dire Lucrezio, che dobbiamo subire le cose di natura ; non è detto che dobbiamo aspettare la catastrofe «in ginocchio» e con le braccia conserte: il clinamen è quella minima deviazione, quella piccolissima catastrofe, che ci dà anche il senso di un nuovo improrogabile gesto, di nuove responsabilità, più alte.

La filosofia lucreziana permette di orientarsi nella catastrofe; e non perché configura lo spazio di un nuovo intervento dell'uomo nella storia (il «libero arbitrio»? No, grazie, ci rende nervosi!); piuttosto perché destituisce, una volta per tutte, l'idea di storia. In effetti, il caso presiede non solo all’emergenza di nuovi mondi e all'evoluzione delle specie, ma anche ai sobbalzi della storia. Non può allora darsi una scienza del processo storico perché non c'è nessuna direzione nella storia. È proprio quanto cerca di sperimentare, in modo drammatico, l'ultimo Althusser leggendo gli epicurei, insieme con Pascal e Heidegger! I fatti accadono, come gli incontri fra gli atomi, i vortici. Ma i fatti non si susseguono in maniera pacifica e unidirezionale, come pretendono i riformisti e gli storicisti. Ogni tanto il loro flusso si increspa, dei piccoli vortici emergono in superficie, proprio come accade alla cose di natura. Si produce, cioè, una «svolta», una torsione imprevidibile dell’essere e l’essere così com’è va in frantumi e divampano le rovine. Tutto ciò, se avviene, non lo determina nessuno, soprattutto nessuna coscienza infelice; accade. Soltanto il poeta, però, riesce a sognare questa rivoluzione e la lascia scorgere e desiderare questa rottura delle cose, del mondo. E come Pasolini, Lucrezio ci lascia vedere che si può sempre vivere altrimenti da come appare inevitabile.

Il clinamen lucreziano non è una potenza, ma un «potere destituente». Nel suo lungo poema Lucrezio si pone una domanda:

Non vedi dunque ora che, sebbene una forza esterna
spesso costringa a procedere molti uomini che riluttano
a essere precipitosamente trascinati, tuttavia c'è nel nostro petto
qualcosa che può ribellarsi e opporre resistenza? (DRN, II, 277-280).

Gli uomini e le donne, cose di natura fra le altre, sono trascinate nel flusso continuo. Succede talora che tali frutti di incontri casuali fra gli atomi – gocce di pioggia o granelli di polvere che volteggiano nello spazio infinito – si sottraggano, in un momento e in un luogo non prestabiliti, alla corrente. Si defilano dalla marcia in avanti, disertano, facendo una «torsione» più veloce, più feroce, dentro il flusso, dentro la catastrofe che sommerge gli altri: alzano un braccio per farsi vedere, si appendono a un ramo sulla riva per salvarsi, si mettono a nuotare controcorrente (ci vuole forza ed esercizio fisico, come quello che praticava Kafka: torno indietro, restando fermo). Scrivono dei versi, disegnano o liberano nuovi spazi per tutti.

Il potere destituente, per noi, è uno qualsiasi di questi gesti. Non è una decisione, non è un atto di volontà: ricalca un gesto improvviso, inatteso, spesso inspiegabile, in grado persino impercettibilmente di deviare il corso normale delle cose. Si tratta di un evento; che da solo non basta: un evento bisogna raccoglierlo e lasciarlo germogliare.

Vogliamo condividere la nostra passione per Lucrezio, vogliamo leggerlo per strada, vogliamo scrivere il suo nome sui muri, ricopiare i suoi versi nei bagni pubblici o sulle bacheche dei social networks perché è questo sfortunato, grandissimo, umilissimo, poeta che ci dice che, nel ripetitivo trascorrere del tempo, nel tempo vuoto e omogeneo, nella desolazione che era la sua, che è la nostra, è possibile che qualcuno si fermi, inizi a girare su stesso; è possibile che un clinamen intervenga nelle oscure vicende di un essere qualunque. Il movimento di questa singolarità, come quello di un atomo, in spirale, in direzione ostinata e contraria rispetto al flusso, coinvolge gli altri vicini a lui, i suoi simili, quelli della sua classe sociale, quelli del suo genere (se esiste), quelli della sua specie (se si identifica in una specie).

Un vortice si produce. Perché? Non si sa. Forse la «forza esterna» ha gridato troppo forte. Un «petto» più sensibile ne ha sofferto. Una «turba» di uomini e donne è ora là.

Qualcosa avviene: il De Rerum natura è un testo composto per l’avvenire; un avvenire che deve ancora accadere.

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Référence électronique

« Lucrezio », K [En ligne], 6 | 2021, mis en ligne le 01 juin 2021, consulté le 27 mars 2025. URL : http://www.peren-revues.fr/revue-k/1160