Non sta: si svolge e gira
quanto nel ciel e sott’ il ciel si mira.
Ogni cosa discorre or alto or basso,
benché sie ’n lungo o ’n breve,
O sia grave o sia leve;
(…)
Tanto gira sozzopra l’acqua il buglio,
ch’una medesma parte
or di su in giù, or di giù in su, si parte;
e il medesmo garbuglio
medesme tutte sorti a tutti imparte.
Giordano Bruno
Per introdurre
La “differenza” tra le filosofie della natura di Epicuro e di Democrito risiede, lo sappiamo a partire dalla famosa dissertazione marxiana (Marx, 2004), nel loro diverso modo di concepire il caso. Se, per Democrito, il caso sarebbe solo l’apparenza di un mondo retto dalla necessità, per Epicuro, invece, il caso nega proprio ogni forma di necessità, spezza le leggi del meccanicismo. Si dice, allora, che Epicuro cerchi di tenere sempre aperte le vie della libertà. Questa libertà è possibile perché c’è nel corpo stesso degli “elementi primordiali” un mezzo, un movimento, un gesto che è suscettibile di far saltare il determinismo. Nella caduta verticale e continua, terribile, cui sono condannati, nella pioggia ininterrotta che li trasporta, il cui scroscio risuona da sempre nell’infinito universo, gli atomi hanno la possibilità di una minima “declinazione” che li fa deviare dal loro percorso e li porta ad incontrarsi o a scontrarsi, liberamente, fra di loro.
È questa “declinazione” iscritta negli atomi stessi che differenzia Epicuro da Democrito. Si badi bene: il movimento libero che gli atomi assumono nella fisica epicurea non assicura nessuno scopo, nessuna direzione all’andamento delle “cose” nell’universo infinito. È vero che gli atomi, deviando, incontrano altri atomi e possono formare in tal modo “cose” e poi mondi, ma non c’è nessun disegno che dia un senso ai movimenti, agli incontri. La “declinazione”, al contrario, rafforza l’idea di casualità: guardate i fenomeni, ci dice Diogene di Enoanda, guardate come tutto accade a caso1.
In effetti, non si cerca più un fondamento vero; è il sensibile che è la verità, che ci svela il funzionamento delle “cose”: le “cose” e basta. Nella sua ricerca di una autentica “natura”, nascosta agli occhi dei più, la filosofia democritea finisce con l’approdare su posizioni metafisiche, se per metafisica intendiamo l’affermazione dell’essere al di sotto dell’apparenza, cioè l’idea che esista un ordine che trascende il disordine, una necessità che trascenda il caso e un fondamento (la “natura” o gli atomi) (Rosset, 1973, p. 156). Per Epicuro gli atomi costituiscono certamente la parte invisibile delle “cose”, ma essi non sono la natura, la natura indistruttibile ed eterna. Essi lo interessano perché componendosi a caso fra di loro, scontrandosi anche, creano la realtà delle “cose”. Ma egli si concentrerà su queste “cose”: la verità non è più il fondamento (l’atomo), ma le “cose” prodotte dal caso degli incontri tra gli atomi.
Epicuro pone questioni decisive nello sviluppo della filosofia: in un mondo in cui domina il caso, che fine fa l’idea di natura? Che fine fa ogni idea di invarianza, di necessità, di essere, di verità? Come pensare l’infinito? Epicuro viaggia oltre l’Egeo, oltre lo Ionio, oltre i Balcani, oltre il suo tempo ogni volta che vengono poste queste domande. Arriva in Italia e Francia tra il XVI e il XVII secolo, arriva fino in Germania, nel XIX secolo. Nelle pagine che seguono, mi concentro sul momento in cui queste teorie, e queste domande, passano in Italia, qualche secolo dopo la loro nascita, in qualche posto fra Roma e la Campania. In questi luoghi, non meglio precisati, nel I secolo a. C., avrebbe vissuto, si sarebbe mosso, avrebbe pensato, scritto, sofferto, amato Tito Lucrezio Caro. Un nome, solo un nome, fra i tanti della ripresa dell’epicureismo. Sappiamo davvero poco su di lui2. Sappiamo, tuttavia, con certezza che la sua sfida teorica consiste precisamente nel tentare di rispondere a quelle questioni, di separare il destino della filosofia dalla metafisica, almeno di aprire un’altra prospettiva per la filosofia. Come il suo amato maestro Epicuro, Lucrezio cerca di pensare non la verità delle “cose”, ma le “cose” stesse, le loro relazioni, i loro scontri, un mondo aperto, infinito. Diversamente dal suo maestro, egli vuole anche “dire” questo mondo. Non sappiamo, in effetti, molto di Lucrezio, ma egli ci ha lasciato un lungo poema che ci è arrivato quasi integralmente, intitolato De rerum natura. Perché Lucrezio tradisce proprio su questo punto Epicuro, che, secondo Diogene Laerzio, afferma che il vero sapiente non compone poesie (Diogene Laerzio, 1998, p. 439)? Cosa significa allora scrivere di filosofia in versi? In questo contributo voglio cercare di rispondere a questa domanda la quale, tuttavia, impone di porne, innanzitutto, un’altra: quali sono le implicazioni teoriche, e anche politiche, di una filosofia che erge il caso, quello che Lucrezio chiama la “fortuna”, al governo del mondo?
1. Clinamen (poesia I)
Sembra che non vi sia un termine specifico per indicare la “declinazione” degli atomi in Epicuro, almeno nei frammenti dei suoi testi che sono arrivati fino a noi. Invece, Lucrezio inventa la parola “clinamen” per designare questa deviazione degli atomi dalla linea retta che produce i loro scontri, i loro incontri, la creazione delle “cose”, dei mondi. Il “clinamen” non deriva da nessuna determinazione, è aleatorio. È, come scrive Serres, uno “scandalo” perché mette le leggi fisiche sotto l’impero della casualità, distrugge l’idea stessa di universalità delle leggi (Serres, 1977, pp. 97-98). Il mondo di Lucrezio è un mondo caotico, un mondo attraversato da choc violenti: talora gli atomi rimbalzano gli uni lontani dagli altri, talaltra, in qualche scontro forse troppo energico, finiscono per incrociarsi. Nascono “cose”. Il “clinamen” è un’eccezione, un accidente, un evento intempestivo e fugace, dentro una battaglia. Gli universi infiniti di Lucrezio sono effettivamente il risultato, e il teatro, di una vera e propria guerra interstellare infinita, il cui esito è sempre nuovo (non c’è posto per l’identico in un universo infinito) e sempre in bilico (ci saranno nuovi incontri fra gli atomi o tutto rovinerà?).
Lucrezio scrive, è poeta, per mostrarci questo spettacolo. Sa bene che siamo distratti, allora per tenerci svegli fissa la sua grandiosa cosmogonia in qualche immagine:
Osserva infatti, ogni volta che raggi trapelano
e infondono la luce del sole nell’oscurità della stanza:
vedrai molti corpi minuscoli vorticare
in molteplici modi nel vuoto nella luce stessa dei raggi,
e come in un’eterna contesa muovere contrasti e battaglie
scontrandosi a torme, senza mai trovar pace,
continuamente agitati da rapidi congiungimenti o effrazioni;
così che puoi arguire da ciò quale sia l’eterno
agitarsi degli elementi primordiali delle cose nell’immenso vuoto;
per quanto un piccolo fenomeno può offrire l’immagine
di grandi eventi e una traccia per la loro conoscenza (DRN, II, 114-124)
I granelli di polvere che vediamo volteggiare in una stanza in un pomeriggio d’estate, nella penombra, quando cerchiamo di dormire nell’arsura soffocati dal caldo, sono il “simulacrum” dei “primordia rerum”. È una specie di parabola visiva che il poeta, in quanto poeta, offre della propria cosmogonia. La sua poesia è, innanzitutto, visiva, se non visionaria. Lucrezio sceglie la poesia per “far vedere”, per mettere sotto gli occhi, le “cose”. Sarebbe troppo difficile, troppo spiazzante altrimenti. Invece le parole in versi diventano “cose”. La poesia è capace di suscitare quelle immagini che dicono le “cose”. Ecco l’“imago”: il movimento caotico della polvere dietro le persiane socchiuse è lo stesso tipo di movimento che è in atto nell’universo infinito. C’è nelle “cose”, piccole o grandi o grandissime, la stessa guerra, le stesse battaglie, gli stessi colpi (“plagae”3) che vediamo in quel pulviscolo di polvere rischiarato dai raggi di sole. Un’immagine rivela tutto il funzionamento del mondo.
Questo solo un poeta può farlo, un grande poeta, forse un filosofo, sicuramente un uomo che soffre moltissimo per lo sfacelo delle guerre di Roma4. Probabilmente soltanto un romano del I secolo a. C. può dare un simulacro così preciso della guerra dei mondi.
Il “clinamen” è, come sembra capire il Marx che prepara la sua tesi su Democrito e Epicuro, esso stesso guerra, o catastrofe. Piovono atomi, ma non verticalmente. Essi, in un momento indeterminato e in un luogo indeterminato, “incerto tempore ferme incertisque locis” (DRN, II, 218-219) “deviano”. Solo un poco poco, come se oscillassero. Questa minima modifica del loro movimento “nec plus quam minimum” (II, 244) genera urti (“offensus”) e colpi (“plagae”) fra di loro. La pioggia di atomi, monotona, triste, malinconica, si trasforma in uno scenario di guerra. Lucrezio offre una grandiosa visione di un universo in preda a lotte tumultuose. L’universo infinito risulta da una “nova tempestas” (V, 436), un’improvvisa tempesta, una catastrofe: delle battaglie feroci “proelia” tra gli atomi di ogni specie, che dopo tanti urti, alla fine riescono a trovare delle configurazioni più stabili, anche se provvisorie.
Il “clinamen” sarebbe all’origine di questa “nova tempestas”, è esso stesso tempesta che determina, assolutamente casualmente, le “plagae” che sono generatrici di “cose”: gli urti creano, infatti, dei movimenti che permettono la creazione di mondi. La deviazione catastrofica, spontanea (gli atomi si muovono senza rispettare nessun disegno, nessuno li fa muovere) e aleatoria (non si sa quando si produce né dove si produce) costituisce l’inizio di tutto quello che appare sotto i nostri occhi. Il “clinamen” è negli atomi, non come la loro “anima” né come la loro “potenza”. Il “clinamen” è uno scarto rispetto alla linea retta dovuto al movimento stesso degli atomi che in un universo infinito non potrebbero cadere sempre verticalmente. Iniziano, invece, a alterare il loro percorso in linea retta, al che si scontrano tra di loro, si azzuffano.
Il “clinamen” è la guerra di tutti contro tutti, è catastrofe, ma, in quanto catastrofe, è anche soprattutto una sorta di inizio: “principium quoddam” (DRN, II, 254). Il “clinamen” infrange ogni legge di causalità, rompe, cioè, come dice il poeta romano, tutti i patti del fato e della natura. In maniera netta, con la sua guerra di atomi, Lucrezio fa abdicare dal trono del mondo il fato, necessitante, e regola (sregola) questo stesso mondo con le avventure del caso, aperto e indocile. Il “clinamen” non ha cause, non ha senso. Succede talora, da qualche parte. Una minima deviazione nella notte senza tempo produce allora mondi o distrugge mondi. Il “clinamen” sembra essere una sorte di gioco nel quadro della necessità che regge l’universo. Cicerone si chiede nel De fato perché gli atomi “declinino” in Epicuro. Perché? Chi lo sceglie? Essi tirano a sorte fra di loro per sapere quale atomo tra loro devii e quale no? E perché debbono deviare di un intervallo minimo e non di uno più grande? (De fato, XX, 46).
2. “Fortuna gubernans”
Cicerone prova a irridere il materialismo degli atomisti, ma il loro gioco del mondo è qualcosa di terribilmente serio. È vero che l’attività spontanea e senza scopo degli atomi fa pensare ad un gioco combinatorio. Le “cose” della natura non sono il prodotto di un disegno razionale, né opera divina, ma risultano dalla combinazione casuale fra gli atomi, dopo i loro scontri:
Infatti di certo gli elementi germinali delle cose
non si disposero ognuno al suo posto per il criterio di una mente sagace,
né pattuirono i moti che ognuno avrebbe dovuto imprimere,
ma poiché i numerosi germi della natura in molteplici modi
ormai da tempo infinito sospinti dagli urti
e dal loro stesso peso sogliono spostarsi velocemente,
aggregarsi in ogni guisa e produrre tutte le combinazioni
cui possono dar luogo con la loro reciproca coesione,
da ciò deriva il fatto che disseminati per interminabili ere,
sperimentando ogni genere di unioni e di moti, infine
finiscono per addensarsi quelli che, collegati di colpo,
divengono spesso i principi delle immense sostanze,
la terra, il mare, il cielo e le creature viventi (DRN, V, 419-431).
Gli incontri fra gli atomi sono assolutamente casuali; dei dadi gettati su un tavolo. Nella loro caduta, deviando, essi si scontrano con altri atomi e talvolta accade che si uniscano fino a diventare “magnarum rerum exordia”, principi delle “cose” immense. Terra, mare, cielo, creature viventi sono il frutto di un azzardo. È successo che quei dadi gettati sul tavolo, dopo tante mazzate inutili, hanno prodotto delle combinazioni interessanti, che Lucrezio con un conio molto suggestivo definisce “dispositurae” (DRN, V, 192), “disposizioni”. Il gioco del mondo sarebbe proprio il carattere aleatorio che Lucrezio vede all’opera nelle “cose” di natura.
La Fortuna è “gubernans” nel mondo (DRN, V, 107). Su questa espressione ossimorica sono state scritte molte pagine5, io condivido l’interpretazione di Giancotti secondo cui il verbo “gubernare” è impiegato da Lucrezio quasi con il significato di “sgovernare” (Lucrezio, 2002, p. 518). Non c’è nessun governo nelle dinamiche naturali, non c’è “Natura” intesa come principio unificatore e organizzatore in Lucrezio: ci sono degli atomi che la “fortuna” fa incontrare e che possono produrre “cose”. È tutto un azzardo. Il “clinamen” è un caso dentro un mondo dominato dal caso. Il “clinamen” è un lancio di dadi: esso lascia aperta ogni possibilità di futuro, crea degli incontri, ma scioglie anche gli incontri, dal momento che il futuro dipende solo da un azzardo. La minima declinazione degli atomi sottolinea il carattere aleatorio e contingente delle disposizioni che assumono le “cose”, quando riescono a congiungersi e amalgamarsi (“coire”).
Da buon epicureo, Lucrezio pensa che tutto quello che accade è dovuto al caso. Ma, attenzione: la forma che le “cose” hanno preso non cancella il caos. Il gioco del mondo continua a giocare. Alain Gigandet chiude un testo molto convincente sulla “fortuna” parlando del “Veneris jactus”, la mossa vincente al gioco dei dadi. Quando pensiamo a Lucrezio pensiamo ad “Alma Venus”, la celebre immagine che apre il poema e rinvia ad una creazione infinita delle “cose”. Ma questa Venere come produce? Come ordina i movimenti dei viventi? Come organizza la “voluptas” che fa generare ogni cosa senza sosta? Ecco, il regno di Venere, secondo Gigandet, è quello dell’amore, ma anche quello del caso, di un colpo vincente di dadi (Gigandet, 1996, p. 224).
Cosa ci dice dunque Lucrezio? Che l’ordine innanzitutto è un accidente dentro il disordine. Si potrebbe parlare, forse, di “Ouraganisation”, per riprendere un’espressione di Joyce (1939, p. 86), che rinvia anche alla “nova tempestas” lucreziana. L’organizzazione del mondo, la sua struttura, è, in realtà, sempre vorticosa, sempre instabile. Cosmo e caos sono sempre coimplicati. Ancora Joyce: “chaosmos” (p. 118). Ci sarebbe un ordine, un cosmos, che è tuttavia sempre alle prese con una miriade di vortici (uragani) di atomi che possono fare di questo cosmos di nuovo un caos, un disordine, come il disordine originario in cui gli atomi cadono verticalmente6. Quello che conta è avere in mente proprio il fatto che l’ordine che possiamo immaginare nell’universo non ha seppellito questo disordine originario. Il gioco continua sempre. Oggi un risultato, domani un altro.
Due corollari importanti di questa posizione e una conseguenza: 1) non c’è nessun fondamento nell’universo infinito; 2) le grandissime associazioni fra gli atomi, l’ordine del nostro mondo, sono instabili e non possono durare. Se si vuole allora dire qualcosa di questo mondo, dovuto al caso, occorre stabilire un nuovo rapporto fra le parole e le “cose”. La scelta della poesia è una conseguenza della sua visione del mondo, oltre che una scelta obbligata per Lucrezio.
3. Catastrofe
Gli universi infiniti lucreziani sono davvero “infondati”. Non c’è un principio. La stessa “natura” che sarebbe la trama che risulta dall’intreccio fra di loro degli atomi non esiste, perché questa tessitura, in quanto composizione di particelle in continuo movimento, in lotta eterna fra di loro, accozzati in molti modi alla cieca, a vuoto, invano (DRN, II, 1061), non si dà mai definitivamente. Il mondo di Lucrezio è un mondo senza natura, perché è un mondo in cui domina il caso. L’idea di natura viene forgiata proprio quando si vuole scongiurare lo spettro del caso. Lucrezio, invece, resta fedele alla contingenza, all’aleatorio, e abbandona l’idea stessa del naturalismo: la natura designa nel suo poema solo gli incontri fortuiti fra gli atomi. Gli atomi non costituiscono un fondamento, non hanno nemmeno un nome specifico in Lucrezio. Non sono la materia prima del mondo da cui si produce ogni cosa, il mondo non deriva dagli atomi, il mondo è gli atomi (Rosset, 1973, p. 156).
Leggere Lucrezio è un’esperienza vertiginosa non solo perché assistiamo alla guerra fra atomi che volteggiano per l’infinito spazio, perché vediamo formarsi vortici e uragani, e quindi mondi, e poi le rovine di queste “cose” quando nuovi urti si producono, ma anche perché scopriamo che il nostro pensiero, alla ricerca di un fondamento (l’atomo?), non trova nessuna assise, anzi la scoperta decisiva che viene fatta è che noi, gli atomi, il mondo, i mondi infiniti, siamo tutti senza suolo, senza fondo. Un abisso davvero abissale: non esiste un ultimo fondo “nil est funditus imum” (DRN, I, 993), nel quale possano confluire gli atomi e crearvi le loro combinazioni.
La questione del vuoto come è posta da Lucrezio diventa cruciale per una filosofia del destituente. Gli atomi esistono solo nel vuoto, o meglio: il vuoto esiste già prima che gli atomi cadano dentro questo spazio infinito. Ma soprattutto, e qui interviene la posizione dell’ultimo Althusser, una filosofia del vuoto non significa semplicemente che il vuoto è primigenio, significa anche fare il vuoto, cioè partire dal niente (Althusser, 1994, p. 561). Questo vuol dire, in altri termini, destituire tutte le domande classiche della filosofia, la storia stessa della filosofia, per affermare che l’oggetto della filosofia è il nulla. Essere destituenti con Lucrezio implica l’annullamento del senso, affermare, cioè, che nessuna cosa ha uno scopo, che non esiste una causa, non esiste un’origine, non esiste un ordine, non esiste una finalità, non esiste l’essere stesso delle “cose”. Il drammatico testo di Athusser arriva a questa conclusione: non c’è un senso in quello che accade. Il De rerum natura fa parte di una possibile costellazione destituente perché ci dice che nell’infinito, nello spazio infinito, solo un principio di vacuità (quindi un non principio, un non fondamento, un senza fondo) fonda an-archicamente la realtà. La questione del destituente, nel solco tracciato da Lucrezio, continua a porsi, oggi, per noi, nei termini della casualità e dell’infondatezza.
È per questo che non ci convince la lettura che Toni Negri fa di Lucrezio (Negri, 2000). Noi riteniamo che non ci sia una potenza affermativa dell’essere in Lucrezio, mentre Negri legge l’amore, cantato dal poeta romano nella sua invocazione iniziale a “Alma Venus”, come potenza ontologica che costruisce l’essere (p. 105). Se, per Negri, la ripresa del materialismo lucreziano significa l’affermazione di una generazione continua dell’essere che lo innova di continuo; a noi, invece, essa dice la possibilità della fine del mondo.
Le “cose” di natura possono nascere incessantemente, animate da una potenza creatrice, ma questo fluire, questa fluenza (la “Natura”, appunto, grecamente intesa) possono anche cessare.
Ecco perché in Lucrezio non c’è “natura”, ecco perché non c’è nemmeno potenza.
C’è la costituzione insistente di “cose”, c’è anche la loro destituzione. A noi interessa molto questa riflessione lucreziana, perché poniamo la questione del destituente fuori dalla logica della potenza, nell’orizzonte, invece, infinito e senza senso, di una pioggia di atomi. Ai conservatori, agli eterni conservatori, a coloro che sono alla ricerca di una qualsiasi costanza nell’universo, noi opponiamo il rifiuto della “natura”, l’affermazione dell’alea distruttrice, il rigetto dell’eternità. In altri termini, noi poniamo il nostro problema del destituente nell’orizzonte, nella prospettiva, nell’urgenza del disastro, che definiamo, seguendo Blanchot (1980, p. 202), come il ritiro fuori dallo spazio siderale. Disastro vuol dire essere separati dagli astri, essere gettati fuori dall’ordine di un cosmos, una notte liberata dalle stelle, piove... non esiste più niente.
Prima di cercare di dire qualcosa su un possibile rapporto fra questo nichilismo e una politica a venire, occorre forse precisare che nel vuoto possono realizzarsi incontri fra gli atomi, può accadere un “clinamen”, può esserci “generazione”. Io scrivo, voi leggete, qualche urto e qualche abbraccio fra gli atomi c’è stato da qualche parte, in qualche momento. Ma può anche succedere che non ci siano più incontri, che un “clinamen” non si realizzi.
In questo caso, o non ho scritto, o, se anche sono riuscito a scrivere, non mi leggete più. Un incontro che si è realizzato un giorno non è detto che si riprodurrà, non è detto che durerà. Il vuoto è lo spazio che rende possibile gli infiniti mondi perché gli infiniti semi delle “cose” possono scagliarsi in qualunque luogo, qui, là, sopra e sotto, a destra e a sinistra, e creare il nostro mondo e infiniti altri mondi in altri luoghi del cosmo, e produrre noi uomini e gli animali che conosciamo e vari altri generi di uomini e specie di animali altrove (DRN, II, 1070-1076). Come ben capisce Giordano Bruno, leggendo proprio Lucrezio, non c’è affermazione dell’infinito se non si contesta l’idea dei luoghi naturali di Aristotele, se non si afferma il vuoto, come disposizione illimitata. Ma il vuoto è anche lo spazio, o forse meglio: il fondo senza fondo, in cui tutte le “cose” possono schiantarsi.
Tutto è aleatorio, anche il “clinamen”, niente è fondato, non ci sono fondamenta né fondamenti. Se le cose stanno in questo modo, se la generazione continua delle “cose” può interrompersi, se siamo fuori dal problema della potenza, se il “clinamen”, a volte, non si compie, o smette per sempre di realizzarsi, se tutto è stato costruito sul nulla, nel vuoto, allora questa somma sempre provvisoria, in divenire, delle “cose” potrà anche essere spazzata via in un giorno.
È in modo particolare nel quinto libro del suo poema che Lucrezio fa vedere il disastro, la rottura con l’astro, la rottura con ogni forma cosmica. Riprende a piovere. Tutto crolla. Non c’è nessuna divinità nel mondo, nessuna potenza che sempre produca, nessuna Venus che tenga e aumenti il tutto, il mondo è piuttosto una macchina che può rovinare all’improvviso, “Venus jactus” non si è dato:
Ma ora non voglio attardarti con altri preamboli.
Osserva prima di tutto il mare, la terra, il cielo;
alla triplice natura di essi, alle tre diverse sostanze, o Memmio,
al loro triforme aspetto, a tre così salde strutture, un solo giorno
porterà la catastrofe e, durate per anni,
la mole e la macchina del mondo crolleranno di colpo (DRN, V, 91-96).
Le composizioni degli atomi hanno avuto un principio, grazie ai “clinamen”, ed avranno una fine (“exitio”), che accadrà in un sol giorno (“una dies”). La “machina mundi”, che è il risultato faticoso di tanti incontri fra atomi, l’insieme di infinite disposizioni che hanno trovato una sorta di equilibrio in una complessa costruzione, crolla, svanisce. È un’immagine che Lucrezio avanza sotto gli occhi di Memmio, è una novità sovversiva (Galzerano, 2019, p. 110), ma compito della filosofia e della poesia è proprio quello di smascherare le false verità, l’idea di una provvidenza che agisca nel mondo, ad esempio.
Le “cose” del cosmo deragliano, i mondi si separano dalle stelle, c’è il disastro. È lo stesso carattere di aleatorietà delle “cose” che implica la possibilità della loro distruzione: la catastrofe.
Il nostro mondo sarà rovesciato dalle fondamenta – “ab imo evertere” (164) –: la catastrofe è proprio il giorno in cui vengono modificati i rapporti reciproci fra le “cose” –“permutato ordine” (184) – l’ordine è sconquassato, ci sarà una nuova disposizione degli atomi, forse, per ora la loro relazione è compromessa. In effetti, qualche verso dopo, Lucrezio chiarisce che nello spazio infinito, la lotta degli elementi continua, il gioco del mondo gioca ancora, e assolutamente “per caso”, può accadere che dei corpi, in “turba” (folla), possano abbattersi su un insieme, con violenti turbini, e farlo precipitare nella profondità dell’abisso. I patti di natura sono divenuti, di colpo, desueti. Altro che “amore”! La guerra continua fra le “cose” finisce con il provocare la fine di ogni cosa:
Infine, se le immense membra del mondo lottano fra loro
con tanta violenza, invano scatenate in un’empia guerra,
non vedi altresì che può essere posto un arresto
alla loro lunga contesa? (DRN, V, 380-384).
Il materialismo di Lucrezio è senza concessioni, drammatico, ma anche no, non ci sono giudizi, le cose stanno così, il mondo è così, viviamo dentro la fine. La fine accade in un giorno perché non è proiettata nel domani. Il disastro fa parte delle cose. Le “cose” che si muovono, senza senso, in un vuoto infinito, scontrandosi e dandosi colpi violenti, le “cose” che hanno creato “moles et machina mundi”, fanno, in un momento, rovinare tutto. Non ci sono più scontri, e nemmeno incontri. La fine della guerra è l’inizio della notte. Il rumore della fine che suona orrendamente, in modo spaventoso – “horrisonus” (110) – annuncia il nuovo scroscio infinito della pioggia, il disastro, quando niente sarà più connesso. Il silenzio.
4. Vivere nel disastro (poesia II)
Nella catastrofe che viviamo, per tentare di guardarla negli occhi, abbiamo bisogno di teorie e pratiche all’altezza della situazione. Lucrezio è un pensatore della catastrofe, indubbiamente. Come soleva dire spesso il compianto Jean Salem, la filosofia lucreziana è una filosofia che permette di filosofare in un’epoca di rovina universale, che permette di difendersi, magari cercando anche di contrattaccare, in tempi di crisi (Salem, 1990). Noi lo studiamo, impariamo a memoria i suoi versi proprio perché, dentro il pericolo che corre la strutturazione del vivente oggi, c’è senz’altro bisogno di una “philosophie de combat” come la sua. Ecologista già? Difficile da stabilire, anche perché non c’è “natura” in Lucrezio. Le “cose” di natura non si configurano mai come un possibile rifugio, come un eden da raggiungere: esse sono sempre sull’orlo di un abisso. Le porte della morte sono costantemente aperte, dice Lucrezio, al cielo, al sole, alla terra, alle acque profonde del mare (DRN, V, 373-375). Con il poeta romano non possiamo, dunque, pensare di “proteggere” la natura o il vivente. Lucrezio non imbastisce una filosofia ecologista, almeno non nel senso di quella delle diverse operazioni culturali e politiche che oggi si dicono “verdi”. Mentre queste ultime cercano soprattutto di ricostruire una “casa”, in cui vivere tranquillamente, senza mettere in dubbio la linearità della storia, Lucrezio sostiene che questa “casa” è una nostra invenzione. Sostiene anche che la linea della storia sarà spezzata, un giorno, anzi sostiene più precisamente che la fine del mondo non è domani: essa è nelle “cose”. L’attualità di Lucrezio è anche in questo suo tentativo di tenersi diritto di fronte alla catastrofe. Egli lo fa in diversi modi – prima di finire, forse, naufrago: innanzitutto scrivendo.
La poesia è, a mio avviso, una pratica della catastrofe. Si dice spesso che Lucrezio ha tradito l’epicureismo redigendo un poema. Ma, appunto, perché sceglie di scrivere in versi contraddicendo il suo amato maestro? Quando Lucrezio presenta a Memmio la possibilità della fine del mondo, egli precisa che si tratta di una “nova res”, “cosa nuova” (V, 97), che è difficile da dire con parole. Già ho detto che la poesia interviene nel corpo della filosofia per “far vedere” le “cose” che altrimenti resterebbero incomprensibili. Non è solo il “miele” cha addolcisce il contenuto amaro della filosofia. È, anzi, qualcosa di terribile la poesia. Lucrezio si aggrappa ad essa per dire “cose” grandi (I, 931). Per farlo, ha bisogno di una energia dionisiaca: il poeta infiammato con animo pieno di forza “instinctus mente vigenti” (I, 925) esplora terre deserte, da solo, per rendere visibili “cose” sconosciute: le “cose” oscure diventano chiare. Solo le parole in versi rischiarano, illuminano, mostrano le “cose”. La metafora della luce e l’opposizione alle tenebre è ripresa spesso da Lucrezio. Ma non è ancora tutto.
La scelta della poesia è l’unica possibilità di dire il mondo e, potremmo aggiungere, di stare nel disastro.
È in questa prospettiva che la scrittura poetica si configura in Lucrezio come una “pratica”. Il rapporto tra scrittura e cosmo è evidente in Lucrezio: la poesia delle infinite combinazioni fra gli atomi, la stessa poesia del nulla è, come dice Calvino: “metafora della sostanza pulviscolare del mondo”, “le lettere erano atomi in continuo movimento che con le loro permutazioni creavano le parole e i suoni più diversi” (Calvino, 1995, pp. 652-653).
In alcuni versi del suo poema, in effetti, Lucrezio afferma che gli atomi agiscono nello spazio infinito come le lettere nell’alfabeto: gli elementi primordiali, i semi, intrecciandosi, danno origine alle “cose”, mentre le lettere, composte insieme, possono creare moltissime parole e suoni diversi: “Tanto possono le lettere, solo a mutarne l’ordine” (DRN, I, 827). Mi sembra che qui Lucrezio non si riferisca in generale alla comunicazione umana, ma alla poesia, al suo stesso canto. È in poesia soprattutto che bisogna prestare attenzione all’ordine, al suono e al ritmo: i mutamenti di “ordo” cambiano tutto. In un altro passo, Lucrezio insiste proprio su questo aspetto della faccenda:
Anzi, nei miei stessi versi ha somma importanza
con quali altre e in quale disposizione ogni lettera sia disposta;
infatti sono sempre le stesse a indicare il cielo, il mare, le terre,
i fiumi, il sole, le stesse a designare le messi, gli alberi, gli animali;
se non tutte, almeno la più gran parte di esse sono simili:
ma il loro ordine diverso distingue i nomi delle cose (II, 1013-1018)
È, quindi, la poesia che, logicamente, Lucrezio sceglie per sperimentare la circolarità tra realtà fisica e realtà linguistica. Circolarità, come scrive Ivano Dionigi, e non corrispondenza esatta fra parole e “cose”. Se l’universo è infinito, aperto e multiforme, sull’orlo della voragine, se esso è il frutto di una danza senza fine di elementi primordiali, la scrittura che si fonda anch’essa su elementi primordiali, anche se molto meno numerosi, deve cercare di imprimere a queste lettere lo stesso ritmo della realtà, deve, cioè, far danzare le parole. Le foglie di un albero come frusciano col vento? E dove mettere la parola “arbusta”, dove “flumina” in un verso? La scrittura diventa allora poesia perché, quando c’è uno sforzo verso lo stile, dice Mallarmé, allora c’è versificazione. La poesia deve riprendere lo stile del mondo, il suo ritmo, il suo movimento.
C’è un mondo in guerra, in turbolenza, in divenire, ci sono delle parole che non possono ripetere la realtà (cosa impossibile perché questa realtà è infinita), ma che possono agire come atomi che creano un mondo (un poema) montate insieme, inventate (la povertà della lingua filosofica latina esige anche questo), messe in ordini sempre disparati. Dentro il gioco del mondo, le parole mettono in essere un gioco infinito di combinazioni e di incroci fra di esse e fra le diverse lettere. Se il mondo degli atomisti è il mondo delle disposizioni fortuite, dell’aleatorio, per Lucrezio la sua scrittura non può non essere poetica.
Abbiamo uno spazio infinito, un vuoto, in cui si scontrano atomi. La poesia mette in scena questa guerra senza senso, senza nemici. Anzi, meglio: la poesia è questa guerra. Lucrezio parla di lettere e di parole che si scontrano, si incontrano, si sovrappongono, prendono una posizione (creano un evento) cercando di riprendere i movimenti degli atomi. Gli eventi, gli incontri tra gli atomi, e le parole sono come dei dadi. Lanciati su un tappeto, rotolano, e compongono un “numero”. Le lettere e gli atomi sono entrambi in grado di riprodurre il “numero” del colpo di dadi in dimensioni cosmiche. Ora, la fisica e la scrittura ci dicono che nessuna realtà è eterna, che le circostanze sono sottomesse al caso, si producono intorno ad un abisso. La verità terribile che disvela la poesia è proprio che ogni realtà si crea e può anche dissolversi.
Per concludere
Nella catastrofe scriviamo. La poesia è una pratica del disastro. È possibile immaginare altri generi di pratiche? Il “clinamen” agisce in tutti gli ambiti della vita: la libertà di cui godono le “res naturae” garantisce anche la libera volontà dei viventi sulla terra (DRN, II, 255-256). Grazie al “clinamen” diventa, dunque, possibile infrangere i patti del fato e imprimere anche un altro indirizzo alle cose umane, almeno ribellarsi e opporre resistenza – “contra pugnare osbtareque” (DRN, II, 280) – quando non vogliamo essere trascinati nel flusso. Questa resistenza non ha nulla di soggettivistico, essa si inscrive nelle “cose” stesse, nella guerra che esse vivono. In questa guerra si creano coalizioni, si può restare sopraffatti da altre coalizioni oppure si può combattere. Lucrezio non segue Epicuro, la sua filosofia non è una filosofia rinunciataria, è una filosofia di lotta (Piazzi, 2009, p. 176). Lucrezio piange per un vitellino sottratto alla genitrice, denuncia il crimine di cui è vittima Ifigenia, si oppone alle guerre che i romani amano tanto: a Lucrezio, insomma, non piacciono le cose così come vanno. Egli non può accontentarsi. L’“atarassia” sarebbe la disposizione d’animo di chi non si sottrae al caso, di chi accetta tutti i “clinamen” con un sorriso beato. Lucrezio invita ad adottare la filosofia come condotta di vita, ma non cerca pace, almeno non subito, si mette piuttosto a lottare dentro i giochi infiniti del caso, senza negare la loro sovranità, senza negare l’abisso in cui siamo.
Per concludere il mio testo, vorrei cercare di delinare qualche tratto di una possibile pratica politica dentro la catastrofe. Lucrezio è decisivo in questa dimensione perché il suo problema è proprio quello di cercare di produrre altri casi, altri eventi, altre condizioni di esistenza dentro la fine del mondo. Lucrezio, romano, è un poeta costruttore di civiltà: egli canta, sullo sfondo di una catastrofe sempre attuale, l’importanza per gli umani di aver costruito dei vincoli sociali tra di loro. La “confederazione” tra gli uomini, il loro reciproco aiutarsi, su cui, per Lucrezio, dovrebbero basarsi le istituzioni umane, è già un atto di resistenza: un tentativo politico nel disastro. Lucrezio esalta la vita frugale degli uomini preistorici che, ad esempio, non usano sistematicamente la guerra come modo di risoluzione dei conflitti. Non è “primitivismo”, Lucrezio vuole solo specificare che essi sanno costruire forme di convivenza sociali convenienti, cioè fedeli al carattere aleatorio delle “cose”. Essi sono consapevoli del fatto che è necessario creare un vasto schieramento, forme di mutualismo potremmo dire, per fronteggiare le “casualità” della natura. L’idea è che solo un’umanità unita possa r/esistere nella catastrofe. La salvezza, in altri termini, deve essere comune (DRN, I, 43).
Siamo in un immane spazio senza centro: atomi e “cose” vi girano sopra e sotto, assolutamente a caso. La natura non esiste, esistono “cose” che si creano senza nessun piano. Ma nemmeno la storia esiste, esistono degli eventi che si producono anch’essi in modo aleatorio. È una prospettiva nichilistica.
Ma è qui dentro, in questa realtà priva di senso, che si dà anche la possibilità della trasformazione.
Come è possibile una praxis nel disastro? Facciamo, per finire, qualche passo dopo Lucrezio. Entriamo in un cinema. Si spengono le luci. Jean-Marie Straub e Danièle Huillet “adattano” lo straordinario poema che Mallarmé scrive nel 1897 (Huillet, Straub, 1977). I due registi fanno dire Un coup de dés jamais n’abolira le hasard a nove “attori”, tra cui eccezionalmente la stessa Huillet, che nei titoli di coda essi chiamano in modo molto suggestivo dei “ré-citants”: ognuno di loro recita e cita uno dei nove tipi di carattere tipografici utilizzati da Mallarmé. Estremamente fedeli al testo letterario, come è loro uso, Straub et Huillet scelgono come sfondo di questa lettura il cimitero del Père Lachaise à Parigi, più precisamente situano gli “attori”, che sono distanti gli uni dagli altri e non sono mai ripresi insieme se non all’inizio del film (è uno dei modi, non l’unico perché è fondamentale la stessa dizione della recitazione, con i quali i due registi prendono in conto gli spazi, le pause e il bianco della pagina cui Mallarmé tiene tanto) sulla collinetta che si trova davanti al Mur des Fédérés. È molto più di uno sfondo. È l’ultimo luogo della Comune di Parigi (di cui in questi giorni ricordiamo il centocinquantesimo anniversario). Ultimo perché dopo le prime settimane di vittorie, i rivoltosi, che forse non hanno colto bene la loro chance, come dirà Lenin (ma una rivoluzione non si decide a tavolino...), iniziano ad essere asserragliati dentro le mura parigine dagli sgherri della controrivoluzione. Qui sulla collina di Belleville, dopo settimane di creazione politica e di resistenza militare, gli ultimi insorti vengono sommariamente fucilati su quel muro e seppelliti in fretta e furia: siamo nel maggio del 1871.
Non c’è qui lo spazio per un’analisi di questo film. Ma possiamo almeno chiederci perché Straub e Huillet raccontino la Comune, senza raccontarla, con Mallarmé. A mio avviso, i due registi, assidui lettori di Benjamin, stanno tentando proprio di cogliere il nesso fra nichilismo e politica. Mallarmé è il poeta del caso e del “naufragio”. Il suo lancio di dadi è quello che costituisce (e destituisce) il mondo, ma anche quello che fa (e disfa) la storia.
È in questo stesso senso che, qualche anno dopo, Althusser inserirà anche Mallarmé, con Lucrezio, nella corrente sotterranea del materialismo dell’incontro (Althusser, 1982, p. 560).
All’inizio del film appare una frase di Jules Michelet, grande storico della rivoluzione, sepolto al Père Lachaise: “la rivoluzione è un colpo di dadi”. Cosa significa questa epigrafe se pensiamo alla Comune? La Comune di Parigi è un evento del tutto casuale. Chi l’aveva previsto? Quale rivoluzione è stata mai prevista? Ricordiamo sempre come Gramsci qualifichi, a caldo, l’Ottobre 17: una rivoluzione contro il Capitale. Anche la Comune del 1871 è qualcosa di inatteso, di scandaloso. Dopo la disfatta militare, c’era chi pensava che un altro, più piccolo, Bonaparte avesse ristabilito l’ordine, chi pensava ad una soluzione pacificatrice come una immutabile nuova repubblica. E invece le operaie e gli operai di Parigi fanno una “comune”, cioè creano una forma di organizzazione sociale assolutamente inedita sulla base delle loro condizioni normali di esistenza. La rivoluzione è uno scandalo perché sancisce il momento in cui lo spazio della decisione non è più separato dalla vita. Una disposizione di “numeri” particolare, lanciata sul tappeto della storia, squarcia il tempo vuoto e omogeneo. Nella catastrofe che è la storia, in un istante di pericolo (il fascismo, la catastrofe climatica, la guerra incombente, la reazione di Versailles...), è allora possibile che si dia il vero stato di emergenza, la rottura possibile con il continuum della storia. Il disastro: un cambiamento d’astro.
La posta in gioco per la trasformazione oggi, come vedono Benjamin, Straub, Huillet e l’ultimo Althusser, diventa proprio la capacità di tenersi all’altezza del carattere aleatorio degli eventi, dentro la stessa attualità della catastrofe, senza immaginare nessuna linearità della storia, nessun disegno razionale in essa. Non si tratta più di pensare genericamente il “nuovo”. Da Lucrezio a Althusser, in modi diversi, forse ci viene detta la stessa cosa: un’altra fine del mondo è possibile.