Résumé

In Hans Blumenberg's investigation of the Lucretian metaphor of the shipwreck with a spectator, a reflection on the sublime is absent. Through a rereading of Leopardi's The Infinite in the light of this metaphor, we want to show that the feeling of the sublime necessarily enters into the consideration of life as a shipwreck. This perspective brings us back to the anthropological turning point of the late Blumenberg in the passage from the notion of "absolute metaphor" to that of "metaphor of existence".

Plan

Texte

1. Lucrezio poeta moderno

Suave, mari magno turbantibus aequora ventis,
e terra magnum alterius spectare laborem;
non quia vexari quemquast iucunda voluptas,
sed quibus ipse malis careas quia cernere suave est.

Con questi versi (De rerum natura, II, vv. 1-4) Lucrezio apre il secondo libro del suo poema didascalico, dedicato a una spiegazione onnicomprensiva della “natura delle cose” secondo i princìpi della filosofia epicurea. È un passo celeberrimo, che non ha smesso di attirare l’attenzione di filosofi, poeti e artisti. Si può parlare di una vera e propria Wirkungsgeschichte del “naufragio con spettatore”, come è meglio nota questa figura letteraria, soprattutto dopo che Hans Blumenberg (1985, p. 51), che la considera come la “configurazione” originaria di una metafora esistenziale, ha così intitolato un fortunato saggio dedicato proprio a essa. Parlo di Wirkungsgeschichte o “storia degli effetti” perché i diversi usi di questa figura sembrano corrispondere alla perfezione al criterio di alta variabilità semantica che Gadamer, a differenza di altri studiosi, riconosce all’atto dell’interpretare nelle sue diverse accezioni, che vanno dall’interpretazione testuale fino alla rielaborazione letteraria e artistica.

In tutta la sua opera Lucrezio difende, volendo usare termini più prossimi alla nostra sensibilità filosofica, il materialismo e il razionalismo critico e illuminista del suo maestro Epicuro. La conoscenza della natura non dev’essere soggetta a errate speculazioni e soprattutto a superstizioni oscurantiste. Si devono invece riconoscere le leggi e i meccanismi che regolano la trasformazione della materia delle cose e che governano il corso di tutta la natura. Scrive Blumenberg (1985, p. 51): “Non è affatto questione di un rapporto tra uomini, quello che soffre e quello che non soffre, ma del rapporto del filosofo con la realtà: il tema è l’utile della filosofia di Epicuro, il possesso di un terreno saldo e inattaccabile dal quale guardare il mondo”. Divino è questo ordine e divina nell’essere umano ne è la comprensione. Se il divino si personifica in una divinità, come accade nel celebre inno a Venere genitrice (I, vv. 1-26), che apre l’intero poema, ciò accade perché il poeta rielabora un’immagine presa dalla tradizione mitologica e la arricchisce di significati filosofici, fino quasi a rendere metaforico il riferimento alla tradizione mitica. Blumenberg (1985, p. 51) conclude in effetti le sue considerazioni sulla cornice filosofico del poema lucreziano e in particolare della figura del naufragio con spettatore osservando che

 

È il saggio – o perlomeno l’uomo che la doctrina sapientium ha preparato al processo della natura e al funzionamento del cosmo – che nella figurazione dello spettatore porta a compimento l’ideale di teoria della filosofia greca classica, ma anche che in un punto decisivo gli si oppone.

L’opposizione significa: lo spettatore gode non della sublimità degli oggetti che la sua teoria gli dischiude, ma della consapevolezza di sé di fronte al turbine di atomi di cui consiste tutto ciò che egli osserva – perfino lui stesso.

 

Sono così individuate le due direttrici che nel seguito si riveleranno fondamentali per comprendere il passaggio da quella che per lo stesso Blumenberg è una figura oggetto di una metafora a un’immagine del sublime intenso in senso moderno: da una parte l’imporsi di una disposizione soggettiva, quale sarà il sentimento del sublime nella riflessione filosofica moderna, nella comprensione della figura del naufragio; dall’altra l’oscillazione dell’attenzione tra la manifestazione di una natura terribile e il ripiegamento in se stessi in una meditazione sulla natura del mondo o dell’uomo.

Un analogo discorso potrebbe essere fatto per il passo citato in apertura, di cui riportiamo intenzionalmente una traduzione storica in italiano. Si tratta della traduzione del poema lucreziano, a cui il filosofo e scienziato toscano Alessandro Marchetti lavorò per tutta la sua vita e che uscì postuma nel 1717. Ecco come suona il passo che apre il libro secondo del De rerum natura nella traduzione di Marchetti:

Dolce è mirar da ben sicuro porto
L’altrui fatiche all’ampio mare in mezzo,
Su turbo il turba o tempestoso nembo;
Non perché sia nostro piacere giocondo
Il travaglio d’alcun, ma perché dolce
È se contempli il mal di cui tu manchi.
(Lucrezio, 1975, p. 48, II, vv. 1-5)

Come si vede bene da alcuni elementi, Marchetti si prende alcune libertà nel tradurre Lucrezio: così, ad esempio, la terra di Lucrezio (v. 2) diventa nella sua traduzione il “ben sicuro porto” (v. 1). Ugualmente, la composizione della frase, com’è d’altronde quasi inevitabile che sia in una traduzione poetica, non rispetta alla lettera quella originale. Di fatto Marchetti prende la materia del testo lucreziano, la fa propria e la riformula, passando dal latino al volgare italiano, dall’esametro all’endecasillabo, pur rimanendo nella sostanza fedele all’ispirazione e al senso del testo. A dire il vero, ci sono passaggi in cui la voce del traduttore sembra prendere il sopravvento su quella dell’autore. Non è però il caso del passo in questione: per quanto questo o quel termine possano non corrispondere alla lettera all’equivalente nel testo originale, per quanto la costruzione del periodo appaia talvolta stravolta rispetto alla fonte originaria, il senso del passo non subisce modificazioni di rilievo.

Marchetti semmai attualizza, ma non tradisce, la filosofia lucreziana, che ho poco sopra connotato come materialista, razionalista, critica e illuminista. Se guardiamo alla data di uscita della versione di Marchetti del De rerum natura, questa connotazione riceve immediatamente una collocazione storica e culturale ben precisa. Da scienziato, filosofo e docente Marchetti tenta di tener viva un’impostazione di stampo galileiano all’interno dell’Università di Pisa. Com’è noto, i Granduchi di Toscana tenteranno per un certo tempo di proteggere Galileo dalla scure del Sant’Uffizio e proveranno anzi a dare prestigio allo studio e all’insegnamento della “filosofia naturale” invitando il grande scienziato pisano. Marchetti pare voler conservare la memoria di quel recente passato illustre, facendola confluire nello spirito intellettuale del suo tempo, fortemente ispirato ai princìpi della filosofia cartesiana. Siamo negli ultimi decenni di regno della dinastia medicea sulla Toscana: il mecenatismo e la tradizione umanistica del grande casato fiorentino lasciano intravedere segni di decadenza nei suoi ultimi discendenti. E tuttavia l’impresa filosofico-letteraria di Marchetti sembra anticipare la rinascita che il Granducato vivrà grazie alle riforme dei successori dei Medici, i Lorena, i quali si conformeranno ai princìpi del dispotismo illuminato praticato dal ramo austriaco della dinastia e anzi in una certa misura lo sopravanzeranno per modernità: non si dimentichi che il Codice leopoldino abolisce nel 1786 in Toscana, primo stato nel mondo, la pena di morte.

Marchetti è un precursore anche sul piano letterario. Lo stile letterario piano e chiaro della traduzione, unito al carattere della materia naturale di cui il poema lucreziano si occupa e all’impostazione razionalista con cui affronta tale materia, fanno sì che il Lucrezio di Marchetti anticipi il movimento dell’Arcadia con il suo rifiuto dei barocchismi e la sua ricerca della naturalezza (cfr. Saccenti, 1975). Si può perfino ipotizzare che la scelta del De rerum natura come testo eletto al compito della traduzione di una vita compendi insieme un rinnovato fermento scientifico e filosofico e l’imporsi di nuove tendenze nel gusto poetico. È tuttavia su questo punto che si inserisce una variante interessante, non considerata da Blumenberg. Il XVIII e poi il XIX secolo sono epoche in cui la natura riacquista una pluralità di significati che ne fanno qualcosa di ben più ampio, per dirla con un’espressione di sapore kantiano, della pura totalità dei fenomeni, cui guardavano ancora nel XVII secolo uno scienziato come Galileo o un filosofo e scienziato come Cartesio. Natura è anche la natura dell’uomo, secondo una declinazione che si ritrova ad esempio in Rousseau. Natura è la naturalezza, vale a dire la spontaneità del sentimento umano. Più precisamente è la spontaneità con cui il sentimento si manifesta nell’essere umano in occasione del suo venire a contatto con questo o quel fenomeno naturale. Naturale è insomma la vita umana, considerata non solo come realtà biologica e fisiologica ma anche come un movimento dell’animo non totalmente riconducibile ad assiomi. La spontaneità dell’inclinazione o dell’avversione del soggetto per determinati oggetti della natura acquista nel XVIII secolo piena dignità come tema filosofico. Non a caso Cassirer definisce questo secolo l’età della critica, intendendo con ciò anche il ripensamento del fondamento del giudizio sul bello e sull’arte. Il XVIII secolo è il secolo di fondazione dell’estetica.

L’estetica come disciplina è battezzata in Germania dal filosofo leibniziano Alexander Gottlieb Baumgarten, il quale pubblica nel 1750 un trattato sul bello e sull’arte intitolato Aesthetica, termine coniato a partire dal greco aisthesis: percezione, sensazione e, in un’accezione più moderna, sentimento. Dunque, se la logica si preoccupa di mettere ordine nella cognitio rationalis seu superior, l’estetica si occupa della cognitio sensitiva seu inferior, la quale è sì inferiore perché confusa, cioè non ordinata da idee chiare e distinte, e tuttavia offre una rappresentazione armonica e vivida quando la sensibilità percepisce forme belle, tali da suscitare per questa ragione un sentimento di piacere nell’animo. Baumgarten definisce così l’autonomia dell’estetico rispetto ad altre disposizioni dell’animo umano. Le conseguenze di questa mossa saranno enormi per la filosofia e per la cultura europee moderne. Anche a non voler seguire fino in fondo la tesi di Hans Georg Gadamer, il quale imputa alla nascita dell’estetica lo svuotamento del gusto delle sue valenze etiche e politiche e quindi il suo divenire inutilizzabile per una comprensione del mondo inteso come sfera della praxis (Gadamer, 2000, pp. 92-107), resta pur vero che con la nascita dell’estetica la relazione tra il gusto, ora identificato come giudizio estetico, e la deliberazione etica e politica, la phronesis per dirla in termini aristotelici, dovrà essere nuovamente giustificata e in alcuni pensatori, ad esempio in Kant, sarà perfino tema per più di una soluzione. Il rapporto tra ragione pratica e giudizio estetico in Kant rimanda infatti ad almeno cinque luoghi diversi della Critica della facoltà di giudizio: l’ideale della bellezza (Terzo Momento dell’Analitica del bello, § 17); il sublime dinamico (Analitica del sublime, §§ 28-29); il sensus communis (Quarto Momento dell’Analitica del bello, §§ 21-22, e Deduzione dei giudizi estetici puri, §§ 40-42); l’idea estetica e l’opera d’arte di genio (Deduzione dei giudizi estetici puri, § 49); il bello come ipotiposi simbolica o simbolo della moralità (Dialettica della facoltà estetica di giudizio, § 59). Dal canto suo Blumenberg indica proprio nella nozione di ipotiposi simbolica una delle fonti filosofiche principali della nozione di metafora nell’accezione da lui adottata (Blumenberg, 1969, pp. 7-9).

Rispetto alla corrente dominante dell’estetica, la linea italiana che, come vedremo tra un attimo, da Marchetti arriva a Leopardi, mantiene inalterato il legame originario tra estetico ed etico, per esprimerci nei termini che la filosofia tedesca renderà poi egemoni. Questa linea è estetica nel senso etimologico del termine, nel senso cioè che riscopre la specificità del sentimento e la sua centralità nel definire la vita dell’animo, ma non per questo scinde il legame tra il sentire, incluso il sentimento di piacere per tutto ciò che è bello o sublime, e il giudizio morale, soprattutto se con quest’ultimo intendiamo una capacità di esprimere valutazioni complessive sul senso della vita a partire da singole immagini o in occasioni di esperienze contingenti ma particolarmente esemplari. Come vedremo in particolare in Leopardi, il riemergere della figura del naufragio con spettatore in questo contesto sembra rendere conto di almeno due cose: lo slittamento del senso della metafora implicata in questa figura dal campo “teoretico” in cui nasce al campo “pratico”; e il suo saldarsi con il sentimento del sublime, nella nuova accezione che ne dà il pensiero moderno da Burke a Kant.

2. Leopardi epicureo?

Quando parlo di un filo rosso che tiene insieme la traduzione marchettiana del De rerum natura e la poetica leopardiana, ho in mente L’infinito, il componimento forse più conosciuto del poeta recanatese. Data la sua brevità, lo riporto per intero:

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte,
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi al di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensiero mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Dobbiamo guardare in particolare agli ultimi tre versi per formulare l’ipotesi di una relazione tra la versione di Marchetti del poema lucreziano e la poesia di Leopardi. Traducendo l’inizio del secondo libro del De rerum natura, Marchetti rende la polarità tra voluptas (“non quia vexari quemquast iucunda voluptas”) e suavitas (“sed quibus ipse malis careas quia cernere suave est”) con i termini “piacere” (“Non perché sia nostro piacere giocondo/Il travaglio d’alcun,”) e “dolcezza” (“ma perché dolce/È se contempli il mal di cui tu manchi”). “Dolce” sta per il latino suave. Sembrerebbe esserci anche un’anticipazione di un motivo estetico nella polarità voluptas/suavitas: la voluptas parrebbe stare per un piacere dei sensi, privo di quel disinteresse necessario alla disposizione riflessiva del giudizio di gusto. È un piacere accompagnato perfino da iucunditas, da un’allegrezza, da un essere ben gradito, che male si accorda con l’assenza di attrattive sensuali, richiesta all’oggetto puramente bello. Lo spettacolo del naufragio non comporta questo genere di piacere: altrimenti dovremmo immaginare lo spettatore come un sadico assetato del male altrui. Questo spettacolo è invece suave o “dolce” nella misura in cui lo spettatore può contemplare anche una disgrazia, godendo non del male altrui ma della fortunata posizione che gli consente di considerare i casi della vita e di ricercarne le cause nel più ampio contesto dell’ordine naturale. È quasi una disposizione estetica nell’accezione kantiana – disinteressata, riflessiva – vista però come stadio preparatorio alla conoscenza del mondo.1

È noto il fatto che Leopardi ha ben presente la versione di Marchetti del De rerum natura (Rigotti 2019; Timpanaro, 1988). È lecito supporre, specie in un autore alieno da un uso spontaneistico del vocabolario come Leopardi, che l’aggettivo “dolce” nell’ultimo verso de L’infinito (“e il naufragar m’è dolce in questo mare”) riprenda il lucreziano suave attraverso la mediazione della scelta linguistica di Marchetti. Se così stanno le cose, allora il poeta recanatese nella chiusa del suo componimento starebbe operando una vera e propria rivoluzione della metafora del naufragio con spettatore. Qui il poeta non prova più diletto dal fatto di restare a distanza e poter contemplare le avversità della natura, esemplate dalla scena del naufragio, bensì dal fatto di naufragare nella tempesta. Si tratta naturalmente di un naufragio ideale: su questo aspetto, centrale per la comprensione del testo leopardiano, dovrò tornare. Sembrerebbe un controsenso godere del naufragio: quale guadagno conoscitivo ne trarrebbe lo spettatore? Per comprenderlo, dobbiamo ipotizzare che Leopardi operi una forzatura sull’impianto epicureo della figura del naufragio con spettatore. Il distacco dello spettatore lucreziano è funzionale al dissolvimento delle immagini illusorie, frutto delle passioni, in vista della comprensione della vera realtà. Materiale è la spiegazione delle cause degli eventi, così come di materia consiste la vita umana: il distacco dello spettatore lucreziano è quindi un esercizio di atarassia o imperturbabilità, che permette di cogliere l’ordine naturale delle cose.

Leopardi fa prendere alla metafora una piega soggettiva: la tempesta cui è sottoposto il poeta non è un fenomeno naturale, bensì il flusso di rappresentazioni del sovrasensibile cui si abbandona la mente del poeta. Come limite percettivo quest’ultimo ha una semplice siepe, che gli cela il paesaggio di fronte a lui, facendo così spazio all’immaginazione. A destabilizzare ulteriormente il naturalismo della metafora interviene il fatto che nessuna delle immagini usate ha il mare come referente: i riferimenti spaziali sono “interminati spazi” e “sovrumani silenzi” e rimandano a un “infinito silenzio” ai di là del sensibile. Analogamente “l’eterno” stabilisce un rapporto di rimando con l’incessante scorrere del tempo, rappresentato dalle “morte stagioni, e la presente/e viva, e il suon di lei”. Solo dopo aver dato forma a tutte queste immagini e averle composte in un’impossibile sequela di infiniti diversi, il poeta connota negativamente questo insieme di rappresentazioni come un mare, dal momento che il pensiero alle prese con esse cede e si sente naufragare: “Così tra questa/immensità s’annega il pensier mio:/e il naufragar m’è dolce in questo mare”.

Il poeta può godere di questa esperienza di perdita di sé, resa metaforicamente dalla figura del naufragio, perché lo spettacolo non si rivolge più alla vista ma all’immaginazione e non riguarda più un evento naturale ma la capacità del pensiero umano di sporgersi al di là del sensibile. Siamo ancora all’interno della metafora del naufragio con spettatore, visto che qui il poeta si identifica con il naufrago? Ritengo di sì, anche se Leopardi porta la metafora fino alle sue estreme conseguenze. Per sostenere questa ipotesi, bisogna ammettere che il poeta riprende sì l’immagine lucreziana, ma non lo fa propriamente da epicureo. La ripresa delle tematiche e di alcuni princìpi di fondo dai filosofi sensisti della Francia del XVIII secolo, presso i quali un certo recupero di Epicuro era visto con favore, potrebbe far pensare a una medesima ispirazione in Leopardi. Il poeta recanatese gode in realtà di una vastissima conoscenza dei classici, frutto degli anni di “studio matto e disperatissimo” sotto la direzione del padre Monaldo e potendo usufruire della ricca biblioteca di quest’ultimo. Vale la pena ricordare in proposito che Leopardi tradusse l’Encheiridion del filosofo stoico di età imperiale Epitteto. Si tratta di un agile “manuale” – questo è il significato del suo titolo – di filosofia, in cui è centrale la questione del dissolvimento delle “rappresentazioni” (phantasiai), o “apparenze” come traduce Leopardi, che possono rivelarsi fallaci ai fini di una buona condotta di vita e di un retto giudizio sulle cose (pragmata).

Anche nella “filosofia” di Leopardi la questione delle apparenze fallaci o illusioni, riferite alla vita umana e al suo senso, è di capitale importanza. Come ricorda Cesare Luperini, per il poeta

Le illusioni sono un prodotto della natura, “inerenti al sistema del mondo”, “appartengono sostanzialmente al sistema naturale e all’ordine delle cose» e come tali «sono necessarie e essenziali alla felicità e perfezione dell’uomo”. Senza le illusioni “non ci sarà mai grandezza di pensieri, né forza e impeto e ardore d’animo, né grandi azioni” (I, 31-2). La virtù, nel senso classico della parola, è legata all’illusione. Le illusioni sono figlie dell’immaginazione (Luperini, 1980, p. 10).

Da qui emergerebbe piuttosto il profilo di un Leopardi moderno stoico eterodosso, che, accantonata la sovrastruttura metafisica di questa filosofia antica, ne mantiene la sottile analisi psicologica dell’immaginazione e dei suoi effetti sul giudizio e sulla vita morale del soggetto. Nella sua opera il poeta rivolge anzi il suo spirito critico verso le illusioni metafisiche sulla possibilità di un senso trascendente della vita umana: valga per tutti il componimento Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, in cui il fine ultimo della vita è indicato come “abisso orrido, immenso”. Ne L’infinito questo procedimento di pensiero raggiunge una vetta: rincorrendo il turbine delle rappresentazioni mentali, che oltrepassano la sfera di ciò che è afferrabile tramite i sensi, è il poeta stesso a forgiare immagini indirette dell’eterno e dell’infinito. L’infinito è d’altronde classificato come un “idillio”. Nella poesia classica, da cui l’autore trae la definizione, gli idilli sono rappresentazioni poetiche – eidullion in greco vuol dire “immaginetta”, “quadretto” – di scene di vita pastorale. Rispetto alla matrice dell’idillio L’infinito compie un doppio movimento di rovesciamento: non solo si passa da una concezione dell’idillio ristretta al bello e al pittoresco a una rappresentazione sublime, ma si compie una sostituzione del piano empirico dell’esperienza – gli oggetti e i fenomeni naturali – con il piano trascendentale, come lo chiamerebbe Kant, cioè i concetti e le idee che sono alla base dell’interpretazione dell’esperienza stessa.

L’infinito è un idillio non più del paesaggio ma del pensiero, o meglio del movimento di progressivo distacco del pensiero dal terreno dell’esperienza verso il regno delle idee. Per fare questo, Leopardi non può forgiare un’immagine statica, ma ha bisogno del dinamismo di una figura che si trova in una relazione costitutiva con una metafora. Non dobbiamo dimenticare che la metafora è capace di trasportare un’immagine da un contesto a un altro: metaphorein in greco significa letteralmente “trasportare”. Essa ha così un potere di elevazione degli affetti. Le metafore possono perfino esercitare effetti sconvolgenti sulle figure attraverso cui apprendiamo gli oggetti che ci circondano. Come scrive Hans Blumenberg: “L’enigma della metafora non si spiega solo con l’insufficienza del concetto. Enigmatico è infatti il motivo per cui in generale le metafore vengono ‘sopportate’”. Ne segue che la “metafora, per dirla con Husserl, è anzitutto ‘dissonanza’” (Blumenberg, 1985, p. 116). A tal proposito il filosofo tedesco cita un celebre esempio di metafora, tratto da Quintiliano, facendo notare che

Quando l’intenzione diretta ad un prato, inaspettatamente e ai di fuori del campo delle attese tipiche salta al predicato che questo prato ride: “pratum ridet”, – si tratta di un incidente nel piano del fluire dell’informazione. Sembra che con la prestazione del testo sia finita; finché si presenta la “scusa” che nessun allineamento degli attesi predicati reali potrebbe mai, a proposito di un prato, dare l’informazione celata in quella sola espressione del suo ridere. In qualsiasi linguaggio descrittivo essa sarebbe fuori posto (p. 117).

Il trattamento che la metafora riserva alle figure che preleva dall’esperienza è pertanto assimilabile a un processo di deformazione creativa. Tale processo fa emergere in seno alle variazioni di una metafora come quella del naufragio con spettatore un momento sublime che da un lato porta ai suoi limiti la figura usata nella metafora, ponendo quest’ultima in una condizione di tensione, e dall’altro ne approfondisce il “sostrato sovrasensibile”. La deformazione è infatti un procedimento tipico del sublime: come scrive Kant, “il sublime, al contrario [del bello], è da trovare anche in un oggetto privo di forma, purché sia rappresentata in esso, o occasionata da esso, la illimitatezza e però vi sia aggiunta nel pensiero la totalità” (Kant, 1999, p. 80). L’applicazione del sublime alla sfera dell’arte è invero oggetto di controversie: si segue qui la posizione affermativa di Jean-François Lyotard. A sostegno dell’appropriatezza dell’applicazione del sublime alla poesia di Leopardi va aggiunto che quest’ultima si pone al limite tra imitazione della natura – la dimensione evocata dal contesto “idillico” del componimento – e uso occasionale, nel senso di Kant, di una rappresentazione naturale per dare corso a una riflessione sull’infinito che ha la sua collocazione propria nel pensiero, ciò che Kant definisce “totalità” nel passo citato della Critica della facoltà di giudizio. Oggetto del prossimo paragrafo sarà precisamente il carattere necessario di tale momento sublime nella vita della metafora, di cui il naufragio con spettatore costituisce un caso esemplare.

3. Il sublime necessario: il naufragio della metafora

Riassumendo le due ipotesi sostenute a proposito del retroterra filosofico di Leopardi, si può dire quest’ultimo sarebbe più uno stoico eterodosso che un epicureo moderno. In altre parole, il motivo di fondo avvicinerebbe L’infinito più a una meditazione morale sulla vita che a una critica dei pregiudizi umani sulla natura delle cose. Sotto questo profilo il poeta recanatese sarebbe più in sintonia con una certa tradizione barocca che con il progetto didascalico e proto-arcadico di ripresa di Lucrezio da parte di Marchetti. Della tradizione barocca appena ricordata valga per tutti l’esempio eminente della poesia funebre di Góngora, splendidamente illustrata dal sonetto Sul sepolcro della duchessa di Lerma del 1603, da cui traiamo la seguente immagine:

Se una caracca inghiotte l’Oceano,
a quali stelle attende un navicello?
Tocchi terra, che terra è, l’essere umano
(Góngora, 1970, p. 17).

L’immagine raffigura il senso dell’esistenza umana nella prospettiva di una concezione rovesciata della humilitas cristiana. Secondo tale concezione l’uomo, in quanto essere sensibile, non è nient’altro che terra: nella Genesi Dio crea Adamo dal fango. Tuttavia, nell’immaginazione del poeta, l’esistenza umana è un viaggio su un mare procelloso. La fine del viaggio, il tornare a toccare la terraferma (Tome tierra), coincide con il ricongiungimento con l’autentico essere dell’uomo (el ser humano), che è anche l’oltrepassamento della mera condizione sensibile dell’esistenza umana e la sua apertura alla trascendenza dell’aldilà. La paradossalità di questa immagine balza subito agli occhi. Se quest’uomo diventato puro spirito potesse volgersi indietro e considerare la sua esistenza terrena, recupererebbe la condizione dello spettatore descritta da Lucrezio e la rivolgerebbe alla sua stessa vita passata.

Leopardi sembra quasi recuperare la tradizione stoica mediata dal cristianesimo, svuotandola del suo significato trascendente. In questo modo egli può spostare lo sguardo totalizzante su quella tempesta marina che è la vita umana da un’immaginaria condizione ultraterrena a una condizione reale, la celebre siepe, però fortemente “immaginante”, aperta al continuo rilancio di figure, sempre insufficienti per un pensiero che si muove oltre i limiti del sensibile. Leopardi trasforma la dimensione trascendente di questa meditazione sulla vita in una condizione che non esiterei a chiamare trascendentale, una condizione non troppo lontana da quella che Garroni definisce un “guardare-attraverso” (cfr. Garroni, 2005; Id, 2020). Si tratta tuttavia di un guardare-attraverso paradossale, sempre in procinto di fallire di fronte all’incapacità dell’immaginazione a esibire adeguatamente un’idea della ragione, com’è l’infinito o l’eternità. Il soggetto può sentire solo la limitatezza della propria esistenza sensibile come occasione per un’elevazione verso il regno di un illimitato sovrasensibile. Per questo motivo nel sublime il piacere, scrive Kant

nasce solo indirettamente, in modo tale che esso è prodotto dal sentimento di un momentaneo impedimento delle forze vitali e dall’effusione che segue immediatamente, e per ciò è tanto più forte, e di conseguenza, in quanto emozione, sembra essere non un gioco, ma qualcosa di serio nell’attività dell’immaginazione. Perciò il sublime è incompatibile con le attrattive; e, essendo l’animo non solamente attratto dall’oggetto, ma alternativamente anche sempre di nuovo respinto, il compiacimento per il sublime contiene non tanto un piacere positivo, quanto piuttosto ammirazione e rispetto, vale a dire merita di essere detto piacere negativo (Kant, 1999, pp. 80-81).

Attraverso questo esercizio sublime dell’immaginazione il poeta recanatese ha stravolto ma non abbandonato la metafora lucreziana del naufragio con spettatore, trasportandola dal suo originario ambito “teoretico”, la conoscenza della natura, all’ambito “pratico”, cioè a una meditazione sul senso della vita. O forse sarebbe più giusto dire che di quella metafora L’infinito privilegia l’aspetto introspettivo a scapito dell’opera di dissipazione delle superstizioni umane sulle cause dei cataclismi naturali: non è tanto urgente mostrare che tali incidenti non sono effetto dello sfavore di dio o degli dei, quanto esibire un’immagine della caducità della vita. Questo slittamento è così forte che l’immagine esibita è quella della stessa immaginazione condotta inesorabilmente dalla riflessione a far sentire questa caducità nel confronto con la potenza del pensiero, che è invece capace di pensare l’assoluto. Su questo punto c’è forse tema per un parziale riavvicinamento di Leopardi alla prospettiva epicurea di Lucrezio. Non è d’altronde Epicuro il filosofo dell’antichità che ha insistito sulla finitezza dell’esistenza umana, prendendo come limite la morte? E non è forse della morte, dissolta la superstizione che vede in essa un male, a venire così depotenziata la carica di dolore? E non si postula in questo modo l’assoluta eterogeneità tra tutto ciò che è al di qua e tutto ciò che è al di là della morte? Nel sentimento sublime della vita rappresentato da Leopardi, che sfocia in un’immagine di perdita di sé, sembra esserci un qualche fondamento ontologico epicureo.

Certo, per capire l’atteggiamento leopardiano verso la morte non basta riferirlo all’indifferenza epicurea verso ciò che, se ben considerato, non è fonte di dolore. Occorre associare a questa prima connotazione l’idea che la finitezza dell’esistenza comporta l’assunzione di una qualche progettualità di vita: sarebbe altrimenti impossibile restituire una dimensione di piacere (o anche di dolore) a quella sorta di trasfigurazione trascendentale della morte, che è lo smarrimento dell’immaginazione di fronte all’assoluto. Il sublime è una pena in senso assoluto, afferma Lyotard commentando Kant, ma tale che

a sua volta genera un piacere, e un piacere doppio: l’impotenza dell’immaginazione attesta al contrario il suo tentativo di fare vedere anche ciò che non può esserlo, e che così facendo mira ad armonizzare il suo oggetto con quella della ragione; e, d’altra parte, l’insufficienza delle immagini è un segno negativo dell’immensità del potere delle Idee (Lyotard, 1999, p. XIV).

Entrambi i fattori, l’insufficienza delle immagini e l’immenso potere delle idee, sono necessari affinché il sublime sia, per così dire, un’esperienza di vita seconda o metaforica: non è l’agevolazione del sentimento vitale che suscita l’armonia del bello, ma una commozione che, associandosi alla deformazione delle figure consuete, è la premessa per la creazione di nuove forme di vita.2 Lo stesso Blumenberg, il quale curiosamente non affronta il rapporto, pur così importante, tra il sublime e la metafora del naufragio con spettatore, definisce quest’ultima una Daseinsmetapher. Il riferimento al Dasein rimanda evidentemente all’analitica esistenziale heideggeriana: il naufragio con spettatore è una “metafora dell’esistenza” nel senso di una finitezza dell’esistenza, a partire da cui è possibile progettare un senso della vita. Ma se così stanno le cose, allora il rapporto tra il sublime e questa metafora non è un accidente della storia, ma è l’esito naturale di un modo di comprendere tale progettualità esistenziale guardandola attraverso l’immagine del suo stesso fallimento: l’immagine del naufragio in quanto tale ne è un’occasione, sebbene assuma dal punto di vista della tradizione un valore archetipico. Tuttavia, il sentimento di commozione di fronte all’incapacità dell’immaginazione di offrire schemi adeguati a una comprensione soddisfacente della vita umana emerge come un passaggio necessario nel tentativo stesso di pensare la vita come un progetto sensato e quindi di comprenderla. Nemmeno è possibile, come sembra per certi fare Heidegger in Essere e tempo, limitarsi alla singolarità del passaggio drammatico dalla quotidianità inautentica all’elaborazione di un progetto esistenziale. Se ciò è corretto sul piano di un’analisi fenomenologica pura, è anche vero che una messa a fuoco della dialettica tra scorrere della vita e momentanea condensazione (o mancata condensazione) del suo fluire in momenti significativi richiede una considerazione più articolata.

È effettivamente quello che tenta di fare Blumenberg quando esplicita lo sfondo antropologico entro il quale va compresa la sua metaforologia. A mio avviso è ciò che avviene, tra gli altri, nel saggio Naufragio con spettatore: non a caso qui il filosofo non parla più di una “metafora assoluta”, come fa invece in Paradigmi per una metaforologia, ma di “metafora dell’esistenza”. Metafore assolute sono la nuda verità o la leggibilità della natura, di cui il filosofo dà interpretazioni magistrali, mostrandone l’evoluzione storica, mostrando anzi come le rivoluzioni filosofiche o scientifiche siano spesso legate a variazioni semantiche o a riconfigurazioni di una metafora. Ma una simile prospettiva è possibile a patto di aver definito preliminarmente l’oggetto epistemico a cui si deve applicare la metafora: solo a questa condizione le immagini che è possibile esibire in occasione di una metafora – ad esempio quanti diversi modi abbiamo di raffigurarci il fatto che la natura è leggibile come un libro in corrispondenza a sensi diversi di questa metafora – offrono una varietà di forme, tutte riconducibili alla medesima metafora.

Nel progetto di una metaforologia della figura del naufragio con spettatore non ne va solo dell’inclusione del Sein zum Tode come tratto fondamentale dell’esistenza umana nel quadro di una filosofia ripensata come metaforologia. Come idea, il riferimento alla finitezza dell’esistenza e al suo carattere progettuale non può mai essere esibito in modo soddisfacente. Essa resta tuttavia bisognosa di un’immagine per essere significativa e produrre effetti nell’esperienza: la dialettica tra la terra porto sicuro e il mare in tempesta mette a portata di mano una struttura universale per costruire una simile immagine, con l’esibizione negativa del sovrasensibile che essa può sottintendere o esplicitare. Il sublime era dunque implicato nella metafora del naufragio con spettatore fin dalla sua origine. Esso riguarda forse la metafora in genere, specie se la consideriamo sotto il profilo antropologico. È lo stesso Blumenberg a suggerire una genesi antropologica della distinzione tra idee e concetti intesi secondo Kant come rispettivamente rappresentazioni di una totalità sovrasensibile e forme a priori di afferramento intellettuale del significato dell’esperienza sotto forma di conoscenza (Blumenberg, 2010). Per Blumenberg tale afferramento riguarda innanzi tutto una prestazione tecnica che, mettendo in rilievo più aspetti significativi degli oggetti di quelli necessari alla mera sopravvivenza dell’individuo, mette in moto un processo di indefinito perfezionamento dell’interazione del soggetto con l’ambiente (cfr. Garroni, 2020; Montani, 2014). Il mondo appare così come una riserva di conoscenze ancora da fare e di tecniche ancora da inventare. Nel mondo c’è un surplus di senso che richiede di essere non solo conosciuto ma anche pensato. Di qui sorge quel chiasma tra concetti e idee, che ha bisogno di metafore per essere compreso, ma anche di immagini, perfino di immagini negative, per essere configurato.

Bibliographie

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Notes

1 Seguo qui Emilio Garroni, il quale, sulla scia di Kant, considera in sostanza l’esperienza estetica come l’anticipazione di conoscenze possibili (cfr. Garroni, 2020; D’Angelo, 2011). In altre parole, il libero gioco dell’immaginazione con l’intelletto, che Kant pone alla base del sentimento di piacere per il bello, è inteso da Garroni come una sorta di “libero schematismo”, in cui l’immaginazione senza alcuno scopo determinato, ma solo in base a una classe indeterminata di scopi, schematizza l’esperienza in vista di una conoscenza possibile (Garroni, 2005). L’esperienza estetica sarebbe pertanto preparatoria per la conoscenza in genere e non per una conoscenza determinata, mentre nel passo lucreziano la condizione dello spettatore del naufragio sembra legarsi a una situazione determinata. Retour au texte

2 Per una concezione più fedele alla lezione kantiana del rapporto tra immaginazione e sostrato sovrasensibile nell’arte, incentrata non sul sublime ma sulle nozioni di idea estetica e di ipotiposi simbolica, vedi Velotti, 2012. Retour au texte

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Référence électronique

Dario Cecchi, « Soavità dei naufragi », K [En ligne], 6 | 2021, mis en ligne le 01 juin 2021, consulté le 18 mars 2025. URL : http://www.peren-revues.fr/revue-k/1238

Auteur

Dario Cecchi

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