La seduzione del nome. Elena e il suo spettro

Texte

Il palazzo di Menelao non bastava
a soddisfare la tua smodata vanità
Ecuba, Troiane

Elena di Sparta o Elena di Troia? Chi è la donna il cui aspetto rapisce lo sguardo di chiunque, la cui bellezza rischia di stabilire un legame inquietante, fino a diventare il fondamento di una cultura – fondamento che non sembra mai sul punto di finire – tra l’estetica della morte e la guerra?

Chi è Elena? Lei stessa risponde e non ci va tanto per il sottile, quando nel sesto libro dell’Iliade, parlando con Ettore, si considera una cagna. Non è abbastanza: una cagna spregevole. La donna più bella tra tutte le donne, anzi, imparagonabile a ogni altra donna, la regina che nel terzo libro dell’Iliade, i vecchi di Troia, mentre la battaglia divampa alle porte della città, non smettono di guardare, per paragonarla alle divinità, dice di sé: sono una cagna. Una cagna, potremmo aggiungere, non addomesticata, non addomesticabile, e allo stesso tempo, immancabilmente disponibile: una senza pudore e vergogna. Una cagna? Certo, Elena è pressocché inumana, la sua straordinaria bellezza la rende bestiale, ferocemente dipendente dallo sguardo altrui, oggetto del desiderio maschile, un maschile che per lei è pronto a tutto, persino a distruggere tutto. Elena seduce, si mortifica, umilia, auto-calunnia, infida, gioca anche il ruolo della vittima: meglio, dice a Ettore, sarebbe stato non nascere. Elena, che nel terzo libro dell’Iliade, mentre gli uomini si scannano, prima avverte un impeto di nostalgia verso il cornuto per eccellenza della cultura occidentale, Menelao, quasi folgorata dall’eroismo del vecchio compagno, ma poco dopo non si lascia pregare e cede alla lussuria del corpo di Paride.

Chi è Elena? Dove termina, se termina, la sua ambiguità?

Fenomenale Elena; è chi vogliamo che essa sia: puttana, adultera, traditrice di popoli, regina, madre annoiata, figlia distratta, nuora rispettata, amante pentita e implacabile. Poi arriva Euripide e nel 412 a. c. mette in scena la sua Elena, in una tragedia – in realtà quasi una commedia, una commedia degli equivoci –, che sembra soffocare il mito della donna più desiderata, la regina destinata ad assecondare le proprie passioni senza fare troppi calcoli. Per Euripide, improvvisamente, assume i lineamenti di una sposa fedele, devota a suo marito che non vede da diciassette anni.

Si tratta di un’altra Elena, una donna impegnata a contestare la legittimità di qualsiasi conflitto: il movente della guerra è fondato su un’illusione. Nell’Elena, la moglie di Menelao non va a Troia, su di lei quindi non grava alcuna responsabilità. Ci va solo la sua immagine, il suo eidolon, che tutti credono sia la vera Elena. La donna, in carne ed ossa, si trova in Egitto, soggiorna presso la tomba di Proteo, il re oramai defunto. Euripide non potrebbe essere più chiaro: la guerra è un abbaglio, un errore, un equivoco, un desiderio di conquista fondato sull’illusione che il corpo di una donna possa essere veramente posseduto. Puoi combattere per la sua immagine, catturato dalla potenza del suo aspetto, ma il corpo, nonostante tutto, risiede sempre altrove.

La guerra allora è uno spettro? In effetti, quando nell’Elena si riadatta il mito della moglie di Menelao, smembrando la logica più canonica del modello della bellezza assoluta (per Omero, la bellezza di Elena tende a implicare fatalmente l’infedeltà della sposa), sembrano logorarsi, sino alle fondamenta, alcune roccaforti culturali della civiltà greca arcaica. Che dice il fantasma di Elena? Un’immagine non si possiede; meno che mai un’immagine in movimento, che vive seppure senza possedere un’identità precisa. Euripide ha la forza di liberare Elena dalla sua immagine fornendo alla donna letteralmente un’altra immagine che le permetta di dissociare la propria esistenza, la sua bellezza, i suoi desideri, dalla morte. Lo ripetiamo: il materialismo di Euripide è un atto d’accusa fenomenale contro l’insensatezza di ogni violenza di massa: Elena incarna una diserzione radicale nei confronti della guerra; una diserzione spaziale, psicologica dalle ragioni della battaglia.

Un dubbio, però: Euripide si limita a ribaltare il tavolo oppure già Omero conosceva il carattere ipnotico dell’aspetto di Elena indissociabile, in realtà, dal suo corpo? Insomma, non è che Euripide nell’Elena mette in scena ciò che per molti versi è cosa nota e quindi si libera con eccessiva agilità del mito di una donna la cui bellezza sarebbe alla base di un conflitto sanguinoso? Mito della bellezza e della guerra che indica, per l’appunto, che la guerra, quanto più è lunga e sanguinosa, tanto più si rivela un evento sconsiderato. La guerra, in altre parole, non è inderogabilmente una vicissitudine legata a simulacri, false credenze, ma soprattutto alla necessità di attribuire un senso al vortice tragico e insensato dell’esistenza stessa? In fondo, l’impresentabile, bruttissimo Tersite del secondo Libro dell’Iliade, il soldato greco diverso da tutti gli altri eroi descritti da Omero, non aveva già gridato in faccia ad Agamennone la verità: questa è la vostra guerra! Di re e potenti; non è cosa che riguarda storpi, disgraziati, nullità, uomini e donne senza nome. Lo dice chiaramente: noi torniamo a casa. Umiliato, immediatamente da Ulisse, nientemeno, è pur sempre un soldato, piange: sconfitto, colpito, deriso, singhiozza. Nell’Iliade, ci sono due mostri tra gli Achei: Elena, agghiacciante per la sua straordinaria bellezza, quasi oramai una straniera, e Tersite, l’uomo che osa scagliarsi contro potere e, per un momento, un attimo abissale, dove tutto trema, immagina che tutti quelli come lui dovrebbero disertare il lavoro della guerra.

Probabilmente anche la versione di Euripide del mito della donna più bella di tutte rimane, almeno in parte, invischiata nel mito che vorrebbe ribaltare. Se è vero, infatti, che nell’Elena, la regina di Sparta non arriva mai a Troia, dunque appare libera da qualsiasi responsabilità, tuttavia continua a commiserarsi, avvertendo su di sé gravare una colpa che, stando ai fatti, certamente non ha? Dove allora si annida la colpa che, evidentemente, precede ogni fatto, situazione, azione? Per quanto da Euripide sia separata dalla sua immagine, a conti fatti anche l’Elena egizia vi rimane incapsulata, come se non potesse evadere dalla propria gabbia, nonostante sia aperta. Per liberarsi dello sguardo dell’altro, della sua bellezza, del suo aspetto, non è sufficiente, sembra pensare anche Euripide, tagliare i ponti con la propria immagine: Elena è la propria immagine pure quando – è ciò che la donna scopre sulle sponde dell’Egitto – la sua immagine l’abbandona. Allora, che fare?

Davide Susanetti, curatore nel 2023 di una nuova edizione italiana dell’Elena di Euripide, ci dice che Elena non esiste: come ogni fantasma che abita le nostre fantasie più forsennate, in realtà, si rivela più che altro un vuoto: il vuoto della legge della guerra. In effetti, probabilmente, questa donna insieme misteriosa e apatica, o forse apatica proprio perché misteriosa, vera e propria macchina del desiderio, suo e non soltanto suo, non si esaurisce né nella descrizione negativa che ne offrono i poemi omerici né, allo stesso tempo, nella versione familiare, apparentemente antidrammatica, di Euripide. Lei, né Antigone né Medea, osa l’inimmaginabile: sfida la potenza simbolica e sessuale del suo aspetto, della sua storia maledetta, e nella tragedia di Euripide, ma osiamo pensare, persino sfuggendo dalle mani di Euripide, mentre il coro evoca il mito di Demetra e Persefone, si destituisce completamente provando a tenere insieme la carica distruttiva che la sua bellezza evoca e, allo stesso tempo, una forza in grado di lasciare che la sua soggettività emerga al di là dello sguardo altrui, diventando finalmente altro da sé, non più inchiodata esclusivamente alla sua terrificante, eccitante, mortale bellezza.

Come ha scritto una volta la filosofa francese Barbara Cassin, Elena è sì la causa della guerra ma per dismettere le cause di ogni guerra. L’equivocità di Elena, in effetti, taglia in due, strazia e lacera, un conflitto profondissimo che alimenta un’intera parabola storica. Omero, collocando la condotta di Elena, a fondamento della guerra, compie un’operazione rischiosa e a doppio taglio: da un lato, associa la bellezza assoluta alla guerra, sprigionando dunque quell’estetizzazione della morte che sarà il carattere più proprio, come dirà una volta e per tutte Walter Benjamin nella conclusione, che tutti ricordiamo, del suo saggio sull’opera d’arte, di ogni aspirazione fascista. Come se, noi, oggi, esplorando il carattere di Elena, potessimo fare i conti con una lunghissima traiettoria in grado di coltivare per intero una cultura, da Omero allo Stato di Israele: una fascinazione per la morte e la distruzione di massa; le rovine di Troia e quelle di Gaza legate da un destino di sangue terribile. Al contempo, però, con un corto-circuito difficile da maneggiare, ma proprio per questo cruciale, l’incommensurabile bellezza di Elena, la sua incomparabilità con quella di nessuna altra, il suo tratto fuori misura, è un monito con cui fare i conti continuamente: segnala che la ragione della guerra non ha ragione, né un movente cui affidarsi e che le possa fornire un senso e una giustificazione. Chiarendo, una volta e per tutto, che a fondamento di ogni fondamento, inevitabilmente, non si trova altro che un’assenza. Non una mancanza, da riconquistare, di cui riappropriarsi, ma, insistiamo volentieri, un’assenza.

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« La seduzione del nome. Elena e il suo spettro », K [En ligne], 13 | 2024, mis en ligne le 01 décembre 2024, consulté le 06 février 2025. URL : http://www.peren-revues.fr/revue-k/1443