Notes de l’auteur

La riflessione su Medea, che faccio da drammaturga tra queste pagine, nasce, in generale, dal mio rapporto “nativo” con la drammaturgia tragica greca, e in particolare, dal progetto di creazione teatrale che ho iniziato proprio in quest’ultimo anno in concomitanza con l’invito a scriverne qui. Quando dico nativo significa che essendo nata in Sicilia a sette chilometri dal sito archeologico di Segesta ho ricevuto in dono dal “luogo” la materia segreta di cui mi occupo. Tutto questo accade in una visione che produce il travaglio contemporaneo, in cui il mito è avvertito come processo di trasformazione e mai di consolazione.

Avevo già scritto un primo testo dal titolo “Medeas”, già pubblicato in Francia nella traduzione di Jean-Paul Manganaro, da “Les Solitaires Intempestifs nel 2016 e in Italia nel 2018 da “Editoria&Spettacolo” nella raccolta “Miti senza dei. Teatro senza dio”. Ma non è stato sufficiente. Per me la scrittura è un organo vivente e come tale è sottoposta al verificarsi del giorno e della notte, e quando il tempo passa, ha fatto, attraverso l’autore, già una nuova esperienza, ha prodotto nuovi pensieri, sentimenti, per cui mi ritrovo molto spesso a riscrivere quanto già messo in pagina. La prima Medea nasce al plurale. Tre tappe fondamentali della sua vita (Colchide, Corinto, Esilio) costituiscono ugualmente tre scene conflittuali della condizione umana. Ma ogni volta che si scrive di Medea ci si chiede chi è. È interessante chiedersi se è l’entità mitica femminile a cambiare o siamo noi che vivendo cambiamo posizione e la perdiamo di vista. È questo gioco di nascondimenti come battaglie per il senso, perché Medea non ne sopporta uno solo, a rimetterla in questione. Nel nuovo progetto di scrittura e di creazione con l’aggiunta di un’altra esse nel titolo “Medeas-s” entra anche l’orror presente legato all’invasione russa di Putin dell’Ucraina, in un confronto attoriale a due tra Medea e la Nutrice. La riflessione si sposta sul sofferto rapporto tra poesia e realtà conservando ancora la tridimensionalità di Medea e la sua impossibilità di fermarsi/ci in uno spazio definito. Forse alla luce di oggi la trasversalità di Medea sta nella sua capacità di essere contaminata dal “contesto” senza morirne mai e per questo essere destinata lei stessa a contaminare.

Medea, si sa, è tutto e il contrario di tutto. Ha una dissociazione da mito. La sua personalità urta contro il nostro immaginario come un’onda che si infrange sullo scoglio e si dissolve. Di lei resta un segreto, quello esistenziale in cui convivono allo stesso modo il destino di un filo d’erba e il destino dell’umano. Impossibile identificarsi in lei. La distanza da lei è tragica. Del Tragico è fatto il contemporaneo”.

Texte

Medea non è la costola di Adamo. Non appartiene alla genesi del femminile cristiano. Non perchè preceda di centinaia di anni la venuta di Cristo. Medea appartiene al Mito. Ad un’altra narrazione del femminile che cova come carbone ardente sotto le stratificazioni culturali. Il suo essere mitica istituisce una differenza che cambia radicalmente il nostro sguardo sul femminile e sulla cura. Dobbiamo rivolgerci altrove. Dove, come? Istituire uno specchio al buio. Spegnere la luce della nostra epoca, tra l’altro troppo luminosa con i suoi neon, sempre accesi. Non abbiamo preghiere per Medea. Non abbiamo parole per “ammaestrarla”, tranne a vincere il disagio per lo scandalo che solleviamo dentro di noi nel cercarla, spiarla al buio, desiderando di sorprenderla nuda. Gli occhi grandi di Maria Callas su cui Pasolini ha fissato per sempre la camera, come un’antenna visiva che capta in retrospettiva piuttosto che in prospettiva, parlano dell’incomunicabilità tra noi e lei, tranne a lasciarci precipitare in quel non detto che può renderci complici. In muta tenerezza. In invadente generosità. Il teatro concede a Medea un corpo contemporaneo: l’attore/l’attrice compiono la prova della carne. Medea la sperimenta come atto poetico, antieroico, perché a differenza delle sue pari, non affronta una prova straordinaria che la porti fuori dalla norma, secondo il canone eroico maschile, ma affronta solo sé stessa, il suo essere donna, con le debolezze e l’orgoglio di una creatura che cerca il suo posto nel mondo. A costo di pagare un prezzo altissimo perchè il mondo per la donna è l’inferno. La tragedia di Medea è tra le più amate dal pubblico, perchè? Cosa interessa al pubblico, cristianamente educato, di una donna contro natura, madre orrifica, che, sconvolta lei stessa, sconvolge l’equilibrio della struttura psichica e mette in crisi l’ ordinamento culturale? Medea, si sa, è tutto e il contrario di tutto. Ha una dissociazione da mito. La sua personalità urta contro il nostro immaginario come un’onda che si infrange sullo scoglio e si dissolve. Di lei resta un segreto, quello esistenziale in cui convivono allo stesso modo il destino di un filo d’erba e il destino dell’umano. Impossibile identificarsi in lei. La distanza da lei è tragica. Del Tragico è fatto il contemporaneo. Non possiamo spostarci di epoche per superare la memoria. Siamo obbligati ad occuparci del presente che non è altro che il risultato provvisorio di una biografia universale di cui non fa parte il futuro. In un rovescio del rapporto tra mito e contemporaneità noi siamo il centro, Medea è la periferia. Lo stesso vale per la drammaturgia classica che significa solo quello che noi diamo di significato. Contrariamento è silenzio.

Il rito laico del teatro è sopravvissuto nei millenni forse perché, senza affermarlo chiaramente, siamo noi il Deus ex Machina, che riproduce il legame origine-presente, nel provvisorio passaggio sulla terra; siamo l’atto tragico che il mito decodifica.

La parola Mito significa racconto. Ma è un racconto che si riproduce continuamente da sé, si comporta come il lievito madre, da cui si estrae, ogni volta che ce n’è bisogno, la materia lievitante per panificare. La riproduzione all’infinito del Mito non appartiene alla sfera tecnologica, ma al Tragico che è l’esperienza del contemporaneo e del suo transitare. Nel transito Medea riemerge dalla sinuosità del tempo e dell’onda che non ha regole se non quelle interne a sé stessa, come il liquido amniotico della memoria, dove abita anche Medea, anche lei madre, grembo di una infanticida che ha rinnegato il suo stesso grembo. Possibile una discrasia di tale portata? Il Mito produce traumi, perché?

 

Il Mito varia, cambia pelle, ma variando non corrompe il suo nucleo, ne mantiene le ossa, come un corpo celeste luminoso che tanto lontano da noi è capace di emanare una luce che brucia ogni distanza fino a raggiungerci ovunque ci troviamo. Se la luce di un corpo celeste è la periferia di sé, lo stesso vale per il Mito, che è altrettanto periferia, di una origine, di una fonte, che giustifica la posizione centrale contemporanea di ogni società, di ogni individuo. Medea è la potenza del suo essere periferia, contrariamente al nostro sguardo che erroneamente è indirizzato al “centro”, centrato su di lei, ma siamo noi il centro, perché siamo il logos. Medea non lo è.

Ho riscritto, per un progetto di creazione teatrale, il mio primo testo su Medea dal titolo “Medeàs” risalente al 2014. (In Francia, Les Solitaires Inempestifs, in Italia, Editoria & Spettacolo). Ho riscritto me stessa perché la scrittura è materia vivente, avviene mentre stai vivendo, stai pensando, stai agendo.

Come a dire che il nuovo giorno ha bisogno ogni volta di una nuova scrittura, una nuova Medea.

Nel primo testo, dove Medea è una creatura plurale (Cypris-Colchis-Medea), la domanda di base è: può una donna che diventa madre smettere di esserlo? La risposta drammaturgica è di si. Oggi che il secondo testo aggiunge il sottotitolo “Il punto preciso in cui finisce il giorno”, e fa della scrittura il dialogo tra la Nutrice e Medea, nell’ultimo giorno prima dell’esilio, il motivo non è più l’urgenza di quella domanda iniziale che istituisce la tragedia così come la conosciamo.

Il secondo testo, in cui Medea resta sempre plurale, considera meno rilevante la posizione di Medea infanticida rispetto ai tanti aspetti ugualmente di rottura della sua statura di donna. Il nuovo testo risponde piuttosto all’urgenza di concepire una visione del femminile che privi il sistema capitalistico di quel processo alla colpa della “donna” da cui questo prende forza. Se privilegiamo il lato omicida della personalità di Medea alimentiamo il processo di cui il capitalismo si nutre. Medea non è processabile. Né per avere tradito la sua terra natia concedendo con i suoi stratagemmi di maga il possesso del vello d’oro a Giasone, né per aver amato perdutamente lo straniero fino a farsi lei stessa straniera, né per avere ucciso i figli. I Greci ce l’hanno tramandata senza giudizio e pregiudizio. Medea non è Ecuba. Non è il femminile che fonda le premesse del matriarcato sul dolore, sulla perdita. Medea è ancora dentro un passaggio da un punto X ad un altro punto X, in cui il suo corpo è una anomalia, perché è così che lo percepiamo essendo noi il centro di una periferia che ha perduto di essere mitica.

 

Nell’omonimo testo di Euripide la vicenda di Medea è colta nell’atto stesso in cui scoppia la tragedia, quando, lei originaria dalla selvaggia Colchide, si trova a vivere nella città evoluta di Corinto, nella Grecia del V secolo, dove Giasone pur di diventare re rinnega la loro straordinaria storia d’amore.

Lo stesso Euripide fa dell’uccisione dei due figli una conseguenza dell’azione di Giasone, il padre, non una causa voluta dalla madre.

Questo spaccato della vita di Medea, che sicuramente è un momento di passaggio da un prima che è la Colchide a un dopo che è l’esilio, è solo la minima parte di tutto quello che gira dentro e intorno alla formazione del mito Medeatico. C’è tutto un procedimento narrativo a pioggia che feconda la Medea mitica, come una reazione chimica e fisica, senza cui non solo la stessa non esisterebbe, ma non potrebbe parlare a noi, non avrebbe quello stato luminescente di periferia in cui abitiamo e crediamo all’inverso di quello che è. Medea è un groviglio di miti: il vello d’oro con le sue proprietà magiche, che a sua volta nasce dal volo dell’ariete alato su cui fuggirono Frisso ed Elle fino a ritrovarsi, il primo sopravvissuto, in Colchide; la costruzione epica della nave Argo ad opera di Argo di Tespi che richiama il primo costruttore del famoso rudimentale teatro, il carro di Tespi; l’impresa memorabile di Giasone e degli Argonauti. Quest’ultima sembra presagire il viaggio dell’avventura colonialista dei Paesi europei a partire dal 1400. Raggiungere nel primo millennio A.C la Colchide, terra estrema oltre cui il mondo non c’è più, richiama alla memoria la conquista delle Americhe, e fa pensare anche alle conquiste dell’Antropocene, penso all’estrazione del cobalto in Congo che supporta il potere mondiale dei produttori del digitale. Da qui il vissuto di Medea può diventare una lettura politica dell’attualità, sia riguardo alla grande storia, sia riguardo alla posizione della donna nell’avvicendarsi delle società. La vita di Medea avviene anch’essa, come altre figure mitiche, all’interno dell’avvenimento maschile per eccellenza che è la conquista del potere e la attitudine violenta alla sua conservazione. La civiltà Greca ha cantato in maniera superba il maschile in questa sua azione ma ha anche cantato l’urlo del femminile (Cassandra, Antigone, Ifigenia, Clitennestra…) prima di scomparire negli anfratti di una lunga età oscura a venire. Medea è il grido più acuto. Il terribile schianto contro il tempo di una rivolta del femminile, che pretendeva altro ascolto, altra sacralità, continuità.

 

Il film “Medea” di Pier Paolo Pasolini denuncia chiaramente il conflitto tra mondo arcaico e mondo evoluto neocapitalista di cui Medea porta i segni come fossero delle stigmate. Le pratiche tribali che introducono nel film le origini della principessa-maga di Cochide, a tutto fanno pensare tranne che al rito della cura come lo intendiamo noi, salvo che la pratica del sacrificio umano non debba essere riconosciuta come cura di una presenza ultraterrena che domina il destino della comunità. Tutto questo ed altro ancora contribuisce a collocare il femminile di Medea in maniera trasversale rispetto al maschile e al racconto mitico stesso. Come già detto Medea è riconoscibile solo in una pluralità di aspetti; è maga, straniera, donna innamorata, madre ma anche anti-madre, esiliata. Non ha un centro. Più esplicitamente lo nega, lo destituisce dall’ autorità, per scivolare in una linea irregolare che non si spezza ma va per direzioni imprevedibili. La negazione del centro passa addirittura attraverso l’evento impronunciabile dell’uccisione dei figli, che smantella i capisaldi della sacralità materna, centralità assoluta della cultura occidentale.

La lacerazione della cura non è rifiuto di una femminilità secondo i canoni della nostra cultura, ma è l’affermazione del femminile che rifiuta il ruolo prodotto dalla relazione con l’altro: Medea-Giasone. Il corpo istituisce il ruolo. Solo il corpo mancante può destituirlo. Medea-Donna ristabilisce la sua sovranità da animale ferito. L’animale in natura si cura da sé. I figli non fanno parte della cura.

Nella pratica teatrale la radicalità di Medea sottopone il teatro stesso ad un continuo aggiornamento e verifica della sua ragion d’essere e la sua capacità di mettersi sempre in gioco. Se c’è uno spazio di destituzione del potere quello è il teatro, perché la parola sul palcoscenico è sempre destituente. Riporto qui una mia riflessione sull’ Attrice-Medea: “Médée peut avoir la texture effilochée d'un miroir brisé. L'actrice enquête sur les fragments. Non pas pour recomposer toute l'image, nous ne savons pas à quoi ressemblait Médée. Chaque fragment, tout comme une découverte archéologique, est un vecteur de réorientation du sens, un BATEAU, comme celui qui l'a amenée de Colchide à Corinthe. Ils nous renvoient la mémoire d'un corps tombé dans le gouffre du temps”. Le gouffre du temps est le domaine de l'actrice”.

Medea non è solo un archetipo del femminile è anche un archetipo del teatro. Il teatro la vuole senza sosta sul palcoscenico di ogni lingua. Il pubblico è attratto da Medea in maniera scandalosa. Ritorno a chiedermi, perché? Credo che una passione traumatica come la sua possa aiutare lo spettatore a liberarsi dal Logos e dalla cognizione del dolore che lei rifiuta a priori, accedendo ad una esperienza tragica in cui il tragico non è dolore, ma accoglienza, possibilità di convivere con lo straordinario, da cui normalmente è escluso.

 

La drammaturgia contemporanea con la sua dinamica di rottura dei linguaggi scenici, ha allenato le sue velleità di variazione di senso riadattando la materia mitica della tragedia greca antica alle questioni più spinose del nostro tempo e i momenti di crisi. Il teatro contemporaneo costruisce le sue più incisive denunce politiche proprio sulla riscrittura del mito. Penso alla Medea di Heiner Muller (Medea-Material) e alla necessità dell’autore di cantare la crisi del secolo scorso e le macerie d’Europa. È proprio il tratto drammaturgico della scrittura fuori dal fraseggio logico a rivelare la linea tortuosa della esistenza mitica di Medea. Fino ad immaginare che Medea non possa abitare il testo, perché lei stessa è testo, del nostro essere Tragico. Cosa racconta Medea di noi oggi? Perché gli antichi hanno dato vita ad un personaggio femminile come Medea, dai più ricordata come la madre che uccide i figli, che appare in evidente contrasto con l’ordine della vita?

Chi è Medea in un mondo globalizzato non solo dal mercato ma anche dalla pandemia da virus? Altrove abbiamo trovato risposta. Per Antigone, pensando al diritto alla sepoltura nella civiltà mediterranea o al conflitto tra l’interesse del potere costituito e l’interesse della legge di famiglia. Per Cassandra, la sacerdotessa di Apollo, condannata a non essere creduta e ad aprire per noi un racconto sulla pericolosa diversità della visione femminile nella realtà storica e sociale.

Medea, non permette una risposta. Come le altre figure mitiche campeggia nel mondo maschile fatto di guerre, di potere, di inganno, ma se ne discosta perché con lei il femminile si espone totalmente al massacro del mondo, gioca da sé e da solo. Sopravvive come alterità, periferia di macerie, che aspetta il passaggio della luna, quando questa finisce di ammaliare gli umani. E non è più sera, né mattino, né pomeriggio. Che giorno è?

Impossibile stare dalla parte di Medea. Lo facciamo regolarmente per Antigone, per Cassandra. C’è un vuoto di relazione con Medea. Lei è nata altrove, fuori dalla gabbia delle costole adamitiche.

L’ex madre-ex amante-ex maga, rifiuta la nostra solidarietà. Noi insistiamo sulla scena… ci piace provare il timore che ci incute. Cerchiamo una esperienza scaramantica. Come andare nella savana e provare da turisti il brivido dell’incontro con il leone.

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Référence électronique

Lina Prosa, « Medea/non è la costola di Adamo », K [En ligne], 8 | 2022, mis en ligne le 01 juin 2022, consulté le 18 mars 2025. URL : http://www.peren-revues.fr/revue-k/1010

Auteur

Lina Prosa