1. La teoria dell’immagine del Black Panther Party
Nella storia dei movimenti per i diritti civili negli USA, e in particolare dei gruppi politici legati alle lotte per i diritti degli afroamericani, un posto particolare occupa il Black Panther Party (d’ora in poi BPP), non solo per l’importanza politica, sociale e culturale del movimento, ma anche perché il partito fondato nel 1966 da Huey P. Newton e Bobby Seale rappresenta una tappa fondamentale nell’uso delle immagini come strumento politico, di coesione e di consenso. L’irruzione nella scena politica americana del BPP non può infatti essere assimilata a quella di altri movimenti della comunità nera: «per maturità e coerenza travalicava tutti i movimenti di colore precedenti: esso non mirava ad un accordo, voleva la lotta, non cercava conquiste gradualiste, pretendeva una base paritetica» (Merighi, 1973, p. xx).
La dottrina politica del BPP si basava su un’organizzazione capillare che reclutava ed educava i militanti all’interno del sottoproletariato del ghetto, manifestandosi con elementi visivi riconoscibili (uniformi di colore nero, occhiali da sole, basco e soprattutto con armi bene in vista), con l’uso di un linguaggio nuovo e di una visione politica che oltrepassava la rivendicazione di una identità afroamericana. Le iniziative politiche del BPP, sintetizzate nei dieci punti del loro programma politico, «sostituiscono ad una cultura esclusivamente africaneggiante il concetto di cultura rivoluzionaria» (Carles, Comolli, p. 25).
La novità e la radicalità del progetto del BPP sono marcate anche dall’attenzione ad un aspetto peculiare, quello della visibilità di una presenza. L’organizzazione del partito era strutturata in modo tale da rendere visibile a vari livelli il radicamento nei territori del movimento, dei suoi membri e delle loro attività.
Una delle iniziative fondanti del partito era infatti l’attività di pattugliamento (patrolling) delle zone dei quartieri a maggioranza afroamericana. Il patrolling consisteva nel mostrarsi – con l’abbigliamento tipico dei membri del partito e con le armi portate in evidenza – lungo le strade dei quartieri, per sorvegliare le attività della polizia, e opporsi ad ogni forma di prevaricazione o di violenza da parte delle forze dell’ordine nei confronti dei cittadini afroamericani. Tutte le iniziative del BPP erano di fatto mosse dall’obiettivo politico di sancire una presenza attiva (dal programma del Breakfast for Children, in cui venivano offerte gratis colazioni ai bambini dei vari quartieri, fino alle campagne elettorali locali a cui partecipavano candidati del partito), una operatività continua all’interno delle città.
Visibilità, dunque, necessità di porsi, politicamente, come immagine collettiva, di un movimento che non si concentra necessariamente in un leader carismatico (come potevano essere Malcom X o Martin Luther King). Per quanto il partito avesse dei nomi di spicco come Seale, Newton o Fred Hampton, o militanti famosi come Mumia Abu-Jamal (probabilmente uno dei più famosi prigionieri politici nella storia degli USA; cfr. Abu-Jamal, 2018), la differenza del BPP rispetto ai movimenti per i diritti della comunità nera americana sta proprio nel promuovere un’immagine collettiva, di comunità militante in cui il leader non assorbe su di sé tutta l’attenzione, in cui è l’idea di comunità e di collettività a prevalere, a concretizzare su di sé la potenza di un’Idea.
È da qui che nasce allora la domanda che muove le riflessioni di questo testo: quali immagini il BPP ha costruito nell’immaginario collettivo dentro e fuori gli Stati Uniti d’America, sia durante il suo periodo di attività (dal 1966 al 1981), sia successivamente? Come questa Idea ha circolato nelle immagini prodotte internamente o esternamente al movimento? Si tratta cioè di interrogare le immagini, di analizzare gli sguardi che hanno dato corpo alla rappresentabilità di un movimento politico originale. In particolare ci si concentrerà sulle modalità con cui il cinema ha dato corpo ad una immagine poliedrica e complessa come quella del BPP. Ciò che emergerà infatti da questo percorso è la storia di uno sguardo molteplice che, da prospettive e punti di osservazione diversi, da periodi storici diversi ha cercato di interrogare la peculiarità del movimento, trasformandolo in simbolo, in icona, in emblema o, più radicalmente, in spazio eccedente, forza capace di destrutturare la narrazione tradizionale della storia politica degli USA.
Focalizzare l’attenzione sulla pratica cinematografica colma uno spazio poco affrontato negli studi sul cinema del reale (perché è soprattutto nella forma documentaria che si condensano quelle domande da cui stiamo prendendo le mosse). Se infatti la strategia iconografica del BPP è stata spesso messa in evidenza (Morgan, 2019), come una delle pratiche più originali del movimento, dall’uso della fotografia all’elaborazione di slogan e loghi, fino alle invenzioni grafiche di uno degli artisti più significativi del movimento come Emory Douglas (Durant, 2007).
Raccontare la potenza cinematografica del BPP significa allora anche analizzare la questione da sempre soggiacente il cinema (e soprattutto il cinema del reale, il cinema che interroga le dinamiche della realtà): analizzare cioè le modalità con cui la complessità irriducibile del reale viene trasfigurata in una immagine, che, parafrasando Deleuze e Guattari, opera un taglio nel caos del mondo, costruisce un piano attraverso cui vedere altrimenti e mediante il quale mettere a fuoco uno sguardo. Da dove hanno origine queste immagini, che cosa colgono o nascondono, come si collocano nella storia delle immagini (del reale)?
È opportuno quindi costruire una suddivisione, una partizione degli sguardi che hanno costruito (o hanno tentato di costruire) nel tempo un’immagine del BPP. Una partizione che prenderà in considerazione una serie di titoli diversi per origine, scopo e forma, ma che permetteranno di evidenziarne proprio le molteplici possibilità, i diversi approcci al reale. Tre modalità di sguardo: interno, esterno e postumo; un primo discorso che lavora sulle immagini contemporanee alla nascita e allo sviluppo del partito e che nasce da cineasti vicini al BPP, un secondo sguardo esterno al movimento, ma che tenta di intercettarlo, di seguirne il flusso e la ramificazione; un terzo sguardo, infine, che si colloca lontano nel tempo, che orienta le proprie immagini a partire da una prospettiva postuma, fondata sulla consapevolezza della fine dell’esperienza storica del BPP, ma che costruisce spesso dei cortocircuiti, delle connessioni feconde tra quel movimento e le nuove lotte per i diritti civili degli afroamericani (Black Lives Matter su tutte).
2. La flagranza dell’immediato
La costruzione di un immaginario inizia sin dai primi anni di vita del BPP. Cineasti vicini al movimento realizzano opere al di fuori della produzione industriale, spesso basate sull’intervento immediato, sulla necessità di cogliere le dinamiche del movimento. Documentaristi come Edouard De Laurot cercano di intercettare la complessa situazione delle lotte per i diritti civili degli afroamericani in quegli anni con il preciso obiettivo di dare voce a coloro che nei media ufficiali sono sempre stati visti dal punto di vista dell’establishment. Ne è un esempio Black Liberation (aka Silent Revolution) (1967, Edouard De Laurot), prodotto in collaborazione con Malcolm X, in cui il regista franco-polacco realizza un’opera manifesto, dando visibilità ad alcuni dei maggiori leader dei movimenti politici per i diritti civili, alternando le dichiarazioni delle figure rappresentativi alle immagini delle manifestazioni lungo le strade di New York. In Off the Pig! (aka Black Panther) (1968), il collettivo di registi dietro il nome Third World Newsreel dà vita ad uno dei primi film dedicati al BPP, con interviste al leader e fondatore Eldridge Cleaver e a Huey Newton (all’epoca in prigione). Nel 1971 esce The Murder of Fred Hampton, di Howard Alk, documentarista militante americano, che nasce come film divulgativo della linea politica del BPP e che si trasforma durante le riprese in qualcosa di completamente diverso: durante la lavorazione del film infatti l’assassinio di Fred Hampton, uno dei leader più in vista del partito, modifica radicalmente la struttura del lavoro. The Murder of Fred Hampton diventa infatti un film-inchiesta, la cui tesi esplicita è quella di dimostrare il coinvolgimento del FBI nell’omicidio del giovane leader. È proprio questa metamorfosi del film, il passaggio da un film-manifesto a un film-inchiesta a fare di The Murder of Fred Hampton un lavoro emblematico di un processo di elaborazione di una immagine capace di essere politica.
Caratteristica costante di queste e altre operazioni è quella di creare un’immagine politicamente orientata, di cogliere la flagranza di un movimento crescente che fa dell’immagine uno dei suoi punti forti. Le riprese sporche, l’uso di materiale amatoriale, il montaggio frenetico restituiscono allo spettatore da una parte la molteplicità e la collettività dei movimenti e, dall’altra, il suo essere qualcosa che si sviluppa qui e ora e che richiede con urgenza di essere riconosciuto. Le prime immagini rispondono allora ad una esigenza interna, che anzitutto contrasta con l’immagine ufficiale che emerge dai media mainstream; un’esigenza che ha bisogno di volti, di corpi e di azioni. Un cinema dell’immediato che si diffonde nei circuiti alternativi, o interni allo stesso partito, come le Liberation Schools, vere e proprie scuole auto-organizzate il cui obiettivo era quello di formare i giovani del ghetto ai principi rivoluzionari: nei programmi delle scuole il giovedì era infatti dedicato al cinema rivoluzionario e nelle sedi del partito venivano proiettati film rivoluzionari da tutto il mondo, nonché le opere realizzate internamente (Alkeboulan, 2007, p. 33). Quello che emerge con forza da queste esperienze è la ricerca costante di immagini politiche, una ricerca che si appoggia alla logica della visibilità estesa che, come si è visto, è uno degli obiettivi centrali del partito. La flagranza dell’immediato diventa allora il punto di partenza per un altro movimento la cui origine è quasi coeva al sorgere del BPP, vale a dire l’appropriazione delle immagini da parte di sguardi esterni, di cineasti e artisti che non sono “interni” alle lotte della comunità nera americana, ma che colgono la potenza dell’immaginario che incessantemente il BPP produce, per ripensarlo, inglobarlo, metterlo in relazione con altri sguardi, con altre urgenze.
3. L’appropriazione dello sguardo. Agnès Varda
Uno sguardo è sempre soggetto a continue riappropriazioni, proprio perché, in ultima istanza, esso produce e fa circolare immagini. In questo senso, l’appropriazione può essere vista come una estensione del senso. Alla fine degli anni Sessanta, Agnès Varda soggiorna negli USA insieme al compagno Jacques Demy, che era stato contrattato dalla Columbia Pictures per realizzare un film negli Stati Uniti dopo il successo internazionale di Les Parapluies de Cherbourg (1967). Stabilitisi in California, Varda e Demy respirano l’aria della controcultura dilagante in quegli anni. La regista, che non è sotto contratto con una major hollywoodiana, gode di una estrema libertà nel progettare opere che tengano conto di una realtà nuova e in movimento. Pur impegnata nella realizzazione di Lions Love (1969), film impregnato della controcultura hippie americana degli anni Sessanta, la regista belga entra in contatto con le attività del BPP e decide di realizzare un cortometraggio documentario (prodotto dalla televisione francese, ma che non sarà messo in onda per ragioni di censura) sulle manifestazioni ad Oakland per l’incarcerazione e il processo di uno dei leader del partito, Huey Newton.
Black Panthers viene terminato nel 1968 e diventa un film cardine per il percorso artistico e politico di Varda, soprattutto per la sua consapevolezza femminista, come spesso la regista ha dichiarato:
Le Pantere Nere sono state le prime a dire: “Vogliamo fare le regole, la teoria”. Ed è questo che mi ha fatto capire la situazione delle donne. Molti bravi uomini avevano pensato per noi. Marx l'ha fatto. Engels l'ha fatto. Queste persone l'hanno fatto meravigliosamente. Eppure forse dobbiamo superare Marx, perché Marx non dà le chiavi e le risposte per noi donne (Peary, 1977, p. 91).
A partire dal progetto politico del BPP, il film ne indaga le forme visibili, le modalità di manifestazione pubblica, urbana. Le immagini si concentrano sugli esterni, sugli spazi della città che si animano di una collettività capace di costruire un’idea rivoluzionaria. Quello che Varda cerca nel film è appunto il nascere di un movimento molteplice, in cui la teoria si fonde con l’azione in una dialettica costante e mobile. Il breve lavoro è costruito in modo frenetico, con inquadrature brevi, rapidi primi piani e totali, con una macchina da presa mobilissima che cattura espressioni, frammenti di discorsi, brevissime dichiarazioni. Soprattutto, lo sguardo è concentrato sulla presenza femminile all’interno del movimento. Militanti donne che intonano canti di protesta, che improvvisano coreografie, che si esprimono con gesti e parole di fronte alla macchina da presa. La regia non trasforma il partito in un movimento a guida femminile, ma incorpora la consapevolezza delle donne afroamericane all’interno del partito. È a partire dall’esperienza del film che il femminismo di Varda si declina come un’idea inclusiva e non settaria.
Lo sguardo di Varda è uno sguardo esterno che si immerge in quello che percepisce come un flusso politico e teorico, restituendone la vitalità e la molteplicità delle voci. Il film non vuole essere (perlomeno prioritariamente) una documentazione sulle attività politiche del BPP, ma un gesto di interrogazione di quella che Varda vede come una novità politica, la cui principale forza è quella appunto di diventare spazio visibile, azione diretta, capacità di costruire segni negli spazi della città. Un corto circuito tra le manifestazioni parigine del maggio 1968 e la riscrittura dello spazio urbano nella prassi del BPP. La struttura frenetica e frammentaria del film diventa allora la forma attraverso cui l’idea politica e di immagine del partito e dei suoi militanti diventa immagine.
Ecco un primo scarto rispetto alla flagranza dell’immediato che caratterizza gli agit-film prodotto all’interno del movimento: in Black Panthers emerge con forza una dimensione teorico-politica che non può e non deve essere legata solo ad una comunità specifica (quella afro-americana), o ad un territorio delimitato (gli Stati Uniti), ma entra in un rapporto dialettico con l’idea stessa di altro sguardo, di altra cultura, di rivoluzione – della mente, prima ancora che dei corpi – che attraversa i movimenti politici di tutto il mondo nella seconda metà degli anni Sessanta. Varda filma con gli occhi di una artista politicamente impegnata una realtà lontana dalla propria, ma attraverso una pratica di appropriazione entra in rapporto con tale realtà, costruisce un ponte capace di leggere le azioni del BPP all’interno di una dialettica più ampia, rispecchiandosi in esse, incontrandole attraverso la macchina da presa. L’appropriazione dello sguardo è allora da intendere come un gesto particolare: il fare proprio lo sguardo dell’altro, riconoscersi in esso, senza annullarlo e senza dissolversi in esso; renderlo mobile, mobilissimo: il film, come si è detto, è vorticoso, fluttuante (“un’esperienza sconcertante a causa della miriade di immagini e di voci a cui è esposto lo spettatore” – Bénézet, 2014, p. 73). Le immagini scorrono rapidamente a testimoniare ancora una volta l’urgenza di qualcosa che accade lì, in quel momento; e che nel suo accadere diventa segno, immagine, forma di riscrittura del territorio.
4. Il farsi altro del segno. Il regno di Wakanda
L’appropriazione dello sguardo può essere anche indiretta, contingente; una sorta di combinazione di immagini che pur nate separatamente non cessano di richiamarsi a vicenda, di costruire relazioni simboliche. Nel luglio del 1966 (tre mesi prima della nascita ufficiale del BPP, che avverrà a Oakland nell’ottobre dello stesso anno), nel numero 52 della testata “Fantastic Four” della Marvel Comics compare un nuovo personaggio, il cui nome è appunto Black Panther. Il personaggio, un supereroe (all’inizio un villain) la cui identità è quella del principe T’challa, monarca dell’immaginario paese africano di Wakanda, attinge ai suoi poteri dall’assunzione di una mistura di erbe che proliferano nel suo Paese, e da una conoscenza amplia della tecnologia scientifica del tempo. Quando pochi mesi dopo il BPP presenta il suo logo (una pantera nera nell’atto di balzare in avanti), il collegamento è immediato. Il personaggio Marvel diventa un eroe positivo e Black Panther “riesce a fare la storia come il primo supereroe nero a raggiungere un vasto pubblico” (Howe, 2012, p. 156). Il corto circuito simbolico si attiva sin dall’inizio: la prima formazione di quello che sarà il BPP si chiama Lowndes County Freedom Organization, ma proprio grazie al successo del personaggio Marvel, cambierà nome e si chiamerà Black Panther Party. Lo sviluppo della storyline del personaggio procederà ovviamente in modo autonomo dal percorso del BPP. La Marvel, che inizialmente aveva visto con imbarazzo l’accostamento tra il personaggio e il partito – tanto da cambiarne per breve tempo il nome in Black Leopard (Howe, 2012, 236) – ben presto riprende la linea originale decretando il successo del personaggio, soprattutto, ma non solo, tra il pubblico adolescente afroamericano.
Le caratteristiche del supereroe non sono ininfluenti: T’challa si muove agilmente tra la sua radice africana e il mondo ipertecnologico di stampo occidentale. Wakanda, il suo regno, diventa ben presto l’emblema di questa fusione: spazio apparentemente legato alle tradizioni, il piccolo stato è in realtà tecnologicamente avanzatissimo, e T’challa si muove tra pensiero scientifico-tecnologico occidentale e pensiero magico-rituale, attingendo così ad entrambi i mondi, a molteplici culture. Dopo alcuni primi aggiustamenti, la Marvel affida a Don McGregor, all’epoca esordiente e in seguito uno degli scrittori di comics più importanti negli USA, e a Billy Graham, disegnatore afroamericano fondamentale nella costruzione di icone black dei comics (come Luke Cage e appunto Pantera Nera) il compito di sviluppare la storyline del personaggio. I due costruiscono allora lungo tutti gli anni Settanta, una serie di archi narrativi in cui il supereroe si alterna tra il mondo occidentale e l’Africa, di fatto all’interno di conflitti non solo e non tanto razziali, ma soprattutto tra visioni diverse, all’interno del proprio Paese come all’interno degli USA, tra culture che non si amalgano, non si incontrano. McGregor e Graham rappresentano allora un supereroe potente, sì, ma scisso, attraversato costantemente da una vena malinconica. La fase discendente del BPP in un certo senso accompagna gli sforzi dell’eroe nel comics, che continua a portare avanti la sua ricerca di un possibile rapporto tra culture radicalmente in conflitto.
La necessità di ricostruire una visione più ottimistica del rapporto tra la comunità afroamericana e quella bianca sarà alla base in anni recenti del rilancio del personaggio all’interno del Marvel Cinematic Universe, il progetto cinematografico della casa di produzione, che negli ultimi anni ha tracciato un solco importante nell’immaginario cinematografico contemporaneo.
Diretto da Ryan Coogler, regista afroamericano nato proprio a Oakland e passato, secondo una prassi tipica del sistema hollywoodiano contemporaneo, dal cinema indipendente (Prossima fermata Fruitville Station, 2013) a lavori prodotti dalle major (Creed – nato per combattere, 2015), il film sul personaggio Marvel (Black Panther, 2018) rappresenta probabilmente una prima declinazione di quell’ultimo scarto rispetto alla produzione di immagini direttamente o indirettamente legate al BPP, la forma contemporanea.
La rilettura di T’challa da parte di Coogler (e del MCU) porta nello scenario contemporaneo le lotte per i diritti dei neri americani, trasfigurandole in una visione conciliante che di fatto, come ha notato Slavoj Žižek, ne decreta il successo critico e di pubblico pressoché universale (Žižek, 2020, p. 62).
La lotta che determina il film è quella tra T’challa e suo fratello Erik, il primo cresciuto nel confort del suo Paese natale e attratto da una alleanza con il mondo occidentale, il secondo reduce dalla discriminazione razziale nei ghetti urbani di Oakland e che non vuole che il fratello abbracci i valori della società bianca americana e si avvii verso un “globalismo progressivo e pacifico” (p. 64). Il progetto di Erik, quello di organizzare una rivoluzione mondiale degli oppressi è di fatto il riflesso, per quanto trasfigurato, del progetto politico del BPP e, forse proprio per questo, destinato alla sconfitta, a favore di una immagine in fondo astratta di una conciliazione globale. La visione del film, per quanto più ricca e complessa di questa apparente struttura binaria, è dunque quella di una mutata sensibilità nei confronti della situazione dei neri americani (e che fa parte di una new wave del cinema afroamericano contemporaneo, cfr. Santoli, 2021, pp. 155-160); uno sguardo mutato che necessariamente rilegge e soprattutto riscrive l’esperienza del BPP, ripensandone le forme, i simboli, le immagini. L’appropriazione dell’immaginario legato al partito diventa qui un movimento diverso da quello messo in atto nel film di Varda, al di là delle enormi differenze di forma e di destinazione dei due film. Se nel documentario della regista Belga, lo sguardo si appropria della dimensione rivoluzionaria della figura femminile, nel film Marvel, ciò che viene attestata è la fine di ogni istanza rivoluzionaria legata a quel periodo, a cui si sovrappone l’immagine di una nuova conciliazione.
5. La nostalgia ricreata
Si apre allora un discorso sulla contemporaneità, sul cinema che, nonostante la fine dell’esperienza storica del BPP (scioltosi ufficialmente nel 1982), continua in modi diversi a incorporare al suo interno l’esperienza estetico-politica del BPP. La questione razziale rimane infatti negli USA un problema scottante, in un clima inaspritosi durante la presidenza Trump. Il movimento attivista internazionale Black Lives Matter, nato negli Stati Uniti nel 2013 e la cui importanza è aumentata esponenzialmente dopo una serie di episodi che hanno visto la morte di giovani afroamericani per opera delle forze di polizia (e in particolare dopo l’omicidio di George Floyd il 25 maggio 2020 a Minneapolis), è diventato negli ultimi anni una delle sigle simboliche più importanti per la lotta dei diritti civili a livello mondiale. Pur diffenziandosi nei principi ispiratori dal BPP, il movimento si configura con un programma aperto all’inclusione delle minoranze (etniche e di genere), pur mantenendo al centro delle proprie attività la rivendicazione per i diritti della comunità nera. La struttura articolata del partito non si ripete nell’esperienza di un movimento fluido e in espansione, così come non sono paragonabili alcune delle pratiche (a partire dall’uso delle armi) o dei presupposti politici (nessun riferimento a teorie rivoluzionarie in Black Lives Matter). Quello che però accomuna le due realtà è la consapevolezza della urgenza di creare e diffondere immagini come strumenti di lotta politica. Una urgenza mediatica che ovviamente è diversa vista la differente collocazione temporale delle due realtà: se il punto di partenza del BPP è un logo, un’immagine (la pantera), che tra l’altro diventa nome del partito dopo che un’altra immagine (il personaggio Marvel) se ne era appropriata, per il movimento contemporaneo l’immagine è di fatto un hashtag (appunto #BlackLivesMatter), che marca la miriade di post diffusi in rete e quindi in tutto il mondo. È in questo passaggio che si determina uno scarto anche dal punto di vista del cinema. Il riemergere drammatico e potente della questione razziale e la rapida circolazione di nuove immagini hanno fatto riemergere nel panorama audiovisivo l’interesse per la specificità iconica e politica del BPP, ma da una prospettiva diversa, in cui lo sguardo non si appropria più dell’immagine nel momento del suo emergere, ma retrospettivamente, con la consapevolezza di rendere presente qualcosa che appartiene al passato (senza però essere concluso). Un cortocircuito particolare, che attraversa film differenti tra loro, che occorre ora esplorare e interrogare.
In una sequenza di What you Gonna Do When The World is on Fire? (2018) di Roberto Minervini, il regista italiano filma una manifestazione del New Black Panther Party, l’organizzazione politica fondata nel 1989, ma sconfessata come erede del BPP dai membri fondatori del partito originale. Nella sequenza, un gruppo di attivisti si trova nel ciglio di una strada trafficata, cercando di attirare l’attenzione dei passanti o delle automobili che sfrecciano indifferenti. Un’immagine emblematica, in cui si condensa uno scarto storico, l’impossibilità di riproporre le forme di attivismo che avevano caratterizzato l’operato del partito negli anni Sessanta e Settanta, al di là del fatto che i principi ispiratori del nuovo partito delle pantere nere sono profondamente diversi da quelli del BPP.
What you Gonna Do When The World is on Fire? è un film in cui non è la visibilità in gioco; i corpi, gli spazi del film sono caratterizzati da una questione soggiacente le immagini: quella di una identità perduta, da ricostruire, fatta di memorie (come nei personaggi adulti del film) o di erranze, come nei due ragazzi che ne costituiscono il contraltare. Un banco e nero bruciante che sospende il tempo o meglio lo condensa: le immagini del film sono infatti al tempo stesso segno del presente e sguardo indietro nel passato, in un passato mancante, quello appunto in cui le lotte per i diritti civili erano presenti.
L’immagine manca. Quell’immagine molteplice e collettiva che era forza politica per il BPP si trasforma in altro, in un’immagine appunto fluida e molteplice come quella che caratterizza il movimento Black Lives Matter. Ecco che il corto circuito produce allora una ricerca incessante di quell’immagine mancante, una interrogazione di un tempo passato che va messo in relazione, anche contrastante, con un presente in movimento.
Non è un caso allora che alcuni dei film più rappresentativi sul BPP usciti negli ultimi anni abbiano, pur nelle loro specifiche differenze, questa esigenza comune, quella di ricostruire un rapporto con il passato. Ritornare con lo sguardo all’esperienza del BPP da parte di registi di generazioni successive significa ricercare la forma attraverso cui un’immagine del passato si rende presente, non in senso celebrativo o museale, ma come immagine capace di parlare al presente.
La prima forma dell’immagine mancante è il reenactment, la messa in scena della storia, tipica del biopic contemporaneo, spesso estremamente attento nella ricostruzione dei dati storici, quanto inevitabilmente finzionale nel racconto. In Judas and the Black Messiah (2020) di Shaka King, regista che appartiene alla new wave dei registi afroamericani (il film è prodotto tra gli altri da Ryan Coogler, il regista di Black Panther), la storia di Fred Hampton, leader delle Pantere Nere tra i più carismatici, ucciso in una operazione del FBI grazie alle informazioni fornite da un infiltrato nel partito, affronta la stessa vicenda di The Murder of Fred Hampton, ma mentre in quest’ultimo, come si è visto, l’obiettivo era quello di costruire un discorso politico militante, un atto d’accusa sotto forma di film-inchiesta contro l’operazione del FBI, il film di King ha il chiaro obiettivo di connettersi al passato per ricostruire un’epica capace di riattivare la memoria di uno dei momenti topici del movimento degli anni Sessanta. Il lavoro di King è quello di far rivivere, attraverso le regole narrative del thriller, uno degli episodi chiave della storia del partito. La storia viene così inscritta nei canoni della fiction con l’obiettivo palese di costruire una nuova epica, una nuova mitologia fondante. L’operazione è duplice, perché seguendo le attività di Fred Hampton, ascoltando i suoi discorsi, entrando nel vivo della sua strategia politica, lo spettatore assiste ad una sintesi del progetto politico del BPP, dal programma Breakfast for Children alla costruzione di una piattaforma comune con altri gruppi alternativi non necessariamente afroamericani.
Il reenactment è dunque una prima forma di ripresentazione del passato, nel caso di Judas and the Black Messiah strettamente legato ad una generazione di afroamericani che sente la necessità di ricostruire un ponte con il passato, di far rivivere appunto eventi e personaggi capaci di dialogare con il presente, di fondare, dal punto di vista etico prima ancora che politico, un movimento di trasformazione del ruolo e della posizione dei neri americani.
L’immagine continua a mancare. È questa la consapevolezza che muove un altro tipo di operazioni, come Black Power Mixtape (1969-1975) di Göral Olsson (2011) e Chicago 10 (Brett Morgen, 2007). Il primo raccoglie una serie di materiali filmati da operatori svedesi negli Stati Uniti negli anni centrali delle lotte politiche della comunità nera, costruendo un film di rimontaggio di materiali d’archivio teso a presentare non tanto la specificità del BPP, ma l’idea di un movimento coeso, unico pur nelle sue differenze. Montando interviste d’epoca, riprese di manifestazioni e atti politici, concentrandosi sulla rivoluzione estetica della comunità afroamericana di quegli anni, il film si pone come sguardo volutamente esterno (regista e produzione sono svedesi). Lo sguardo a distanza, pur nella rarità preziosa di molti dei documenti presentati, tende a rendere uniforme il movimento, mescolando insieme le voci dei leader del BPP con quella di altre figure cardine dell’epoca (da Angela Davis a Stokely Carmichael e Malcolm X). L’urgenza della ripresa contemporanea del passato si stempera nella nostalgia di un periodo irripetibile, nella distanza tra tempi diversi che non si toccano più. L’archivio è qui la presentazione dell’inaccessibile, documento allo stato puro, il cui montaggio restituisce un fermento, un movimento collettivo che non è più quello vivo e presente del film di Varda, ma un flusso lontano, che può essere solo osservato a distanza.
Infine, il terzo movimento di messa in rapporto del presente con il passato emerge con forza dal film di Brett Morgen del 2007, in cui il regista riprende un altro evento mediatico importante: il processo a otto imputati accusati nel 1968 di aver provocato disordini durante il congresso nazionale del Partito Democratico a Chicago.
Chicago 10 è costruito in forma ibrida: mescola materiali d’archivio con riprese contemporanee e animazione. Quest’ultima, assolutamente antirealistica e non mimetica, rimette in scena il processo vero e proprio, di cui non esistono riprese filmate ma solo la trascrizione degli atti.
L’animazione risponde allora ad una esigenza precisa: quella di dare visibilità a ciò che non può essere rappresentato (in questo caso il processo stesso). I personaggi reali diventano personaggi d’animazione (a volte doppiati dai loro reali alter ego umani) al fine di costruire una continuità visiva. Come scrive Hoeness-Roe nel suo testo sull’animazione documentaria:
Chicago 10 non è fotorealista (…) e non c'è pericolo di scambiare le sue immagini animate per film. È, tuttavia, realista in quanto copia mimetica nella sua rappresentazione imitativa di una realtà che è riconoscibile dall'animazione. Utilizza inoltre una varietà di spunti visivi e sonori per confermare il suo status di documentario (Honess-Roe, 2013, p. 56).
La strategia estetica del film non va dunque nella direzione del reenactment del film di King e neanche nella presentazione vagamente nostalgica del film di Olsson, ma pone con più forza la necessità di fare del cinema uno strumento di reinvenzione del reale, secondo le dinamiche che attraversano tanto cinema del reale contemporaneo.
Questi film, scelti tra molti che in un modo o nell’altro ripensano e rimettono in circolo la potenza dell’immaginario legato al BPP, se da una parte dimostrano la potenza estetico-politica rappresentata dal partito delle pantere nere, dall’altra mostrano un movimento crescente nel cinema contemporaneo, che rilegge il passato per discutere il presente, per riaprire una connessione tra discorsi politici e forme estetiche, in un’epoca che, come quella contemporanea, ha il compito storico di fare senso alla propria conflittualità.