Notes de la rédaction

Intervista a cura di Giuliana Sanò e Gianluca Miglino.

Texte

K: L’ambizione che ha guidato la costruzione di questo numero consiste, prima di tutto, nel desiderio di scongiurare il pericolo di un’integrazione del gesto di Rosa Parks in una storia: nell’ambizione di sottrarre, cioè, la sua forza a quel processo di addomesticamento che ha attraversato la cultura nera sin dalle sue origini, tentando di adattare alle esigenze delle “buone maniere” ciò che, invece, si poneva come un rifiuto all’ingiustizia, alla sopraffazione e alla violenza della segregazione.

Iain Chambers, ripercorrendo le tappe – se così possiamo definirle – della Sua produzione scientifica, è possibile risalire ai meccanismi che hanno dato origine ai processi di addomesticamento della cultura nera da parte dei bianchi. In A strategy for living: black music and white subcultures, pubblicato nel 1976 all’interno del volume curato da Stuart Hall e Tony Jefferson (Resistance Through Rituals Youth subcultures in post-war Britain1), l’argomentazione che attraversa le pagine del saggio è proprio che “la musica nera è stata trasformata nel corso dell’appropriazione bianca”. Ciò che contraddistingue la musica nera, rendendola diversa da tutte le altre forme di produzione artistica, è, come lei afferma, il suo sostrato politico, il fatto, cioè, che essa sia “indistricabilmente” legata alla coscienza afro-americana della propria storia di schiavitù, di sfruttamento e di segregazione. Nelle pieghe di questa appropriazione, si situa allora il tentativo, lo sforzo, da parte della cultura bianca di rendere impolitico e di neutralizzare il sostrato della musica nera. Laddove i prodotti dell’intrattenimento, dello sport e della letteratura nera risultavano, in una certa misura, “accettabili”, al contrario, il carattere eminentemente politico della musica rendeva complicata questa operazione di assimilazione e di appropriazione. In che modo e mediante quali operazioni tattiche, la musica nera ha saputo resistere e ha mantenuto il suo carattere eminentemente politico nel corso dell’appropriazione bianca?

Iain Chambers: Sì, quell’articolo affrontava la questione dell’appropriazione della cultura e della musica afroamericana, però, allo stesso tempo, cercava anche di insistere sul fatto che nel processo di appropriazione si apriva una strada a due direzioni, in cui anche le cosiddette culture “egemoniche” venivano riconfigurate dalla musica nera. La musica afroamericana nel tempo è diventata la colonna sonora delle metropoli planetarie. Quindi, in gioco non c’è solo questa idea di cui oggi si parla spesso, l’idea dell’appropriazione culturale – del rubare, cioè, le culture subalterne per arricchire lo status quo e l’assetto attuale del potere culturale e politico – ma c’è anche una complessa interazione con le parti minori, che, in un certo senso, rientrano in scena, in gioco.

Ancora oggi in Europa, ma anche in Italia, è presente questa logica, molto rigida, che tende a dividere la cultura in alta e popolare. Ma che cos’è questa cultura popolare? Che cos’è la cultura di massa? Quelle coordinate con cui si mappavano le culture sono cambiate radicalmente rispetto a sessant’anni fa. E questo è avvenuto in parte grazie all’impatto dell’appropriazione, della commercializzazione, della logica del capitale che fa profitto afferrando qualsiasi cosa si muova, ma anche grazie al fatto che parlare, oggi, della cultura urbana, della cultura della città, della cultura musicale è completamente diverso; ed è diverso perché sono cambiate tutte le coordinate. Il rapporto tra i generi musicali, tra la musica classica, la musica rock, pop o afroamericana è del tutto mutato. Così come è si è trasformato anche il modo in cui viene presentata la musica, i suoi diversi generi, le sue divisioni di classe e sociali. Per cui, nonostante tutto, possiamo parlare di una rivincita di questa cultura, della musica subalterna, poiché essa ha modificato il lessico culturale, ma anche tutto il repertorio dei suoni. In tal senso, all’inizio dicevo che parlando di appropriazione non vorrei che ci immaginassimo un processo che va solo in un’unica direzione: la direzione dell’appropriazione della cultura egemonica. È vero che è avvenuto questo processo di “bianchezza” – vale a dire, l’operazione di rendere più accettabile la musica afroamericana, la musica nera, al pubblico bianco – ma secondo me è importante capire che non si è trattato soltanto di un’appropriazione, ma anche di una riconfigurazione. È come se la cultura e la musica afroamericana dicessero: io sono qui! Questa è la loro forza; la forza storica e culturale di riuscire a modificare le coordinate.

K: Il carattere di irriducibilità che lei attribuisce alla musica, pensata come un “resto”, come qualcosa che “resiste senza farsi assorbire”, è, a ben guardare, direttamente implicato con quanto ci ha appena mostrato, con la capacità che questo “resto” risulti capace di riconfigurare le coordinate storiche e geografiche tradizionalmente stabilite dalle culture “egemoniche”. Sulla scorta di questa intuizione, nel suo ultimo lavoro, il Mediterraneo viene ripensato, ri-mappato e riscritto proprio alla luce di quelle “storie acustiche” che, in maniera indipendente dal corso della storia e contro ogni tentativo di metterle a tacere, continuano, tuttavia, a persistere, a riemergere, e a “ritornare” dal passato, offrendo – come lei rammenta – “un persistente rumore di fondo che disturba il silenzio istituzionale dell’archivio storico”. Dalla natura perturbante della musica, dal suo essere in grado di mettere in crisi le nostre “bussole” epistemologiche, deriva anche la possibilità di scardinare le coordinate spazio-temporali tradizionali e, più in generale, l’idea stessa di tradizione?

Iain Chambers: Direi di sì, perché la musica chiaramente non richiede competenze linguistiche o competenze culturali localizzate. La musica viaggia senza chiedere il permesso di essere sdoganata, permettendoci di viaggiare oltre i confini linguistici locali e nazionali. Penso, di nuovo, alla popolarità della musica afroamericana a livello mondiale, al fatto che, per esempio, si può fare rap in cinese. Oppure, penso ai suoni anni Novanta a Napoli, alla musica reggae, dub, o a gruppi come gli Almamegretta. Questi suoni sono stati in grado di creare reti alternative: Kingston, Londra, Napoli. E questo modo di creare reti è importante perché permette una rinnovazione del senso di appartenenza locale. Se il suono di Almamegretta, che canta napoletano, risulta molto radicato, allo stesso tempo, però, quel suono si basa su uno sradicamento, che tiene insieme la Giamaica, i Caraibi, passando anche per l’Inghilterra. Ma ciò è possibile solo là dove la tradizione è traduzione, trasformazione, non quando viene letta come una dimensione fissa e statica. Anche per questo preferisco sempre usare il termine appartenenza rispetto a identità, perché spesso l’identità è considerata qualcosa di deciso, di fisso, di statico. L’appartenenza indica invece un processo storico-culturale in atto che si trova continuamente a negoziare, a rinegoziare, il proprio senso di appartenenza, utilizzando i linguaggi disponibili, i linguaggi che si trovano in circolazione. Anche i mass-media permettono altri suoni, offrono altri suggerimenti musicali e, più in generale, altre prospettive culturali che fanno parte di paesaggi musicali locali. L’annullamento delle distanze quindi è importante, poiché esso non nega, non cancella le specificità, ma diventa un laboratorio di appartenenze, qualcosa, cioè, di non garantito dalla tradizione, non in un senso chiuso.

K: Farci guidare da Rosa Parks al di là dei confini della rappresentazione e della storia è certamente stato il nostro primo obiettivo. Non di meno, questa idea di “sconfinamento” si è mostrata altresì decisiva allo scopo, più o meno implicito, di ragionare intorno all’ordine territoriale e spaziale in cui le lotte si inscrivono e si determinano. Ma più che fare uscire Rosa Parks fuori dagli Stati Uniti d’America, a motivarci è stato il desiderio di de-territorializzare la natura politica del suo gesto e delle lotte di liberazione nera, provando ad accostarle e a misurarle con ciò che accade oggi in Europa. In questo senso, l’opera(zione) di Ryan Mendoza ci ha permesso di cogliere, di ragionare intorno a questo aspetto della de-territorializzazione e della ri-territorializzazione delle lotte contro i meccanismi e i processi di razzializzazione, di segregazione e di discriminazione in atto. Situare la casa di famiglia di Rosa Parks al di là dell’Atlantico, nel cuore di un Europa che, oggi più che mai, è autrice di brutali respingimenti e dello sfruttamento senza sosta delle persone migranti, può, secondo lei, essere considerato un gesto, un’opera(zione), capace di intervenire criticamente nel dibattito sul razzismo contemporaneo, facendoci interrogare sulle nuove forme ed espressioni del razzismo e sulle tattiche che possiamo mettere in atto per disattivarle? Più in generale, che cosa può dirci dell’operazione Almost Home?

Iain Chambers: Il problema, a mio avviso, consiste in come è stata presentata la casa di Rosa Parks nel cortile del Palazzo Reale, a Napoli: come un oggetto quasi senza spiegazione. Però non si tratta solo di questo, piuttosto del fatto che alla serata di presentazione a cui ho partecipato la casa era un oggetto artistico o, se vogliamo, l’oggetto di una patologia, quella del razzismo. Questo è il problema. È molto difficile far capire che il razzismo non è una patologia, e sono in molti a ritenere che lo sia. Il razzismo andrebbe pensato, invece, nei termini di una struttura che è centrale nei processi di gerarchizzazione del mondo, di un dispositivo che giustifica l’appropriazione del mondo attraverso le logiche del capitale, risultando, quindi, ancora più brutale. C’è quel famoso libro, Black Marxism: The Making of the Black Radical Tradition2, in cui l’autore, Cedric Robinson, parlando di capitalismo razziale ti fa capire questa centralità del razzismo nella costruzione dei rapporti di potere e di dominio capitalista. Se non ci concentriamo su questo aspetto, il razzismo rischia di essere trattato solo come un problema marginale o una patologia individuale.

Ma il discorso sul razzismo è molto più denso di così. Vale a dire che, se vogliamo iniziare a discutere su come possiamo non essere razzisti c’è una complessità storica e culturale da affrontare, e anche da disfare. Non è solo una questione di come sia possibile rapportarsi con persone che hanno colori della pelle diversi, ma dobbiamo cominciare a smontare tutte le strutture di potere che operano attraverso l’apparato, il dispositivo del razzismo. E nel caso di Mendoza questo ragionamento risulta difficile, perché la sua opera intrattiene rapporti con il discorso istituzionale dell’arte contemporanea, il quale certamente dialoga con questa questione del razzismo, ma allo stesso tempo risulta sovradeterminato dalle logiche del mercato artistico, dalla logica istituzionale della circolazione dell’arte contemporanea e moderna. Anche qui, come per il capitale, c’è una logica; una logica che è aperta alle novità – perché la novità permette la produzione del discorso, dei linguaggi – ma ciò non è sufficiente. Si dovrebbe pretendere di più dagli artisti che operano in questa prospettiva dell’arte post-coloniale, cioè, dell’arte che dialoga con tutte le logiche di decolonizzazione della cultura occidentale, bianca ed egemonica. Forse a questi artisti dobbiamo chiedere di registrare questa tensione. C’è qualcosa in più, ed è l’opera in sé a disegnare questo qualcosa che eccede quel discorso. Questa è la sfida. Penso all’opera di Isaac Julien, un artista britannico nero che lavora molto nell’ambito post-coloniale. Nel 2007 ha fatto una bellissima istallazione video: Western Union: Small boats3. Questa video installazione, montata su tre schermi, parla di migrazioni, delle cosiddette migrazioni illegali, e del tentativo di attraversare il Mediterraneo. E c’è una bellissima parte del video in cui gli ospiti non invitati, i migranti, fanno una danza della morte a Palazzo Gangi, nella sala da ballo utilizzata da Visconti nel Gattopardo. L’artista usa quello stesso spazio – in questa sorta di ripetizione della cultura occidentale – ma lo fa mettendo in scena corpi e voci non autorizzate da quella cultura. Mostrando questa idea della costituzione, della costruzione coloniale del presente, dell’Europa moderna, la sala da ballo di Palazzo Gangi si sveglia come un altro archivio, un archivio non autorizzato. È un’opera molto bella anche esteticamente quella di Isaac Julien, nel senso più tradizionale del termine, perché lascia qualcosa nell’occhio: la ripetizione di una bellezza canonica, la sala da ballo di Palazzo Gangi, in cui c’è però un supplemento che spezza il canone. Di quest’opera non si può dire solo che è bella, piuttosto possiamo dire che è inquietante, che crea un disturbo nei linguaggi cosiddetti artistici. Attraverso questo lavoro, Isaac Julien riesce quindi a registrare quella tensione di cui parlavo prima. Riesce, cioè, a spostare le premesse dell’arte e dell’estetica, laddove l’estetica si declina poi in un’etica emergente.

Lo stesso accade per tutti quei discorsi in cui, oggi, si torna a parlare della necessità di un “nuovo umanesimo”. Tuttavia, ritengo che molti non si rendano conto di che cosa significhi realmente. Non si tratta di cancellare l’umanesimo come articolazione delle storie e culture europee, ma, ancora una volta, di registrare che quando si parla di umanesimo si sta parlando sempre di un umanesimo che rispecchia l’Occidente e che contiene in sé l’idea di estendere questo Occidente a livello planetario. A questo proposito, mi viene in mente quella bellissima citazione di Aimé Césaire che parla dell’umanesimo a misura del mondo, e non a misura di Occidente. Ed è proprio questa la cosa difficile da comunicare, da trasmettere, e cioè che non dobbiamo cancellare l’umanesimo occidentale, ma che dobbiamo riconfigurarlo: che deve essere riconfigurato in spazi che l’Occidente stesso non ha autorizzato. Questa, dunque è la mia posizione. Il mio modo di recepire questo lavoro.

Tuttavia, non vorrei, con il mio discorso, dare torto alle intenzioni di Ryan Mendoza. L’artista fa la sua opera e non so nemmeno fino a che punto sia veramente interessante entrare nel merito delle motivazioni che lo hanno spinto a realizzare quell’opera. La questione tocca piuttosto la messa in circolazione dell’opera. A questo riguardo, diventa decisamente più importante affrontare le condizioni della circolazione dell’opera, le condizioni della sua presentazione: il luogo in cui viene esposta e come essa viene proposta, presentata e spiegata. E qui che, a mio avviso, c’è un grosso fallimento. Tutto è sovradeterminato dalle logiche delle gallerie d’arte, del museo o della circolazione dell’arte contemporanea, intesa come linguaggio istituzionale. E sebbene si stia cercando di mettere in questione questo linguaggio istituzionale, tuttavia, di solito, lo si fa secondo una logica dell’appropriazione, come abbiamo già detto. Ormai c’è la consuetudine di considerare tutte queste mostre d’arte come dei documenti, dei manifesti. Anche il coinvolgimento dei tanti artisti dell’Africa Sub-Sahariana diventa un modo come un altro per riempire le pagine bianche della storia dell’arte. C’è, vale a dire, poca disponibilità a pensare, a ripensare che cosa è la storia dell’arte. Ragionando sulla casa di Rosa Parks e sull’opera di Mendoza c’è, se vogliamo, un tentativo di proporre l’arte come storia e non tanto come una nuova pagina nella storia dell’arte; un tentativo di creare questi interrogativi, questi intervalli, all’interno del discorso artistico. Ma come ho già detto, forse l’artista potrebbe fare qualcosa in più, potrebbe, cioè, registrare questa problematicità. E per farlo non è sufficiente recuperare un oggetto e riproporlo oggi come se questo fosse in grado di squarciare il presente mediante un passato negato, rifiutato, non registrato. Ciò che ha fatto è sicuramente importante, ma ci vuole qualcosa in più, altrimenti questi oggetti verranno sempre recuperati e interpretati come una novità, come un semplice aggiornamento della storia dell’arte. Invece di ragionare su come l’arte post-coloniale, l’arte delle culture subalterne o l’arte femminista pongano una serie di domande alla storia, rispetto alle sue stesse premesse, l’abitudine è piuttosto quella di considerare tutte queste dimensioni come l’ultimo capitolo da aggiungere a un possibile libro di storia dell’arte. Questo meccanismo non è diverso da ciò che si tende a fare con le storiografie istituzionali tradizionali: si aggiunge il capitolo storia delle donne o anche storia della sessualità, senza pensare a come queste mettano in questione tutte le premesse della storiografia; lo si fa, cioè, trattandole come un’aggiunta. Egualmente, quando io parlo di Mediterraneo dico che è composto anche dalla sponda africana e asiatica, mentre la storiografia europea continua a parlare sempre dalla sponda nord europea. Anche in questo caso, la consuetudine è quella di aggiungere la parte africana, la parte asiatica, ciò che è stato sempre collocato nei margini. Ma nel momento in cui si inizia a riportare queste altre sponde, queste altre storie culturali dentro il Mediterraneo, si deve anche ricomporre tutto il senso del Mediterraneo. Non può trattarsi solo di un’aggiunta. Lo stesso discorso vale per le questioni che riguardano la diaspora nera o il femminismo; non si può semplicemente tentare di aggiustare o di aggiungere queste storie, ma in qualche modo si deve riconfigurare tutta la storia. Questa, però, è una cosa che quasi nessuno vuol fare, perché fare questa operazione, riconfigurare, rischia di renderci molto più vulnerabili, molto più esposti a una complessità che anche gli storici o i sociologi fanno fatica a gestire, perché a quel punto entrano in scena altre voci, altre storie, altre culture, altri corpi in circolazione non autorizzati dai discorsi ufficiali. Ciò significherebbe rendere più fragile l’ordine del discorso ed è un obiettivo molto difficile da realizzare, soprattutto in Italia.

Quindi ciò che stanno facendo gli artisti o le persone che operano nel campo dell’arte post-coloniale, decoloniale, è un lavoro molto importante. Questi artisti stanno cercando di uscire fuori dai linguaggi istituzionali, di renderli meno sicuri, di sradicarli, di metterli in movimento. A differenza di quanto normalmente si tende a prendere in considerazione, questo lavoro risulta molto importante sia sotto il profilo estetico sia sotto il profilo etico, poiché esso supera quelle distinzioni all’interno dei saperi e delle conoscenze che si sono originate nell’Ottocento europeo; un momento che, non a caso, storicamente coincide con l’apice del colonialismo, dell’appropriazione degli altri e delle altre, del resto del mondo.

Personalmente, mi interessa molto come i linguaggi artistici diventano e sono anche linguaggi critici. Ovviamente, questi linguaggi non vengono riconosciuti come tali, ma essi giocano su questo fatto della rappresentazione e dell’impossibilità di rappresentare, secondo quelle logiche già menzionate poc’anzi.

Ma anche tutta la storia dell’arte moderna gioca su questo aspetto. Trasformato, declinato in una prospettiva post-coloniale o decoloniale, questo genere di linguaggio artistico è in grado di registrare il confine tra l’ordine del discorso, della nostra idea di conoscenza, della nostra modalità di rappresentare e ciò che, invece, non viene riconosciuto come tale. Per cui, ritengo, sia molto interessante questa potenzialità dei linguaggi artistici e, soprattutto, il fatto che essi possano diventare linguaggi critici, malgrado non siano riconosciuti e registrati come tali. Ma c’è anche un’altra questione, quella della casa. Tutti danno per scontato che si sappia che cosa sia la casa; che la casa è qualcosa che ci permette di radicarci nella storia, nella cultura, nei territori. Perfino il vecchio Adorno ha capito qualcosa in più: che dobbiamo, cioè, imparare a vivere senza casa. Ritornando a ciò che dicevo prima, a proposito di un umanesimo a misura del mondo, penso che dobbiamo essere disposti a essere messi in movimento, in viaggio. Non si può tornare a casa, forse. Non nel senso tradizionale.

K: C’è un punto del suo lavoro sul Mediterraneo, sulla “nota blue”, che apparentemente sembra indicare una traiettoria diversa da quella che abbiamo immaginato di poter tracciare con il nostro fascicolo su Rosa Parks. Pensiamo, in particolare, all’idea di “casa” e al modo in cui la dimensione familiare viene, all’interno del suo manoscritto, rappresentata come il risultato, il prodotto, dei regimi di razionalità e di verità. Risuona in questa concezione del familiare il rifiuto delle strategie di assoggettamento per mezzo delle quali la cultura egemonica ha da sempre tentato di addomesticare i subalterni, rendendoli familiari e cancellando lo straniamento che essi provocano, eccedendo costantemente l’ordine costituito. Ma se ciò è vero e se non possiamo far altro che immaginare la resistenza dei subalterni fuori dalla “casa”, nella misura in cui essere senza casa equivale a essere estranei alla familiarità imposta dai regimi di razionalità e verità, tuttavia, soffermandoci a riflettere sulle lotte di liberazione nera e sui luoghi in cui queste lotte potevano liberamente essere esercitate, riparandosi dalla violenza razzista della società, la “casa” e lo spazio domestico acquisiscono un valore radicalmente diverso, inedito. Ai nostri occhi, ma soprattutto alla luce dello straordinario lavoro di bell hooks, ribadire il peso delle donne nere nella costruzione di focolari domestici capaci di essere siti di resistenza ha significato mettere in evidenza il valore delle pratiche e dei gesti quotidiani e, soprattutto, la differenza tra le donne bianche e le donne nere. Mentre per le donne bianche, la casa era il simbolo dell’oppressione maschile sulle donne, per le donne nere, invece, la casa era il luogo in cui esse potevano ripararsi o dar vita a gesti e pratiche di quotidiana resistenza. Il tentativo di ripensare lo spazio domestico come un laboratorio di pratiche di resistenza ci sembrava potesse in qualche modo somigliare a questa idea della musica nera, interpretata come un’officina di suoni che resistono a ogni forma di imbrigliamento e che, come abbiamo già detto, sono in grado di produrre nuovi discorsi, nuovi linguaggi e nuove coordinate “identitarie”. Lei ritiene possibile questo accostamento tra la casa e la musica nera?

Iain Chambers: Io non vorrei negare il desiderio di avere casa; tuttavia, secondo me, è importante riconoscere quanto quella costruzione, fisica e simbolica, sia fragile. Inoltre, quando si parla di cultura nera afroamericana c’un elemento cruciale, di estrema centralità, a cui non possiamo non pensare. Quando parliamo di questa cultura, dobbiamo sempre tenere a mente che si tratta di una cultura diasporica. Questo è un discorso molto complesso, che vale anche per quegli afroamericani che vanno in Africa e si ritrovano subito inquadrati unicamente come americani. Diventa, quindi, necessario registrare questa fluidità della cultura diasporica. Anche quando parliamo della casa di Rosa Parks dobbiamo farlo, perché lei è espressione della cultura afroamericana, che è sempre stata essenzialmente diasporica.

Quella afroamericana è una cultura che ha fatto i conti con numerose esperienze di migrazione, non solo quella forzata dalla Africa all’America, ma anche all’interno degli Stati Uniti. Penso, per esempio, alle grandi migrazioni degli anni Trenta, Quaranta, proprio come nell’Italia degli anni Cinquanta, quando dal Sud si emigrava verso il Nord industriale. Quindi c’è sicuramente questo aspetto della cultura diasporica, e poi c’è anche il bisogno, la necessità, che le donne bianche ascoltino le donne nere. E questo ha a che vedere con il fatto che le definizioni, i concetti che siamo abituati a utilizzare partono dall’ubicazione di un oggetto sottoculturale; partono, cioè, da una certa egemonia. Pensando alla storia del femminismo e a come provi a entrare in un altro spazio critico che, però, non può essere gestito solo in maniera unilaterale, si può vedere come esso incida su tutti i concetti di appartenenza: su chi ha il diritto di narrare, di mappare, di spiegare, di produrre concetti culturali. Per cui penso che questa idea di casa possa essere estesa all’idea di una casa del linguaggio, declinata in diversi dialetti e in diverse modalità di articolarsi del linguaggio, le quali non possono essere ricondotte all’interno di una logica fissa e omogenea. La cosa più importante è, però, registrare i rapporti asimmetrici di potere, tornando a quella domanda: chi ha il diritto di parlare, di narrare? bell hooks ha cercato di portare avanti questo discorso, anche nei termini di una pedagogia che non è unicamente quella che si fa in classe, ma che è soprattutto politica e sociale; una pedagogia in grado di cambiare le coordinate con cui si può navigare la città, la modernità, il senso di appartenenza o, ancora, il senso di casa.

K: Questa idea di estendere il concetto di casa e di tradurlo nei termini di una possibile casa del linguaggio, le cui articolazioni e declinazioni fungono, per certi versi, da stanze, ci sembra possa dire delle cose particolarmente interessanti rispetto al tentativo di accostare le pratiche di resistenza esercitate dalle donne nere all’interno dei focolari domestici alle sonorità clandestine elaborate dai linguaggi musicali subalterni. In un passaggio del testo che abbiamo già menzionato, A strategy for living: black music and white subcultures, lei dichiara: “dalla piantagione al ghetto, la cultura nera, e specialmente la musica nera, ha fornito uno dei mezzi più forti di sopravvivenza – un linguaggio segreto di solidarietà, un modo di articolare l'oppressione, un mezzo di resistenza culturale, un grido di speranza”. Ciò che più di tutto accomuna questi mezzi per la sopravvivenza, la casa e la musica nera, sembra essere, allora, questo modo “segreto” di articolare l’oppressione e di opporvi resistenza. Considerato in questi termini, lei ritiene che ci sia o possa esistere un nesso tra l’intimità dello spazio domestico e la segretezza del linguaggio sonoro?

Iain Chambers: Questa è una questione che ci tocca direttamente, nel senso che all’interno di tutte queste discussioni che stiamo facendo sul razzismo, sull’arte contemporanea, emerge una problematicità, riconducibile al fatto che ci hanno insegnato a pensare che il nostro linguaggio, i nostri dispositivi culturali, le nostre discipline, le nostre conoscenze sono in grado di rendere tutto trasparente alla nostra volontà. Questa segretezza di cui parliamo apre, invece, uno spazio in cui non si deve tanto cercare di spiegare, ma in cui diventa necessario, più che altro, adottare una politica dell’ascolto. Per questa ragione trovo che la musica sia importante, perché la musica è ascolto. La musica implica che vi sia un ritorno, che c’è qualcosa che non parte da me in quanto soggetto sovrano, ma che ritorna a me. Mentre la logica delle nostre conoscenze pretende che tutto venga rappresentato, e se non si riesce a farlo vuol dire che quel qualcosa non fa parte delle conoscenze, che è destinato a restare nell’ombra, nei margini, come un non-ancora, un non senso. La logica della rappresentazione è la logica della prospettiva, per mezzo della quale Io-soggetto sono in grado di rendere tutto trasparente al mio sguardo, di trasformare tutto in rappresentazione. Al contrario, la politica dell’ascolto, come diceva Assia Djebar, equivale al non parlare per qualcun altro, al non parlare nel nome di qualcun’altro, al non parlare di queste cose segrete degli altri e delle altre, mettendosi semplicemente al loro fianco, ascoltando. La qualcosa implica, chiaramente, anche lasciare delle zone oscure. Ma pensare che possiamo rendere tutto trasparente, che possiamo rappresentare tutto, fa parte di quei processi che, come dicono i nostri amici dell’America Latina, appartengono alla colonialità del potere conoscitivo. Forse, quindi, dovremmo cominciare a imparare a rimanere in silenzio. A non parlare sempre.

K: Nel rileggere la storia e la geografia del Mediterraneo, mettendo in gioco quelle coordinate spazio-temporali che sono state sempre tenute ai margini dei discorsi ufficiali, lei mette in tensione il processo di rimozione che l’Occidente ha compiuto, e prova a scuoterlo, a interrogarlo, attraverso la musica e la natura profondamente perturbante e malinconica che la costituisce. “Quel che è soltanto vagamente ravvisato” – scrive – “come resistenza, rifiuto, residuo e possibile ritorno – non ha possibilità di essere compianto nel lutto, proprio perché rimane non identificato, tendenzialmente inconscio”. Per essere compianto, il non conosciuto, deve quindi trasfigurarsi in quel rumore che poc’anzi abbiamo definito perturbante; deve tramutarsi in un residuo, in un resto. Sembra esserci, quindi, un rapporto privilegiato tra i suoni e l’attività di ricordare ciò che viene tenuto nascosto o che, semplicemente, è stato archiviato. A quali suoni e rumori possiamo appellarci, allora, affinché il non lutto per ciò che non abbiamo riconosciuto, rimuovendolo, possa divenire, nei termini in cui lei lo definisce, un “lutto critico”?

Iain Chambers: Nel mio lavoro ho usato questa idea del lutto sulla scia delle intuizioni di Paul Gilroy. In uno dei suoi libri più famosi, The Black Atlantic4, Gilroy ricostruisce la storia della modernità, il ruolo cruciale dell’Atlantico, attraverso le storie dal basso e mediante la centralità della schiavitù. Rielaborando la storia dell’Atlantico moderno, la sua economia, ma anche la sua democrazia, egli rammenta, tra le altre cose, che molti di quelli che avevano firmato la Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti erano stati padroni di schiavi.

Tuttavia, il punto non è tanto che non c’è il lutto, ma che spesso questo lutto resta bloccato. Quando Freud parla del lutto sostiene che la cosa importante risieda nell’atto di elaborarlo, cioè, di riconoscere quello che si è perso. Banalmente, possiamo pensare alla Brexit, in Inghilterra, e al rifiuto di riconoscere che non esiste più l’Impero, o di negare l’impatto coloniale sulla formazione del momento attuale. Ciò che accade, in questi casi, è che si rimane bloccati in una logica un po’malinconica, in cui si comprende molto bene che qualcosa non va, non funziona, ma allo stesso tempo non si riesce a elaborare quel passato, intriso di colonialismo e schiavitù. Si resta bloccati in uno stato malinconico. E questo spiega anche il perché di tutta quella rabbia della supremazia bianca, no? L’impossibilità di comprendere fino in fondo il proprio stato, il fatto di essere rimasti bloccati, genera rabbia e produce un desiderio di imporsi a tutti i costi sugli altri e sulle altre, tanto sul piano individuale quanto su quello collettivo. Nel lutto, almeno secondo i ragionamenti di Freud, è centrale l’atto di elaborare, di trasformarlo in qualcos’altro, in qualcosa che crei delle aperture, delle possibilità nel presente per riuscire a orientarsi verso un futuro diverso: per non restare catturati, prigionieri di quel passato. Però la questione è più complessa di così. Diversamente dal caso della Brexit, la malinconia della musica blues è, invece, il tentativo di elaborare il lutto. Molti parlano di afterlife della schiavitù, degli spettri della schiavitù, dei resti che si rifiutano di passare. In questo senso, tutta la formazione della musica afroamericana potrebbe essere interpretata come un dialogo con gli spettri della schiavitù in continua rielaborazione. Il gospel, il blues, l’R&B, la musica rap, reggae. È lì, in quella musica, che si riescono a creare dei buchi nel tempo, in cui quel passato – il passato della diaspora nera e della schiavitù – non è veramente passato, ma continua a interrogare il presente, a interrogarci. Si tratta, quindi, di un’elaborazione del lutto per mezzo della forma malinconica della musica blues. In questo caso, la continua elaborazione del lutto crea altre possibilità presenti e future, mentre nella Brexit c’è il rifiuto del passato e ci si trova bloccati in un presente che è ancora imperiale, coloniale e così via.

Questo modo di elaborare il lutto realizzato dalla musica pone una serie di domande alla storiografia, soprattutto se pensiamo a come essa viene praticata in Italia, in cui il passato viene spesso trattato come un capitolo chiuso. Anche quando si fa lo sforzo di iniziare a parlare del colonialismo italiano, di solito, lo si inserisce nel capitolo relativo al ventennio fascista, senza prendere in considerazione il fatto che la storia del colonialismo italiano è, invece, molto più lunga. In questo modo di considerare il colonialismo italiano è racchiuso il senso del rifiuto di ragionare su come questo passato continui a fornire degli spettri, continui a interpellare il presente. Occorre, quindi, mettere in gioco tutta la logica storiografica, il senso lineare del tempo e il suo moto progressivo. E la musica pone questo interrogativo alla storia, concepita come una linearità che rispecchia solo una certa logica, una dialettica occidentale. Se volessimo riscrivere tutta la storia della modernità, in fondo, potremmo farlo partendo da un pezzo di musica, da una canzone blues.

K: Tra le infinite possibilità che la musica delle classi subalterne è in grado di sprigionare, mettendo in crisi le mappe concettuali mediante cui la storia e la modernità sono state tradizionalmente concepite, varrebbe certamente la pena menzionare il profondo legame che essa intrattiene con il corpo, la cui funzione non si discosta troppo da quel movimento di rottura che i suoni e i rumori sono in grado di generare. Se attraverso una canzone di musica blues è possibile, come lei afferma, riscrivere tutta la storia della modernità, cosa ne è, allora, di quegli infiniti gesti che prendono corpo nella danza e nel canto dei Neri? Quale funzione possiamo assegnare ai corpi neri che, nell’atto di cantare e danzare, mettono in scena la propria condizione di corpi ridotti in schiavitù, di corpi segregati e razzializzati?

Iain Chambers: La musica afroamericana, il corpo nero che canta, che balla, che danza possono essere concepiti come un modo di sfidare la logica dell’appropriazione del mondo, come una messa in questione della razionalità. La danza, in un certo senso, riconduce il corpo a tutti i suoi sensi, superando la distinzione cartesiana o l’idea kantiana che crea gli oggetti della conoscenza. Anche la danza è una sfida. Una sfida che a livello epistemologico realizza un taglio forte. Sebbene non sia stato recepito, la musica afroamericana, anche in una prospettiva femminista, è questo ritorno del corpo a tutti i suoi sensi, non solo alla vista, alla logica mentale che si appropria e spiega tutto. Ancora, basterebbe una canzone di Nina Simone per riscrivere il Logos a livello planetario.

K: In uno dei saggi del numero che abbiamo dedicato al nome di Rosa Parks, Gianluca Solla propone una lettura molto particolare del rapporto tra immagini e suoni. La peculiarità di questa lettura consiste nell’aver praticato quella che, in altri termini, potremmo definire un’osservazione sonora di uno dei film più conosciuti di Steve McQueen, 12 Years a Slave. Laddove lo schema delle immagini prodotto dal regista asseconda una logica molto tradizionale – una logica hollywoodiana – viceversa, i suoni e i rumori incastonati nelle sequenze di questo film vivono di una vita propria, che non si lascia immediatamente inquadrare: essi vivono, cioè, una vita altra e altrimenti negata. Questa “scissione tra le immagini e il sonoro” esplorata da Solla, conferma quindi ciò che fin qui ci siamo detti, riferendoci, in particolare, alla distanza che intercorre tra la logica della rappresentazione e l’impossibilità di rappresentare che è propria della musica. Quali sono, secondo lei, i rischi a cui si va incontro ogni qualvolta si sceglie di rappresentare, anche cinematograficamente, ciò che invece sfugge alla rappresentazione? Quali pericoli si presentano quando si prova a inquadrare un’appartenenza così complessa come quella Nera?

Iain Chambers: Steve McQueen ha iniziato come un artista d’avanguardia, in cui si sentiva molto l’impronta nero-britannica. Prima di 12 Years a Slave aveva fatto altri film più sperimentali, come Hunger, sui prigionieri dell’IRA, e in particolare sulla figura di Bobby Sands, che facevano uno sciopero della fame negli anni Settanta. Di recente ha lavorato poi ad una serie televisiva per la BBC sulla cultura nera a Londra, Small Axe, che offre diversi spunti estremamente interessanti, usando, come lui stesso direbbe, il linguaggio della popular culture. Ha un occhio molto particolare, che per certi versi sembra tradizionale, pur nascondendo dei “punti di devianza”.

12 Years a Slave è in un certo senso un’opera problematica, perché ha avuto grande successo negli Stati Uniti in relazione alla discussione politica sull’identità nera, che è anche un altro problema, perché ha creato una certa forma di ghettizzazione dell’identità, mentre McQueen viene da una formazione legata alla cultura nera della Gran Bretagna. Nel Regno Unito la questione si è posta in modo differente rispetto agli Stati Uniti. Ovviamente è stata sempre il risultato della diaspora nera, laddove però il concetto di nero era molto più inclusivo, cioè significava tutti i non bianchi. Per cui indiani, pakistani, neri africani o dei Caraibi, erano tutti considerati parte di una comunità nera, anche molto diversificata, e in ogni caso molto differente da quanto avveniva negli Stati Uniti, con la delimitazione molto netta tra dentro e fuori frutto della realtà della segregazione che c’era e c’è ancora, anche se non si configura più come negli anni di Rosa Parks. In Gran Bretagna esiste un concetto molto più fluido di appartenenza nera alle diaspore. Si può essere nero, gay, musulmano, tutti tratti che, messi insieme, creano realtà molto più fluide. Infatti, Isaac Julien ha fatto un film molto bello dal titolo Looking for Langston5, incentrato sulla figura del poeta Langston Hughes, figura di spicco tra gli anni Venti e Trenta della Harlem Renaissance, in cui è appunto centrale l’essere gay, elemento che ha creato grandi problemi con la famiglia del poeta, andando contro l’idea che c’è solo un modo per essere un uomo nero, eteronormativo. In Inghilterra c’è stata più apertura nell’affrontare la complessità delle appartenenze, il problema di un’identità che non è mai fissa, ma sempre in elaborazione. Tutti i miei amici neri britannici hanno avuto spesso problemi negli Stati Uniti, in particolare con gli afroamericani, o perché facevano parte di una coppia mista (il tradimento della razza), o perché erano gay.

Notes

1 Hall, S., Jefferson, T. (a cura di), 2003, Resistance Through Rituals Youth subcultures in post-war Britain, Routledge, London-New York, ed or. 1976, The Centre for Contemporary Cultural Studies, University of Birmingham; ed.it. 2017 Rituali di resistenza. Teds, Mods, Skinheads e Rastafariani. Subculture giovanili nella Gran Bretagna del dopoguerra, Novalogos, Anzio-Lavinio. Retour au texte

2 Robinson, C., 1983, Black Marxism: the making of the. Black radical tradition, Chapel Hill, University of North Carolina Press Retour au texte

3 La video installazione di Isaac Julien è consultabile a questo link: https://www.youtube.com/watch?v=ZM12UCKAbIU Retour au texte

4 Gilroy, P.,1993 The Black Atlantic Modernity and Double Consciousness, Verso, London-New-York Retour au texte

5 Per un approfondimento sul cortometraggio Looking for Langston, dell’artista Isaac Julien, è possibile consultare una pagina dedicata a questo lavoro: https://www.isaacjulien.com/projects/looking-for-langston/ Retour au texte

Citer cet article

Référence électronique

Iain Chambers, Giuliana Sanò et Gianluca Miglino, « Spettri della schiavitù », K [En ligne], 7 | 2021, mis en ligne le 01 décembre 2021, consulté le 18 mars 2025. URL : http://www.peren-revues.fr/revue-k/1113

Auteurs

Iain Chambers

Iain Chambers è un antropologo, sociologo e docente di studi culturali e postcoloniali all’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. È stato uno dei più importanti esponenti del Centro per gli Studi della Cultura Contemporanea dell’Università di Birmingham. In Italia ha fondato il Centro per gli Studi Postcoloniali e di Genere. I suoi lavori sulla cultura popolare, la musica, la memoria e la modernità sono stati scritti in inglese e in italiano e tradotti in diverse lingue.

Giuliana Sanò

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Gianluca Miglino

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