K.: Abbiamo visitato a Napoli Almost Home, chiedendoci tra le varie cose se si possa definire un’opera. Forse, oltre che essere dal tuo punto di vista personale un’impresa, si tratta di un’ “operazione” più complessa. Sappiamo che prima hai lavorato a The White House e The Invitation, cioè che il tuo confronto con la “casa” non nasce solo con Rosa Parks ed Almost Home. Volevamo chiederti innanzitutto da cosa nasce questo tuo lavoro.
Ryan Mendoza, The White House (2016. Ora in esposizione permanente alla Verbeke Foundation, Kemzeke, Belgio)
Ryan Mendoza: Nasce da un vuoto, come tutte le cose che faccio. Horror vacui: le cose vanno riempite, la natura comanda. La distanza dall’America ha per me creato un’assenza che dovevo riempire in qualche modo. E solo la fortuna mi ha portato alla casa di Rosa Parks.
Io parto dalla letteratura: mio padre, George Mendoza, era uno scrittore. La sua Bibbia era un dizionario gigantesco, che teneva su un leggio, e andava lì, metodicamente, a sfogliarne le pagine; lo studiava giorno per giorno. Per questo motivo ho inizialmente studiato letteratura comparata. Ho studiato per cinque anni all’università, ma non mi sono mai laureato: se ti ritiri in un certo momento, rimane una sorta di rancore nei confronti del mondo accademico. Sono partito, dunque, da un mondo letterario, ed ero affascinato da James Agee, uno dei più importanti scrittori americani. Agee ha scritto un libro importantissimo, Let us now praise famous men1, una sorta di inchiesta giornalistica che documenta la vita dei nomadi americani, che andavano da una parte all’altra dell’America durante gli anni della Grande Depressione. Agee studiava quella gente comune di cui si era innamorato, e tentava di capire il perché della Depressione. Il suo merito è appunto quello di essersi posto dalla prospettiva della “gente normale”.
Ed è questo che ho fatto anch’io: non cercavo la casa di un personaggio famoso, volevo una casa qualunque. Rosa Parks è la persona più qualunque che ci sia; è sì, una persona famosa, un’icona, però, allo stesso tempo... The Rosa Parks Bus, ad esempio: non è il suo autobus, ma è di tutti; è il nome di tutti. È un bus un po’ afroamericano, un po’ indiano, un po’ scozzese; è donna; è un po’ come Madre Teresa, e incarna tante facce della società americana. Ecco perché è importante.
K.: Come sei arrivato alla sua casa? Abbiamo letto che sei stato contattato da un’erede…
Ryan Mendoza: Alcuni eventi ben precisi sono i pilastri di questa storia: uno è che la famiglia di Rosa Parks mi ha chiesto di far parte di questo progetto, non il contrario; un altro è che la famiglia di Rosa Parks ha acquistato dallo Stato americano la casa per cinquecento dollari e ha poi deciso di donarla a me. Si sono affidati a me: un estraneo, un uomo, un bianco. Io sono uno qualunque in questa storia. Ho promesso che se riesco a vendere la casa darò metà del denaro alla famiglia.
Come sono arrivato alla casa? Ci sono delle figure essenziali in questo progetto, come Greg Dunmore, Greg Johnson e Joel Boykin; quest’ultima è amica della famiglia e senza di lei il progetto non sarebbe nato, perché è stata lei a venire a sapere che la casa era stata abbandonata, persa dalla famiglia di Rosa a causa delle tasse, come avviene sempre in America. Lì la gente non riesce a pagare le tasse e perde le case: pura criminalità. I parenti di Rosa Parks hanno perso la casa nel 1977. Il fratello di Rosa si è ammalato e nei due anni successivi alla sua scomparsa la famiglia non ha potuto sostenere il peso delle tasse e ha dovuto rinunciare alla casa. Joel Boykin ha trovato la casa e ha dato i cinquecento dollari alla nipote di Rosa, Rhea McCauley, per acquistare la casa dallo Stato e salvarla, perché altrimenti sarebbe stata demolita. Questa possibilità è stata sempre reale, la casa sarebbe potuta essere demolita da un giorno all’altro, nonostante la famiglia l’avesse già comprata. Il punto è che negli USA, se una casa non ha certi requisiti, è definita blight, come se avesse un cancro. È un termine molto interessante, in cui la lingua stessa diventa un’arma. Hanno strumentalizzato l’ingenuità della gente comune per poter sottrarre loro i beni: appena si dice che una casa può essere ammalata di cancro, che è blight, la si identifica come “malato terminale” che va tolto di mezzo. Questa è una possibilità lucrosa per lo Stato americano: prima le banche avevano case che erano a posto, poi le stesse banche, che sono abili a gestire case perché gestiscono i soldi, decidono quali case eliminare. Si tratta di case che conoscono solo sulla carta, non avviene certo che vadano a verificare qual è il problema effettivo di ciascuna di esse. Un inverno a Detroit senza riscaldamenti, ad esempio, causa la rottura dei tubi; l’acqua si disperde ed è un disastro. In questo quadro sono poi nate altre figure, come ad esempio gli scrappers, persone povere e di solito senzatetto che cercano di recuperare i materiali di qualche valore rimasti nelle case abbandonate (dal rame a qualsiasi altro materiale) “spogliando” le case stesse, che dopo poco tempo diventano delle spettrali rovine e spesso crollano.
Questa questione del blight è stata per me molto importante. Per The Invitation (2016) sono andato a Brightmoor, quartiere il cui nome veniva modificato nel gergo locale in “Blightmoor”: cancro delle case. Per me è davvero allucinante definire una casa in questo modo. Ho incontrato delle persone che lavoravano per la Detroit Land Bank – anche questo nome è interessante – e ho chiesto loro: “se io trovo una casa tra queste ottantamila che forse ha un valore di memoria, posso salvarla? Vi pago la demolizione, la città vince, e invece di demolire la casa, la metto in un museo in Europa”. Mi sembrava una buona idea, ma ancora non pensavo alla casa di Rosa Parks. Il mio interesse andava al problema della housing crisis, che negli Stati Uniti è ancora più generale: tutti lì hanno perso o perdono ancora così la casa, non solo i neri. E chi ha fatto questo (le banche etc.) è anche stata premiato: settecento miliardi di dollari. In quegli anni erano stati anche stanziati duecento milioni di dollari per quella che veniva definita emergency situation: un’urgenza, però, dello Stato, che doveva risolvere il problema del blight. Pensavo: questo è incredibile, gestiscono i soldi con dei termini così ambigui, che si riferiscono alla nostra mortalità, mentre una casa non può morire, non è una cosa viva, un organismo. La banca lascia la casa in uno stato che la rende invendibile, e quindi ne rende inevitabile la demolizione. Così, di fatto lo Stato paga se stesso per demolire la casa: ci sono persone che a Detroit vanno in giro da una casa all’altra a demolire, e ogni volta è un incasso. La mia curiosità per questa storia senza fine è quindi collegata alla grande crisi economica. Inizialmente non ero interessato direttamente a Rosa Parks, certo, poi quando sono entrato, ho capito ancora di più la catastrofe dell’America di oggi…
K.: La cosa che ci ha affascinato di più di quello che concretamente hai fatto con la casa di Rosa Parks è il fatto che tu abbia smontato la casa, le abbia fatto attraversare l’oceano, l’abbia fatta arrivare in Europa, e lì l’abbia ri-montata. O, forse, hai fatto forse una cosa del tutto nuova.
Ryan Mendoza: Sì, mi piace il termine ri-membranza, to re-member: le membra, ma anche il ricordo.
K.: Siamo stati a lungo a guardare la casa…
Ryan Mendoza: C’è la musica?
K.: No, non c’è.
Ryan Mendoza: Questo è un gran peccato, perché Greg Johnson, una tra le persone più importanti tra quelli che hanno partecipato al progetto, era intervenuto con un’installazione sonora… Sergio Fermariello, il primo artista napoletano che ho conosciuto arrivando a Napoli, che lavorava con la Galleria di Lucio Amelio, mi ha fatto conoscere suo figlio, Carlo, che è un DJ bravissimo a montare pezzi musicali. Sapevo anche che Johnson è uno dei migliori amici della UR, la Underground Resistance, un gruppo molto importante per la scena techno di Detroit. Johnson – che mi ha anche donato la casa per il progetto The White House, che adesso è esposta in Belgio – e Carlo Fermariello hanno così creato un pezzo di otto minuti e quarantasette secondi: il tempo necessario per l’uccisione di George Floyd. Nell’installazione sonora pensata per Almost Home a questa sequenza musicale dovevano seguire otto minuti e quarantasette secondi di silenzio, prima che ripartisse il pezzo: un viaggio interminabile tra la morte e la morte.
Ritornando alla domanda, vorrei cercare di riassumere le ragioni per cui la casa di Rosa Parks è per me diventata così importante (ho scritto un articolo, The Rosa Parks University that Isn’t, poi confluito nel catalogo di The Rosa Parks House Project di Palazzo Reale – ho fatto anche quell’opuscolo, scrivendo i pezzi e curando la grafica). Al mio arrivo a Detroit, dei tipi duri del ghetto mi chiedono: “Cosa fate qua? Sapete che questa è la casa di Rosa Parks?” Ho conosciuto tutti i vicini di quella casa: la signora Baldwin, all’epoca aveva 92 anni… Lei e suo figlio, che all’epoca aveva 77 anni, sono testimoni della presenza di Rosa Parks. Rosa ha insegnato alla signora Baldwin a cucire. Ho incontrato altre persone, altri testimoni. Poi ho fatto altre ricerche; sono venuti anche i giornalisti del “New York Times”, che nel 2016 hanno intervistato quei testimoni. Poi è nata la questione: ma quanto tempo è vissuta qui? Tutti rimanevano molto vaghi, quasi metaforici, parlavano di Rosa poeticamente, come se fosse un sogno.
Ho continuato ad approfondire con ricerche alla Library of Congress, per capire per quanto tempo Rosa Parks avesse vissuto lì. Ho trovato lettere tra Rosa e sua madre e, soprattutto, tra Rosa e suo fratello, Sylvester McCauley. Nel 1947 il fratello scriveva a Rosa ringraziandola di aver mandato duecentocinquanta dollari per comprare una casa; ma il fratello sapeva che molto probabilmente sarebbe rimasto fregato. Perché? Se vai indietro nel tempo e guardi il “Detroit Free Press”, il principale quotidiano di Detroit, sei colpito dalla terminologia razzista usata contro i neri, usuale, “normale” in quel periodo. Il fratello di Rosa aveva acquistato una casa nel 1947, a Detroit, in un quartiere terribile, peggio di Brightmoor: a Brightmoor le case ci sono, anche se stanno crollando; in quell’altro quartiere invece non c’è niente, è un luogo cupo in cui le strade non sono neanche illuminate. Il fratello di Rosa cercava una casa lì. La Carver Company ha proposto, tramite il “Detroit Free Press”, al color folk di comprare case da loro. Ma cosa facevano? Vendevano un terreno, poi davano in prestito quei soldi appena incassati ai poveri acquirenti per permettere loro di costruire una casa in quello stesso terreno che avevano appena acquistato. Se queste persone non riuscivano a costruire la casa e a restituire il prestito, perdevano sia la casa, sia il terreno. Per questo motivo il fratello di Rosa diceva che sapeva che sarebbe rimasto fregato, ed infatti è riuscito a comprare una casa solo dopo vent’anni, nel 1967. Questa è una storia che forse non è stata scritta, una black hole history, che forse potrebbe uscire dall’oscurità solo attraverso l’attenzione degli storici di professione, anche di quelli accademici… Questo mi fa pensare alla Jefferson University e al problema da me sollevato in The Rosa Parks University that isn’t… Una situazione assurda: l’Università intitolata a Thomas Jefferson, che è stato un terribile schiavista, anche se forse George Washington è stato anche peggio… La storia ufficiale di un George Washington è solo propaganda, a partire dalla “leggenda” dell’albero di ciliegio, su cui si è costruita la mitografia ufficiale del primo presidente degli Stati Uniti. Non posso poi non ripensare alla vicenda dei suoi denti: è documentato che Washington avesse assoldato John Greenwood, considerato il padre dell’odontoiatria moderna negli Stati Uniti, per provare ad ottenere delle dentiere con denti umani strappati agli schiavi. Ma, al di là della crudeltà di questa pratica, che allora comportava rischi mortali, perché pagare il tuo schiavo per staccargli denti che poi inserisci nella tua bocca? È una tragedia che si aggiunge alla tragedia… Perché pagare il tuo schiavo? Vuoi la libertà? Sai quanto costa la libertà? Per non parlare del fatto che lo schiavo, una volta liberato, si sarebbe trovato “lì fuori” per accorgersi che un fuori non esiste, che è la stessa cosa, che ci sarà sempre un bianco che ti potrà sfruttare comunque. Solo propaganda, niente di quello che è stato insegnato nelle scuole pubbliche americane è vero.
K.: Quando sei andato via dall’America?
Ryan Mendoza: Clinton aveva appena vinto, nel 1996. Allora ho pensato: meglio Clinton, ma poi abbiamo capito tante cose… Sono tutti terribili.
K.: Vorremmo chiederti qualcosa in questo senso… Soprattutto per quanto riguarda Obama più che Clinton. Perché l’operazione che hai fatto con la casa di Rosa coincide grosso modo con l’era Obama. La casa di Rosa lascia l’America quando Obama è ancora presidente.
Ryan Mendoza: Ricordo che Barney Sanders doveva venire a vedere la casa, ma poi Trump ha vinto…
K.: Ma voi avete provato a chiedere qualcosa agli Obama?
Ryan Mendoza: Sì, certo, e questa è una cosa molto interessante. Ho conosciuto Sigmar Gabriel, che tra il 2017 e il 2018 era vicecancelliere e ministro degli Esteri in Germania, e che ha visto la casa a Berlino. Gli ho chiesto aiuto e mi ha detto che avrebbe scritto a Michelle Obama. Lo ha fatto, e poi ho ricevuto un messaggio non ufficiale: Michelle Obama aveva detto di no, non poteva sostenere il progetto perché era “troppo nero”. All’epoca, il futuro della stessa Michelle era incerto: se avesse voluto concorrere per le elezioni presidenziali del 2020, avrebbe dovuto muoversi con prudenza per assicurarsi dei voti. E se avesse sostenuto un progetto così forte, che arriva tre volte sulla copertina del “New York Times”, sarebbe stato praticamente certo che le sarebbe costato molti voti dei bianchi americani. Si tratta di qualcosa che ovviamente non posso documentare, ma è andata così…
La casa di Rosa Parks ricostruita a Berlino da Ryan Mendoza (Foto: © Fabia Mendoza)
K.: Per noi il punto non è se quanto ci racconti sia documentabile o meno. Ci interessa molto di più il ragionamento complessivo. Proprio negli anni in cui gli Stati Uniti sono guidati dal primo presidente nero della loro storia, tu hai questo tipo di risposte…
Ryan Mendoza: Partiamo dalle parole di Michelle Obama, che aveva detto la verità, e cioè che la Casa Bianca era stata costruita dagli schiavi, ma era stata messa a tacere, anche dallo stesso marito: la verità non si dice. Era un’atmosfera che respiravo ovunque: stavo lavorando su un progetto a Mosca, che si chiama Putin is my putain, perché stando lì avevo questa sensazione, che tutti controllassero tutti. Scrivevo nella neve Putin is my bitch, ma mi guardavo sempre le spalle, avevo paura che qualcuno mi vedesse. Era ovunque così: non puoi dire questo o quell’altro. Ho scritto un testo di apertura per la mia mostra a Rhode Island, alla Brown University. Ero impressionato, ma anche sospettoso, perché avevo scritto un testo abbastanza forte dove c’era un pizzico di realtà, che però è proprio ciò che non bisogna dire. Ma quando ho letto il testo, stampato per introdurre la mostra, ho notato un refuso nella prima frase: da straipt a stript. Ho pensato: io non faccio di questi errori, come è possibile un errore del genere? Poi non ho più letto il testo, pensando: lo avranno riscritto, lo avranno modificato. Ho chiesto a qualcuno. Ecco il problema: c’era una storia lì dentro; ho parlato con un signore che raccontava di nigger toes, perché tagliavano le dita agli schiavi che cercavano di fuggire, e queste dita mozzate assomigliavano a delle piccole nocciole. E quel riferimento nel testo è stato tolto, dunque ho vissuto la forza del “non si può dire”. In America, anche in ambienti di estrema sinistra, un certo umorismo su alcuni argomenti è ben accetto, ma sulla vera storia dell’America bisogna tacere…
K.: Hai capito perché hanno operato questa manomissione nel tuo testo, perché hanno deciso di occultare certi ragionamenti in particolare?
Ryan Mendoza: Per la parola nigger. Non bisogna dirla in America, soprattutto se sei bianco. Anche se io citavo solo una citazione di un’altra citazione… Ma anche in Adventures of Huckleberry Finn di Mark Twain c’è la parola nigger! Ormai su questo termine c’è una vera e propria censura. Si demonizza una parola, ma una cosa come la housing crisis continua. Nel 1934-1935 hanno guardato le città in America e hanno detto: “in questa zona ci sono solo neri”. Così è iniziato il redlining, la pratica della delimitazione in rosso dei quartieri neri nella gestione urbanistica di Detroit. Ma questo non poteva essere un problema dichiarato apertamente, e così si iniziò a dire che in quei quartieri le infrastrutture erano diventate fatiscenti. E se quella gente chiedeva un prestito per ristrutturare le case, cioè se la banca sapeva che chi chiedeva il prestito veniva da una zona del genere – in realtà, perché era nera –, allora il prestito non veniva concesso. La situazione non è cambiata per le generazioni successive; la gente è sempre più povera, e bisogna considerare anche le guerre contro la droga, le famiglie distrutte, i padri scomparsi o in galera, la privatizzazione delle prigioni, le madri single, il bisogno di rubare per sopravvivere. E c’è anche la polizia, che entra in queste zone, parcheggia un’automobile – in una zona che è degradata perché è lo stesso governo che ha permesso che accadesse – e da quell’automobile esce una persona in borghese, lascia uno sportello aperto, le chiavi nel cruscotto, un po’ di soldi sul sedile anteriore. I ragazzi del quartiere sanno benissimo che è la polizia. Ma prima o poi uno di loro si lascia tentare, entra nell’auto, che si chiude automaticamente, mentre il motore si spegne: non possono fare niente, non possono fuggire, e vanno in galera per vent’anni. Cose come queste accadono ogni giorno, e i neri rimangono sempre schiavi dello Stato.
Woodrow Wilson diceva: “Abbiamo le orecchie della volpe in mano, e non sappiamo cosa fare. Perché se la lasciamo, la volpe ci strappa la faccia e tutti sapranno che siamo stati criminali; però non possiamo continuare a tenerla per le orecchie, è ingiusto. Cosa facciamo, allora? Mettiamo una catena”. E così arrivano le leggi Jim Crow sulla segregazione, con i loro effetti su queste zone urbane che è impossibile recuperare.
Quando sono andato a parlare con la Detroit Land Bank, mi sono sentito dire: “Signor Mendoza, noi qui cerchiamo di spazzare via le blighted houses: ci sono delle zone che hanno questo cancro, sono terminali e si devono eliminare”. Questa zona non è recuperabile, anche se in quelle case vive della gente. E se quella zona non è recuperabile, non ci saranno fondi per le scuole, non ci sarà la luce nelle strade… Perciò loro agiscono e fanno diventare quella zona terra agricola: con quelle carte in mano sono come Dio. Le banche hanno iniziato a fare cose del genere negli anni Trenta, ma quanto vi ho raccontato, invece, accadeva pochi anni fa.
K.: Hai parlato, giustamente, tanto di storia americana. Tu, però, hai lavorato su tutto questo come artista e non semplicemente come storico. La forza di quello che hai fatto – ci sembra – è artistica, non è solo un’operazione di denuncia o uno sforzo di ricerca della verità. L’operazione che hai fatto sarebbe difficilmente venuta in mente ad un intellettuale o ad uno storico…
Ryan Mendoza: La cosa interessante di tutto questo, a mio avviso, è notare che, tra gli studenti che ogni anno si laureano in America, nessuno si occupi di contribuire ad indagare storicamente la vita di un fenomeno come Rosa Parks, chiedendosi, ad esempio: “quando è andata da Alabama a Detroit, dove è andata a vivere? Andiamo a vedere”. Ci voleva un coglione come me per fare una cosa del genere? Qualcosa non funziona, anche nel lavoro degli storici accademici.
D’altronde, Rosa Parks non ha vissuto solo in questa casa. Questa è la casa che è stata più vicina a essere sua. Non ha mai avuto una casa di proprietà, il che testimonia una realtà: le donne non avevano case, era inusuale. Lei ha aiutato il fratello a comprare questa casa, la famiglia ha poi detto, post mortem: “questa è la casa di Rosa Parks”. Rosa cercava una casa, avere una casa era il sogno della famiglia. Diverse volte hanno fatto foundraising per Rosa Parks, per comprarle una casa, ma i soldi sono sempre scomparsi…
K.: Ci hai detto che quando sei stato lì, hai conosciuto moltissimi vicini, gente del quartiere, che diceva: “questa è la casa di Rosa Parks”. Secondo te, per loro, gente di colore e del quartiere, chi era Rosa Parks? Come parlavano di lei? Era un simbolo, una persona reale, un eroe?
Ryan Mendoza: Io non posso parlare per nessuno: sono molto lontano dalla questione dei diritti civili, non mi riguarda, altre persone potrebbero rispondere molto meglio di me. Però ricordo che Rosa Parks aveva l’obbligo di mantenere questa sorta di “santità”. Perché? C’è stata ad esempio Claudette Colvin, che ha compiuto lo stesso gesto di Rosa nella stessa città nove mesi prima di lei. Ma Claudette Colvin è rimasta incinta a sedici anni – o così è stato detto –, quindi è diventata la “piccola puttana”, e non si può credere a una “puttana”. Invece Rosa Parks non era così: aveva dei capelli lunghissimi, lunghi fino ai piedi, e nessuno sa perché mantenesse questo segreto.
Ryan Mendoza, Tatiana in the snow (2013)
Tutta la sua femminilità è stata come occultata, perché doveva rimanere un personaggio impenetrabile, doveva rimanere pura e perfetta, come Madre Teresa. Basta pensare a Martin Luther King: quando è morto, è venuto fuori che forse aveva avuto rapporti sessuali extraconiugali, e tutta la sua credibilità è stata messa in discussione.
Per farvi capire quanto sono lontano dal soggetto: ricordo che quando sono stato lì dove si trovava la casa di Rosa, mia moglie aveva paura per me, che venissi ucciso. Ho preso la casa, l’ho messa in un container e sono scappato via. Dovevano poi demolire le fondamenta, ciò che era rimasto della casa. Siamo stati lì quel giorno, e prima della demolizione abbiamo partecipato ad un piccolo evento: c’erano Joel Boykin, Greg Dunmore, la famiglia di Rosa Parks. Ho scritto Out of love su un telo che copriva i resti della casa. Nel doppio senso che l’espressione può avere: per amore e per assenza di amore. In quell’occasione, coinvolto da Dunmore, che è un giornalista radiofonico molto brillante, ho deciso di prendere il microfono per parlare. Molti tra i presenti erano vicini alle posizioni della “Fratellanza Musulmana”, con alcuni ho avuto anche degli scambi di idee. Ma in quei giorni stavo leggendo Fahrenheit 451 di Bradbury, per cui ho iniziato a fare un discorso partendo dal book burning, per accorgermi, dopo poco, che nessuno mi stava ascoltando: parlavano fra di loro, mi davano le spalle. Allora ho deciso di dire loro: “Sentite, preferite che lo Stato guadagni sulla demolizione di questa casa, la casa di Rosa Parks, oppure che io, una persona non nera, non di Detroit, salvi questa casa e aiuti la famiglia?”. Lì sono stati loro a dirmi: “Va bene, fallo, salva la casa”. Ma è stato un momento davvero critico. Io posso raccontare solo cose del genere, non posso parlare per i neri che hanno avuto e hanno problemi: io sono un bianco, ed ero bianco ancor prima di saperlo. Sono nato in America per capirlo.
Sulla questione del “salvataggio della casa”, Greg Johnson è stato sempre superstizioso, una volta mi ha detto: se la casa non ti vuole, non ti vuole. Togliendo una parte del tetto, sono scivolato e mi sono aggrappato con due dita, ho rischiato la vita… Poi un ragazzo, lo stesso giorno, durante lo smantellamento della casa, passando di lì mi ha chiesto: “Tu, uomo bianco, perché porti via la casa di una famiglia nera?” E io ho pensato: in realtà non sono un americano, io sono un bianco. Sono entrato lì come un (altro) americano e sono uscito come un bianco. Anche se in realtà, io sono un po’ indiano, un po’ americano, un po’ messicano, un po’ irlandese, quindi non rappresento propriamente la categoria degli “americani protestanti”.
In ogni caso, per chiudere questo punto, so che negli Stati Uniti si sta lavorando ad un progetto per un docufilm sulla casa di Rosa Parks e sulla mia “operazione”, ma la notizia non è ufficiale, anche se si parla già persino del cast… Vogliono inoltre comprare la casa e trasferirla negli Stati Uniti, montandola davanti alla casa di Martin Luther King. Sono coinvolti grandi sponsor come Sony, Coca-Cola, Delta Air Lines. A fine ottobre la casa dovrebbe lasciare Napoli per l’America.
K.: Fabia, riguardo al tuo The White House Documentary (2017), ci ha colpito la centralità delle testimonianze, e in particolare il modo in cui questo piano interagisce con la dimensione della musica: il ritmo che torna come se fosse una specie di contro-narrativa alla storia. Ci chiedevamo come l’avessi costruito, e che valore attribuisci al racconto attraverso la musica, il ritmo e il sound di tutti coloro che testimoniano, che narrano la loro vita attraverso la musica e il canto, cose su cui nel numero abbiamo cercato di riflettere. Recuperare quella tradizione, dallo schiavismo in avanti, fino ad arrivare ai ragazzi e bambini che cantano pezzi di storia e di musica... Qual è per te la funzione della musica per la storia dei neri?
Fabia Mendoza: È stata una cosa molto naturale, che non ho deciso. Nel lavoro di Ryan, nelle sue installazioni, la musica è fondamentale … Dopo che abbiamo costruito la casa a Berlino, anche lì, abbiamo messo la musica dentro la casa. La musica ha una grande parte nella ricerca creativa di Ryan, e quindi seguendolo… Lui fa molta musica, anche se solo per piacere. E poi Detroit ha un legame fortissimo con la musica e per me anche Berlino come città, che è centrale per il movimento della techno… La musica della casa di Rosa Parks è stata portata da Detroit; è nata con Underground Resistance, che è un collettivo non commerciale: Black power e anticapitalismo… Mi hanno dato la musica, e io ho trovato questa musicalità ovunque, tutti sembravano sempre pronti a fare un grande show. Il progetto è nato con il nostro grandissimo amico Greg Johnson, come vi avrà raccontato Ryan, che appare all’inizio del film, e c’è veramente la sua voce, lui che canta… Ryan Mendoza: Sembra Frank Sinatra, quella voce non sembra uscire dal suo corpo. Fabia Mendoza: Il primo incontro, che si vede anche in apertura del documentario, lo abbiamo fatto in The Original Hip Hop Shop, che è stato il centro della cultura Hip Hop. E poi, sono molto dalla parte dell’Hip Hop: è la musica con cui sono cresciuta e mi ispirava molto. Credo che la musica sia la forma artistica più pura perché non attraversa direttamente il cervello, la parte cognitiva, ma è una cosa che ti entra direttamente nel cuore. La musica ti va nell’anima e mi sembrava perfetto per questo progetto e in particolare per questa città, perché il progetto è anche un omaggio a questa città. Parlare di Detroit senza parlare della musica non è una cosa fattibile. E poi è il modo più bello di raccontare storie…
K.: Come hai pensato il montaggio di questo film? Montare insieme le immagini della casa durante la ricostruzione, quindi il montaggio della casa, le testimonianze, la musica…
Fabia Mendoza: Quando riguardo il film, proprio per la questione del montaggio, penso che se avessi avuto un aiuto esterno sarebbe uscito ancora meglio. Wim Wenders ha detto che non bisogna mai montare ciò che si filma… Io ho fatto tutto da sola: ho filmato e montato, non avevo un aiuto tecnico, ho imparato da Youtube… Quando il film è stato presentato a Beverly Hills, in una black tie dinner, tutti parlavano dei soldi che servono per fare un film, tanti soldi, che io non avevo a disposizione. Ma credo che anche per questo il film abbia un certo charme: non avevo abbastanza soldi a disposizione, né la capacità tecnica o visuale, né il tempo di studiare il film. Non ho avuto tempo di studiare le immagini. Non so se avete mai visto il film The Last Shaman, di Raz Degan (2017)… Anche quello è un film a basso costo, ma chi fa il film ha avuto possibilità di studiare bene le immagini. Io dovevo coordinare i lavori, organizzare il montaggio della casa, occuparmi del prestito… Non avevamo un team, non potevo preparare bene il lavoro. The Last Poet, Underground Resistance…: tutti coloro che hanno partecipato al film si sentivano forse più a loro agio, viste le condizioni della produzione... Una grande spontaneità.
K.: Ci interessava sapere qualcosa di più sul contrasto tra interno ed esterno, già presente nei tuoi dipinti, Ryan. Nei progetti sulle case, non solo in The Rosa Parks House Project, ma anche in The White House e in The Invitation, il contrasto è forte: i visitatori non possono entrare nelle case.
Ryan Mendoza: Più banalmente, i visitatori non possono entrare nelle case per motivi di sicurezza, ma in realtà anche perché mi piaceva l’idea del mistero. Questo vale anche per la casa di Rosa Parks: si può guardare dentro dalle finestre, ma la visione è come scheletrica, fantasmatica. È stato molto difficile ottenere questo effetto: vedere dentro e non vedere niente, ma vedere comunque qualcosa… All’inizio ho fatto tutto da solo: ho montato la casa a Berlino, ho impiegato un intero inverno, tre/quattro mesi. E non sapevo cosa stessi facendo: ho preso due pezzi di legno, ho fatto una croce, poi ho aggiunto altro… come un cartone animato, pezzi di legno qua e là. Completato il lavoro sull’esterno della casa – avevo chiuso anche le finestre –, questo tratto “grezzo”, che ora emerge chiaramente, non era al centro della mia prospettiva. Quel che emerge dal lavoro così come poi si è concluso è che comunque nella casa non si entra, ma si può guardare. Forse il progetto più importante, in questo senso, è The Invitation, dove il vero obiettivo era eliminare le case che chiudevano quella di una persona che stava morendo di cancro. Questo povero abitante di Brightmoor è venuto da me e mi ha detto: “Mendoza, io ho questo problema: la mia casa si trova in mezzo a due case che sono invase da criminali, e la sera, quando rientro, non so cosa succeda lì… Armi, prostituzione, droga”. Quello è un progetto dove effettivamente l’esterno deve diventare l’interno: l’esterno deve scomparire totalmente, così l’interno diventa l’oggetto desiderato. Trasparenza totale. Ho decorato queste case sapendo già che lo Stato mi avrebbe odiato e che avrebbe fatto di tutto per spazzare via quello che facevo, quindi ho fatto in modo che quelle due case diventassero “opere d’arte”, quando invece il fine dell’atto artistico doveva consistere proprio nel farle scomparire. Nella loro scomparsa, nell’atto della scomparsa, era la componente artistica, come forse nessuno, o solo pochi, hanno compreso. Poi è scomparsa anche la persona per cui ho fatto tutto questo. Io stavo lì con lui, ho dormito in casa con lui, l’ho visto stare male... E anche dopo ho continuato a ricevere sue foto, della sua malattia e della sua agonia…
K.: Fabia, la cosa nuova che poco fa ci ha detto Ryan è che la casa dovrebbe tornare in America a ottobre… Crediamo che questo sia molto importante. Nel senso che siamo rimasti molto colpiti da questa casa che viaggia sull’oceano, che arriva a Berlino e poi va a Napoli, il che ci sembra una cifra perfetta di questa epoca storica, dove non si può trovare definitivamente casa. Il nome di Rosa Parks diventa forte forse proprio se non trova mai casa definitivamente, o almeno, questo è il pensiero di fondo che ci ha ispirato la tua operazione. Cambia qualcosa se adesso la casa torna in America?
Fabia Mendoza: Per quel che mi riguarda, devo dire che all’inizio non capivo il progetto, sia politicamente, sia culturalmente: non mi sono mai considerata una persona privilegiata, anche se lo sono… Adesso vedo i colori, che sfortunatamente si devono vedere. Questo mi ha molto politicizzata. Per tutto ciò che riguarda la democrazia, i diritti civili, ho trovato un simbolo nella casa di Rosa Parks. E poi Rhea McCauley, la nipote di Rosa, parlava del pianeta, di salvarlo, era molto radicale - black power radicale. E questa casa che doveva tornare in America, da cui proveniva… Però poi ho capito un’altra cosa: c’è uno spirito. Molti politici sono venuti a vedere la casa, ma poi effettivamente nessuno ha dato un sostegno, tutti sono stati estremamente prudenti, e tutto si è rivelato molto complicato. C’è il libro di Jeanne Theoharis2, che racconta Rosa come attivista, che non muoveva le masse, ma che poteva rappresentare il movimento; oltre lei, però, c’era anche altra gente... Ho iniziato allora a vedere questa casa come una sorta di collect of memory, una storia che non è solo la storia di Rosa. Alla fine è molto più che raccontare la storia di Rosa Parks: la casa non è uno slogan. Non può venire da noi Joe Biden, vedere la casa, e poi fare una guerra. L’immagine di Rosa, ad esempio… È un’icona, ma come è stata rappresentata? Chi era davvero Rosa Parks? Qual era la sua vera storia? Qual era il suo posto all’interno del movimento? È morta in povertà, non è mai stata aiutata… Io ho cercato di contribuire a modificare un po’ la visione della cosa… Anche le difficoltà che ho avuto nel trovare dei fondi: quanto è stato difficile, nonostante la casa fosse stata per tre volte sulla copertina del “New York Times”?
Tutto il discorso della Brown University… Un professore del Dipartimento mi ha detto che l’istituzione non aveva intenzione di avere lì la famiglia di Rosa Parks. La nipote di Rosa, Rhea McCauley, mi aveva già detto che tutta la loro famiglia e gli amici, gente di Detroit, volevano esserci, volevano raccontare. Ne ho parlato con l’università, ma l’invasione dei “poveretti” (neri) non era vista bene. Questo è razzismo istituzionale. Ho poi chiamato la famiglia di Rosa e ho spiegato la situazione, insomma, doveva venire anche Obama… Ho fatto parte del meccanismo senza rendermene conto, me ne sono vergognata. Ma volevo trovare dei fondi e degli aiuti prima di fare cose del genere – prima cioè della ribellione. C’è tutto questo nella casa di Rosa.
K.: Ryan, se la casa torna effettivamente in America, tu sei contento?
Ryan Mendoza: La casa ha il suo destino. Non appartiene a me, è una cosa più grande di noi. Ho solo voglia di chiudere questo capitolo, che ci ha fatto soffrire molto. Abbiamo speso più di duecentomila euro per questo progetto, e abbiamo visto zero soldi di ritorno, ovviamente... Però si spera che un giorno si risolva e che possa diventare un monumento nazionale per Rosa Parks, che potrà avere la sua casa… Adesso la casa è per così dire senza tetto! Quando la Brown University si è dissociata dal progetto, siamo rimasti abbastanza sconvolti, e lì la comunità è intervenuta per prendere il progetto in mano. Ricordo un ragazzo nero, un gigante, che mi odiava. Era sospettoso, perché avevo impiegato due portoghesi per la costruzione, perché a Berlino non si trovano afroamericani. “Perché lavori con altra gente bianca su questo progetto?” Era un problema. Alla fine del progetto, però, ho scoperto quel ragazzo in un momento poetico: guardava la casa e mi sono avvicinato. Alla fine il lavoro è stato fatto perché abbiamo conosciuto gente che ha smontato la casa; architetti che hanno numerato i pezzi; gente che stava lì a Berlino…
Fabia Mendoza: Eravamo sempre come in un limbo. Da una parte c’erano degli “aiuti”, da parte di gente che spesso era lì solo per farsi vedere, e dall’altra parte nessuno – ad esempio, una Oprah Winfrey –, ha detto: “tieni tre milioni e fai tutto”. Non avevamo un budget, stavamo male, Ryan ha avuto un ictus. Non sapevamo più a cosa aggrapparci…
Ryan Mendoza: Ma abbiamo superato tutto.