La storia del cinema statunitense può essere letta come quella dell’immagine che la stessa America aveva di sé e promulgava dentro e fuori i confini nazionali quale esempio dell’american way of life, un vivere moderno e libero, espressione del sogno a stelle e strisce che ha caratterizzato – e in qualche modo ancora caratterizza – il pensiero nazional-popolare maggioritario.
Al contempo però questa immagine esclude categoricamente le altre, espressioni di una diversità fisica, etnica, culturale e ideologica presente nel tessuto multietnico del Paese, troppo a lungo annullate in un’alienante assimilazione oppure totalmente ignorate. Questo è evidente nella costruzione dell’immaginario filmico hollywoodiano legato all’afroamericano, segnato sin dagli albori (Nascita di una nazione [The Birth of a Nation], David W. Griffith, 1915) dalla perpetrazione di quegli stereotipi attribuiti alla minoranza secoli prima, poi modificatisi, aggiornandosi all’evoluzione dei contesti socioculturali nel corso dei decenni del Novecento. Si pensi ai modelli della Bestia, l’Idiota, il Tragic Mulatto, la Vittima o il Magical Nigger, rappresentazioni legate alle convinzioni di inferiorità biologica dei neri rispetto ai bianchi, da sempre paradigma pseudoscientifico a sostegno dell’ideologia suprematista1. “Gli stereotipi […] servono a focalizzare l’attenzione sul rapporto tra l’individuo e le qualità generali attribuite alla categoria. Alle singole realtà specifiche viene così data un’estensione mitica attraverso l’associazione con le qualità di una categoria” (Gilman, 1985, p. 204, trad. mia).
Negli anni Ottanta la situazione si ribalta. Spike Lee è di fatto il primo autore afroamericano a raggiungere il grande pubblico con film “neri”, sfruttando l’industria e gli stilemi hollywoodiani, ribaltandone dall’interno gli assiomi narrativi e iconografici ormai assimilati. Apripista di una nuova coscienza artistica ed etica, innovatrice nei contenuti quanto nello stile, Lee si fa portavoce di un nuovo modo di vedere e pensare l’afroamericanismo dentro e fuori la sua comunità. La sua è un’opera essenziale non solo in quanto attenta analisi della specifica realtà nera statunitense, ma soprattutto per l’invito sotteso a guadare sé e gli altri in modo più giusto ed equilibrato. Un “esempio di come sia possibile pensare ed essere anche ‘diversi’ da ciò che una maggioranza, ancora testardamente condizionata da pregiudizi e stereotipi, mantiene come riferimenti estetici, fisico-biologici e culturali, facendo così della propria alterità un tratto di separazione e non di arricchimento […]” (Gresleri, 2018, p. 28). Spike Lee affronta scomode e spinose questioni legate al contesto nazionale quali sessismo, razzismo o conflitti intra o interrazziali attraverso storie e personaggi lontani dai modelli ormai assimilati del cinema hollywoodiano. Alla morale e agli eroi WASP di quegli stessi anni2, Lee contrappone figure più complesse, articolate, imperfette, rappresentazioni delle contraddittorietà singolari e collettive che caratterizzano la comunità statunitense nel suo complesso. Piuttosto che dare certezze il suo cinema preferisce sollevare dubbi mettendo sempre lo spettatore nella posizione più scomoda, costretto a interrogarsi sui temi trattati e, attraverso i meccanismi della narrazione, porsi domande non tanto sugli altri quanto su sé, i propri atteggiamenti e considerazioni in merito, rovesciando il punto di vista e di conseguenza il senso del discorso. Se questo è il cardine di tutta l’opera del regista3, in alcuni film l’intento si fa più marcato venendo a lavorare in senso esplicitamente opposto sugli stereotipi culturali legati agli afroamericani tipici di Hollywood.
1. Girl 6 – Sesso in linea
È questo, ad esempio, il caso di Girl 6 – Sesso in linea (Girl 6, 1996), tragicomica riflessione sulla sessualizzazione del corpo – qui femminile – nero e non solo nella società contemporanea. Nella parabola morale di Judy, aspirante attrice incapace di scendere a facili compromessi per far carriera che trova modo di esprimere le sue doti recitative come centralinista in una hot-line, il film offre un’accurata analisi dei meccanismi di dominio bianco sugli afroamericani proprio attraverso lo sfruttamento dei loro corpi. Come sostiene il filosofo Cornel West
gli americani sono ossessionati dal sesso e impauriti dalla sessualità nera. L’ossessione è legata alla ricerca di stimoli e significati in una cultura dai ritmi vertiginosi […]; la paura è invece […] radicata in un’immagine dei corpi neri alimentata dai miti sessuali relativi agli uomini e alle donne neri. […] Il paradosso della politica razziale in America per ciò che riguarda il sesso è che, in segreto, il sesso sporco, disgustoso e animalesco associato ai neri viene spesso percepito come più eccitante e interessante (West, 1995, pp. 111-112).
Torna di fatto il mito schiavista della Bestia, brutale e primitivo veicolo di paure legate a brutali atti di violenza tra cui ovviamente quella sessuale che, nell’unione consensuale o meno tra un nero e una bianca, vede indelebilmente macchiata la “purezza” delle razza. “Si ritiene che il nero sia dotato di una particolare potenza sessuale e di organi genitali spropositati, il che suscita un misto di terrore, invidia, curiosità e riprovazione morale” (Portelli, 1977, p. 17), mentre secondo lo stesso immaginario la donna nera è vista quale sfrenata e disinibita schiava erotica, mezzo di iniziazione dei giovani bianchi e di sfogo delle più brutali pulsioni da parte del padrone4. È essenzialmente ciò che fa Judy quando veste i panni della Girl 6, un anonimo numero dietro il quale si nascondono le perversioni più recondite di ogni cliente coi quali instaura un rapporto di potere e sottomissione in cui presto si confondono le parti. Difatti gli uomini pagano per sentire soddisfatte le proprie fantasie e questo li pone a un livello in apparenza inferiore, ma sono loro in realtà a dettare di volta in volta le regole a cui l’operatrice deve stare, pena la rottura dell’incanto illusorio e la conseguente perdita del cliente. È la donna allora a rivestire il ruolo più basso, degradante perché regolarmente umiliata e sottomessa al desiderio virile di possesso. Un processo straniante che finisce per annullare la personalità della protagonista, obbligata a rispettare l’unica regola impostale: passarsi per bianca, espressione di quell’ideologia patriarcale e razzista che vede da sempre la donna caucasica quale ideale di bellezza femmineo e dunque di desiderabilità sessuale. Judy diventa così un corpo-voce adattabile e malleabile come sottendono i cambi d’abito e acconciatura per ogni nuovo cliente, espressioni di un Io polimorfo in continua formazione.
Il problema di Judy è di non avere (più) un corpo al quale ancorare le sue strategie destrutturanti, il suo principio d’identità ‘e i suoi discorsi’ […]. Se da un lato dunque Judy vive la vertigine provocata dall’assenza di un corpo, dall’altro si vede costretta a confrontarsi con un dramma che è l’opposto speculare della condizione naturale della comunità afroamericana: ‘essere un corpo senza voce’ (Nazzaro, 1996, p. 128)5.
Judy infatti non ha ancora chiaro chi sia né cosa voglia. Recitare le consente di vestire i panni di chi non è nascondendosi dietro un’immagine ideale. Si motivano così i tre inserti parodistici della femminilità cinematografica nera, dove la ragazza si immagina nei panni di Dorothy Dandridge in Carmen Jones (Id., Otto Preminger, 1954), Pam Grier in Foxy Brown (Id., Jack Hill, 1974) e in quelli della giovane protagonista de I Jefferson (The Jeffersons, CBS, 1975-1985). I ritratti proposti di donna indipendente, di dura e di ingenua coincidono con precisi modelli di fantasie maschili tutti riconducibili a un’idea di sottomissione. Le tre figure sono infatti collegate a un corrispettivo di uomo dominante: l’amante geloso, il fidanzato che cerca di imbrigliare la compagna e il padre-tutore che spara al telefono da cui la figlia conversa con un amante sporcaccione. La donna è così vista ancora una volta come oggetto sul quale rimarcare il proprio possesso e, dove non possibile, reprimerne almeno la sessualità6. “Quando Girl 6 guarda alle immagini della cultura popolare e dei mass media, non trova altro che problematici stereotipi di bellezza, sessualità e femminilità. Non riesce a trovare una soddisfacente immagine da emulare” (Hoffman, 2011, p. 117, trad. mia). Queste immedesimazioni fungono così anche da critica all’industria dell’intrattenimento e dei modelli femminili di cui si fa veicolo. Un concetto rafforzato nel film dalla richiesta di Quentin Tarantino alla ragazza di mostrare il seno davanti alla videocamera durante un provino, così come dal riferimento dell’agente di Judy a Sharon Stone che “ha spalancato le gambe, e guarda dov’è arrivata...” o dall’esortazione dell’insegnate di recitazione “affronta la realtà di questo mestiere, togliti la camicetta Maria Vergine... È business, trasformalo in arte”. Nella stessa direzione va il cammeo di Madonna nel ruolo della gestrice del locale a luci rosse che propone a Judy l’installazione di linea privata a casa per incrementare gli introiti, invitandola a “nessuna inibizione, nessuna limitazione. Completa libertà. Nessun tabù”. Pare di sentir parlare la cantante di Like A Virgin e Material Girl, che ha fatto della trasgressione e della corporeità esibita i punti di forza del suo successo.
“Tutti, non solo i registi ma anche i produttori, pretendono che le attrici scendano a questo tipo di compromesso. È una domanda che fanno sempre: ‘Sei disposta a fare vedere le tette o il culo?’ Quella merda capita di continuo. E sono sempre gli uomini a prendere le decisioni” (Lee, Aftab, 2007, p. 354)7 sostiene il regista. È evidente allora che l’esperienza degradante vissuta da Judy non possa che portare la ragazza a una presa di maggior coscienza di sé e della propria dignità di donna, condurla su vie più rispettabili abbandonando l’attività di centralinista erotica e andando a cercar fortuna a Hollywood finalmente consapevole di quello che vuole e non vuole essere e fare. Difficile allora non scorgere in Girl 6 un’anticipazione involontaria di #MeToo, il movimento internazionale che dal 2017 è emblema della lotta contro le violenze di genere sul lavoro e non solo, al tempo argomento ancora taciuto ma evidentemente già presente.
2. Bamboozled
Un’analoga critica all’odierna industria dell’intrattenimento è mossa da Spike Lee in Bamboozled (Id., 2000), forte atto d’accusa verso il sistema mediatico nazionale e in particolare quello televisivo che tutt’oggi ripiega su stereotipi razziali per fare audience. Tuttavia, Spike Lee evita facili generalizzazioni che finirebbero in qualche modo con il ritorcerglisi contro. Consapevole del positivo potenziale comunicativo della televisione e a sua volta prolifico autore di documentari, pubblicità e spettacoli per il piccolo schermo sempre in linea con la propria idea di cinema, il regista critica qui l’intrattenimento becero e assuefacente pensato per rendere i programmi più appetibili agli sponsor che ne alimentano l’industria.
La vicenda ruota attorno al colto autore televisivo nero Pierre Delacroix che, incaricato dal suo superiore bianco di trovare un’idea veramente nuova e politicamente scorretta per risollevare l’audience della rete, crea uno show volutamente razzista al fine di smascherare l’ipocrisia del canale e di conseguenza del mondo dello spettacolo. Mantan: The New Millennium Minstrel Show ripropone ambienti, personaggi e situazioni tipiche dei grevi spettacoli razzisti in voga nell’Ottocento, pantomime in blackface – il tipico trucco con viso annerito da sughero bruciato e la bocca marcata da pesante rossetto – che miravano a esasperare e ridicolizzare atteggiamenti e tratti somatici neri in un misto di disprezzo e crudeltà. È così riesumato il secondo modello associato agli afroamericani, l’Idiota, che si articola in una galleria di esseri pigri e scansafatiche, ingenui e superstiziosi, divoratori di angurie, primitivi ballerini e musicisti, maldestri ladri di polli e altri beni di prima necessità, sciocchi e superficiali “con i capelli lanosi e la voce chioccia che loda il ‘badrone’ e la ‘badrona’” (Noble, 1956, p. 16)8. Figure prive “di vita morale e razionale e per questo […] felici. […] L’innocente e inspiegabile allegria […] deriva dalla condizione di ‘child of nature’ [una sorta di] infanzia dell’uomo [che] sopravvive in esseri che sono in apparenza adulti” (Portelli, 1977, pp. 13-14).
La forza del progetto di Delacroix sta però nell'impiegare solo attori neri in blackface. Questa trovata dovrebbe, secondo le intenzioni dell’autore, cambiare il senso dello spettacolo: attraverso battute razziste pronunciate da rappresentati della parte offesa, un significato inaccettabile cambia di valenza, assumendo una funzione satirica e dunque critica. “La maschera del nero è dunque il correlativo della distorsione strutturale dell’occhio interiore del bianco: allo sguardo egemonico l’uomo invisibile mostra quello che il padrone crede di voler vedere, mentre sotterraneamente mantiene la propria autonomia e il proprio sguardo” (p. 22). L’afroamericano riesce così a “preservare una sfera dentro di sé in cui il padrone non può entrare” (p. 76), apparendo come lui stesso vuole “per continuare a essere clandestinamente se stessi” (ib.)9. In questa maniera il nero sviluppa “un duplice punto di vista [vivendo] l’America dall’interno, ma [sapendo] guardarla con occhi esterni, distaccati” (pp. 53-54).
Questa doppia coscienza, questo senso del guardarsi sempre attraverso gli occhi degli altri, di misurare la propria anima col metro di un mondo che ti guarda con divertito disprezzo e con pietà, è una sensazione davvero particolare. La propria dualità si avverte in ogni momento; il fatto, intendo, di essere un americano e un nero, due anime, due pensieri, due entità che lottano senza possibilità di riconciliazione, due contrastanti ideali in un solo corpo nero, a cui soltanto la propria forza tenace impedisce di essere lacerato in mille pezzi (DuBois, 2007, p. 9).
Ma come sostiene il teatrologo Marvin Carlson “le esibizioni in maschera corrono sempre il rischio che Derrida indicava per qualsiasi operazione decostruttiva che cerca di ribaltare le strutture consolidate: questo processo, specialmente per un pubblico medio, può facilmente [finire per] rafforzare quelle strutture” (Carlson, 1996, p. 176, trad. mia). È quel che accade quando Mantan fallisce nell’intento di smontare le nuove forme del razzismo mediatico, trasformandosi in una perfetta macchina da profitto che in fondo legittima pratiche e discorsi della supremazia bianca. Il successo della trasmissione è significativo dell’incapacità sempre più diffusa nella società contemporanea di filtrare i contenuti dei mezzi di comunicazione attraverso la propria coscienza e conoscenza storico-sociale, finendo per accettarli passivamente come rozzo intrattenimento. Significativa in questo senso la sequenza della registrazione della prima puntata dello show. Girando con un pubblico non informato di quello che avrebbero visto, Lee riprende le loro reazioni come si trattasse di una candid-camera. All’inizio cala il gelo in sala, poi un ragazzo nero comincia a ridere e applaudire e così il resto del pubblico si sente legittimato a fare lo stesso: il segnale d’applauso si accende e tutta la sala risponde calorosamente. Il passato doloroso dell’essere “negro” e i suoi tratti distintivi ora “possono essere comprati, venduti, consumati […]. Senza tener conto del colore della pelle, del legame con tale comunità, della comprensione della sua storia, identità razziale e privilegi, chiunque può essere nero” (Leonard, 2006, p. 173, trad. mia)10.
Ma l’inatteso successo di Mantan suggerisce anche una riflessione su un certo immaginario e i messaggi che esso veicola, ormai talmente radicati nelle coscienze singolari e collettive da rendere sempre più difficile riconoscerne il negativo impatto culturale sul pubblico. “Bamboozled ha l'effetto di normalizzare l'eccesso o di permetterci di vedere che ciò che passa per la nostra normale realtà quotidiana in verità è sostenuta da un eccesso di razzismo che in gran parte rimane invisibile (…)” (McGowan, 2014, p. 128, trad. mia) e allo stesso tempo invita lo spettatore a guardare oltre le apparenze, dietro le maschere, per cogliere l’essenza “del trauma della soggettività nera in America” (p. 79, trad. mia).
Il film incoraggia a vedere l’umorismo e persino a ridere, ma allo stesso tempo non si può dimenticare l’oggetto delle risate. In questo modo, gli spettatori sono implicati nell’eccesso che vedono. Rifiutarsi di ridere e mantenere una posizione al di sopra del mondo filmico significa insistere su una falsa innocenza che il film non consente (p. 131, trad. mia),
né ai bianchi né ai neri. Entrambe le parti sono invece chiamate da Spike Lee a riflettere sulle immagini mediatiche e come esse “vengono usate e che sorta di impatto sociale hanno, come influenzano il nostro modo di parlare, di pensare e di vedere l’altro. In particolare [...] come film e televisione storicamente, […] abbiano prodotto e perpetrato tali immagini distorte” (Crowdus, Georkas, 2001, p. 9, trad. mia).
3. BlacKkKlansman
Se nei due lungometraggi finora esaminati l’esplicito ribaltamento del punto di vista cala lo spettatore nei panni del protagonista perché ne percepisca il disagio e la sofferenza derivati dall’immaginario cui è costretto ad adeguarsi, in BlacKkKlansman (Id., 2018) l’identificazione avviene in forma più sottile e sfaccettata. Il film ricostruisce la vicenda reale di Ron Stallworth, primo poliziotto nero di Colorado Springs che negli anni Settanta riuscì, grazie alla collaborazione di un collega bianco, a infiltrarsi nella cellula locale del Ku Klux Klan per spiare e sabotare numerose azioni della setta. È chiaro sin dalla sinossi la connessione che il film viene a creare con il presente dell’America trumpiana. “L’elemento in comune tra ieri e oggi è come la paura del prossimo, dell’immigrato, del diverso, venga usata ovunque dalla classe politica per acquisire potere” (Consoli, 2018, p. 113), sostiene il regista che, in occasione della conferenza stampa a Cannes aggiunge “quello che succede oggi non salta fuori dal nulla. Dobbiamo collegarlo a quanto è accaduto in passato” (trad. mia)11.
Come già in Malcolm X (Id., 1992), Spike Lee sfrutta la formula tipica statunitense dell’edutainment (educazione+intrattenimento), realizzando un prodotto didattico nella forma ma personale nei contenuti che ribalta i canoni tradizionali del buddy movie interrazziale dove il bianco è la mente e il nero il braccio. Viene così scardinato l’ordine gerarchico dell’eroismo statunitense secondo il quale l’afroamericano è sempre dipendente dal compagno caucasico, sua spalla, mezzo di salvezza o riuscita nel suo intento. In tal modo è annullata l’idea di infantilismo del nero secondo la visione paternalistica della società statunitense che vede in esso, schiavo o libero che sia – così come nel bambino, nella donna e nel ritardato – una creatura indifesa e nel modello del Grande padre bianco l’unico in grado di sovrintenderne e tutelarne la sicurezza. Il nero smette allora il ruolo di Vittima prescelta di una sfortunata combinazione biologica, succube della magnanimità e della compassione di una superiore e privilegiata alterità, per affermare finalmente l’autodeterminazione che nasce da una piena e consolidata coscienza di sé.
BlacKkKlansman è in effetti un’acuta riflessione sull’identità, declinata in varie forme: è affermata con orgoglio dai membri dei gruppi contrapposti delle Black Panthers e del KKK, ripiegati su sé stessi e incapaci di guardare oltre la loro esteriorità, intenti a difendere la conformità ai propri tratti fisici ed estetici negando quelli altrui con violenza verbale i primi e fisica i secondi. Stallworth sceglie invece di collocarsi nel mezzo, sposando la causa nera ma restando aperto al dialogo e alla collaborazione certo che “con il giusto uomo bianco possiamo fare tutto” come conferma al Capitano Bridges dubbioso sugli esiti della missione da affidare al nuovo assunto. Similmente a Inside Man (Id., Spike Lee, 2007) la vera minaccia è interna, un infiltrato che può minare l’ordine di un sistema consolidato da dentro passando pressoché inosservato perché corrispondente ai canoni della maggioranza. Un’idea che funge da aggancio per l’ulteriore interpretazione del concetto d’identità presente nel film, ovvero quella celata, come l’immagine fintamente aperta e tollerante che il leader David Duke dà dell’Impero invisibile: “Tanti pensano che io odi i neri, ma non è così. Neanche l’Organizzazione li odia, devono solo stare tra di loro”. Similmente fa anche Stallworth che al telefono con gli uomini del Klan si passa per bianco e contemporaneamente nasconde il proprio mestiere alla militante delle Pantere Nere Patrice per corteggiarla, mentre il collega bianco Flip lo sostituisce alle riunioni del KKK negando le proprie radici ebraiche ma confessando di aver sempre voluto essere nero. Attribuendosi il nome di The Stallworth Brothers, i due condividono la stessa identità mentre lavorano al caso, ma né uno né l’altro sono in definitiva quello che dicono di essere pur facendone esperienza diretta: Ron non è bianco ed è un poliziotto, Flip è ebreo e non è razzista. “Se il bianco è il colore di un’identità impalpabile e instabile, allora diventare bianco è metafora della perdita dell’identità” (Portelli, 1994, p. 16). È la questione del passing, il mimetismo sociale degli afroamericani meticci dalla pelle tanto chiara da poter passare per bianchi e godere dunque di privilegi a loro altrimenti negati. Il rifiuto e la soppressione di una parte di sé per essere accettati diventa allora
metafora della perdita del corpo come effetto di un’identità interiore, una ‘paura di scivolare nell’indistinto’. Negli sbilanciati rapporti di potere che vedono il bianco vincente come modello di desiderio e perfezione, diventare bianco non è solo un rischio ma anche, e più spesso, un desiderio alienato indotto dai rapporti di potere (p. 17)12.
Il passing diventa allora “un tentativo di estendere la mobilità sociale a chi ne è escluso, forzando la rigidità della casta. In un certo senso è un atto è un atto di resistenza analogo alla fuga degli schiavi: salvo che, oltre che un’evasione è anche un’invasione del territorio dei padroni” (Portelli, 1977, p. 137). Così Spike Lee arriva ad affrontare la complessa realtà dell’essere nero e al contempo americano oggetto del già citato saggio di William E. B. DuBois Le anime del popolo nero, facendone fare esperienza a entrambi i personaggi in un gioco raffinato di maschere e travestimenti molto vicino a quello di Vogliamo vivere! di Ernst Lubitsch (1942). Lì, il To Be or Not to Be del titolo originale rimandava alle molteplici identità assunte dai componenti della compagnia teatrale per fermare Hitler. In maniera analoga, BlacKkKlansman si fa riflessione metacinematografica sul ruolo dell’attore tra realtà e finzione, per cui se Ron dirige l’azione “fuoricampo” tramite telefono, Flip ne segue le indicazioni portando “in scena” un personaggio, alter ego suo e contemporaneamente di Stallworth. Vero e falso vengono a mischiarsi, addirittura a sovrapporsi, rendendo difficile stabilire dove finisca uno e cominci l’altro. È il grande trucco del cinema, che combina i due piani con tacito assenso dello spettatore che sospende la propria credulità consapevole di farsi così piacevolmente ingannare, come i membri del Klan o Patrice i quali, pur sospettando dell’identità dei due Ron, abbassano la guardia nei loro confronti.
Ma il film di Lee è anche un compendio sul cinema e il valore delle immagini da esso proposte. Lo sottolineano ad esempio i riferimenti ai film di Tarzan usati dal portavoce delle Pantere Nere Kwame Ture contro il sistema iconografico hollywoodiano durante un comizio a cui Ron partecipa come infiltrato: “Il bianco Tarzan pestava gli indigeni neri, e io ero lì e urlavo ‘Uccidi quelle bestie! Uccidi i selvaggi!’ […]. Ma quello che stavo dicendo era ‘Uccidi me!’. È come un bambino ebreo che vede i nazisti portare gli ebrei nei campi di concentramento e si mette a esultare...”. Similmente fanno le riflessioni di Ron e Patrice sugli eroi della blaxploitation: il primo elogia i nuovi modelli di nero portati sullo schermo in quegli anni, figure finalmente vincenti contro l’ordine bianco e orgogliosi della propria appartenenza etnica, l’altra sostiene invece che siano solo nuovi stereotipi – “non si può cambiare da dentro, è un sistema razzista”, afferma. Efficace è anche lo spezzone in apertura da Via col vento – opera celebrativa del grande Sud e della distorta ideologia conservatrice che lo vuole vittima delle angherie del Nord – in cui la Storia impunemente rivisitata è posta sullo sfondo della tribolata vicenda amorosa tra i due protagonisti, a rimarcare la falsa coscienza dell’establishment bianco verso un passato che è meglio non ricordare o almeno trasfigurare. Ma è a Nascita di una nazione che Spike Lee sferra il suo attacco più incisivo alle umilianti immagini di afroamericani offerte dal vecchio cinema statunitense. Già stigmatizzata nel suo primo cortometraggio universitario The Answer (1980), l’opera di Griffith è qui definitivamente condannata per l’esacerbata superiorità della razza bianca che trasmette, in una memorabile sequenza in montaggio alternato. L’influenza del medium cinematografico su credenze e comportamenti del pubblico, introduce una riflessione sulla cultura contemporanea sviluppata dal regista in BlacKkKlansman:
È sempre stato un mio convincimento che una delle ragioni per cui gli Stati Uniti siano una potenza mondiale […], è la cultura. Nessuna bomba nucleare può far ballare qualcuno nel mondo sulla testa, mettere il cappello alla rovescia o, sfortunatamente, portare i pantaloni sotto la cintura mostrando la tua fottuta biancheria intima […]. È cultura. […] È la mia teoria che gli Stati Uniti abbiano dominato il mondo attraverso l’esportazione di cultura, e in cima alla lista ci sono i film (Aftab, 2018, pp. 25-26, trad. mia).
È evidente che dall’elezione di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti, anche Hollywood ha iniziato almeno apparentemente a proporre una lettura più progressista della questione nera, nel tentativo di liberarsi dagli opprimenti retaggi razzisti che hanno minato la concezione dell’afroamericano nell’industria dell’intrattenimento. Autori come Dee Rees, Barry Jenkins, Ryan Coogler, Ava DuVernay e Jordan Peele sono solo i più noti di un ampio gruppo di cineasti neri che stanno rivoluzionando il racconto degli afroamericani e dell’America, proponendo un’alternativa alla visione tipicamente hollywoodiana che ne rielabori stili, linguaggi e contenuti alimentando un nuovo immaginario collettivo. I film dei nuovi registi neri si fanno esempi efficaci della nascente tendenza afrocentrica che guarda allo stato della nazione senza più vittimismi, in una prospettiva democratica che ne influenzi e rinnovi la mentalità13. Certo la strada è ancora lunga e in salita e “la sistematica iniquità razziale rimane integrata con le pratiche organizzative dell’industria cinematografica” (Erigha, 2019, p. 51, trad. mia). Come scriveva l’intellettuale afroamericano James Baldwin “si dice che la macchina da presa non possa mentire, in realtà le permettiamo molto raramente di fare altro, perché la macchina da presa vede solo là dove tu la punti: la macchina da presa vede quello che tu vuoi che veda. Il linguaggio della macchina da presa è quello dei nostri sogni” (Baldwin, 2017, p. 83). A Spike Lee va riconosciuto il merito di essere stato il primo a operare ad Hollywood in nome di quell’autorappresentazione che da sempre costituisce l’intento primario del cinema nero statunitense sin dai race films del muto14. L’autore ha aperto gli occhi al suo pubblico – quel “wake-up!” che torna come refrain in molti suoi film – offrendo testi complessi e stratificati pur se di immediata fruizione, che permettono di orientarsi in un contesto elaborato come quello contemporaneo al fine di fare realmente “la cosa giusta”.