L’icona e la redenzione

Sul dominio della whiteness

DOI : 10.54563/revue-k.1138

Résumé

Starting from music video by The Carters performing Apeshit, where the two Afro-Americans artists celebrate their socioeconomic success, becoming icons that represent the redemption of black people, this paper tries to reflect on the relationship between icon and redemption in capitalistic socioeconomic system - relationship that develops from Christology’s “economic of salvation” and the historical domain of whiteness.

Index

Keywords

whiteness, icon, Christology, value, racism

Plan

Texte

Il razzismo non individua mai le particelle dell’altro,
propaga le onde dello stesso fino all’estinzione di ciò che non si lascia identificare
(o che non si lascia identificare se non a partire da questo o quello scarto).
La sua crudeltà non ha eguale che nella sua incompetenza o nella sua ingenuità.

Gilles Deleuze e Félix Guattari

1. Pretesto

Nel 2018, l’uscita del video del brano Apeshit di The Carters (Beyoncé e Jay-Z), girato al Museo del Louvre di Parigi, suscita grande scalpore mediatico. Per celebrare la conquista di un posto privilegiato nel panorama internazionale della musica e il proprio riscatto socio-economico, il duo afroamericano prende in affitto un tempio dell’arte occidentale - bianco, troppo bianco.

Occorre ricordare che il brano Apeshit è contenuto nell’album Everything is love, considerato il felice epilogo di una storia d’amore costellata di errori commessi e perdonati, inserita in una cornice di critica della storia dell’America, fondata sul dominio della whiteness. Nella narrazione storica, di una storia privata e della storia dell’America, vi è, insomma, la possibilità di emendazione – per un marito che tradisce la moglie; per l’America che non riconosce l’importanza dei neri nella storia della sua stessa edificazione.

Nel video di Apeshit, il raggiungimento per i due artisti afroamericani delle vette del successo viene dunque celebrato al Museo del Louvre, il luogo che espone un dato di fatto inequivocabile: l’assenza dei neri nel sistema rappresentativo dell’arte occidentale. Una (doppia) vittoria per i The Carters: non solamente due afroamericani creano opere musicali pop/rap reputate consoni al sistema artistico contemporaneo, e non considerate – come avveniva in passato per i loro antenati – innanzitutto come variazioni etnografiche (Lippard, 1981); ma due afroamericani sono in grado di elevare al grado di icona quei neri che, nel sistema rappresentativo delle arti occidentali - e in particolare della pittura -, non sono mai stati soggetti delle immagini.

I coniugi decantano le loro conquiste socio-economiche dando le spalle alla Monna Lisa di Leonardo; trasformano un afroamericano in una nuova Nike di Samotracia; permettono a delle meravigliose ballerine nere di danzare per i corridoi del Museo, dando le spalle a uno dei dipinti simbolo del potere occidentale: L’incoronazione di Napoleone di Jacques-Louis David. Presentano i dettagli di Le Nozze di Cana di Paolo Veronese, che mostrano i volti dei pochi neri – schiavi - presenti nel dipinto. L’operazione di The Carters è dissacrante: quando entriamo – noi bianchi – in quel tempio dell’arte occidentale, proviamo a notare la nostra whiteness e la storia dell’arte – o delle arti – della nostra parte del mondo, che altro non è se non la celebrazione dell’incarnato – dell’Incarnazione.

L’operazione di The Carters, a cui l’allora direttore del Louvre Jean-Luc Martinez dedica un percorso in diciassette tappe, in cui i visitatori fans della coppia possono ammirare le opere che appaiono nel video musicale, ottiene critiche contrastanti: dissacrazione di uno dei luoghi dell’arte più importanti al mondo e conseguente irriverenza del gesto dei due artisti; spietate strategie di marketing dell’allora direttore del museo; apertura delle più importanti opere d’arte del mondo a milioni di persone – “le nuove generazioni” – che, per vari motivi, potrebbero non essere interessate alla visione di opere quali, ad esempio, La Zattera della Medusa di Géricault, perché dopo esatti duecento anni potrebbe non avere più nulla da dire – da mostrare.

Al di qua delle critiche contrastanti, l’operazione di The Carters ha un merito: mostrare che la logica della rappresentazione occidentale è fondata sul dominio della whiteness, motivo per cui se i neri entrano nella rappresentazione è solo in negativo – come, cioè, conferma di quel dominio: i neri rappresentati sono schiavi; se vengono accuratamente ritratti, come avviene in molti celebri dipinti, è solo per ostentare la ricchezza del sovrano per il quale si dipinge1.

È però possibile mettere fine a quella storia di dominio; rendere la blackness degna di rappresentazione – fuori dal negativo. Beyoncé e Jay-Z diventano essi stessi icone di quella fine: perché anche i neri sono integrabili in quella logica della rappresentazione, che per millenni li ha respinti ai margini del suo centro – bianco, troppo bianco. Profanata la logica della rappresentazione occidentale, si narra la storia dei vinti della Storia – che, però, altro non è se non la conferma della storia dei vincitori –, mostrando come una felice conclusione di quella storia è possibile: i neri ce l’hanno fatta, sono entrati a pieno titolo nella logica della rappresentazione occidentale.

Il diritto alla visibilità – il diritto all’immagine – attesta che l’integrazione dei neri nel sistema socio-economico occidentale è possibile. Per la Legge che governa questo sistema, chiunque può essere integrato nel sistema stesso, purché eserciti il suo culto, che solo può rendere un individuo dignitoso: possedere denaro per vivere all’interno del mercato – cantano infatti i due coniugi: “Gimme my check, put some respect on my check / Or pay me in equity”2.

Se i neri nella storia dell’arte occidentale non sono stati degni della visibilità – non sono mai stati icone –, possono adesso acquisire dignità ed essere dunque elevati al grado icone grazie al possesso di quell’equivalente universale che non conosce colore: il denaro. Insomma, la redenzione della storia senza fine dello sfruttamento e del razzismo è possibile. Apeshit è infatti l’apoteosi di due icone nere della musica pop e rap e, contemporaneamente, l’incarnazione dello spirito antirazziale – perché fondato innanzitutto sul possesso del denaro quale equivalente universale – del capitalismo.

Come vede già Walter Benjamin nel 1921,

Il capitalismo si è sviluppato in Occidente – come va dimostrato non soltanto per il calvinismo, ma anche per le altre correnti cristiane ortodosse – in modo parassitario sul cristianesimo, in modo tale che, alla fine, la storia di quest’ultimo è essenzialmente quella del suo parassita, il capitalismo.

Paragone tra, da un lato, le immagini sacre delle diverse religioni e, dall’altro, le banconote dei diversi Stati. Lo spirito che parla all’ornamento delle banconote (Benjamin, 2014, p. 11).

Il capitalismo sviluppa, dunque, proprio a partire da quella forma di monoteismo la sua “economia della salvezza”. Qualcosa di più sorge dal breve testo soprariportato, laddove Benjamin si propone un paragone – che purtroppo non svilupperà – tra le immagini sacre e i motivi ornamentali delle banconote dei diversi Stati. Forse Benjamin pensava alla radice “sacra” del simbolismo delle banconote? O, forse, si proponeva lo studio delle icone che compaiono sulle banconote, sviluppo delle icone sacre? Forse il capitalismo, “religione di mero culto, senza dogma” (ib.), se rapportato alle immagini sacre, non presenta un qualche rapporto con la dogmatica in generale, e in particolare con il dogma dell’Incarnazione? E cosa succede se si rapportano tali questioni a quelle che invece sorgono dall’operazione di The Carters (l’elevazione al grado di icone dei neri, che il possesso del denaro permette, rappresenta un atto di incarnazione attestante la redenzione e l’integrazione dei neri nel sistema socio-economico vigente)?

Il tentativo del presente contributo è mostrare come l’odierno concetto di icona, che domina il nostro sistema socio-economico e che presenta un’apparente pacificazione razziale – perché, come mostra l’operazione di The Carters, in quel sistema anche la black people può integrarsi –, sia in realtà il culmine della logica della rappresentazione occidentale, dominata dalla presenza della whiteness, che si sviluppa dal cristianesimo. Per questo motivo, il presente contributo tenta innanzitutto di rintracciare gli elementi fondamentali che, dal cristianesimo, hanno permesso la costruzione del concetto di icona, individuando un punto nevralgico nei problemi che sorgono dalla rappresentazione del dogma dell’Incarnazione – a partire, in particolare, dalle questioni legate alla rappresentazione antropomorfa di Cristo – da cui scaturisce quel dispositivo di persona fondamentale per la logica dell’integrazione nonché per l’idea di redenzione – ma fondato sul dominio della whiteness.

2. Se la salvezza è bianca

Nel tentativo di ritracciare i motivi fondamentali che, nella storia della rappresentazione del dogma dell’Incarnazione, hanno permesso l’edificazione dell’odierno concetto di icona, fondato sul dominio della bianchezza in quanto resa visuale della redenzione, occorre forse prendere le mosse dal problema della rappresentazione di Cristo, che interessa tanto la Chiesa d’Oriente quanto quella d’Occidente tra la fine del settimo e il nono secolo.

Come rappresentare la presenza del divino sulla terra? Qual è la forma universalmente valida che, fedele alle Sacre Scritture, può manifestare quella presenza? A partire da tali questioni, nell’autunno del 691, l’imperatore Giustiniano II convoca un concilio nella sala a volta (per questo motivo conosciuto come Concilio in Trullo) del palazzo imperiale di Costantinopoli, mosso dall’esigenza di completare con un sinodo i concili ecumenici quinto e sesto (per questo conosciuto anche come Concilio Quinisesto), che avevano deliberato solo sui dogmi (Parrinello, 2015, p. 34). Nonostante quel concilio non sia accolto come ecumenico dalla Chiesa di Roma, il completamento dal punto di vista canonico dei due concili precedenti può forse rivelarsi utile nel tentativo di rintracciare il rapporto tra icona e whiteness in ambito cristologico. Fondamentale il canone 82, riguardante il problema della rappresentazione di Cristo, che formula il principio normativo della rappresentazione del dogma dell’Incarnazione.

Questa regola è così conosciuta: «In alcuni dipinti si trova l'agnello indicato dal dito del Precursore; questo agnello è là posizionato come figura della grazia, consentendoci di vedere in anticipo, attraverso la legge, il vero Agnello, Cristo nostro Dio. Onorando sicuramente le figure e le ombre in quanto simboli della verità e prefigurazioni offerte in vista della Chiesa, noi preferiamo la grazia e la verità, ricevendo questa verità come compimento della legge. Disponiamo dunque che d'ora in poi questo compimento sia evidenziato agli occhi di tutti nelle pitture, e che dunque nelle icone sia collocato, al posto dell'agnello antico, nel suo aspetto umano, colui che ha tolto i peccati del mondo, Cristo nostro Dio. In questo modo noi possiamo comprendere la sublime umiltà di Dio, in quanto Verbo, e siamo condotti a ricordare la sua abitazione nella carne, la sua Passione, la sua morte redentrice e, attraverso quella, la liberazione che ne è derivata per il mondo. (Uspenskij, 2007, pp. 25-26)

Rappresentando Cristo antropomorfo, si rappresenta l’unione delle due nature, quella divina e quella umana, ossia la sua Persona. L’icona di Cristo, che trae la sua origine dall’Invisibile, è, insomma, la rappresentazione figurativa di quell’Incarnazione che effettivamente – in quanto visibile a tutti nell’icona – ha avuto luogo.

Le decisioni del Concilio Quinisesto non vennero approvate dalla Chiesa di Roma; ciononostante, il canone 82, lungi dall’interessare unicamente la Chiesa cristiana d’Oriente, interessa la costruzione stessa del concetto di icona occidentale, in particolare dopo il secondo Concilio di Nicea (787). Convocato dall’imperatrice bizantina Irene, reggente per il figlio Costantino VI e che aveva nominato come patriarca Tarasio, laico e capo della cancelleria imperiale, il secondo Concilio di Nicea venne approvato, non senza ambiguità, da papa Adriano I (Parrinello, 2015, pp. 42-43). Nel tentativo di trovare una via d’uscita dall’iconoclastia che vedeva coinvolta la Chiesa d’Oriente, Tarasio, per volontà di Irene, formulò una professione di fede favorevole alle immagini, riferita al canone 82 del Concilio Quinisesto – professione di fede che inviò ad Adriano I. Nella concezione dell’icona e delle immagini tra Oriente e Occidente rimangono delle ambiguità: anche se nelle Orazioni sulle immagini (730), il monaco orientale Giovanni Damasceno distingue tra l’adorazione, che è riservata solo a Dio, e la venerazione, che si può rivolgere alla persona rappresentata nelle icone, gli occidentali credevano che l’adorazione (l’idolatria) delle immagini caratterizzasse proprio la Chiesa d’Oriente, e preferivano dunque utilizzare le immagini con un intento esclusivamente pedagogico (p. 44)3. Ciononostante, in entrambe le Chiese sembra fondamentale l’attenzione nei confronti di come rappresentare Cristo, in quanto è la sua stessa Persona rappresentata e resa visibile – e non la rappresentazione in sé, cioè l’idolo – degna di venerazione.

Ciò che interessa il nostro discorso, nel tentativo cioè di rintracciare il rapporto tra l’icona e la whiteness in ambito cristologico, è che l’icona stessa in quanto resa visibile dell’Incarnazione si fonda sull’innalzamento “dell’antico agnello che toglie i peccati del mondo” secondo la figura umana (Brunet, 2011, p. 88). Nonostante l’obiettivo del canone 82, nella sua prima formulazione nel Concilio Quinisesto e nella conseguente ripresa nel Concilio di Nicea, fosse proprio il tentativo di eludere l’adorazione del simbolo a vantaggio della resa visibile e “più vera” dell’Incarnazione così come avviene nell’icona, l’icona stessa mantiene in sé lo spettro dell’agnello – del simbolo.

 

Lo spettro dell’agnello, ma ancor prima della bianchezza. Il bianco è il colore della purezza e della remissione dei peccati, già presente nell’Antico Testamento: “Ecco, nella colpa io sono nato,/nel peccato mi ha concepito mia madre./Ma tu gradisci la sincerità nel mio intimo,/nel segreto del cuore mi insegni la sapienza./Aspergimi con rami di issòpo e sarò puro;/lavami e sarò più bianco della neve” (Salmo 51). Ma è nei Vangeli che il bianco diventa il colore della resurrezione, nonché della redenzione; in particolare sono le vesti bianche a esprimere l’ascesa al mondo celeste: in Matteo 28, 3, ad esempio, l’aspetto dell’angelo, che siede sopra il sepolcro e annuncia la resurrezione di Cristo, “era come quello della folgore e la sua veste candida come la neve”. Il bianco in quanto colore privilegiato dell’incarnato di Cristo e dei simboli connessi alla sua resurrezione – nella Resurrezione di Cristo di Piero della Francesca (1463), ad esempio, il Cristo bianco tiene in mano il vessillo con la croce rossa in campo bianco, simbolo della Resurrezione – trova forse nelle stesse scritture il motivo della sua crescente affermazione. Nonostante quel corpo bianco rappresentato, da cui dipende il destino dell’icona e l’atto di redenzione, sia soggetto, nel corso della storia, a innumerevoli metamorfosi (Belting, 2007, p. 63), esso porta con sé lo spettro del simbolo che riceve una trasfigurazione antropomorfa: l’agnello. Derivato dall’Antico Testamento, dove in Esodo 12, 5, l’agnello pasquale, il cui sangue redime, deve essere “senza macchia, maschio”, nella Prima lettera di Pietro 1, 19-20, Cristo è l’agnello “senza difetti e senza macchia”, che, già predestinato prima della fondazione del mondo, con il suo sangue versato redime gli uomini.

Che un simbolo continui a celarsi nell’icona, e che quei significati teologici vengano “investiti nelle apparenze epidermiche” divenendo, nel lungo corso della storia, la giustificazione dello sfruttamento del lavoro schiavo per le imprese coloniali, imperiali, e, infine, seguendo quello sviluppo, capitalistiche, è ciò che permette l’edificazione della whiteness: “un’architettura bianca della salvezza”, che sta a fondamento dell’Occidente e delle sue barbarie – basti pensare al Cristo bianco che, al termine di Nascita di una nazione (1915) di Griffith dà la sua benedizione al Ku Klux Klan (Ash et al., 2018, pp. 4-5, pp. 35-35). Con il passaggio dall’agnello bianco e senza macchia all’uomo, anch’egli bianco e senza macchia, l’icona mantiene lo spettro del simbolo – di un simbolo che ha a che vedere con il fatto reale di un sacrificio, che, nel corso della storia, continua a ripetersi nell’attesa di una promessa futura; e non di un simbolo, invece, che autenticamente “mette insieme”, qui e ora (Cacciari, 2002, pp. 87-88).

 

È dunque a partire dall’“anno zero” del corpo di Cristo – ma probabilmente suo malgrado -, che progressivamente si ha lo sviluppo storico dell’Uomo bianco, e, di conseguenza, secondo Gilles Deleuze e Félix Guattari, la produzione

di scarti di devianza, in funzione del viso Uomo bianco che pretende di integrare in onde sempre più eccentriche e tardive i tratti non conformi, a volte per tollerarli in un certo posto e a certe condizioni, in un certo ghetto, a volte per annientarli sul muro che non sopporta mai l’alterità […] In un modo più gaio, la pittura si è valsa di tutte le risorse del Cristo-viso. Si è servita in ogni senso della macchina astratta di viseità per produrre col viso del Cristo tutte le unità di viso, ma anche tutti gli scarti di devianza. Vi è una sorta di giubilo della pittura a questo riguardo, dal Medioevo al Rinascimento, come una libertà sfrenata. Non soltanto il Cristo presiede alla viseificazione di tutto il corpo (del suo corpo), alla paesaggizzazione di tutti gli ambienti (dei suoi ambienti), ma compone tutti i visi elementari e dispone tutti gli scarti: Cristo-atleta da fiera, Cristo-manierista invertito, Cristo negro, o almeno Vergine nera ai margini del muro (Deleuze, Guattari, 2017, p. 261; corsivo mio).

Giustamente, secondo Deleuze e Guattari, è il Cristo o, meglio, il suo mito, che “inventa la viseificazione di tutto il corpo e la diffonde ovunque” (p. 259). Perché il viso? Il viso, ancor prima del corpo, è ciò che si espone e a partire da cui il potere – ogni tipo di potere – si organizza. È dal viso o, meglio, dalla produzione di viseificazione – fototessera del passaporto, carta d’identità, riconoscimento facciale operato da un software biometrico – che procede il razzismo (p. 261). Il viso denota la persona, e la nozione di persona, “luogo di incrocio originario tra religione cristiana e diritto romano”, indica – rispettivamente alla prima, in particolare con il dogma dell’Incarnazione, e, alla seconda in riferimento alla persona in quanto maschera – che è nell’evidenza del viso – del suo colore – che innanzitutto si gioca la struttura binaria che domina la civiltà occidentale (Esposito, 2013, pp. 8-9). Ma c’è soprattutto un “esito neoliberale” di quel dispositivo teologico-politico (nonché, appunto, economico), che ancora oggi trova il suo fondamento nel concetto di icona – indissolubilmente legato allo sviluppo della logica della whiteness, nonostante presenti una sua apparente liquidazione – da cui abbiamo preso le mosse.

3. Monovalenza

L’icona cristiana, con il dogma dell’Incarnazione e la categoria di persona che contiene in sé, trova il suo massimo sviluppo nel concetto di icona che domina il nostro sistema socio-economico. In che termini individuare una continuità tra il concetto cristiano di icona e quello capitalistico, se in quest’ultimo il colore – la bianchezza – non sembra più essere la componente decisiva? Nei termini del valore.

Nel primo volume, La dischiusura, della sua Decostruzione del cristianesimo, Jean-Luc Nancy analizza la “provenienza” e la “traiettoria” dell’Occidente interrogando ciò che ha organizzato la sua condizione di possibilità, ossia il monoteismo nella forma del cristianesimo (Nancy, 2007, pp. 45-47). L’obiettivo di Nancy è di mettere in luce come il monoteismo in generale, e il cristianesimo in particolare, siano la provenienza dell’Occidente; tale provenienza, lungi dallo sparire con la globalizzazione, si manifesta:

Giacché, in fin dei conti, se l’economia capitalista e tecnologica costituisce oggi la forma generale del valore o del senso, ciò è possibile attraverso il dominio mondiale di una legge di scambio monetario (o di equivalenza generale) e di produzione indefinita di valore aggiunto nell’ordine di questa equivalenza – valore la cui valutazione resta impossibile se non, appunto, nei termini di equivalenza e di crescita indefinita. Ora, però, questa monovalenza del valore, cioè questo senso unico della circolazione del senso, si comporta come la trascrizione apparentemente non religiosa di quella monocultura che ha prodotto la concezione monoteista: in particolare, la cultura di Roma nella sua espansione europea e moderna, da Bagdad e Teheran fino a Londra e a Los Angeles. Il mistero di questa storia risiede nel carattere assoluto e invisibile insieme, incalcolabile, indeterminabile e universale del valore o del senso unico, posto ora in “Dio”, ora nell’“uomo”, ora nella tautologia del “valore” stesso (p. 45).

La struttura della monovalenza che sta a fondamento dell’Occidente, e che secondo Nancy è indissolubilmente legata al monoteismo, comporta l’annullamento dell’eterogeneità del valore a favore della sua equivalenza generale (pp. 112-113). Secondo Nancy, l’eterogeneo è l’esperienza stessa, che va al di là dell’uso e dello scambio, fuori dall’appropriazione e dalla soggettività.

È per questo che il mondo dell’omogeneo presenta la valutazione come equivalenza del valore tanto di una merce, quanto di un sacrificio dell’esistenza a un’onnipotenza suprema. Comunque è un traffico. Comunque è un integralismo di un valore contro un altro: un valore che vale come misura del principio, Dio o il denaro, valore spirituale o valore di borsa. Ma il valore eterogeneo non vale niente o vale ciò che vale il “valere” in sé: una es-posizione a una misura quando questa misura è soltanto l’altro da ogni misura o la sua infinità in atto (p. 116).

Va da sé che nel concetto di icona oggi dominante è ancora in questione la monovalenza. Tanto nel cristianesimo l’icona è la raffigurazione dell’istante irripetibile dell’Incarnazione, da cui consegue la salvezza del mondo, quanto nel tardo-capitalismo l’icona è l’emblema di un momento esemplare universalmente valido – di un gesto esemplare, come avviene nell’iconizzazione di Rosa Parks – impossibile da ripetere: si può solo venerare. Se un’icona oggi vale è perché, malgrado tutto – malgrado il colore –, si inserisce nella logica della rappresentazione che ha ancora la monovalenza come sua struttura portante. Che anche i neri e l’edificazione della loro storia possano oggi accedere alla rappresentazione nonché alla narrazione, è dato dal fatto che la loro codificazione può accedere alla struttura di un sistema che innanzitutto porta a equivalere in maniera generale la libertà – nel momento in cui si possiede la libertà di vivere dignitosamente all’interno del mercato. Quella libertà che è il nutrimento stesso del mercato.

Perché disfare anche l’icona di Rosa Parks, che apparentemente nulla condivide con l’omologazione della libertà neoliberale? Se il gesto di Rosa è un gesto silente di liberazione di un corpo immobile, e se a partire da quel gesto è possibile edificare una storia di liberazione da un sistema ma in virtù delle logiche di quello stesso sistema, è innanzitutto perché è nell’odierno concetto di icona, che si propaga dal cristianesimo e dall’edificazione di una storia di razzismi e oppressioni, che la libertà è riposta. Ed è attraverso di essa che passa la redenzione della storia, ma a quale prezzo? Al prezzo dell’omologazione e della monovalenza: quell’incarnazione, che come l’Incarnazione, invece di attestare un’assenza, ossia lo svuotamento di una presenza fondatrice, per permettere, in ogni momento, la ripetizione differente dell’istante di rifiuto che solo in quello stesso istante redime e non edifica, continua a perpetrare la logica della monovalenza, ossia il suo valere per se stessa e per tutti, come unica direzione del senso. Identificando se stessa e dando un senso al suo gesto. Parafrasando Deleuze e Guattari, se l’icona è una politica (o un’economia, in quanto organizzazione del potere), lo è anche, e oggi più che mai, il disfare l’icona4. Disfare l’icona, ma disfacendo, con pazienza, gli elementi che hanno permesso l’edificazione della sua storia redentivo-liberale.

Bibliographie

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Notes

1 Come mostra Emily Wilbourne commentando il Ritratto di quattro servitori della corte medicea (1684) di Anton Domenico Gabbani, in occasione della mostra virtuale On being present (voll. I e II). La mostra virtuale, ideata e curata da Justin Randolph Thompson, è dedicata alle figure africane nelle collezioni delle Gallerie degli Uffizi, On Being Present - vol. I | Le Gallerie degli Uffizi. Ringrazio Giuliana Sanò per le preziose indicazioni. Retour au texte

2 Che l’operazione di The Carters di liberazione dei neri dal dominio visuale della whiteness ricada nella stessa logica occidentale che tentano di destituire, laddove il diritto all’immagine è (da loro) ottenuto grazie alla fatica e al duro lavoro, è messo in luce da bell hooks, che riflette intorno al personaggio di fama internazionale Beyoncé non solo in quanto nera, ma in quanto donna nera femminista. In occasione dell’uscita del video del brano ***Flawless, dove il femminismo nero di Beyoncé si rivela come manifestazione del mito della meritocrazia tipico della società americana (cfr. bell hooks - Are You Still a Slave? Liberating the Black Female Body | Eugene Lang College - YouTube; Prins, 2017, pp. 33-34). Retour au texte

3 “Le conclusioni del concilio di Nicea sottolineano come, sul problema dell’immagine, si istaurino significative differenze tra la tradizione occidentale e quella bizantina. Vi è infatti, in primo luogo, e particolarmente significativo per l’estetica, un differente rapporto tra l’immagine e le forme intuitive dello spazio e del tempo: a un’arte ‘narrativa’, caratteristica della tradizione pittorica occidentale, dove lo spazio, la tavola, serve a narrare una storia che si estende temporalmente, si contrappone una considerazione simbolica dell’immagine, che si realizza nella sua capacità di ‘fissare’ l’istante temporale, rendendolo ‘icona’ (eidos, eikos), facendo del tempo dell’istante il rinnovarsi simbolico, attraverso un medium spaziale, del mistero stesso dell’Incarnazione” (Franzini, 2015, p. 355). Retour au texte

4 “Se il viso è una politica, lo è anche il disfare il viso: una politica che impegna i divenire reali, tutto un divenire-clandestino. Disfare il viso è forare il muro del significante, uscire dal buco nero della soggettività” (Deleuze, Guattari, 2017, p. 273). Retour au texte

Citer cet article

Référence électronique

Irene Calabrò, « L’icona e la redenzione », K [En ligne], 7 | 2021, mis en ligne le 01 décembre 2021, consulté le 18 mars 2025. URL : http://www.peren-revues.fr/revue-k/1138

Auteur

Irene Calabrò

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