Résumé

In De Rerum Natura, nature is embodied by events happening. Caused by the unpredictable, incalculable deviation (clinamen) of the atoms’ movement, events happen without reason, meaning and scope. Nature is chance. There is no archè from where things come from and which governs those things. Absolutely contingent, abandoned to the consequences of their encounters, those things go adrift. The sage seeks to develop the theoretical and practical implications of Lucrezio’s doctrine of things.

Texte

De rerum natura: il poema delle res. La poesia dell’accadere, perché le res sono accadimenti. In Lucrezio natura rimanda immediatamente alle res, al loro casuale comparire. Non c’è natura che preceda le res, che si riveli, si dispieghi in esse. Né il poema tratta un aspetto, per quanto essenziale, della natura, perché natura e res sono il medesimo. Natura=le res. E le res sono natura. Scrivere della natura significa scrivere de rebus. La natura non è un principio originario, un soggetto-processo, una fonte inesauribile; coincide con l’assoluta contingenza delle res. La natura non “naturalizza” le res e le res reificano la natura, non perché la riducano a oggetto e così la rendano a portata di mano, manipolabile e governabile, ma nel senso che la fanno coincidere con l’ambito del fortuito, dell’improvviso, dell’incalcolabile1. La natura – vale a dire le res, la fortuna – è ingovernabile. Più precisamente, se c’è un governo, è quello della natura-fortuna: “natura gubernans”, “fortuna gubernans” scrive Lucrezio. Ma se è la natura-fortuna a governare, allora a governare è l’ingovernabile accadere: la forza del clinamen che mette in scacco i governi e le forze che si propongono di governare: “Ora c’è un solo governante, la natura è dunque la fortuna, la fisica è aleatoria. Natura sive fortuna” (Serres, 2000, p. 63). Ma se la natura è fortuna, allora non c’è una natura originaria, non c’è la Natura. Le res non avvengono secondo natura, perché natura è l’avvenire, senza natura presupposta, delle res.

(La convocazione della “fortuna” impone di ricordare quanto il pensiero di Machiavelli, il suo “realismo”, così equivocato, così per lo più semplificato, debba alla lettura e alla trascrizione del De rerum natura e quanto la politica potrebbe ritrovare il giusto rapporto con il “governo” entrando in relazione – anche grazie alla ripresa del poema lucreziano – con le incalcolabili res, con il paradossale governo della fortuna. Da questo punto di vista, Derrida aveva ragione a scrivere che una rivoluzione politica senza rivoluzione poetica del politico non è che mero passaggio di potere. Aggiungerei che nel poema lucreziano l’invenzione poetica è inseparabile da una scienza delle cose. Il poema è teoria delle cose, perché prende il loro “verso”, si scrive secondo il ritmo che le costituisce).

 

Il poema è il testo che nello stesso tempo fa vedere e udire sia il ritmo delle cose, la loro intrinseca testualità, sia l’essere res del verso, del poema: “Anzi, nei miei stessi versi ha somma importanza / con quali altre e in quale disposizione ogni lettera sia disposta […] / Ugualmente accade nei corpi: appena variano gli incontri, / i moti, l’ordine, la posizione, le forme della materia, / anche i corpi stessi devono mutare” (Lucrezio, 1990, II, vv. 1013-1022, pp. 231-232 ).

Nella sua riflessione sull’espressione linguistica della nozione di ritmo, Benveniste ricorda che nell’atomismo di Leucippo e Democrito rythmos equivaleva a schēma, ossia “forma” o “configurazione”. L’esempio di rythmos proposto da Leucippo e dal suo “seguace” Democrito, così come viene riportato da Aristotele nella Metafisica, è la forma delle lettere dell’alfabeto: la differenza di A da N è una differenza di ritmo o configurazione. Ritmo fa dunque riferimento allo spazio e non al tempo. Ritmo è una configurazione nello spazio resa possibile dal clinamen, che grazie al vuoto devia il movimento degli atomi e ne permette l’aggregazione. Inoltre, il ritmo stesso, in quanto configurazione o schema, è attraversato dal vuoto, così che il vuoto si trova localizzato nel ritmo che ha reso possibile. È anche per questa presenza del vuoto nel ritmo che Benveniste precisa: “Quando gli autori greci esprimono ρυθμóς con σχήμα, quando noi lo traduciamo con ‘forma’, si tratta in entrambi i casi di un’approssimazione” (Benveniste, 1971, p. 396). C’è differenza tra rythmos e schēma. Diversamente dallo schēma, che si definisce come una forma fissa, “posta in certo qual modo come un oggetto”, rythmos “designa la forma nell’atto in cui è assunta da ciò che si muove, è mobile, fluido, la forma di ciò che non ha consistenza organica”. Rythmos è una forma “improvvisata”, una “disposizione” che deriva da “una sistemazione sempre soggetta a cambiamento” (ib.). Da questo punto di vista, si potrebbe dire che rythmos è l’accadere senza archetipo della res: una forma improvvisata, che non avviene secondo una misura che la preceda, misura di se stessa aperta però agli incontri con altre improvvisate disposizioni spaziali, così da non valere come misura degli altri ritmi e da alterare – fino alla catastrofe, alla distruzione – la propria misura.

Sarà Platone, ci ricorda Benveniste, a trasformare il ritmo in principio di ordine e di armonia. Lo farà in relazione alla danza, concependo il ritmo come “forma del movimento che il corpo umano compie nella danza”: “questa ‘forma’ è ormai determinata da una ‘misura’ e soggetta a un ordine” (pp. 152-153). Il ritmo assumerà una cadenza temporale, perdendo la sua caratteristica di disposizione spaziale improvvisata, irrituale (uso questo termine pensando alla volontà lucreziana di liberarci dai riti: sacrificali, religiosi, marziali) misura di se stessa, resa possibile dalla dismisura e costitutivamente aperta a essa. A questo riguardo, si tratterebbe di approfondire la relazione tra poesia, ritmo, res e danza, per cogliere gli immensi effetti del passaggio dalla preminenza dello spazio a quella del tempo nella considerazione del ritmo. In ogni caso, in De rerum natura il verso combina le lettere (elementa) secondo il ritmo, la disposizione spaziale, delle res e il ritmo delle res secondo la disposizione delle lettere. La res è un testo, tessitura di atomi; il testo un insieme di res, di ritmi. Il poema mostra la ratio delle res con la combinazione dei significanti, delle lettere e del loro suono. È la disposizione dei significanti a illuminare la struttura delle res: “[…] è tuttavia necessario ammettere che i versi / e le parole si differenziano per significato (re) e per timbro di suono. / Tanto possono le lettere, solo a mutarne l’ordine” (Lucrezio, 1990, I, vv. 825-827, p. 135)2. Ed è proprio questa reciproca illuminazione poetica di res, verba e versus che può consentire a Lucrezio di adempiere il compito lasciato in eredità da Epicuro: farla finita con il giudizio degli dei, con la religione, con la paura della morte. Res e verba sono accadimenti, effetti del clinamen, di una declinazione senza senso e ragione. Il darsi del senso – l’istituirsi di una ratio, di una regolarità – di res e verba è un evento insensato. La causa delle res non è una cosa; la causa delle parole e della loro grammatica è agrammaticale. Le parole non comunicano il Senso: producono senso, regolarità, codice, ma sono in grado anche di farlo sbandare o collassare, di testimoniare il vuoto che lo attraversa e il non senso che ne è all’origine. Le lettere non si compongono secondo un ordine eterno, non sono mezzi di comunicazione di un significato originario. Piuttosto, significato e senso sono l’effetto dell’aleatoria combinazione delle lettere. Il poema scrive questa verità, perché proprio dove il Senso manca, si apre la possibilità della verità: gli dei non ci giudicano e non ci giudicheranno, perché la lingua non è espressione del dominio di potenze superiori e il giudizio, per quanto possa prendere il sopravvento, è un caso della lingua, non ciò che la inaugura e la indirizza. E poi l’anima è res, destinata a dissolversi, a sottrarsi alla presa di qualsiasi giudizio e punizione eterni. Se c’è giudizio e punizione, è ora e qui, quando immaginiamo un eterno giudizio e un’eterna punizione, quando, ora e qui, usiamo la lingua per condannare, istituire il rito del sacrificio, tormentare, attuare la punizione. La responsabilità del poeta è grande. Il poema deve ricordare alla lingua, nella lingua, la declinazione minima, non codificata, il clinamen, che inaugura le sue codificate declinazioni:

Non cessano di stupire, per vistosità e normatività, le accelerazioni espressive e i turbamenti linguistici (anacoluto, asindeto, elisioni aspre, iati, concorrenze e oscillazioni morfologiche, ellissi, prolessi, inversioni, collusioni di fonemi e di segmenti verbali omofoni e rimanti, formazioni nuove, hapax violenti), i quali tuttavia, anziché disperdersi in una sorta di dadaismo originario o impazzire nel gioco retorico, concorrono alla simmetria e alla regolarità del verso (Dionigi, 2005, p. 12).

Sullo sfondo della notte atomica – che venga pensata come nuvola atomica o pioggia di atomi che si muovono verticalmente e parallelamente senza mai incontrarsi – il comparire delle res è una vera e propria apparizione. Come ha scritto Michel Serres: “Lucrezio descrive due caos: il caos-acquario, scorrimento laminare degli elementi, flusso parallelo nel vuoto, che traccia come uno spazio a fibre; il caos-nuvola, massa disordinata, fluttuante, browniana, di dissimilitudini e di opposizioni” (Serres, 2000, p. 39). Ora, che la notte atomica originaria, la notte assoluta che precede la stessa distinzione tra luce e tenebra, sia pensata come nuvola di atomi disseminati, sconnessi – riferimento al tempo della prevalenza dell’odio come insegna il poema di Empedocle?3– o pioggia, cateratta, di atomi, nulla toglie al fatto che solo l’accadere di un improvviso, imprevedibile, senza causa e ragione, minimo scarto del movimento primordiale degli atomi può dar conto della nascita delle res.

Portando alle estreme conseguenze la teoria del clinamen, è possibile pensare l’intero ambito dell’apparire, che coincide con il comparire delle res, come un’apparizione. La teoria del clinamen consente di mettere in questione la contrapposizione tra apparizione e apparire, vale a dire la considerazione dell’apparizione come ciò che contesta il regime dell’apparire. Il clinamen rende pensabile l’apparire stesso – con la sua regolarità, isononomia, con i “termini”, come scrive Lucrezio, assegnati alle res – come un insieme di apparizioni, di lampi che fanno riaccadere le cose e la loro stabilità. Apparizioni che non contestano necessariamente il regime dell’apparire, ma lo rendono inconsistente, una possibilità, al punto tale da rendere pensabile non solo l’accadere di un’altra ratio, un’altra logica dell’apparire, ma addirittura la scomparsa non di questa o quella res, o di qualcuno degli infiniti mondi delle res, ma lo scomparire dell’apparire in quanto tale e delle sue leggi, con il ritorno alla notte assoluta degli atomi e del vuoto in cui nulla appare. Pensare questa possibilità significa non limitarsi a pensare, come capita in De rerum natura, l’essere assoluto – l’infinita molteplicità degli atomi che precede l’accadere di res e mondi – privo di res, anche di quell’apparizione-res che è il pensiero (animus, mens, nel lessico di Lucrezio); significa spingersi a pensare la possibilità dell’accadere, sullo sfondo dell’essere assoluto, di mondi senza pensiero, di un apparire senza pensiero che lo pensi; significa inoltre estendere i confini del pensabile fino alla possibilità che non solo Atene sia distrutta e scompaia, ma che a crollare sia l’apparire in quanto tale. Al riguardo conviene citare quanto ha scritto Quentin Meillassoux:

Ogni materialismo che pretendesse d’essere speculativo – che assumesse quindi un certo tipo di entità senza pensiero come realtà assoluta – deve consistere sia nell’affermare che il pensiero non è necessario (qualcosa può essere anche senza il pensiero), sia che il pensiero può pensare ciò che deve esserci quando il pensiero non vi è (Meillassoux, 2017, p. 52).

L’epicureismo è per Meillassoux il “paradigma di ogni materialismo”, perché pretende che atomi e vuoti non siano necessariamente “correlati” a un atto del pensiero, dato che il pensiero esiste solo grazie a composti atomici contingenti. Il materialismo pensa ciò che c’è quando il pensiero non c’è. De rerum natura pensa esplicitamente la separazione tra essere (senza res) e pensiero (res tra res), pensa la non necessità del pensiero. Ma apre, a mio avviso, anche la possibilità di pensare mondi senza la res-pensiero e finanche la possibilità della scomparsa dell’apparire, delle res. Lucrezio non sembra spingersi fino a questo punto; giunge a pensare la fine di uno o più mondi, ma non la possibilità della fine dei mondi, perché per lui i mondi sono infiniti, non costituiscono un tutto, e non è concepibile la fine dell’infinito. Né riesce a pensare la non necessità dell’esistenza degli atomi.

D’altra parte, i mondi esistono grazie al clinamen, alla minima imprevedibile deviazione del flusso parallelo degli atomi che si manifesta “incerto tempore” e “incertis locis”. Si tratta di comprendere se l’incertezza riguardi solo il tempo e il luogo dell’accadere del clinamen o se abbia a che fare con l’accadere stesso della deviazione; vale a dire se sia pensabile la possibilità del non accadere della differenza minima che fa nascere le res. Il clinamen è eternamente causa dell’apparire, per quanto dislocato nel tempo e nello spazio? Si può contare sul suo avvenire, essere certi che in un incerto tempo e luogo ci sarà comunque nascita di res e mondi, ci sarà natura, così che la distruzione di uno o più mondi non significherà la fine dei mondi o l’avvento del tempo della loro infinita fine, così che Venere non la darà vinta a Marte, alla morte, che la disgregazione irrimediabile delle res e dei mondi sarà compensata dall’aver luogo di nuove apparizioni, dell’apparire? È stato e sarà così per sempre? Per Deleuze, ad esempio, il clinamen è “da sempre presente”:

Il clinamen, o declinazione, non ha nulla a che vedere con il movimento obliquo che verrebbe per caso a modificare una caduta verticale. Esso è da sempre presente: non è un movimento secondo, né una seconda determinazione del movimento che si produrrebbe in un momento qualunque, in un punto qualunque (Deleuze, 1984, p. 237).

Se così fosse, bisognerebbe però concludere che il clinamen non è un evento, ma una deviazione che appartiene all’essere eterno: un gesto dell’essere e non un gesto che accade all’essere. Il clinamen, compreso nell’essere, sarebbe dell’essere, in continuità con l’essere e non causa di sé, ossia differenza assoluta, scarto, separazione, lacerazione. Per Deleuze, infatti, il clinamen appartiene all’eterno movimento dell’atomo: “Il clinamen è la determinazione originaria della direzione del movimento dell’atomo. È una sorta di conatus […]. Perciò il clinamen non manifesta nessuna contingenza, nessuna indeterminazione” (ib.).

Credo invece che il clinamen renda pensabile la scomparsa dell’apparire, la possibilità dell’imporsi della notte assoluta, degli atomi sconnessi in movimento e del vuoto, vale a dire dell’essere a-cosale in cui non si dà alcuna apparizione. Ma questa notte potrebbe nuovamente – nulla lo assicura, nulla lo esclude a priori – essere lacerata, turbata, squilibrata da un’imprevedibile deviazione del movimento atomico capace di dare ancora una volta nascita all’apparire. Non c’è ragione necessaria né che finisca per dominare la notte assoluta né che permanga l’apparire delle cose né che l’apparire mantenga la sua ratio o se ne dia un’altra. Non si può fare affidamento su nessun tempo ciclico. Non c’è alcuna necessità che ordini il tempo. Solo la contingenza è necessaria: “La contingenza è tale che tutto può prodursi, perfino che non si verifichi nulla e tutto resti com’è attualmente” (Meillassoux, 2017, p. 82). Questa necessità destituisce la necessità di tutte le cose.

 

Res tra res, la res-poema è l’accadere di una scrittura, “lucida carmina”, che porta alla luce, chiarisce, che la natura delle res è l’avvenire di una molteplicità infinita di imprevedibili composizioni di atomi e vuoto abbandonate al reciproco gioco dei contatti, dei colpi più o meno violenti e frequenti, delle rigenerazioni e disgregazioni, ma anche agli urti di atomi vaganti che non si compongono in res. Tutte le res, anche quelle che paiono particolarmente solide, sono destinate ad essere incessantemente colpite, penetrate, alterate. Sono destinate agli effetti – destituenti o ricostituenti la loro textura, oppure semplicemente causa di questa o quella eventuale qualità – degli incontri con altre texturae o con i flussi atomici senza configurazione. Non esistono contatti naturali o innaturali, ma solo contingenze: un con-tangersi, un con-toccarsi. Non esistono res sottratte al contatto. (La stessa atarassia non può essere pensata come liberazione dal contatto, ma come un modo di abitare i contatti con il minimo turbamento, quel minimo squilibrio che è all’origine dell’apparire e verso cui si volge ogni res in quanto vortice, movimento a spirale. Da questo punto di vista, l’atarassia asseconda la torsione, il movimento con cui la res si ri-volge verso quella minima differenza che è causa della sua nascita e che la inaugura come quella res distinta che è. Etica è la condotta che si mantiene fedele alla differenza minima causa dell’apparire. Etica: mantenersi in statu nascendi).

La traduzione di res con cosa riesce a far risuonare la res come colpo, spinta. Cosa deriva dal latino causa e causa va connessa al verbo cudere: battere, colpire, spingere, produrre colpendo. In effetti, come mostra il poema, le res – congiunzioni, “coiti”, “concilia” di atomi – si colpiscono reciprocamente, producendo ora la loro rigenerazione-riproduzione, con l’apporto di flussi di atomi che sostituiscono le perdite atomiche, ora la loro dissoluzione con la violenza dei colpi o semplicemente con la ripetizione degli urti nel tempo. I contatti reintegrano e dissolvono. Le cose, di volta in volta, si accudiscono. Il reciproco accudimento va inteso ricordando il significato del verbo latino recutere: respingere indietro. L’accudimento è un colpire che fa indietreggiare. Nell’accudire risuona l’urto del contatto. La reciproca involontaria assistenza, cura e reintegrazione delle cose sono possibili effetti del colpo e della spinta portata e ricevuta, ma l’accudimento può produrre anche la disgregazione degli aggregati-cose. Se poi si segue l’ipotesi che “cosa” vada messa in relazione con càdere, da cui casum, risuona il carattere di accadimento delle cose: cosa è tutto ciò che capita, che cade, che declina, grazie alla deviazione che ne è causa. Cosa non è ciò che è, ma ciò che accade.

Essere cosa è essere nell’abbandono, alla deriva. La cosa lo è originariamente, sin dal suo accadere. Essere nell’abbandono non significa che le cose siano state bandite, espulse da un luogo in cui si trovavano raccolte, unite, confuse, né che lo abbiano abbandonato. Le cose non c’erano prima di esserci. Non c’è un’archè da cui provengano, che le sorregga e le domini – archè, giova ricordarlo, significa nello stesso tempo principio-origine e dominio-potere – così da abbracciarle e farne un tutto. Non c’è un imperium che si eserciti su di loro, una temporalità che ne scandisca l’apparire e lo scomparire. Non c’è un Nous che ordini i coiti tra gli atomi, che, come scrive Nietzsche in relazione ad Anassagora (Nietzsche, 1990, p. 342), indirizzi “saggiamente” il movimento che fa sorgere il mondo. Né le cose si sono separate ingiustamente da un “grembo materno”, per usare ancora un’espressione di Nietzsche, che le conteneva inseparate. La singola cosa non espia l’ingiustizia della separazione ritornando nel grembo grazie all’azione del suo contrario che la sloggia dall’ambito dell’apparire e la riconduce al grembo “secondo l’ordine del tempo” (Anassimandro). Nel poema di Lucrezio le cose non commettono ingiustizia nascendo, non hanno colpe da espiare, non sono nello stesso tempo giudicanti il proprio contrario e giudicate da esso, né fanno ritorno in alcuna archè. Le cose non fanno ritorno: abbandonate le une alle altre e al vagare di atomi slegati, si torcono in turbini e spirali destinate alla dissoluzione. Piuttosto, le cose, in quanto movimenti vorticosi, si volgono all’indietro, non verso un grembo ma verso il proprio inizio, verso quell’atto del prender forma che abbiamo chiamato “ritmo”. Le cose non sono sostanze o sostrati. La loro forma è una ripetizione, una ripresa di forma. Ma il ritorno a sé non consente alla cosa di coincidere con sé: il movimento turbinoso che la costituisce la disloca in sé, anche se la velocità del moto non rende percepibile la sua incessante intima dislocazione.

La cosa è abbandonata agli incontri con le altre cose e con gli atomi erranti nel vuoto. Quel vuoto che rende possibili, circonda e buca le cose, al punto tale che la loro solidità è solo apparente. Tranne gli atomi indistruttibili, davvero solidi, le cose sono in definitiva inconsistenti: più o meno resistenti, a secondo della compattezza della trama atomica che le compone, ma mai davvero solide, impenetrabili, invincibili. Come ha mostrato Michel Serres, la natura di Lucrezio, e degli epicurei, è una fisica dei fluidi, secondo la lezione di Archimede. Una meccanica dei flussi, dei flutti, dei vortici che destituisce il primato dei solidi nella configurazione del cosmo. Una fisica dei flussi è anche una fisica degli scarti, delle deviazioni, torsioni, inclinazioni, oscillazioni, vibrazioni. Non è difficile capire quanto il De rerum natura abbia colpito e ispirato i filosofi della Vita. Ma il poema delle cose è identificabile con una poesia della Vita? La poesia delle cose e la poesia della Vita sono la medesima cosa? Non conduce la poesia delle cose a pensare l’atomo senza intelligenza e vita?

 

Abbandonate, alla deriva, a loro volta le cose sono fonte di abbandono, abbandonano alla deriva. Le cose, in quanto vortici, non solo non coincidono con se stesse anche quando appaiono stabili, ma eccedono anche il movimento a spirale che le costituisce e le tiene in forma; emettono incessantemente tenui simulacri di sé: “[…] esistono quelli che chiamiamo i simulacri dei corpi (rerum); / questi, come membrane staccate dalla superficie delle cose, / vanno volteggiando qua e là per l’aria” (Lucrezio, 1990, IV, vv. 30-33, p. 333). Le cose irradiano, lanciano, ininterrottamente tenui effigi e figure di sé. Se le cose non sono emanazioni, espressioni, invii o doni dell’essere, sono però esse stesse in stato di continua emanazione, di incessante invio. Le emissioni-emanazioni-getti di simulacri rappresentano delle perdite atomiche irreversibili. Non c’è ritorno di ciò che è stato emanato, gettato. Le cose sono continuamente in perdita, in incessante impercettibile rovinio sin dalla loro aurora, perché le perdite – causate sia dagli urti degli atomi dispersi e delle cose, sia dall’emissione dei simulacri – superano gli acquisti di atomi. C’è una rovina della cosa prodotta da cause esterne e c’è un rovinio di cui la cosa stessa è causa. La cosa riceve meno di quel che offre. La cosa non si conserva: si eccede impercettibilmente. Ma è grazie a queste perdite, dissipazioni, derive, invii senza scopo e destinazione, in tutte le direzioni, che le cose finiscono con il comunicare. È il dispendio a rendere possibile la comunicazione. Le cose sono case in via di effusione, le cui mura bucate effondono il simulacro delle loro superficie nello spazio. Ma anche gli interni si effondono verso la superficie esterna, con tragitti più difficoltosi e più lentamente. La cosa è una casa che lancia impercettibilmente e ad altissima velocità la sua effigie nello spazio. La cosa è una casa che vibra, un emittente.

 

Il poema illumina le cose e questa illuminazione non è senza conseguenze. Non vale per Lucrezio, ed Epicuro, ciò che scrive Heidegger: “con la domanda ‘che è una cosa?’ non si può intraprendere nulla. Così è. Con questa domanda non si può far niente” (Heidegger, 1989, p. 40). È l’illuminazione della cosalità che per Lucrezio consente di liberare dal terrore, dall’angoscia straziante della morte, dalla interpretazione dei fenomeni distruttivi come segni di potenze superiori, che giudicano e condannano: “Queste tenebre, dunque, e questo terrore dell’animo, / occorre che non i raggi del sole né dardi lucenti del giorno / disperdano, bensì la realtà naturale e la scienza (naturae species ratioque)” (Lucrezio, 1990, I, vv. 146-148, p. 85). Ma per dissipare le tenebre, è necessario che il poema illumini l’oscurità in quanto tale, renda chiaro che c’è un’oscurità in sé serrata, che non si schiude, la notte assoluta degli atomi, della infinita eterna molteplicità e del vuoto, che precede la distinzione tra luce e tenebre: l’oscurità che non anela alla luce, alla vita, alle cose. Non è giusto, infatti, dire che le cose vengono alla luce, perché la luce viene con le cose, come cosa. E solo l’avvento della luce consente di pensare il nero assoluto che precede le cose e di pensarlo come una pioggia di atomi e vuoto impercettibili. Ad atomi e vuoto non c’è accesso, se non grazie alle cose, che portano luce e pensiero. D’altra parte, è sullo sfondo dell’assoluta oscurità che le cose appaiono come accadimenti e il clinamen come una declinazione che avviene senza causa e ragione: un turbamento, uno squilibrio che non proviene dalla notte ma vi avviene.

Le tenebre possono essere dissipate, il terrore placato, dalla messa in chiaro dell’oscurità assoluta che precede le cose, così che queste non sono pre-giudicate da nessuna forza, da nessuna fatalità, ma destinate alla deriva, agli effetti non scritti dei reciproci incontri. Il nero assoluto fa risplendere le cose come apparizioni assolute. Mai state in potenza, le cose nulla realizzano, nulla attualizzano. Ci sono, ma non ci sono ragioni per la loro esistenza e per il loro essere così come sono. De rerum natura denaturalizza le cose e così le pensa assolutamente contingenti. Più radicalmente, apre alla possibilità, come già detto, di pensare come non necessaria non solo la loro esistenza, ma la stessa legalità che le regola e che potrebbe sopravvivere alla loro scomparsa. Non c’è nessuna ragione della ratio delle cose.

Da dove proviene allora il clinamen grazie al quale accadono le cose? Non si può che pensarlo proveniente dal nulla. E pensarlo incorporeo come il vuoto. Ma Lucrezio scrive e ripete “[…] ho dimostrato che le cose non possono nascere dal nulla, né ugualmente una volta generate dissolversi nel nulla” (v. 265). Certo, senza gli indistruttibili atomi, gli elementi primordiali, le cose non potrebbero esistere e la loro dissoluzione non può distruggere gli elementi di cui sono composte, ma da dove la deviazione minima del movimento degli atomi che li aggrega, il gesto che li configura, li ritma? Non è pensabile che provenga dal movimento dei “corpora prima”, né dal vuoto. Estraneo all’essere e al vuoto, il clinamen giunge dal nulla, senza alcuna relazione con ciò che è, incorporeo come il vuoto che gli lascia spazio, a squilibrare, deviare il movimento degli esseri eterni. Il poema delle cose non solo evoca ciò che non è cosa – atomi, vuoto e clinamen, che dunque fanno inevitabilmente parte di una scienza materialista – ma spinge a pensare, diversamente dagli stoici4, l’incorporeo e l’irrelato, l’evento, come causa dell’accadere delle cose e delle loro relazioni.

La poesia delle cose ci chiama oggi a slegarci dal ritorno del religioso, dalla ideologia della necessità di ciò che c’è, dall’appello a tornare alla Natura o aderire alla sua uniformità per divenire saggi, dalla filosofia del primato del corpo e della relazione: tutto sarebbe da sempre necessariamente connesso e in continuo divenire, in incessante trasformazione… La poesia delle cose ci spinge in un’altra direzione – che comporta anche la necessità di forzare i limiti (metafisici?) della teoria lucreziana –, quella della assoluta contingenza di ciò che esiste, così da trarre le conseguenze pratico-teoriche della impossibilità di esistenze necessarie, ossia della necessità che ogni esistente possa non esistere e l’inesistente possa venire all’esistenza, che l’esistenza stessa, al di là di questo o quell’esistente, possa collassare. La poesia delle cose ci spinge anche in direzione dell’incorporeo, del clinamen, della deviazione minima, come causa senza ragione delle cose e della stessa ragione, in direzione dell’irrelato come causa delle relazioni, così da pensare le relazioni come effetto di un gesto puro, sconnesso. È in questa direzione che si tratterà di incontrare nuovi amici o far ringiovanire vecchie amicizie.

Bibliographie

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Dionigi, I., 2005, Lucrezio. Le parole e le cose, Bologna, Pàtron Editore.

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Notes

1 Sugli effetti “naturalizzanti” del discorso sulla natura cfr. Latour, 2000. Retour au texte

2 Sul rapporto tra parole e cose in Lucrezio cfr. Dionigi, 2005. Retour au texte

3 Sul rapporto tra Lucrezio e i presocratici cfr. Piazzi, 2005. Retour au texte

4 Sulla teoria degli incorporei negli stoici cfr. Bréhier, 2020. Retour au texte

Citer cet article

Référence électronique

Maurizio Zanardi, « La poesia delle cose », K [En ligne], 6 | 2021, mis en ligne le 01 juin 2021, consulté le 18 mars 2025. URL : http://www.peren-revues.fr/revue-k/1171

Auteur

Maurizio Zanardi

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