Résumé

The contribution proposes to identify in the image Jane Avrìl that of an absolute dance, capable of definitively breaking with the textual and dramatic order that configures dance as a device of glorification of power, of affirmation of the symbolic order of the body. A survivor of catastrophe – of the collapse of the Other – Jane embodies the blindness of a dance exposed to risk, the writing of an absence that dismisses any archetypal totality. Her dance comes to subjectify in an unprecedented way its own de-subjectification, to the point of opposing to any order its own pure and absolute presentation.

Index

Keywords

Dance, death, writing, blindness, anarchy

Texte

Se dovevo morire sarebbe successo danzando
Jane Avril

Nel quadro di Toulouse-Lautrec che raffigura Jane Avril che entra nel Moulin Rouge la figura femminile si presenta in primo piano con un volto esangue, rigido, come scolpito nella pietra, gelido. L’occhio destro è sul punto di chiudersi completamente, accecarsi, come se la palpebra fosse vinta dalla forza di gravità o la assecondasse, incapace di resistere alla caduta che sta per serrarla. Nel dettaglio della palpebra si intensifica l’inclinazione verso il basso che percorre il volto, la sua “gravità”, serietà. Un’inclinazione, una pendenza accentuata anche dalla mano destra guantata. Nulla nella figura sembra sfuggire a questa forza di gravità-serietà che la destina alla declinazione, a un clinamen, un ac-cadere. Così come destinato all’oscurità pare l’occhio destro, che è sul punto di chiudersi: ancora una minima declinazione e sarà buio.

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Certa danza moderna non procede esplicitamente a tentoni, a tastoni, nella notte? Non è l’essere all’opera di una cieca, un cieco, che rinunciano all’anticipazione visiva, affinché un altro sguardo, un altro occhio si apra sul piede, sugli arti, sulle membra in qualche modo smembrate – “arealità” la definisce Jean-Luc Nancy (Cfr. Nancy, 2014) – da quell’intero immaginario che chiamiamo corpo? Non sono la danzatrice, il danzatore – in questa danza moderna – privi di appoggi in un modello, schemi e pose stabilite, archetipi, ideali, in poteri sovrani e pratiche di governo che ne guidino, ne anticipino il passo, per evitare il rischio del caso, della improvvisa insensata deviazione, della caduta, dell’incidente che interrompe il corso delle cose e trasgredisce le leggi della natura? Per evitare il rischio del “non governabile1”?

Se la danza è una scrittura dello spazio, un atto grafico, allora quel che Derrida scrive sull’atto del disegnare, sulla cecità del disegnatore – per cui nel disegnare figure di ciechi i disegnatori disegnerebbero il proprio autoritratto o, più precisamente, disegnerebbero la cecità del gesto che disegna (Cfr. Derrida, 2015) –, si può affermare anche di quella danza moderna che giunge a pensarsi e volersi cieca, bendata, anche quando danza ad occhi ben aperti. Si tratta infatti di occhi che sono aperti a ciò che non possono pre-vedere. Aperti alla propria cecità e in cerca, inevitabilmente a tentoni, dell’imprevedibile, del non pre-scritto, di ciò che resta illeggibile per quella attività del “cervello” che Artaud definisce “ideazione preventiva” e che procede secondo “tavole formali scritte”. È “in funzione” di questa ideazione che sono stati legati, per dirla con Artaud, “il senso il pensiero”. La danza assoluta – che in quanto tale non ha nulla al di sopra di sé, nessun Altro, proprio perché si tiene in relazione con il nulla – slega la sua scrittura, il tratto tracciante, il ritmo, dalle “tavole formali scritte”. Non è un caso che Artaud in una delle ultime composizioni scritte per Pour en finir avec le jugement de dieu faccia del teatro, il teatro che ancora non esiste, una “conseguenza” della danza inesistente: “Se esistono la peste, / il colera, / il vaiolo nero / è solo perché la danza / e di conseguenza il teatro / non hanno ancora cominciato ad esistere” (Cfr. De Marinis, 2006, p. 141). Un teatro in cui il gesto sia “semplicemente un percorso” e l’uomo “soltanto un punto” non può che avere come precedente una danza – che ancora non esiste – senza principio guida, anarchica, acosmica, illegale.

In verità, la danza aveva già tentato di rendersi autonoma dall’ideazione preventiva, ossia dalla teatralità drammatica, dalla preminenza del testo verbale e della narrazione. Forse, la danza inesistente di cui scrive Artaud aveva già fugacemente cominciato a esistere in Francia nel ’600, come sostiene Mark Franko. Sottraendosi alle “tavole formali scritte”, quella danza aveva dischiuso la possibilità una scrittura spaziale, di una testualità altra, anche di quel teatro altro invocato, gridato, da Artaud. Da questo punto di vista, l’inesistenza della danza e del teatro in grado di debellare “peste”, “colera” e “vaiolo” sarebbe pensabile e desiderabile anche grazie all’accadimento, presto neutralizzato, di inedite coreografie nella Francia del ’600. Nello stesso tempo, sarebbe proprio certa danza moderna e le teorizzazioni di Artaud2 a rendere possibile la scoperta, l’invenzione di un passato carico di avvenire, perché quel passato, il balletto burlesco, era stato a sua volta l’accadere di una danza inesistente, impensabile secondo le forme del balletto di corte. La danza inesistente non può avere che nell’avvenire la sua tradizione. Ma la tradizione dell’avvenire è l’interruzione della tradizione.

Nell’illuminante Danza come testo. Ideologie del corpo barocco, Mark Franko fa risalire gli albori della danza assoluta alla breve fase “burlesca” (1620-1636) del balletto di corte francese:

Certa danza moderna americana, tedesca e francese (per esempio Martha Graham, Mary Wigman e Valentine de Saint-Point), nonché le incursioni teatrali del corpo ad essa connesse – viene in mente Artaud, in particolare – affondano le loro radici ideologiche nell’antica danza francese. Intendo mostrare che le basi dell’autonomia coreografica e teatrale come motivo modernista multiforme sono state poste in Francia nella cultura barocca. Il balletto di corte francese è stato, per un periodo, più sperimentale e provocatorio di quanto venga riconosciuto. Suggerisco una radicale rilettura della storia della danza dell’epoca barocca e quindi del modernismo coreutico del Novecento come strada a senso unico che dagli Stati Uniti va in Francia. (Franko, 2009, p. 41)

Franko mostra come la coreografia del balletto burlesco abbia tentato di emancipare la coreografia dall’asservimento al modello testuale alfabetico e agli imperativi della narrazione che confinavano le parti danzate negli intervalli del balletto di corte. Balletto che consisteva, conviene ricordarlo, in una sorta di opera d’arte totale: “miscela potenzialmente caotica di musica, scenografia, costumi, attrezzi e declamazioni, di libretti distribuiti al pubblico e della partecipazione attiva di quest’ultimo, come pure di danza, recitazione, improvvisazione, mimo e maschera” (p. 25). Balletto, dunque, era nello stesso tempo il nome di un insieme e di un suo elemento, la danza, con funzioni di intermezzo o interludio. Questo dispositivo da una parte rendeva la danza un mezzo in vista dei fini politici del balletto di corte, vale a dire encomio, glorificazione del re e, finalità ancora più rilevante, produzione di armonia tra le parti della nazione, più precisamente tra le opposte fazioni in lotta dei cattolici e dei protestanti; dall’altra, in quanto intermezzo, il balletto di corte lasciava alla danza una zona d’azione indeterminata, senza figura prescritta, per quanto destinata alla produzione di figure. Non c’erano istruzioni per il movimento con cui danzatori avevano da istituire e comporre le figure, operare la transizione da una figura all’altra. Le figure si stagliavano grazie a movimenti senza figura: la figura, e dunque la composizione visiva di un significato leggibile dagli spettatori, era a tal punto lo scopo della coreografia da lasciare senza pre-scrizioni il pur decisivo, ma inavvertito, movimento di composizione.

La figura, la “posa”, prevaleva sul movimento che la istituiva, la scioglieva e la faceva transitare in altre pose. Il movimento era al servizio delle figure, della loro sequenza che costituiva frasi e discorsi, o semplicemente del nome del re, di cui veniva talvolta fatto lo spelling in scena con i corpi dei danzatori utilizzati come lettere: “Vedendo in un gruppo di danzatori un alfabeto animato, e nei corpi danzanti lettere alfabetiche, lo spettatore può riassemblare le sequenze in parole e le parole in frasi” (p. 57). Se la coreografia presentava “i corpi come metafore fisiche di caratteri scritti, ovvero come disegni simbolici” (p. 54), era inevitabile che la staticità delle figure, la loro “postura eretta” assorbisse l’attenzione del danzatore e dello spettatore come materia prima e scopo del movimento: era la quiete della figura, la “posa”, a consentire la leggibilità della coreografia. La danza era assimilabile, secondo i dettami della danza geometrica, ad un un’azione retorica: passaggio sensato, produttore di significato e immagini di armonia, da una figura all’altra. Dalla danza ci si attendeva la scrittura del messaggio, del paralizzante testo dell’Altro e ci si disponeva alla realizzazione del suo godimento.

Il balletto burlesco, invenzione della critica nobiliare nei confronti del sovrano, si adopera invece a separare la danza dall’insieme del balletto di corte, a farne una parte a sé che, a partire da sé, riscrive – dissestandolo, sfigurandolo, lacerandolo come uno sberleffo – l’insieme in cui era inserita. Proprio la collocazione della danza come intermezzo o interludio privo di figura consente il tentativo di liberarla dal modello testuale su cui si basava il teatro tradizionale, di scioglierla dalle forme simboliche, di farne una parte non organica alla glorificazione del monarca, al suo godimento, alla effusione di armonia tra i discordi, alla formazione dello spettatore come “soggettività malleabile e iper-ricettiva”: “La storia della danza mostra una correlazione impressionante tra resistenza politica da un lato e dall’altro lato libertà del corpo rispetto al testo del balletto, ovvero il suo ironico rapporto con esso. La lotta coreografica ingaggiata tra danza e testo nel burlesco rivela come il testo sia una metafora del potere assoluto” (p. 35). Facendo parte a sé, e così prefigurando la danza assoluta, la danza nel balletto burlesco si sottrae al potere assoluto (la decostruzione del potere assoluto comporta la moltiplicazione degli assoluti?).

Fare parte a sé, svincolarsi dal testo come Legge, scrivere “un poema” spaziale “libero dall’apparecchio di scriba” (Mallarmé) comporta per la danza la cesura nei confronti del dominio delle “pose” come provenienza e scopo dei gesti dei danzatori, la valorizzazione dell’assenza di figuralità del movimento che realizzava la formazione e metamorfosi delle figure come scrittura di un significato e di una disposizione da interiorizzare e riprodurre da parte dei danzatori e dello spettatore. L’unità strutturale del balletto burlesco non è la posa ma l’entrée: una semplice presentazione, un’apparizione senza giustificazione narrativa: “Sviluppando le possibilità di movimento e moltiplicando le entrées, l’immagine scenica si anima, pur senza sviluppo drammatico” (p. 128). La ricerca dell’autonomia coreografica, di una misura stabilita solo dai suoi atti – è la sua follia – conduce alla moltiplicazione frammentaria delle entrées, della loro enigmatica fugacità, alla interruzione della linearità discorsiva, all’eliminazione del soggetto dell’azione drammatica. Anche il corpo dei danzatori viene frammentato, distorto, fino alla disintegrazione del corpo naturale:

La figura danzante si rende autonoma dal corpo “naturale” in un progetto il cui risultato artistico non è appesantito da presupposti psicologici relativi all’agire umano resi in una dimensione narrativa. Alcuni costumi riducono il corpo a un unico lineamento anatomico, come un’enorme testa, o un paio di gambe che camminano senza tronco (ib.).

Cominciando a far parte a sé, slegandosi dalla manipolazione “lessico organica” del monarca e delle forme simboliche, la danza diviene il soggetto di sé stessa, può rivolgersi innanzitutto a sé, pensarsi nel suo tracciato senza somiglianza e godere della molteplicità frantumata e interrotta dei gesti, delle entrées, dei costumi, travestimenti e lacerazione dei corpi danzanti. Godimento di una parte che si slega, smette di mediare, funzionare.

 

Con la rinuncia alla guida-comando delle forme-schemi già scritte, già viste, la danza assoluta conta sull’“invisto”, scrive lo spazio, coreografa, procedendo nella notte e grazie ad essa. Si avventura senza garanzie di successo. Come l’uomo dagli occhi bendati disegnato da Antoine Coypel nell’allegoria de L’errore, la danza avanza bendata, con le mani in avanti per proteggersi sì dall’invisibile, dal cattivo incontro che può venirne, ma anche protendendosi verso il pericolo: il tocco, il caso dell’invisibile. Toccare il tocco dell’invisibile, ossia lasciarsi toccare da un tocco che resta imprevedibile e perciò intensamente toccante. La danza assoluta, se ce n’è, fa la sua “entrata” bendata. Come l’uomo di Coypel, la danza vuole avanzare alla cieca, vuole errare per favorire l’incontro con l’ignota alterità, con l’altro dall’Altro: “È come se il soggetto dell’errore consentisse a quel che così gli benda gli occhi, come se gioisse della sua sofferenza, a rischio della caduta, come se giocasse a cercar l’altro nel corso di un sublime e mortale mosca cieca” (Derrida, 2015, pp. 23-27).

Un tale avanzare alla cieca non ha alcuna somiglianza, nota giustamente Derrida, con la cecità dei prigionieri incatenati nella caverna della Repubblica di Platone: questi se ne stanno immobili, non “protendono mai le mani verso l’ombra (skia) o verso la luce (phos)”, non si avventurano a proprio rischio e pericolo, si intrattengono tra di loro, con gli occhi chiusi – senza saperlo – alle idee, al sapere. Ma chi si è fatto volutamente cieco all’ideazione preventiva, chi si è bendato, lo ha fatto alla presenza delle idee, del sapere. Si è bendato, ha obliato il sapere di cui è in possesso, in vista dell’invisibile, dell’ignoto, di ciò di cui idea non c’è, affinché sia proprio il tocco dell’invisibile a consentirgli di “fare l’idea” (Artaud). In questo senso, la danza assoluta è danza che si vuole cieca3. Ed è proprio la sua cecità a “rendere alla vista” – della danzatrice e del danzatore, ma anche di chi li vede danzare – l’invisibile. Rendere alla vista non significa scrivere o dissolvere l’invisibile, ma mostrare nello stesso tempo, nell’atto stesso del danzare, la cecità di chi danza e il fatto che è l’“invisto” a rendere possibile una scrittura dello spazio non governata da archetipi, modelli, neanche dal sapere della danza, dalla sua trasmissione.

L’“invisto” come condizione dell’atto di danza è testimoniato dall’illeggibilità, oscurità del passo di danza. “Passo oscuro4” non perché nasconda qualcosa ma perché non si conforma all’“apparecchio di scriba”, alle forme-schemi che permettono di leggere il tracciato disegnato, la scrittura in quanto traccia. Oscuro è il passo non perché sia invisibile, ma perché la sua stessa visibilità è oscura, enigmatica, insignificante, come un’“entrata” improvvisa e fulminea non riconducibile a nulla, sterile: dal nulla al nulla. Da questo punto di vista, l’invisto diviene anche condizione di un altro spettatore, uno spettatore per così dire al di là del principio di piacere, che gode dell’apparizione piuttosto che provare piacere nell’interpretazione del significato o della conformità di ciò che gli viene presentato.

Come i disegnatori mostrano con il disegno di ciechi la cecità all’opera nel gesto che disegna, che rende visibile il disegnato, restando invisibile nella figura disegnata, per cui come scrive Derrida c’è un abisso tra il gesto che disegna e il disegnato, allo stesso modo la danza moderna, assoluta, mostra che la danzatrice, il danzatore sono ciechi nel mentre danzano: danzano sull’abisso e nella notte. Così ciechi da sottrarsi alla danza stessa, a ciò che si sa e loro stessi sanno della danza: “una danza senza danza, una danza non-danzata”, come scrive Alain Badiou, riprendendo a suo modo l’enunciato di Mallarmé, “la danzatrice non è una donna che danza”:

“La ballerina non danza” significa che ciò che si rende visibile non è mai la realizzazione di un sapere, nonostante un siffatto sapere ne costituisca, dall’inizio alla fine, la materia e il supporto. La ballerina è il magico oblio di tutto il suo sapere di ballerina, non è un’esecutrice, ma l’intensità trattenuta che esprime ciò che resta indeciso nel gesto. In realtà la ballerina abolisce il suo stesso sapere esponendo il proprio corpo come fosse inventato; in modo tale che lo spettacolo della danza appaia come corpo sottratto ad ogni sapere del corpo, il corpo come dischiudimento. (Badiou, 2007, p. 90)

Torniamo ora, dopo un lungo giro, al quadro di Toulouse-Lautrec, dove una delle palpebre di Jane Avril sta per chiudersi mentre Jane si appresta a entrare nel luogo in cui farà la sua entrée. Un’entrata precede l’entrée, ma l’entrée ne è la causa finale. Il soggetto del quadro è l’entrata di chi, conviene ricordarlo, ha dichiarato nella sua autobiografia che a un certo punto della sua vita non esisteva per lei nient’altro che la danza. Per essere precisi, il soggetto del quadro non è l’entrata ma il chi entra e il come della sua entrata, senza che si possa separare il chi dal come. All’inizio di questo saggio ho scritto che il quadro “raffigura” Jane Avril, ma il verbo “raffigurare” non è giusto. Non lo è per quello che ho affermato sul valore della “figura” nel balletto di corte. Più giusto scrivere che il quadro offre Jane Avril in immagine. Non l’immagine di Jane Avril, ma Jane Avril come immagine. Si potrebbe anche dire che la figura, la forma visibile, di Jane Avril porta nel quadro l’immagine Jane Avril, ossia, la “forza”, la “passione”, che mantengono nella distinzione, separazione, colei che entra nel Moulin Rouge: “Nell’immagine o come immagine, e soltanto così, la cosa – sia essa una cosa inerte o una persona – è posta in soggetto: essa si presenta” (Nancy, 2018, p. 19). Nel quadro si presenta, in quanto immagine, colei che farà la sua entrée di lì a poco davanti al pubblico. In questo modo l’entrata solitaria che precede l’entrée fa a sua volta la sua entrée.

Come immagine pittorica anche la Jane che si appresta a risolversi in un’apparizione diviene un’apparizione, l’apparizione di una forza: “Tutta la pittura è là per mostrarci, continuamente e in modi sempre nuovi, il lavoro o la ricerca di una forza. Un pittore non dipinge forme, se non dipinge prima di tutto una forza che si impadronisce delle forme e le trascina in una pres-enza” (p. 20). Eppure, se non sapessimo che l’immagine in primo piano è il presentarsi di Jane Avril, nulla, neanche lo sfondo su cui l’immagine si staglia e ci viene incontro farebbe presentire la danza, almeno secondo l’opinione che abbiamo del danzare, ma anche, ed un aspetto particolarmente significativo, secondo le figure di danzatrici dipinte o scolpite, per esempio, da Degas o Rodin. Jane si presenta con la fissità di una scultura concentrata nella sua rigidità. Nessuna agitazione la anima, nessuno sguardo rivolto al mondo, che non a caso appare sullo sfondo appena abbozzato, quasi un insieme di ombre, inconsistente. Nessun tratto dell’immagine sembra accennare alla danza. Nessuno slancio, balzo, torsione, elevazione come in alcune sculture di Rodin. Né la sua rigidità è in alcun modo assimilabile all’affaticamento, la spossatezza delle danzatrici di Degas, nelle quali viene meno, si allenta, la tenuta, il tono, dei corpi. L’immagine Jane Avril sta invece compiutamente a sé, inflessibile, intrattabile, senza far cenno o segno ad altro. Un “blocco d’assenza” per dirla con una efficace formula di Genet.

Bloccata nell’assenza, Jane a sua volta blocca l’assenza. Toulouse-Lautrec dipinge la forza d’assenza, la forza che tiene Jane nell’assenza, nella lontananza, ossia nella sua assoluta “distinzione”. Il pittore dipinge l’immagine Jane: “Chiara e distinta, l’immagine è un’evidenza. È l’evidenza del distinto, la sua stessa distinzione. C’è immagine solo se c’è questa evidenza: altrimenti c’è solo decorazione o illustrazione, cioè supporto di un significato” (p. 47). Da questo punto di vista, il blocco d’assenza non è che “una presenza intensa, ripiegata in sé, che si raccoglie nella sua intimità” (p. 42). Non dice la stessa cosa Artaud quando parla della “contrazione assoluta” e della “monumentalizzazione dell’anima” come “buone condizione per creare”? Il gelo dell’assenza è la presenza della passione della distinzione: la fiamma che tiene il distinto nella distanza anche quando la varca. Anche quando entra nel Moulin Rouge per danzare. Anche quando si dà alla vita mondana.

Nel quadro il corpo di Jane è avvolto nel cappotto al modo di un sarcofago che ne porti la maschera mortuaria (un volto che mi fa pensare a quello di Buster Keaton: monotono, impenetrabile, indisponibile, gelido). Forse, è questa maschera mortuaria che Jane nasconde, come scrive nelle sue memorie, sotto una “maschera di puerile e folle allegria”, dando l’impressione di non prendere nulla sul serio. Da questo punto di vista, Toulouse-Lautrec smaschererebbe la danzatrice, dipingendo la maschera dissimulata dalla maschera. Mostrerebbe la verità nascosta di Jane. La “puerile e folle allegria” sarebbe una menzogna o una rimozione della maschera mortuaria. Eppure, qui si tratta di due maschere, due mascherate. Ci sarebbe una maschera vera, quella mortuaria, e una menzognera? Ma la maschera vera a sua volta, in quanto maschera, che cosa nasconderebbe? Un’altra maschera? E così all’infinito? O difenderebbe da qualcosa di orribile a vedersi?

Credo che bisogni pensare alla maschera mortuaria come all’immagine della distinzione assoluta che consente e regge la maschera della “puerile e folle allegria”. La maschera della folle allegria si poggia sulla maschera mortuaria. La maschera mortuaria non abbandona la folle allegria, la “sostiene”, anche se è mascherata da questa. Si tratta dunque del rapporto tra due maschere eterogenee che trapela nel “pudore” che accompagna la danza di Jane, testimoniato da chi la vede danzare e a cui lei stessa fa riferimento, quando narra la sua vita.

 

Chi entra nel Moulin Rouge? Una sopravvissuta. Sopravvissuta a una catastrofe, un crollo devastante che ha travolto la sua stessa soggettività: catastrofe del simbolico, di quella trama di significanti che concede significato e sostegno all’esserci, che costituisce i soggetti nel mentre li assoggetta al suo dispositivo, ne guida il percorso e stabilisce il posto che compete loro perché si riconoscano reciprocamente come soggetti. Il crollo del simbolico, dell’Altro, è insieme la destituzione del soggetto e dell’intersoggettività. Jane Avril è morta al simbolico e, dunque, a sé stessa e agli altri. Solitudine e silenzio, insostenibile deserto. Tanto insostenibile da tentare, come lei stessa racconta, di mettere fine alla sua vita. A entrare nel Moulin Rouge è una sopravvissuta alla morte in vita, alla rovina dell’Altro, al crollo della credenza nella sua consistenza, credenza nell’Essere la definiva Artaud, che assicurava il senso e i significati dell’esistenza occultandone il vuoto. Ma ad entrare è anche una sopravvissuta al tentativo di suicidio, alla volontà di sottrarre la vita alla morte del simbolico e alla conseguente catastrofe soggettiva; di separare definitivamente la vita dalla morte al prezzo della vita stessa; di sfuggire all’esperienza del vuoto spalancato nell’esistenza.

Sopravvissuta perché è riuscita a far propria la catastrofe del “proprio”, delle “proprietà”, dei riconoscimenti e ancoraggi ricevuti dall’adesione alle forme simboliche. Perché ha fatto propria la disgrazia, la morte che l’ha espropriata. Perché ha, per così dire, soggettivato la propria desoggettivazione, slegandosi dal legame che avrebbe mantenuto con l’Altro se fosse rimasta a imputargli, contestargli, le sue mancanze, la sua inconsistenza, inesistenza, menzogna. È a questo vicolo cieco che Jane tenta di strapparsi, per consegnarsi all’avventura della scrittura spaziale di una danza sottratta all’“apparecchio di scriba”, di un ritmo senza somiglianza. Non aveva forse fatto esperienza di questo vicolo cieco alla Salpêtrière, l’esilio dalla vita, la “reclusione volontaria” delle isteriche, come annota nelle sue memorie, pur restando colpita dalle loro “stravaganti contorsioni”, che forse eredita, usa, riesce a smuovere nello spazio proprio grazie alla sua separazione dall’Altro?

Si potrebbe dire Jane Avril ha tratto la propria forza dall’attività dissociativa della pulsione di morte. Ha corso il rischio che questa dissociazione la distruggesse, la precipitasse nell’auto-annientamento, ma l’attività dissociativa della pulsione si è in lei dissociata dalla sua stessa tendenza annichilente, si è ritorta contro di sé, ripetendosi come attività dissociativa, lacerante i legami di dipendenza e rendendo possibili altri tipi di legame. La danza di Jane è forse un’eco di questa pulsione ed è ciò che le consentirà di affermare di essere resuscitata danzando.

 

Ad Abdallah, al giocoliere e acrobata al suolo, che decise di trasformare in funambolo, sottoponendolo a duri allenamenti, Genet ne Il Funambolo ingiunge:

La Morte – la Morte di cui ti parlo – non è quella che seguirà la tua caduta, ma quella che precede la tua apparizione sul filo. È prima di scalarlo che muori. Colui che danzerà sarà morto – deciso a tutte le bellezze, capace di tutte. Allorché apparirai, un pallore – no, non parlo della paura ma del suo opposto, di un’audacia invincibile –, un pallore ti ricoprirà. […] Ma bada di morire prima di apparire, e che sia un morto a danzare sul filo (Genet, 2010, p. 112).

Perché si dia un’apparizione, un’entrée che interrompa l’ordine delle apparenze, il corso delle cose e il gioco delle loro differenze, perché appaiano gesti “magnifici” privi di rapporto con quelli che si compiono nella vita, perché si dia, per riprendere quanto fin qui si è scritto, una danza-differenza assoluta è necessario che a danzare sia un morto. Un morto al mondo, alla “responsabilità sociale”, ma non per questo consegnato al caos, piuttosto, come scrive Genet in relazione al teatro, responsabile di “un altro Ordine”. Il gesto anarchico non conduce al disordine, piuttosto risponde a un ordine reso possibile dalla “morte simbolica” e dalla relazione con i morti. Perché questi gesti possano apparire, perché ci sia “apparizione” è necessario divenire “un blocco d’assenza”, conoscere a tal punto “la solitudine assoluta, incomunicabile – castello dell’anima” da essere la solitudine stessa”. Si potrebbe, si dovrebbe continuare a citare questo straordinario testo di Genet, ma conviene fermarsi al “punto più misterioso” del morto che danza, a conferma che la danza assoluta è una danza macabra:

… eppure, ed ecco il punto più misterioso, bisogna che al tempo stesso si sprigioni da te una sorta di vapore leggero, che non offuschi i tuoi contorni, facendoci sentire che al centro di una fiamma alimenta senza tregua la morte glaciale che sale dai piedi (p. 117).

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Bibliographie

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Badiou, A., 2007, La danza come metafora del pensiero, in Id. Inestetica, a cura di Livio Boni, Milano, Mimesis; ed. or. 1993, La danse comme métaphore de la pensée, in Ciro Bruni (éd), Danse et Pensée, Paris, Germs.

De Marinis, M., 2006, La danza alla rovescia di Artaud. Il secondo Teatro della Crudeltà (1945-1948), Roma, Bulzoni.

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Franko, M., 2009, Danza come testo. Ideologie del corpo barocco, a cura di Patrizia Veroli, Palermo, L’Epos; ed. or. 1993, Dance as Text: Ideologies of the Baroque Body, Cambridge - New York, Cambridge University Press.

Malabou, C., 2024, Al ladro! Anarchismo e filosofia, traduzione di Carlo Milani, Milano, elèuthera; ed. or. 2022, Au voleur! Anarchisme et philosophie, Paris, Presses Universitaires de France.

Nancy, J-L., 2014, Corpus, a cura di Antonella Moscati, Napoli, Cronopio; ed. or. 1992, Corpus, Paris, Éditions A. M. Métailié.

Nancy, J-L., 2018, Tre saggi sull’immagine, traduzione di Antonella Moscati, Napoli, Cronopio; ed. or. 2002, Image et violence, L’image - Le distinct, La représentation interdite, Paris, Éditions Galilée.

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Zanardi, M., 2017, Dal regno dei morti, in Id., (a cura di) Sulla danza, Napoli, Cronopio.

Notes

1 Sulla differenza tra “ingovernabile” e “non governabile”, su come l’anarchia, quindi il gesto anarchico, abbia a che fare con “il non governabile”, fondamentali le riflessioni di Malabou, 2024. Retour au texte

2 Sul rapporto tra Artaud, la danza, la morte, il teatro mi è capitato di scrivere in Sulla danza, un libro a più voci, con i saggi di Ermini, Gasparotti, Nancy, Sala Grau. In questo scritto dedicato a Jane Avril riprendo anche altre questioni affrontate in quel libro. Cfr. Zanardi, 2017. Retour au texte

3 Sulla “danza cieca” sono decisive le riflessioni di Virgilio Sieni. Cfr. Sieni, 2022. Retour au texte

4 Passo oscuro è il titolo di uno spettacolo di Alfonso Benadduce (danzatore, attore, regista, scrittore, disegnatore, pittore…). Non c’è modo migliore, a mio avviso, di definire il passo della danza assoluta. Retour au texte

Illustrations

Citer cet article

Référence électronique

Maurizio Zanardi, « Nient’altro che la danza », K [En ligne], 12 | 2024, mis en ligne le 01 juillet 2024, consulté le 17 février 2025. URL : http://www.peren-revues.fr/revue-k/1337

Auteur

Maurizio Zanardi

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