Résumé

In this text the Lucretian concept of “clinamen” is read through the psychoanalytic notion of “clinic” in a Lacanian perspective. The basic idea is that the “clinamen” defines a materialism of the encounter that overturns the posture of critical theory in order to open up a new philosophical gesture that we define as “clinical”.

Texte

Due sono i problemi da porsi per la natura: primo, quale sia la materia da cui si produce ciascuna cosa; secondo, quale sia la forza che produce ciascuna cosa. Essi trattarono della materia, ma tralasciarono la forza e la causa per produrla. Questo però è un difetto comune; quest’altro invece è proprio di Epicuro. Secondo lui quei medesimi corpi indivisibili e compatti si muovono verso il basso trasportati dal loro peso secondo una linea retta, e tale è il moto naturale di tutti i corpi. Poi, a questo stesso proposito, quell’ingegno acuto, accorgendosi che, se tutto si spostava verso il basso e – come ho detto – seguendo una linea retta, non si sarebbe mai potuto verificare l’urto di un atomo con l’altro e quindi [non si poteva formare l’universo], introdusse un concetto nuovo: disse che il percorso dell’atomo subisce una lievissima deviazione, la più piccola possibile; così si producono le aggregazioni, i congiungimenti e le unioni degli atomi fra di loro, da cui derivano l’universo con tutte le sue parti e le cose in esso esistenti. Questo accorgimento, oltre che nel complesso risulta puerile, non raggiunge neppure l’intento. Infatti la deviazione stessa è immaginata come arbitraria (dice che l’atomo devia senza causa, e per uno scienziato non c’è nulla di peggio che dire che un evento si verifica senza causa), e tolse agli atomi senza causa quel moto naturale di tutti i pesi, che – come egli stesso stabilì – si spostano verso il basso, senza tuttavia aver ottenuto lo scopo per cui aveva escogitato tale accorgimento. (Cicerone, 1955, p. 56).

Con queste parole Marco Tullio Cicerone descrive, in un passo del De finibus bonorum et malorum, quella che definisce la “puerile” posizione di Epicuro riguardo alla natura del cosmo, secondo cui gli atomi, a causa di una “lievissima deviazione, la più piccola possibile” genererebbero il mondo così come lo conosciamo. Il tono sdegnato e ironico di Cicerone non deve stupire; il trattato in questione, come è noto, è infatti totalmente costruito su un serrato confronto tra le tesi dello stoicismo e quelle dell’epicureismo, quest’ultimo oggetto di dure critiche. Più insolita è invece la presenza di una accusa diretta alla fisica epicurea all’interno di un dialogo filosofico il cui oggetto è la discussione di questioni riguardanti la prassi etica e il “sommo bene”. Poche righe più sotto, Cicerone prosegue criticando l’assenza di una “logica” nel pensiero di Epicuro:

Per venire ora all’altra parte della filosofia che ha per oggetto la ricerca e la discussione e è detta con parola greca “logica”, il vostro filosofo – almeno a mio parere – è disarmato e spoglio. Abolisce le definizioni, non dà nessun precetto per le classificazioni e le ripartizioni, non insegna come si imposta e si conclude un ragionamento, non dimostra il metodo per risolvere le questioni capziose e chiarire quelle dubbie; egli rimette ai sensi il giudizio sulla realtà, e se essi una volta accettano per vero qualcosa di falso, ritiene abolito ogni giudizio sulla verità e la falsità (p. 57).

I due passi dell’arpinate rappresentano un gesto di radicale squalifica filosofica dell’atomismo: da una parte la sua fisica si fonda su una dottrina inaccettabile che rifiuta il concetto di causa, dall’altra l’assenza di una logica priverebbe il pensiero della capacità di classificare e ripartire i fenomeni. L’atomismo manca di un “criterio”, di una regola, di una norma per discernere e distinguere, manca di un κριτήριον [kriterion]. Mezzo o misura per giudicare qualcosa, anticamente il κριτήριον era anche il luogo dove si giudicava, quello che noi oggi conosciamo come tribunale, il luogo, quindi, dove opera il κριτής [krites], il giudice o arbitro. Il κριτής disponeva di κριτική τέχνη [kritike téchne], di un’“arte del giudicare” e di distinguere il vero dal falso, significati che saranno poi raccolti nel termine latino iudicare e iudicium, che rispettivamente indicano l’azione compiuta dal giudice e il suo verdetto. Questa terminologia deriva dal verbo greco κρίνω [krino] che, tra i vari significati che può assumere – come distinguere, separare, dividere, scegliere, decidere, giudicare, approvare, stimare, sentenziare, citare in giudizio, investigare, esaminare –, conserva l’idea di una cesura essenziale tra un soggetto giudicante e un oggetto giudicato che viene separato e allontanato per permettere il giudizio stesso, l’atto critico. L’aggettivo κριτικός [kritikós] che nell’antica terra ellenica significava “atto a giudicare, decisivo” presuppone quel gesto di rottura che ancora oggi si mantiene alla base di qualsiasi teoria critica. In questa prospettiva, il verbo κρίνω non può essere pensato senza un altro termine greco, κρίσις [krisis], che significa “scelta, separazione, giudizio, lotta, contesa, lite, esito, risoluzione”. Uno non può essere pensato senza l’altro: definiamo infatti condizioni critiche – o stato di crisi – quando si giunge ad un punto in cui urge una decisione o un giudizio definitivo che sia in grado di modificare o risolvere la situazione. La ricostruzione etimologica mette in luce un peculiare circolo vizioso, secondo cui la critica stessa rimarrebbe incastrata all’interno del suo stesso movimento: la “crisi” implica necessariamente una risoluzione, una scelta, e questa scelta è possibile unicamente sulla base di una necessaria separazione operata secondo una “regola”, un “criterio”. Per identificare e discernere la crisi – la crisi come sintomo potremmo dire – è necessaria quella separazione che è anche la via di uscita – il φάρμακον [pharmakon] – dalla situazione critica. Si tratta di qualcosa di simile ad un regressus ad infinitum, dove però il movimento interminabile è l’oscillazione continua tra crisi e critica.

Dal punto di vista di un’attività critica o giudicante è possibile comprendere meglio l’ostilità di Cicerone verso Epicuro: non esibendo un metodo “per risolvere le questioni capziose e chiarire quelle dubbie”, non fornisce alcuno strumento critico, e questo è per Cicerone eticamente, politicamente e giuridicamente inaccettabile. Senza discernimento la prassi umana non può che prestare il fianco al caos, alla dissoluzione, ad una deriva inarrestabile nella vita sensibile. Questa deriva – pericolosa agli occhi del filosofo di Arpino – non proviene tuttavia dalle idee di Epicuro sulla condotta umana ma dalle sue teorie fisiche, da quella “lievissima deviazione, la più piccola possibile” a cui ogni atomo è soggetto. Risulta ora chiaro perché Cicerone, in un testo come il De finibus bonorum et malorum, non possa limitarsi a decostruire la morale epicurea o a contestare la mancanza di una logica ma debba screditarne innanzitutto l’errore fondamentale: l’idea che ogni atomo sia soggetto a quello che il grande poeta latino Lucrezio definirà con il neologismo clinamen. Il termine viene introdotto per la prima volta da Lucrezio per tradurre nella lingua latina il termine tecnico epicureo παρέγκλισις [parénklisis] – anche se la parola usata più frequentemente dal poeta latino è, in realtà, declinatio. Clinamen occorre una sola volta nel De rerum natura, anche se sembra aver eclissato il suo gemello nella storia della filosofia: si tratta di un paradossale movimento per cui il termine il clinamen è già una deviazione dalla/della declinazione.

Gli atomi – particelle indivisibili dotate di peso come principio del loro movimento – cadono tutte insieme nel vuoto con la medesima velocità. Con queste proprietà essenziali, il solo movimento possibile sarebbe la caduta parallela, come le gocce di pioggia. In questo modo niente potrebbe nascere, deve esserci una declinazione, uno scarto, una deviazione dal movimento parallelo di caduta verso il basso che renda possibile lo scontro e la collisione tra gli atomi, e da qui la nascita di tutte le cose. Lucrezio identifica tre proprietà fondamentali del clinamen. La prima è che la declinazione ha luogo in uno spazio e in un tempo non definiti, non ha alcuno spazio o momento attribuibile; non si tratta di essere senza luogo e senza tempo ma piuttosto di risiedere in quel tra che eccede l’unità di spazio e di tempo: “incerto tempore ferme/incertisque locis” (Lucrezio, 1994, II, 218, p. 76). La declinazione è poi assolutamente minimale – “nec plus quam minimum” (II, 243-244, ib.) – è la più debole e tenue che si possa concepire, una differenza al di sotto della soglia di ogni differenza positiva e osservabile: una differenza differente da tutte le altre differenze ma in grado di condizionarle tutte. La terza qualità è la più paradossale e allo stesso tempo la più perturbante: nel libro III Lucrezio, allontanandosi provvisoriamente dalla questione cosmogonica, lega senza alcun preavviso la cosmologia con l’antropologia, la causalità della natura con la causalità psichica. Così come gli atomi deviano dalla loro traiettoria, allo stesso modo qualcosa nell’umano si sottrae ai legami della necessità e rompe i decreti del fato: dove è in gioco il destino dell’universo è in gioco anche quello della nostra volontà, dei nostri desideri e delle nostre pulsioni. Ciò significa allo stesso tempo l’esatto opposto: che non è il destino ad essere in gioco ma, paradossalmente, la possibilità di rompere con esso. Il clinamen è allora il punto in cui il cosmo e il soggetto si sovrappongono in modo singolare, al di là e insieme al di qua di ogni legge generale; è quell’istante incerto, irriducibile allo spazio e al tempo, che mostra ciò che essi hanno in comune. Causalità naturale e causalità psichica possono essere lo stesso proprio perché consistono nel loro stesso intreccio e nella loro stessa deviazione.

La teoria del clinamen non è tuttavia una teoria ontologica, perché al suo centro non sta l’interrogazione su cosa appartenga all’essenza dell’atomo. Deleuze, che ha dedicato all’atomismo – e al pensiero di Lucrezio in particolare – alcune pagine dell’appendice a Logica del senso, si è soffermato su questo aspetto, cercando di chiarire il senso di un naturalismo che sia in grado di rendere conto della produzione del diverso come composizioni e combinazioni differenti e non totalizzabili tra gli elementi stessi della natura. Deleuze mostra come il clinamen non sia un movimento obliquo, che verrebbe per caso a modificare una caduta verticale dell’atomo: esso è piuttosto una “determinazione originaria della direzione del movimento dell’atomo” (Deleuze, 1975, p. 237). Non è un movimento secondo, né una determinazione seconda del movimento che si produce in un punto e in un momento qualunque. Deleuze suggerisce addirittura di pensarlo – attraverso una terminologia spinoziana – come una sorta di conatus, e quindi sotto la forma del desiderio.

Il clinamen è “la determinazione dell’incontro tra serie causali, ove ogni serie causale è costituita dal movimento di un atomo e conserva nell’incontro la sua piena indipendenza” (ib.). Le serie causali materiali sono dunque plurali e indipendenti in virtù della declinazione che investe ciascuna ed “è soltanto in questo senso obiettivo che il clinamen può essere detto caso” (p. 238). Se il clinamen può essere pensato come lex atomi, come “pluralità irriducibile delle cause o delle serie causali” (ib.), è solo perché manifesta l’impossibilità di riunire le cause in un tutto, perché rende evidente l’inciampo stesso dello principio di causalità.

Il clinamen, angolo minimo, “non ha senso che fra una retta e una curva, fra la curva e la sua tangente” (Deleuze, Guattari, 2010, p. 433), costituisce la curvatura costitutiva del movimento dell’atomo. È il più piccolo angolo, la più impercettibile inclinazione per cui l’atomo devia dalla retta: “un passaggio al limite, un’esaustione, un modello ‘esaustivo’ paradossale” (Deleuze, 1975, p. 237). In Millepiani Deleuze e Guattari riprendono la figura del clinamen per spiegare come lo spazio sfugga ai limiti della sua “striatura” (Deleuze, Guattari, 2010, p. 433). Da una parte qualcosa sfugge attraverso l’inclinazione, lo scarto infinitamente piccolo tra la verticale di gravità e l’arco di cerchio a cui questa verticale è tangente; dall’altra, vi sfugge grazie alla spirale o al vortice, una figura quindi in cui le leggi di frequenza, d’accumulazione e di distribuzione determinano uno spazio in cui tutti i punti sono simultaneamente occupati, all’opposto della ripartizione “laminare” (ib.), delle linee parallele dello spazio striato. Dal clinamen al vortice si estende quello spazio che Deleuze e Guattari definiscono “liscio”, che ha “per elemento l’inclinazione e per popolamento la spirale” (ib.). L’angolo minimo, che devia dalla verticale, e il vortice che eccede la striatura costituiscono allora le due componenti dello spazio liscio. Come ha messo in luce Michel Serres (Serres, 2000) il clinamen come elemento differenziale generatore è legato alla formazione di vortici e turbolenze che occupano uno spazio liscio generato. L’inclinazione conduce inevitabilmente alla formazione delle spirali e dei vortici: “uno spazio aperto in cui si distribuiscono le cose-flussi, non più uno spazio chiuso distribuito per cose lineari e solide” (Deleuze, Guattari, 2010, p. 433). La declinazione segna così la differenza che sussiste fra uno spazio topologico e uno spazio metrico-euclideo, tra uno spazio che viene occupato senza essere contato, e uno spazio che viene contato per essere occupato. Lo spazio topologico è quindi uno spazio complicato, dove avvengono “deformazioni, trasmutazioni, passaggi al limite” (ib.), dove le figure designano un evento e una vita piuttosto che essenze, affetti piuttosto che ragioni.

Il clinamen non definisce solo una certa idea di spazio, ma è legato inscindibilmente alla teoria epicurea del tempo: e il tempo nell’atomismo si dice sempre in rapporto al movimento. Perciò parliamo di un tempo del pensiero in relazione al movimento dell’atomo nel vuoto e di un tempo sensibile in relazione all’immagine mobile che percepiamo. Esiste tuttavia anche un “tempo minore del minimo di tempo pensabile” (ib.), in rapporto al clinamen come determinazione del movimento dell’atomo; e di un “tempo minore del minimo di tempo sensibile” (ib.) in rapporto ai simulacri come componenti dell’immagine.

Il clinamen è già da sempre lì, risiede negli atomi e sarà così in ogni tempo: la sua non coincidenza con se stesso è radicata nella definizione dell’atomo, sin dall’inizio. L’atomo è il suo stesso clinamen, non può essere pensato senza di esso, e, come ha evidenziato Mladen Dolar, “è, per così dire, l’unità paradossale non solo dell’uno e del vuoto, ma allo stesso tempo l’unità dell’entità con il suo stesso allontanarsi da sé” (Dolar, 2013, p. 230, trad. mia). La narrazione che riordina gli eventi in sequenza – prima la caduta parallela, poi la declinazione – è solo una necessaria illusione retroattiva.

Se Cicerone trovava vergognoso che la declinazione degli atomi accadesse senza causa, è perché la nozione di clinamen, distanziandosi apparentemente dalla causalità, esibisce il problema stesso della causa; ed esibire il problema della causa significa al tempo stesso imporre una declinazione e una torsione alle polarizzazioni tipiche della metafisica occidentale, come materia e forma, natura e tecnica, corpo e psiche. Il materialismo lucreziano mette in scacco un principio cardine dell’ontologia aristotelica come l’ileomorfismo: l’atomo infatti non è né ὕλη [hyle] né μορφή [morphé] ma è proprio ciò che elude questa divisione. Esso è insieme materia e forma senza richiedere una forma come principio separato da cui essere informato: è esso stesso la propria pulsione. Insieme all’ileomorfismo decade così anche la scissione cartesiana per cui la materia inerte e passiva sarebbe governata da leggi meccaniche. L’atomo confonde la linea di confine tra animato e inanimato, tra corpo e pensiero, tra fisico e psichico, tra necessità e caso: “è la deviazione interna dell’unità che smantella la propria unità” (p. 20, trad. mia).

Il clinamen non è un’inclinazione improvvisa che interviene nella caduta uniforme e regolare degli atomi o una variante arbitraria rispetto alla necessità della legge di caduta, ma un movimento originario ed eterno: gli atomi deviano da sempre ma non per una decisione che li attraversa, la loro deviazione è perfettamente iscritta nella loro condizione. Il clinamen non definisce un’ontologia della libertà all’interno di un quadro definito da leggi necessarie, ma produce piuttosto un taglio che squarcia il fondo stesso dell’ontologia. È il sussulto della superficie che rovescia l’ordine della necessità, permettendo di pensare la contingenza. Gli atomi possono mancarsi, oppure aggregarsi; così nascono i mondi ma non c’è senso che preceda il mondo stesso perché il mondo è ciò che accade, è il suo stesso evento.

La declinazione svela allora la dimensione contingente dell’incontro, rivela una forma di materialismo in cui l’incontro si mostra prioritario rispetto alla forma: non dispiega la necessità di una legge ma la contingenza dell’incontro che libera l’evento. Il clinamen esclude ogni finalismo e non va pensato come deviazione dall’ordine di una legge preesistente, bensì come quella contingenza sempre in atto che fonda la necessità stessa nella forma della ripetizione. Sopprimere ogni causa finale, come fa Lucrezio, significa cercare di pensare il movimento a scapito della forma, la transizione a scapito dell’essere: significa far seguire al divenire del mondo e del pensiero una linea di variazione continua – una “flussione”, direbbe Michel Serres. Nel De rerum natura il termine tecnico clinamen non rappresenta soltanto un elemento chiave della fisica lucreziana ma inaugura anche una specifica postura etica: esso instaura infatti uno spazio e un tempo di indecidibilità tra fisico e psichico, tra cosmologico e antropologico. Potremo anche spingerci oltre e leggere tra i versi di Lucrezio l’invenzione di una vera e propria attitudine allo stesso tempo poetica e epistemologica: una clinica al di là di ogni orizzonte critico che procede dall’isolamento reciproco di un soggetto e di un oggetto.

Prendiamo qui in prestito la nozione di clinica dalla psicoanalisi ma declinandola alla luce di un senso più esteso e non psicoanalitico: una clinica è la possibilità del pensiero e dell’agire nel punto di collasso della critica, là dove il soggetto incontra il reale secondo un tragitto che assegna il soggetto stesso alla contingenza dell’evento. Tra clinica e clinamen sussiste una evidente parentela etimologica: entrambi provengono dal verbo greco κλίνω [klino, inclinare, piegare] che definisce diverse aree semantiche: quella di κλίνη [klinê, letto], i suoi derivati κλινικός [klinikos, medicina] e κλινική τέχνη [klinikê tekhnê, medicina esercitata al capezzale del malato]; quella di κλίμα [klima, clima] e quella di κλίσις [klisis, inflessione].1 Per chiarire meglio la scelta e la portata filosofica del termine clinica, vorremmo riprendere un’osservazione di quello psicoanalista che forse più di tutti, dopo Freud, si è interrogato sul problema della causalità psichica: Jacques Lacan. Nel quinto capitolo del Seminario XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Lacan pone una domanda per noi fondamentale: “Il reale dove lo incontriamo? Proprio di un incontro, di un incontro essenziale si tratta infatti in ciò che la psicoanalisi ha scoperto” (Lacan, 2003, p. 52). Questa domanda, un tema centrale del pensiero dello psicoanalista francese, svela una duplice esigenza della psicoanalisi: quella di essere una teoria metapsicologica che non può evitare di assumersi il compito di pensare l’incontro. Interrogarsi sul “posto del reale” significa cercare di pensare quei “punti radicali nel reale che chiamo incontri e che ci fanno concepire la realtà come unterlegt, untertragen” (p. 54), termine tedesco che Lacan rende con il francese “en souffrance” [“in giacenza”]: “La realtà è lì en souffrance, è lì che attende” (ib, traduzione modificata). La relazione tra luogo e incontro è così intima che, nel Seminario VI, Lacan differenzia l’analisi da una semplice ricostruzione del passato, per paragonarla a “un racconto che fosse esso stesso il luogo dell’incontro di cui si tratta nel racconto” (Lacan, 2016, p. 534).

Il passo suonerà familiare a chi ha frequentato il pensiero di Gilles Deleuze, che qualche anno più tardi, in Logica del senso, definirà l’evento con termini molto vicini a quelli lacaniani: “l’evento non è ciò che accade (accadimento), è in ciò che accade, il puro espresso che ci fa segno e che ci aspetta” (Deleuze, 2006, p. 134). Esso è qualcosa che ci attende e ci fa segno ma che non si riduce ai fatti e agli accadimenti. Proprio per questo, secondo Lacan l’inconscio andrà cercato in un luogo incerto, in un’esperienza di rottura, tra percezione e coscienza; in un luogo intemporale, che rimanda a ciò che Freud chiamava, in omaggio a Fechner, die Idee Heiner anderen Lokalität – “un’altra località, un altro spazio, un’altra scena, il tra percezione e coscienza” (Lacan, 1979, p. 55).

Per chiarire quale sia quell’incontro con il reale che orienta la psicoanalisi e ne definisce i movimenti, Lacan riprende due concetti introdotti da Aristotele nella Fisica per discutere come il caso fosse causa di eventi:2 i due concetti sono quelli di τύχη [týchē] e ἀυτóματον [autómaton]. Lacan è sempre stato affascinato dal concetto di causa, che pensava essere, in fondo, “inanalizzabile”; nella funzione della causa permane essenzialmente una faglia, “qualcosa che viene a oscillare nell’intervallo” (p. 23): “c’è causa solo di ciò che zoppica” (p. 24). In questo luogo di “intoppo, mancamento, fessura” (p. 26) qualcosa come una strana temporalità domanda di realizzarsi, si apre un taglio del soggetto in cui il soggetto stesso si coglie “in qualche punto inatteso” (p. 28). Solitamente, nel greco antico, ἀυτóματον traduce caso o accidente, mentre τύχη traduce fortuna. Aristotele differenzia i due concetti precisando l’incompatibilità della τύχη con le creature che non siano in grado di scegliere – che non siano quindi capaci di προαίρεσις [proairesis]. L’ ἀυτóματον è dunque, in generale, la sorte che descrive il comportamento di bambini, animali, piante e cose inanimate, la sorte in quanto evento naturale; la τύχη sarebbe invece un evento fortuito che riguarda le faccende umane. La nozione di ἀυτóματον in Aristotele non ha inoltre nulla a che vedere con la ripetizione, anzi, il caso inteso come ἀυτóματον deve essere raro, un’eccezione, ed esclude di per sé successioni necessarie e serie abituali.

La ripresa di questi concetti da parte di Lacan non avverrà senza una torsione estrema del pensiero aristotelico, orientato ora dall’interrogazione stessa che sta al cuore della psicoanalisi lacaniana su quale sia il luogo in cui incontriamo il reale. Lacan, lasciandosi volutamente deviare dalla declinazione moderna del termine ἀυτóματον inteso come automatismo ripetibile, deforma l’idea aristotelica di ἀυτóματον che diviene ora la ripetizione nel senso freudiano. La τύχη, l’incontro con quel “reale che giace sempre dietro l’ἀυτóματον” – che è “al di là dell’ἀυτóματον, del ritorno, del ritornare, dell’insistenza dei segni a cui ci vediamo comandati dal principio di piacere” (pp. 52-53), – designa invece l’incontro casuale con qualcosa di inassimilabile, nei termini di lacaniani un “incontro mancato”. La novità della rilettura lacaniana di Aristotele sta proprio nel rifiutare la funzione discriminante della προαίρεσις, il che significa portare l’ἀυτóματον all’interno dell’esperienza umana a fianco della τύχη ma anche, allo stesso tempo, portare l’esperienza umana fuori di sé, nella natura. Si tratta di una strategia che ha una evidente analogia con il procedere lucreziano, nel momento in cui il poeta latino lega il problema antropologico con quello cosmologico. La τύχη è dunque incontro col reale proprio in quanto incontro non previsto, in cui accade qualcosa che non rientrava nei fini che avevano guidato l’azione; è l’incontro con qualcosa di reale nella misura in cui questo incontro è “rencontre malvenu”, fuori luogo, “un appuntamento a cui siamo sempre chiamati con un reale che si sottrae” (p. 52). Il reale “che giace sempre dietro l’ἀυτóματον” (pp. 52-53) era già, ciò che si ripete, infatti, è sempre qualcosa che si produce come per caso:

La funzione della τύχη, del reale come incontro – incontro in quanto può essere mancato, in quanto essenzialmente è incontro mancato – si è presentata inizialmente, nella storia della psicoanalisi, in una forma che, da sola, basta a destare la nostra attenzione – quella del trauma.

Non è forse degno di nota che, all’origine dell’esperienza analitica, il reale si sia presentato nella forma di quanto c’è di inassimilabile – nella forma del trauma, determinando così tutto il seguito e imponendogli un’origine apparentemente accidentale? (pp. 53-54)

La forma del trauma è dunque una forma della τύχη, dell’incontro con il reale. Secondo Lacan, la questione del “posto del reale” conduce dal trauma a quello “schermo che dissimula qualcosa di assolutamente primo, di determinante nella funzione della ripetizione” (p. 58): con l’incontro, con la τύχη, qualcosa prende vita, un mondo si anima. Il punto che risulta qui fondamentale è la ripresa da parte di Lacan di una nozione che era già stata sviluppato dall’atomismo antico nel suo tentativo di contrastare una pura funzione di negatività per introdurvi il pensiero:

Se lo sviluppo si anima per intero con l’incidente, con l’inciampo della τύχη, è nella misura in cui la τύχη ci riconduce allo stesso punto in cui la filosofia presocratica cercava di motivare il mondo stesso.

Le era necessario, da qualche parte, un clinamen. Democrito – quando ha tentato di designarlo ponendosi già come avversario di una pura funzione di negatività per introdurvi il pensiero – dice che non è il μηδέν [non-essere] che è essenziale, e aggiunge […] non è un μηδέν, è un δεν, che in greco, è una parola forgiata. Non ha detto ἔν [uno] per non parlare dell’ὄν [essere] ma ha detto che cosa? Ha detto – rispondendo alla questione che era la stessa nostra di oggi, quella dell’idealismo – Niente, forse? No. Forse niente. Ma non niente. (p. 62)

L’incontro con il reale – la τύχη – non ha altra causa che se stessa. Dispiega la ripetizione proprio perché la precede; scandisce la contingenza in quanto istanza che si muove nel solco dell’incontro del soggetto – e delle deviazioni di quest’ultimo – con il reale. Da sempre la psicoanalisi ha per oggetto la singolarità del caso clinico, raffina la lettura della storia del soggetto, annodando la contingenza dell’incontro con il reale alla necessità del sintomo. Ecco perché trauma e il clinamen vanno insieme. Nell’evento pulsionale, nella singolarità del trauma della pulsione e nel godimento la psicoanalisi ritrova il suo clinamen, quel piano contingente in cui accade l’incontro con la causa materiale. Il clinico stesso è clinamen: la contingenza che sovverte la forma della necessità. Rovesciando l’ordine del tempo, la storia del soggetto può essere letta a partire dagli incontri, da quella contingenza che fonda la necessità in quanto divenire-necessario dell’incontro e che permette che qualcosa dell’accadimento acceda alla ripetizione. Come ha sottolineato Jonathan Pollock, il metodo clinico è clinamen perché consiste “operare di sbieco, imprimendo ‘una facile e insensibile inclinazione’ nel corso del discorso” (Pollock, 2010, p. 49, trad. mia).3 Il concetto di clinamen ha forse intrigato Lacan perché intrinsecamente legato a qualcosa che sfugge al soggetto stesso – così come alla coscienza, alla rete dei significanti o alla ripetizione – ma che contribuisce a costituirne la soggettivazione, esibendo così un modo del comune. Come ha mostrato Michel Serres (Serres, 1980) il clinamen instaura una disciplina delle turbolenze che si dispiega dalla natura al soggetto. La figura del vortice, così cara a Lucrezio, avrebbe probabilmente affascinato Lacan, perché definisce qualcosa che trascina e viene trascinato in modo inarrestabile; qualcosa di fatale in cui la soggettività precipita nell’incontro con ciò che solo apparentemente le è esteriore.

Il soggetto lacaniano dell’inconscio ha una grande affinità con il modello lucreziano del clinamen, angolo minimale ed eteroclito che raffigura allo stesso tempo il momento critico – o piuttosto clinico – all’origine di ogni nuova inflessione del tempo, quel differenziale del movimento attraverso il quale si aggregano e interagiscono le serie di atomi. In quanto movimento senza causa assegnabile, la declinazione introduce un fattore minimale di caso e di indeterminazione all’interno di un sistema che altrimenti sarebbe condannato alla necessità. Ma se il clinamen occulta la propria causa ciò non è privo di effetti, i quali si dispiegano secondo leggi ben precise – le foedera naturai. L’indeterminazione non dà origine che a comportamenti aleatori ma consente comunque dei fenomeni di autoregolazione, come le leggi immanenti della struttura a cui fa riferimento Lacan. Sembra quasi che in Lucrezio e nell’atomismo si possa rintracciare, in nuce, una postura strutturalista – anche se forse sarebbe meglio parlare, nel caso del poeta latino, di iperstrutturalismo.4

I modi di associazione degli elementi delle lingue naturali obbediscono alle leggi della semantica e della grammatica (regole morfologiche, legami sintattici di dipendenza, coordinazione e sostituzione). Queste leggi sovrastano la catena parlata e la organizzano secondo delle operazioni di anticipazione e di retroazione. A queste si aggiungono i fattori relativi alla prosodia, al ritmo e alla fonazione – certe combinazioni di lettere corrispondono a delle impossibilità sul piano della produzione vocale. Il senso, la sintassi, il ritmo sono sinteticamente i tre grandi parametri che presiedono alla combinazione dei suoni della catena scritta e parlata.5 Ma è possibile rintracciare, come ci ha proposto Lacan, un equivalente di tutto questo nella fisica atomista? Qui Aristotele, nell’analisi della fisica atomistica svolta nella Metafisica, ci viene in aiuto:

Democrito e Leucippo dicono che le differenze [degli elementi] sono le cause di tutte le altre. Essi inoltre dicono che tre sono queste differenze: la figura, l’ordine e la posizione. L’essere infatti – essi precisano – differisce solamente per proporzione [ῥυσμός], per contatto [διαθιγή] e per direzione [τροπή]. La proporzione è la forma [σχῆμα], il contatto è l’ordine [τάξις]e la direzione è la posizione [θέσις]. (Aristotele, Metafisica, A 4, 985, p. 25)

Quando Aristotele descrive i tre principali caratteri degli atomi democritei – ῥυσμός [rhusmòs, proporzione], διαθιγή [diathiké, contatto] e τροπή [tropè, direzione] – egli porta come esempio le lettere dell’alfabeto. Secondo lui le maiuscole A e N presentano differenze di “ritmo” o di “forma” σχῆμα [skhêma]; le sillabe AN e NA presentano differenze di sistemazione, di τάξις [taxis]; e le lettere Z e N, composte ciascuna di tre tratti, si differenziano per la loro posizione θέσις [thesis]. Nel testo di Lucrezio, la nozione di ritmo, per quanto designi la disposizione dei tratti o delle parti che compongono la lettera-atomo, viene tradotto con il latino figura. L’idea di “forma” sembra designare l’orientamento della lettera: i caratteri Z e N hanno la stessa forma (ritmo), ma cambiando di senso (direzione) essi alterano il senso (significazione) delle parole che compongono. Nel testo di Lucrezio, l’equivalente è “positura”. Quanto alla nozione di contatto o di disposizione, essa rinvia all’“ordine” (ordo) delle lettere all’interno delle parole. La lingua latina era una lingua costruita sulle declinazioni, l’ordine delle parole nelle frasi era meno importante: le dipendenze sintattiche erano infatti indicate dalle desinenze.

Infatti, entro la stessa piccolezza di un qualsiasi corpo,
non possono le forme variar molto fra loro:
supponi, in effetti, che i corpi primi siano costituiti
di tre parti minime, o aumentane di poche altre il numero;
certo – quando avrai sperimentato in ogni modo tutte
quelle parti di un unico corpo, collocandole in alto e in basso,
trasmutandole da destra a sinistra, per vedere quale forma
di figura dia a tutto quel corpo ciascun ordinamento (Lucrezio, 1994, 483-490, p. 91).

Le nozioni di configurazione ritmica, di ordine e di forma/direzione si applicano, più che alle lettere-atomi presi isolatamente, agli insiemi fluttuanti, fluenti, turbolenti e vorticosi nei quali essi sono coinvolti. La nozione di ῥυσμός non è solamente l’equivalente della forma inalterabile dell’atomo ma designa anche lo stato e il movimento degli atomi all’interno di una configurazione data.6 Come ha mostrato Pierre Sauvanet, il ritmo è “la forma singolare assunta dagli atomi in movimento” (Sauvanet, 1999, p. 5, trad. mia), come indica il titolo di un’opera perduta di Democrito: Περὶ άμειψιρυσμιῶν [Peri ameipsirhusmiôn, I cambiamenti dei ritmi degli atomi).

Più sopra abbiamo visto come l’atomismo antico mettesse in discussione l’ileomorfismo aristotelico; gli atomisti, infatti, non parlano di metamorfosi – che metterebbe l’accento sulla nozione di forma μορφή [morphè] – ma piuttosto di qualcosa che si potrebbe definire metaritmosi: Democrito, per descrivere le configurazioni degli atomi impiega infatti il verbo μεταρρυσμ [metarusmô]. Pierre Sauvanet riordina così la questione: “Il ritmo greco è una specie di ‘forma spaziale temporalizzata’, cioè la forma che qualcosa prende nel tempo, la forma in quanto viene trasformata dal tempo” (Sauvanet, 1999, p. 6, trad. mia). Non è un caso se seguendo gli antichi atomisti Émile Benveniste sia riuscito a chiarire il senso originario della parola “ritmo” nella Grecia presocratica: ῥυσμός non significava “cadenza” né faceva riferimento ad un movimento regolare o regolato ma doveva piuttosto essere inteso come “il pattern di un elemento fluido”, una “particolare maniera di fluire”, le “configurazioni particolari di ciò che si muove” e, secondo una declinazione medica, “la disposizione particolare del carattere o dell’umore” (Benveniste, 1966, p. 333, trad. mia). Benveniste ha dunque ragione di mantenere il verbo ῥέω [rheo, scorrere] come etimo del termine ῥυσμός e, pertanto, di mettere in dubbio l’allusione al movimento regolare delle onde che si pensava legasse i due termini. Se le nostre lingue moderne tendono a confondere il ritmo e la cadenza, l’errore, ci dice Benveniste, risale a Platone, colpevole di aver assimilato il ῥυσμός alla periodicità piuttosto che alla forma di un flusso.

Proviamo a trasporre questo modello all’attività di lettura – attività a cui più volte lo stesso Lucrezio fa riferimento nel momento in cui chiama in causa il lettore del De rerum natura. Il lavoro di semiosi deve essere distinto dal movimento che ne deriva e che è il senso stesso dello scritto. È questo senso letterale – letterale perché si genera al litorale della coscienza e del testo – che può essere chiamato ritmo. Questa dimensione sfugge alla logica – quella logica che Cicerone riteneva indegno non ritrovare in Epicuro – e alla linguistica, che rimangono al livello semiotico della decodifica e dunque della legalità, poiché è applicando delle leggi che si arriva a cogliere la significazione di un testo. La critica non può che partecipare di questo stesso movimento. Il ritmo non prende origine né dai concetti di una facoltà dello spirito né nei rapporti differenziali di un sistema linguistico, ma deve essere concepito in termini di effetto: l’effetto singolare dell’interazione e co-implicazione tra la coscienza e la lettera. È in questo modo che il ritmo di una frase possiede la sua durata propria, distinta a sua volta dalla durata “psicologica” del lettore e dalla durata “materiale” del testo.

Un pensiero clinico lucrezianamente ispirato sarà dunque agli antipodi di una critica – costituendo forse il caso più generale da cui la critica stessa deriva in quanto declinazione di una clinica. La clinica è una scienza dei ritmi intesi come l’aspetto o la forma di una “cosa” nel momento in cui essa è in movimento, “cosa” che, secondo l’atomismo di Democrito e di Lucrezio, fa sempre parte di un tessuto (textura) e di un intreccio che la lega dinamicamente alle altre “cose” e di cui lo stesso soggetto conoscente fa parte. Il De rerum natura di Lucrezio non è altro che un poema che segue clinicamente le “cose” della natura”, il ritmo dell’evento. In questa prospettiva pensare il dispositivo soggetto-oggetto come pratica teorica di una cesura nel tessuto delle cose e dei soggetti diviene impossibile. La nota analogia lucreziana tra le lettere del testo e gli atomi deve allora essere intesa non tanto come esempio o metafora fisica ma dal punto di vista letterale: come dalle diverse composizioni e configurazioni degli atomi emerge un mondo fatto non soltanto di caos ma anche di strutture ripetitive, sistemi auto-regolativi e forme stabili che continuamente si fanno e si disfano, così il senso emerge come composizione e configurazione di elementi significanti che ricevono la propria significanza dal ritmo secondo il quale appaiono e si configurano. Un ritmo nel quale anche il soggetto conoscente è atomicamente e clinicamente implicato.

Pensiero della tessitura delle singolarità la clinica non è un metodo, almeno se intendiamo il metodo come struttura che sussiste autonomamente dall’oggetto della ricerca e ne costituisce il presupposto. Come è noto, il termine “metodo” proviene dal greco μέθοδος [methodòs] e significa generalmente “ricerca, indagine, investigazione” ma anche “modo della ricerca”. L’etimologia di μέθοδος – in quanto composto di μετα-, che include qui l’idea del “perseguire” ma soprattutto del “tener dietro”, e ὁδός, “via” quindi, letteralmente “l’andar dietro, via per giungere a un determinato luogo o scopo” – rende evidente la sua anteriorità epistemologica; anteriorità che non può in alcun modo essere l’essenziale di una clinica, guidata invece dal ritmo delle declinazioni, sempre mutevoli e talvolta imprevedibili. Il valore epistemico, etico e poetico di una clinica non sta nella sua eventuale fondatezza logica ma sulla capacità di seguire il ritmo degli eventi – il termine latino methodus non compare mai nel testo lucreziano. Essa è una sorta di gesto filosofico, letteralmente una posturapositura nei termini lucreziani – che fa del suo intreccio con il ritmo implicato dell’evento l’elemento chiave per costruire un pensiero, per immaginare, per parlare e per orientarsi nel mondo attraverso figure, ritmi, intervalli.

Il clinamen è così ciò che costituisce il soggetto medesimo come declinazione – come non-coincidenza con se stesso –, è il movimento che ci fa costantemente ritornare dentro una scena che è sempre a venire: è quel punto in cui si anima l’evento del vissuto e in cui si dispiega una vita. Quell’istante singolare del vissuto dove si assolve in un momento unico il caso e il destino, dove τύχη e ἀυτóματον stanno insieme sino a coincidere. Henri Bergson, filosofo che amava Lucrezio, ha magnificamente restituito questo movimento in un passo de L’evoluzione creatrice, dove immagina gli esseri viventi che girano su se stessi, “come mulinelli di polvere sollevati dal vento che passa, […], sospesi al grande soffio della vita” (Bergson, 2002, pp. 108-109). Essi imitano così bene l’immobilità che noi li percepiamo “come cose anziché come progressi, dimenticando che la permanenza stessa della loro forma non è altro che il disegno di un movimento” (ib.). In questo vorticoso turbinio, però, si materializza talvolta, davanti ai nostri occhi, “come una fuggevole apparizione, il soffio invisibile che li porta” (ib., traduzione modificata).

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Notes

1 Queste aree semantiche sono passate nelle lingue neolatine, come mostra ad esempio il termine italiano inclinazione che definisce, allo stesso tempo, sia una flessione fisica che una disposizione psichica; il francese invece mantiene tuttora due parole differenti, inclination e inclinaison. Retour au texte

2 Cfr. Aristotele Fisica II, 4f e Metafisica V, 30. Retour au texte

3 A riguardo si veda anche Pollock, 2012. Retour au texte

4 Sul concetto di “iperstrutturalismo” si veda Milner, 2009. Retour au texte

5 La parola è, ricordiamolo, è prima di tutto una maniera di modulare un flusso d’aria. Più che una concatenazione di significanti legati gli uni agli altri, si presenta come una matassa di linee acustiche (altezza, timbro, frequenza) e di linee prosodiche (accentuazione, intonazione, ritmo, tempo, tagli sillabici). Ogni lingua è plurilineare, multidimensionale, intreccio ritmico. Retour au texte

6 Cfr. Morel, 2000. Retour au texte

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Référence électronique

Nicola Turrini, « Poetiche della contingenza », K [En ligne], 6 | 2021, mis en ligne le 01 juin 2021, consulté le 18 mars 2025. URL : http://www.peren-revues.fr/revue-k/1196

Auteur

Nicola Turrini

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