Résumé

Mime is a central figure in Gilles Deleuze’s Logic of Sense. Starting with a reprise of Deleuzian reference to mime, this essay would try to analyse the re-emergence of mime within the French philosopher's reflection on cinema through the paradigmaticity of the most famous of Charlie Chaplin’s inventions: Charlot.

Index

Keywords

Charlot, Deleuze, mime, gesture, cinema

Plan

Texte

1. Caucus race

La figura del mimo è un concetto centrale della Logica del senso di Gilles Deleuze (Deleuze, 1976). Essa compare nella “Decima serie. Sul gioco ideale” per poi essere sviluppata all’interno di uno dei concatenamenti seriali più importanti del volume – le serie dalla diciannove alla ventitré, dedicate rispettivamente all’“umorismo”, al “problema morale negli stoici”, all’“evento”, a “Porcellana e vulcano” per concludersi nella sezione chiave dedicata a quella fondamentale forma del tempo che Deleuze definisce “Aiôn1. In questo lavoro deleuziano, il mimo viene a occupare lo stesso topos che spetta a un altro concetto – ripreso, ancora una volta, dallo stoicismo: quello di “incorporeo” (asōmaton) o “evento” (tynchánon).

Gli Stoici interpretano i corpi come delle cause e gli incorporei come i loro effetti. Ammessa dunque l’interazione dei corpi, il problema (aristotelico) della loro sostanza perde la sua centralità, consentendo di convertire la domanda “che cos’è un corpo?” in quella relativa a “come interagisce, come si effettua un corpo?”. Nella prospettiva dello stoicismo non esistono quindi i corpi isolati, da una parte, e degli universali da questi separati: la realtà conoscibile è costituita solamente da corpi in relazione, sempre colti in determinate situazioni, sempre disposti in un certo modo; ed è questa loro stessa relazionalità evenemenziale a costituire l’effetto o l’evento.

Quando Deleuze introduce il mimo per la prima volta, egli lo fa a proposito della caucus race descritta da Lewis Carroll in Alice’s Adventures in Wonderland (1865) – dove i corridori partono quando vogliono, stazionano e si fermano a piacere poiché, dopotutto, tutti i partecipanti risulteranno vincitori. Tale corsa è ricondotta alla sfera del “gioco ideale”, poiché la forma di gioco – e, conseguentemente, di mimo – su cui l’autore riflette non ha nulla a che vedere col gioco normale, declassato a “caricatura o controparte del lavoro e della morale” (Deleuze, 1969)2. Non è il corpo che corre che interessa qui Deleuze, e nemmeno a chi appartenga il corpo in azione; ciò che importa è piuttosto che questo corpo abbia appena effettuato o sia in procinto di effettuare un evento. Pertinente non è il fatto del correre, ma il modo in cui il corpo stesso si dà in quella situazione, come portatore di un’andatura piuttosto che di un inciampo o di un’esitazione3.

Proprio come l’evento stoico, la vita del mimo – la vita mimica, potremmo dire – non può mai svolgersi nel presente. Se, come Deleuze suggerisce, l’evento-effetto è sempre il segno o la traccia dell’azione di un corpo, non sarà allora possibile sostenere che quest’ultimo venga colto nella presenza, ma sempre e soltanto sul margine di un’azione compiuta o in procinto di compiersi. Non “un corpo corre”, ma “un corpo ha appena corso” oppure “un corpo sta correndo, è già arrivato in fondo alla strada”: sarà in ogni caso la sagoma di un corpo, la sua figura – ma anche, e forse soprattutto la traccia o le impronte evanescenti del suo cammino; riprendendo una efficace definizione di Frédérique Ildefonse, l’evento non è altro che una “postura dei corpi” (Ildefonse, 1997, p. 162). Il mimo, quindi, non rappresenta che il fantasma di un’azione avvenuta o a venire.

Deleuze sembra così intrecciare il senso del mimo con i corpi e le azioni; ma si tratta di azioni del tutto particolari che ricordano l’idea mallarmeiana del mimo: “Dipingere senza dipingere, non-pensiero, tiro che diviene non-tiro, parlare senza parlare […] questa frontiera, questa superfice dove il linguaggio diventa possibile e, divenendolo, non ispira altro che una comunicazione silenziosa immediata” (Deleuze, 1976, p. 162).

Una volta afferrato l’evento, sarà possibile “raddoppiare i corpi” – cioè eludere il piano di cause e azioni – e rendere istantanea l’effettuazione4. Il saggio stoico è così presentato come un mimo in virtù della sua capacità di emergere dal piano ontologico delle cause raddoppiando gli effetti dei corpi. In altre parole, il mimo è pensato come colui che raddoppia – cioè allude e rende vane – le rappresentazioni, i corpi e le loro cause, esprimendo la loro immanenza agli eventi.

2. Charlot

La figura del mimo riappare tuttavia in un altro luogo chiave della filosofia di Deleuze – quasi un ventennio dopo Logica del senso, volume datato 1969 – e precisamente ne L’immagine-movimento. Cinema 1, il primo dei due volumi dedicati al cinema. In questo nuovo contesto, il mimo è incarnato da una figura molto specifica, quella di Charlie Chaplin. Più precisamente, è il celebre personaggio di Charlot ad assumere un ruolo particolarmente significativo, perché, agli occhi di Deleuze, incarna paradigmaticamente la “piccola forma” che, insieme alla “grande forma” – che troverà invece il suo apice in Buster Keaton – è una delle due forme secondo cui si sviluppa l’“immagine-azione”5.

Più precisamente, la prima apparizione di Charlot si trova nel contesto di una più generale riflessione attorno al modo con cui le arti del Novecento, e il cinema in particolare, hanno saputo riflettere e mettere in opera una nuova idea di movimento, “un’evoluzione che coinvolgeva le arti e cambiava lo statuto del movimento, anche in pittura” (Deleuze, 1984, p. 19). Si tratta di un luogo cruciale di Cinema 1, in cui Deleuze sta affrontando il “primo commento a Bergson”, cioè l’analisi delle sue tre tesi sul movimento:

Ma già ai tempi del muto – continua il filosofo francese – Chaplin aveva sottratto il mimo all’arte delle pose per farne un mimo-azione. A chi rimproverava a Charlot di servirsi del cinema, e non di servirlo, Mitry rispondeva che egli offriva al mimo un nuovo modello, funzione dello spazio e del tempo, continuità costruita a ogni istante che si lasciava scomporre solo nei suoi immanenti elementi notevoli, invece di rifarsi a forme preliminari da incarnare (ib.)6.

Secondo Deleuze, l’originale operazione di Charlot sarebbe quella di “pervertire” una certa idea del mimo – inteso come “arte delle pose” mimetiche – in direzione di un nuovo “modello” che egli definisce “mimo-azione”: il punto è che non si tratta di incarnare forme già date all’interno di un contesto trivialmente mimetico quanto piuttosto di costruire una forma mimica che, radicandosi nella struttura spazio-temporale di un’azione o di una situazione, sia capace di produrre una forma continua e sintetica: indicheremo questa forma mimica, non esplicitamente definita da Deleuze, con il termine gesto. Tale forma può essere certamente analizzata – cioè scomposta nei suoi elementi notevoli – ma gli elementi che si ottengono attraverso la scomposizione analitica non sono, di per sé, capaci di restituire la continuità sintetica del mimo-azione. Traducendo quest’ultima considerazione all’interno di un contesto propriamente cinematografico potremmo affermare che il gesto (filmico) del mimo-azione non può essere compreso analizzando singolarmente, a esempio, i singoli fotogrammi che si trovano sul supporto fisico della pellicola.

La figura di Charlot non si costituisce sulla “posa” – o su di una “sezione immobile” – ma su qualcosa di natura differente; e questa idea coincide perfettamente con l’idea bergsoniana per cui “il cinema appartiene pienamente a questa concezione moderna del movimento” (ib.). Come lo stesso Deleuze puntualizza, “ricomporre il movimento con pose eterne o con sezioni immobili non fa differenza: in entrambi i casi si perde il movimento, perché si produce un tutto, si suppone che ‘tutto è dato’, mentre il movimento ha luogo soltanto se il tutto non è né dato né può essere dato” (ib.). Questa generalizzazione, per cui la ricomposizione del movimento attraverso “pose eterne” non riesce a rendere conto della sua realtà, si traduce, all’interno del campo mimico, come scomparsa del gesto e della sua temporalità: “Non appena ha luogo il tutto nell’ordine eterno delle forme e delle pose, o nell’insieme degli istanti qualsiasi, allora il tempo non è altro che l’immagine dell’eternità, o la conseguenza dell’insieme: non c’è posto per il movimento reale” (ib.)7.

Il limite a cui Deleuze fa riferimento risiede nel fatto che le pose (sezioni immobili) sono dei “momenti qualsiasi” che si riferiscono a elementi formali trascendenti, riducendo il movimento a una “sintesi ideale” – o, nei termini di Logica del senso, a una “sintesi congiuntiva” o “connettiva” (Deleuze, 1976, p. 155)8 – che è in grado di fornire al movimento stesso soltanto un ordine e una misura. Concepito in questo modo, il movimento sarà dunque inteso come un ordine delle pose o degli istanti privilegiati, quindi come transizione regolata da una forma a un’altra; tuttavia, aggiunge Deleuze, non è sufficiente riportare il movimento a dei momenti qualsiasi ma “bisogna diventare capaci di pensare la produzione del nuovo, cioè del notevole e del singolare, in uno qualunque di questi momenti” (Deleuze, 1984, p. 20). Il cinema diviene così un elemento essenziale nella nascita e nella formazione di questo nuovo pensiero, di questo nuovo modo di pensare il movimento stesso attraverso il cinema. E, come vedremo più avanti, se la trascendenza della posa non può rende conto del movimento reale non potrà rendere conto neanche del tempo reale poiché incapace di restituirne una “presentazione diretta”9.

Ora, all’interno della tassonomia deleuziana che descrive i mutamenti dell’immagine-movimento, una modalità dell’immagine particolarmente importante è quella dell’“immagine-azione”. L’immagine-azione non è soltanto una delle tre variazioni dell’immagine-movimento (insieme a “immagine-percezione” e “immagine-affezione”) ma è strettamente legata alla nozione di “schema senso-motorio” che, per Deleuze, è un sinonimo di cliché. L’immagine-azione si divide a sua volta in due forme principali – la “grande forma” e la “piccola forma” – e, nell’analisi deleuziana, il cinema classico si distribuisce sommariamente secondo queste due forme. Ciò che qui ci interessa non è tanto la distinzione delle due forme ma il fatto che, secondo il filosofo francese, un genere cinematografico in particolare sembra essersi votato esclusivamente alla piccola forma “al punto da averla creata e aver gettato i presupposti per la commedia di costume” (p. 196): si tratta della comica e, in particolare, di Chaplin.

Un’immagine-azione riunisce sempre una dualità, a tutti i suoi livelli, ed è per questo motivo che essa può assumere i due aspetti differenti sopra citati:

La grande forma SAS’ andava dalla situazione all’azione, che modificava la situazione. Ma c’è un’altra forma, che va al contrario dall’azione alla situazione, verso una nuova azione: ASA’. Questa volta, è l’azione che svela la situazione, un frammento o un aspetto della situazione, il quale dà inizio a una nuova azione. L’azione avanza alla cieca e la situazione si svela nel buio o nell’ambiguità. Di azione in azione, la situazione emergerà a poco a poco, varierà, infine si chiarirà o manterrà il proprio mistero. Abbiamo chiamato grande forma l’immagine-azione che andava dalla situazione come inglobante (sinsegno) all’azione come duello (binomio). Per comodità, chiameremo piccola forma l’immagine-azione che va da un’azione, da un comportamento o da un habitus a una situazione parzialmente svelata. È uno schema sensorio-motore rovesciato. Una simile rappresentazione non è più globale, ma locale. Non è più spiralica, ma ellittica. Non è più strutturale, ma evenemenziale. Non è più etica, ma commedica (diciamo “commedica” perché tale rappresentazione dà luogo a una commedia, benché non sia necessariamente comica e possa anche essere drammatica). Il segno di composizione di questa nuova immagine-azione è l’indizio (p. 187).

La definizione generale di “piccola forma” sarà poco dopo chiarita da Deleuze proprio attraverso un riferimento alla “serie di Charlot” di Chaplin, in cui l’elemento – mimico, aggiungiamo noi – fondamentale è costituito da “una piccolissima differenza nell’azione, o tra due azioni, che farà valere una distanza infinita tra due situazioni, e che esiste solo per far valere tale distanza” (p. 196). Si considerino alcuni celebri sequenze della serie: Charlot è visto di spalle e, appena abbandonato dalla moglie, sembra tremare dai singhiozzi, e invece, non appena si gira, lo vediamo intento a scuotere uno shaker e a prepararsi un cocktail. Allo stesso modo, in guerra, Charlot segna un punto ogni volta che spara; ma quando il nemico gli risponde sparando, egli cancella immediatamente il punto. Deleuze coglie qui un elemento essenziale del procedimento comico: l’azione viene filmata dall’angolazione della sua più piccola e infinitesima differenza rispetto a un’altra azione (ad esempio, sparare una fucilata-tirare un colpo) svelando così l’immensità della distanza tra due situazioni (partita di biliardo-guerra). Una delle sequenze più straordinarie è quando si vede Charlot che si attacca a una salsiccia che pende dal salumiere, suggerendo un’analogia che suscita simultaneamente tutta la distanza che separa un tram da una salumeria. È proprio quanto si ritrova nella maggior parte dei dirottamenti degli oggetti d’uso: una minima differenza introdotta nell’oggetto indurrà funzioni opponibili o situazioni opposte.

Ancora più significative sono le situazioni in cui Charlot fronteggia direttamente la potenzialità delle macchine e degli attrezzi – un tema assai frequente nella serie; quando Charlot si confronta con le macchine, ne trae l’idea di un “attrezzo smisurato” che si converte continuamente nella situazione contraria. Basta un “nulla” per volgere la macchina contro l’uomo, per farne uno strumento di cattura, di potere o persino di tortura10. Ciò che mostra la serie di Charlot è la possibilità di cogliere le leggi della piccola forma, come la confusione e l’identificazione con l’ambiente. La stessa serie di Charlot potrebbe essere pensata, al limite, come una serie di omologhi che tende all’infinito verso Charlot – Charlot nella sabbia, Charlot-statua, Charlot-albero, che reincarna la profezia di Macbeth e così via. Come a suggerire che per comprendere pienamente la figura di Charlot dobbiamo riferirci alla sua serialità, alla sua evoluzione. Charlot è la serie dei singoli Charlot, la figura generale che emerge dalla serie infinita – in cui dovremmo forse comprendere anche Chaplin stesso. Una differenza infinitesima ribalta sempre la situazione, inducendo lo sdoppiamento di personalità di un personaggio da cui dipende tutto – come in Febbre dell’oro o Le luci della città – o producendo l’istante come momento critico delle situazioni opponibili:

Charlot preso nell’istante, mentre va da un istante all’altro, ognuno dei quali esige da lui tutte le forze d’improvvisazione; infine, la linea d’universo che egli traccia in tal modo, tratto spezzato che si evidenzia già nei cambiamenti angolari del suo incedere, e che collega in fin dei conti i suoi segmenti e direzioni solo allineandoli sulla lunga strada in cui Charlot visto di spalle s’inoltra, tra pali e alberi senza foglie, oppure sulla frontiera che segue zigzagando, tra l’America in cui la polizia lo aspetta al varco, e il Messico in cui lo aspettano i banditi. È dunque tutto il gioco degli indizi e dei vettori che costituisce il segno dell’immagine comica: l’ellisse nei suoi due sensi (p. 197).

Si tratta della “legge dell’indizio”, un’infinitesima differenza nell’azione che fa valere una distanza infinita tra due situazioni, essenziale per il genere comico e per un pensiero (del) comico. Questa istanza del comico in generale trova tuttavia in Charlot non solo un paradigma ma anche una realizzazione assolutamente originale. La grandezza di Chaplin risiede nella capacità di selezionare i gesti prossimi e le corrispondenti situazioni distanti, in modo da far nascere dal loro rapporto un’emozione particolarmente intensa contemporaneamente a una risata, e di intensificare la risata con tale emozione. Se una piccola differenza nell’azione induce e fa alternare situazioni molto distanti o opponibili, una delle due situazioni sarà realmente toccante, terribile, tragica; e non si tratta di una semplice illusione ottica ma di una dinamica costitutiva, poiché il comico si definisce, in questo caso, attraverso l’attivazione del suo duale.

Nell’esempio precedente di Charlot soldato, la guerra è la situazione reale e presente, mentre la partita di biliardo arretra all’infinito. Eppure, non arretra abbastanza da impedire la nostra risata; inversamente, la nostra risata non impedisce l’emozione di fronte all’immagine bellica che si impone e si sviluppa, fino ad arrivare alle trincee inondate. Insomma, l’infinita distanza tra le due situazioni (la guerra e la partita di biliardo) commuove poiché l’avvicinamento delle due azioni – la piccola differenza nell’azione – ci fa ridere di più. Questo accade perché Chaplin non solo sa “inventare” la differenza minima tra due azioni ben scelte – cioè un gesto – ma sa anche costruire la massima distanza tra le situazioni corrispondenti: la prima tale da pervenire all’emozione, l’altra tale da accedere al piano trascendentale del “comico puro”. È un circuito emozione-risata dove la prima rinvia a una piccola differenza, la seconda a una grande distanza, senza che l’una cancelli o attenui l’altra ma in modo invece che entrambe si diano il cambio e si rilancino. Il genio di Chaplin non è allora comico o tragico ma le due cose insieme: quanto più si ride tanto più si è commossi:

In Le luci della città la giovane cieca e Charlot non si distribuiscono le parti: nella scena della matassa, tra l’azione cieca che tende ad annullare ogni differenza tra un filo e l’altro e la situazione visibile che si trasforma completamente, a seconda che uno Charlot presuntamente ricco tenga la matassa o uno Charlot miserabile perda il suo cencio, i personaggi sono entrambi nello stesso circuito, entrambi comici e commoventi (p. 198).

3. Charlot muore

Gli ultimi film di Chaplin scoprono il sonoro e, significativamente, fanno morire Charlot. In Monsieur Verdoux (1947) non soltanto Verdoux ridiventa Charlot quando va verso la morte, ma il dittatore che sale sulla tribuna si confonde con uno Charlot che sale sul patibolo. Lo stesso principio della serie sembra allora acquisire una nuova funzione. Nel film del 1947, la differenza tra i due aspetti o comportamenti di uno stesso uomo – l’assassino di donne e il marito innamorato di una sposa paralizzata – è così sottile che ci vuole tutta l’intuizione della sposa per presentire, a un certo punto, che egli è “cambiato”. Da una differenza piccola ed evanescente risulta tuttavia una grande distanza delle situazioni opposte, testimoniata dai frenetici va e vieni tra i falsi domicili e la vera casa familiare. Bazin aveva riconosciuto questa stessa dinamica ne Il grande dittatore: non sarebbe stato possibile se, nella realtà, Hitler non avesse preso e rubato i baffetti di Charlot (Bazin, Rohmer, 1972, pp. 28-32). Tra il minuto barbiere ebreo e il dittatore, la differenza è minima tanto quanto quella tra i due baffi ma, nonostante ciò, ne risultano due situazioni infinitamente distanti e opponibili – quella della vittima e quella del carnefice.

Di nuovo, l’operazione di Chaplin non vuole offrire – se non marginalmente – un giudizio morale, del tipo che in ognuno di noi si nasconderebbe un dittatore o un assassino potenziale, o che sarebbero le situazioni a renderci buoni o cattivi, vittime o carnefici. Ciò che conta molto più di una dicotomia tra il buono e il cattivo sono i “discorsi soggiacenti” (Deleuze, 1984, p. 199), che si esprimono in quanto tali alla fine di questi film. Ed è per questo motivo che tali film procederanno nello stesso tempo a una progressiva conquista del sonoro e alla progressiva scomparsa di Charlot. La figura del mimo, e il gesto che lo definisce, sono proiettati nel discorso. Ciò che dicono i discorsi, nel Grande dittatore e in Monsieur Verdoux, è che la Società si pone nella situazione di fare di ogni uomo di potere un dittatore sanguinario, di ogni uomo d’affari un assassino, dato che offre troppi vantaggi alla cattiveria, invece di generare situazioni in cui la libertà e l’umanità, coincidano con il nostro interesse o con la nostra ragion d’essere. Ecco, dunque, cosa è cambiato negli ultimi film di Chaplin: il discorso introduce una dimensione del tutto nuova, e costituisce delle immagini “discorsive”.

Non si tratta più soltanto di due situazioni opposte che sembrano nascere da minuscole differenze tra azioni, tra uomini o all’interno di uno stesso uomo. Si tratta di due stati della società opponibili, di cui uno fa della piccola differenza tra gli uomini lo strumento di una infinita distanza di situazioni (tirannia), e l’altro farebbe della piccola differenza tra gli uomini la variabile di una grande situazione comune e comunitaria (Democrazia). Nella serie muta di Charlot, Chaplin poteva accedere a questo tema solo attraverso immagini idilliache o oniriche (il grande sogno di Charlot poliziotto o l’immagine idilliaca in Tempi moderni). Ma sarà il sonoro, sotto forma di discorso, a dare una consistenza “realista” al tema. Si potrebbe che Chaplin è uno degli autori che più hanno diffidato del sonoro e che al tempo stesso ne hanno fatto un uso radicale, originale: Chaplin se ne serve per introdurre nel cinema la figura del discorso, e trasformare così i problemi iniziali dell’immagine-azione. Di qui l’importanza particolare del Grande dittatore, in cui il discorso finale – a prescindere dal suo valore intrinseco – s’identifica con il linguaggio dell’uomo, rappresenta tutto quanto l’uomo possa dire, in rapporto alla falsa lingua del non-senso e del terrore, dell’urlo e del furore, che Chaplin inventa genialmente, in bocca al tiranno. La piccola forma della comica non mancava di nulla; ma, negli ultimi film, Chaplin la spinge sino a un limite che la fa pervenire a una grande forma e che non ha più bisogno della comica, pur conservandone la potenza e i segni. Infatti, sarà sempre la piccola differenza a scavare in due situazioni incommensurabili o opposte (di qui la domanda lancinante di Luci della ribalta: qual è questo “nulla”, quest’incrinatura dell’età, questa piccola differenza dell’usura, che trasforma un bel numero di clown in uno spettacolo patetico?). Ma negli ultimi film, e ancora una volta in Luci della ribalta, le piccole differenze degli uomini o all’interno di uno stesso uomo diventano degli “stati di vita”, variazioni di uno slancio vitale che il clown può mimare, mentre le situazioni opponibili diventano due stati della società, uno impietoso che va contro la vita, l’altro che il clown morente può ancora scorgere e comunicare alla donna guarita. E anche in questo caso, in Luci della ribalta, tutto ha luogo attraverso l’introduzione del discorso, secondo una modalità shakespeariana, il più shakespeariano dei tre discorsi di Chaplin. Egli se ne ricorderà quando in Un re a New York si lancia nel discorso di Amleto, che è come l’inverso o l’antipode della società americana (la democrazia è diventata “regno” poiché l’America è diventata società di propaganda e di polizia)11.

4. Il gesto contro il cliché

Nel secondo volume dedicato al cinema, tuttavia, Chaplin scompare, quasi fosse una figura esclusiva di quello che Deleuze definisce “cinema classico” a cui in effetti è dedicato Cinema 1. Uno degli aspetti della cesura che, secondo Deleuze, giustifica la separazione dei due volumi è la distinzione tra “cinema classico” e “cinema moderno”; non si tratta di una distinzione rigida né di una distinzione puramente cronologico-evolutiva12 ma piuttosto di una differenza paradigmatica, legata a due modi differenti di intendere l’immagine cinematografica – modalità richiamate puntualmente nel titolo assegnato ai due volumi. Il cinema classico avrebbe portato a compimento l’immagine-movimento e la relativa “presentazione indiretta del tempo”, mentre il cinema moderno avrebbe introdotto la possibilità di una “presentazione diretta del tempo” che restava preclusa al cinema classico a causa del ruolo che in esso vi giocavano l’“immagine-azione” e lo “schema senso-motorio” (Deleuze, 1989). La domanda è allora se veramente Charlot/Chaplin sia una figura/attore propriamente classica o se, in realtà, non possa essere pensata come una figura mimica che si posiziona nell’interstizio tra il cinema classico e il cinema moderno13. Per verificare questa ipotesi sarà necessario riprendere sinteticamente alcuni concetti chiave su cui è costruito Cinema 2. Il primo di questi è certamente quello di “situazione puramente ottica e sonora”. Deleuze lo introduce all’inizio della sezione I.3, intitolata L’intollerabile e la veggenza:

Una situazione puramente ottica e sonora non si prolunga in azione più di quanto sia indotta da un’azione. Essa fa cogliere, si presume faccia cogliere qualcosa d’intollerabile, d’insopportabile. Non una brutalità come aggressione nervosa, una violenza esagerata che si può sempre estrarre dai rapporti senso-motori nell’immagine-azione. Non si tratta neppure di scene di terrore, benché a volte vi siano cadaveri e sangue. Si tratta di qualcosa di troppo potente, o di troppo ingiusto, ma a volte anche di troppo bello, che quindi eccede le nostre capacità senso-motorie (p. 29)

Qualcosa nell’immagine diviene troppo forte e saper cogliere questo “intollerabile”, questo “insopportabile” significa “divenire visionario”. Il cinema non è più un’impresa di riconoscimento o di rappresentazione ma di conoscenza, un dispositivo attraverso cui “fare della visione pura un mezzo di conoscenza e d’azione” (ib.) o, secondo l’efficace formula di Jean-Marie-Gustave Le Clézio, una “scienza delle impressioni visive, che ci obbliga a dimenticare la nostra stessa logica e le abitudini della nostra retina” (Le Clézio, 1971, p. 28). Ma, aggiunge Deleuze, ciò che è importante è che il personaggio o lo spettatore, e tutti e due insieme, diventino “visionari”, formino un circuito:

La situazione puramente ottica e sonora risveglia una funzione di veggenza, contemporaneamente fantasma e constatazione, critica e compassione, mentre le situazioni senso-motorie, per quanto violente, si rivolgono a una funzione visiva pragmatica che “tollera” o “sopporta” quasi ogni cosa, dal momento che è presa in un sistema di azioni e di reazioni. […] Un nuovo tipo di personaggi per un nuovo cinema. Poiché quel che capita loro non gli appartiene, non li riguarda che a metà, essi sanno estrarre dall’avvenimento la parte irriducibile all’accadere: quella parte di inesauribile possibilità che costituisce l’insopportabile, l’intollerabile, la parte del visionario (Deleuze, 1989, p. 31).

Il cinema moderno ha bisogno di un nuovo tipo di attore: non solo quegli attori non-professionisti così importanti per il neorealismo agli esordi, ma quelli che lo stesso Deleuze definisce come “non-attori professionisti” o, con un’espressione quantomai felice, “attori-medium”, “capaci di vedere e di far vedere più che d’agire, capaci talvolta di restare muti, talvolta d’intavolare una conversazione qualsiasi all’infinito, piuttosto che di rispondere o seguire un dialogo” (ib.).

Questo eccesso visuale non è legato a una presunta eccezionalità della situazione o delle azioni in gioco; come ricorda puntualmente Deleuze, né le situazioni quotidiane, né le situazioni-limite, si segnalano di per sé per qualcosa di raro o di straordinario. Siamo dotati di schemi senso-motori per riconoscere queste cose, sopportarle o accondiscenderle, reagire tenendo conto della situazione e così via: “Possediamo degli schemi per voltarci dall’altra parte quando le cose sono troppo sgradevoli, per ispirarci la rassegnazione quando sono orribili, per farci coinvolgere quando sono troppo belle” (p. 32). Lo schema senso-motorio produce infatti un cliché, cioè “un’immagine senso-motoria della cosa”14. Abitualmente percepiamo dunque soltanto cliché; ma quando i nostri schemi senso-motori si inceppano può sorgere un altro tipo d’immagine: “Un’immagine ottico-sonora pura, l’immagine intera e senza metafora, che fa sorgere la cosa in se stessa, letteralmente, nel proprio eccesso d’orrore o di bellezza, nel proprio carattere radicale o ingiustificabile, perché essa non deve più essere ‘giustificata’ nel bene e nel male…” (ib.).

La relazione tra cliché e immagine non è un legame pacificato o definitivo. L’immagine, infatti, tende a ricadere continuamente allo stato di cliché: perché si re-inserisce in concatenazioni senso-motorie, o perché induce essa stessa queste concatenazioni, o ancora perché non siamo in grado di percepire mai tutto ciò che vi è nell’immagine – perché, forse, un’immagine è fatta anche per non essere percepita integralmente, per nascondersi dietro ad un cliché ci nasconda l’immagine: a volte “bisogna fare dei buchi, introdurre vuoti e spazi bianchi, rarefare l’immagine, sopprimere al suo interno molte cose, che erano state aggiunte per farci credere che si vedeva tutto. Bisogna dividere o fare il vuoto per ritrovare l’intero” (p. 33). Altre volte è invece necessario che la nuova immagine competa con il cliché sul suo stesso terreno. Per vincere non è certo sufficiente parodiare il cliché, e nemmeno farvi dei buchi e vuotarlo. Non ci sono regole predefinite per pervertire i cliché o per scompigliare i legami senso-motori così come non basta bucare un cliché e rompere uno schema senso-motorio. Non è quindi sufficiente una mera azione: bisogna “associare all’immagine ottico-sonora forze immense che non sono quelle di una coscienza puramente intellettuale, e nemmeno sociale, ma di una profonda intuizione vitale” (ib.). Una semplice azione non è mai sufficiente poiché necessità di un prolungamento, di un’associazione, di un rilancio, dell’incarnazione dell’evento: un gesto appunto, poiché il gesto, per essere tale, esige il proprio prolungamento da parte dello spettatore.

I nuovi circuiti prodotto dalle immagini ottiche e sonore pure definiscono “un al di là del movimento”, fanno sì che il movimento non debba essere percepito in un’immagine senso-motoria, ma colto e pensato in un altro tipo di immagine. L’immagine-movimento non scompare né viene cancellata ma diviene soltanto la prima dimensione di un’immagine le cui dimensioni continuano a crescere. Non stiamo parlando di dimensioni dello spazio ma di una dimensionalità incorporea che eccede lo spazio. In questo modo, se l’immagine-movimento e i suoi segni senso-motori erano in rapporto solo con un’immagine indiretta del tempo, l’immagine ottica e sonora pura si lega direttamente a un’immagine-tempo che ha subordinato a sé il movimento: il tempo allora non misura più il movimento ma del movimento diviene una prospettiva del tempo. Ma non era forse questa una dinamica già all’opera nella serie di Charlot?

Mentre l’occhio accede a una funzione di veggenza, gli elementi non solo visivi ma anche sonori dell’immagine intrecciano rapporti interni tali che l’intera immagine deve essere “letta” non meno che vista, leggibile nella stessa misura in cui è visibile. Per l’occhio del veggente è la “letteralità” del mondo sensibile che lo costituisce come libro, cioè come semioticamente aperto. Anche in questo, ogni riferimento dell’immagine o della descrizione a un oggetto presupposto come indipendente non scompare, ma si subordina ora agli elementi e ai rapporti interni che tendono a sostituire l’oggetto, a cancellarlo a mano a mano che appare, dislocandolo sempre. Ma il gesto stesso è letterale, poiché è il capovolgimento che definisce un al di là del movimento. Quando l’immagine come gesto si svincola dai legami senso-motori, essa cessa di essere un’immagine-azione per diventare un gesto ottico, sonoro (e tattile) puro. Ma l’immagine che si condensa nel gesto da sola non basta: se vuole sfuggire al mondo dei cliché essa deve entrare in rapporto con altre forze ancora: un gesto leggibile che non misura né rappresenta “nulla” ma produce un pensiero sintetico-disgiuntivo che tuttavia, come forse direbbe Deleuze, “non manca di nulla”.

Bibliographie

Bazin, A., Rohmer, E., 1972, Charlie Chaplin, Paris, Cerf.

Bergson, H., 2002, L’evoluzione creatrice, traduzione italiana di Fabio Polidori, Milano, Raffaello Cortina; ed. or. 1914, L’évolution créatrice, Paris, Alcan.

Deleuze, G., 1989, L’immagine-tempo. Cinema 2, Milano, Ubulibri; ed. or. 1983, Cinema 1. L’image-mouvement, Paris, Minuit.

Deleuze, G., 1984, L’immagine-movimento. Cinema 1, Milano, Ubulibri; ed. or. 1985, Cinema 2. L’image-temps, Paris, Minuit.

Deleuze, G., 1975, Logica del senso, traduzione italiana di Mario De Stefanis, Milano, Feltrinelli; ed. or. 1969, Logique du sens, Paris, Minuit.

Foucault, M., 1970, Theatrum philosophicum, in Dits et écrits, vol. I, Paris, Gallimard.

Ildefonse, F., 1997, La naissance de la grammaire dans l’Antiquité grecque, Paris, Vrin.

Le Clézio, J.-M.-G., 1971, L’extra-terrestre, in Fellini, “l’Arc”, n. 45, pp. 27-29.

Mallarmé, S., 1945, Mimique, in Œuvres complètes, Paris, Gallimard.

Mitry, J., 1973, Histoire du cinéma muet, III, Paris, Éditions Universitaires.

Notes

1 A queste serie andrebbe aggiunta anche l’appendice dedicata al tema del fantasma nella letteratura moderna, con particolare riferimento a Pierre Klossowski, cfr. Deleuze, 1989, pp. 247-291. Retour au texte

2 Idee simili si trovano in un’importante nota di Mallarmé sul mimo: “Qui percorrendo, lì rimemorando al futuro, al passato, sotto una falsa apparenza di presente – così opera il mimo, il cui gioco si limita a un’allusione perpetua”, cfr. Mallarmé, 1945, p. 310 e Deleuze, 1969, p. 62. Retour au texte

3 Per Deleuze, il mimo assume evidentemente un ruolo ontologico fondamentale; ed è proprio nella prospettiva dell’ontologia stoica che Deleuze si riferisce al mimo – essendo lui stesso, secondo la bella definizione di Foucault, nient’altro che un mimo del saggio stoico (Foucault, 1970, p. 99). Retour au texte

4 È all’interno di questa prospettiva che Deleuze suggerisce la possibilità di qualcosa come “un’etica del mimo”: “Il saggio stoico non soltanto comprende e vuole l’evento, ma lo rappresenta e dunque lo seleziona, e un’etica del mimo prolunga necessariamente la logica del senso. A partire da un evento puro, il mimo dirige e raddoppia l’effettuazione” Deleuze, 1976, p. 173. In Deleuze l’uso degli effetti e l’uso dei corpi vengono entrambi ripiegati nella figura paradigmatica del mimo come possibilità etica. Retour au texte

5 L’“immagine-azione” è la nozione centrale che Deleuze sviluppa lungo tutto il Corso di Cinema 1. Retour au texte

6 Cfr. Mitry, 1973, pp. 49-51. Retour au texte

7 Si veda anche Bergson, 2002, p. 284. Retour au texte

8 “Non che la disgiunzione sia ricondotta a una semplice congiunzione. Si distinguono tre tipi di sintesi: la sintesi connettiva (se…, allora) che porta sulla costruzione di una sola serie; la sintesi congiuntiva (e), come procedimento di costruzione di serie convergenti; e le sintesi disgiuntiva (o) che ripartisce le serie divergenti” (Deleuze, 1976, p. 155) Retour au texte

9 Il tema verrà ampiamente sviluppato nel volume pubblicato nel 1985, L’immagine-tempo. Cinema 2. Se il primo commento a Bergson si caratterizza come una confutazione della sua critica al cinema, per riconoscere proprio in questa arte il manifestarsi della durata bergsoniana, il secondo commento utilizza il primo capitolo di Materia e memoria, dal titolo La selezione delle immagini per la rappresentazione, per seguire e descrivere i tre mutamenti dell’immagine-movimento: l’immagine-percezione, nella sua prensione parziale e selettiva dell’oggetto; il suo prolungamento nella reazione, cioè l’immagine-azione, lo scarto tra le due, un intervallo esitante da parte del soggetto che rende possibile l’apparizione delle qualità pure, svincolate da qualsiasi utilità, proprie dell’immagine-affezione. A partire dal presupposto dell’identità di movimento e immagine, Deleuze compie così una classificazione dei diversi modi dell’immagine cinematografica, e dei corrispondenti segni indiretti del tempo, in un continuo passaggio dalla teoria ai concreti esempi cinematografici. Retour au texte

10 Si pensi ad esempio alle grandi macchine di Tempi moderni che vengono messe a confronto con la mera alimentazione dell’uomo, conducendo a difficoltà inestricabili. Retour au texte

11 Si veda anche il significativo confronto che Deleuze svolge, in queste stesse pagine, tra Buster Keaton e Charlie Chaplin: “La situazione di Buster Keaton è invece assai diversa. Il paradosso di Keaton è d’inscrivere immediatamente la comica in una grande forma. Se è vero che la comica appartiene essenzialmente alla piccola forma, vi è in Keaton qualche cosa d’ineguagliabile, anche rispetto a Chaplin, che conquista la grande forma solo attraverso la figura del discorso e il relativo disfacimento del personaggio della comica. La profonda originalità di Buster Keaton consiste nell’aver riempito la grande forma di un contenuto comico che sembrava rifiutare, di aver riconciliato a dispetto di ogni verosimiglianza comica e grande forma. L’eroe è come un minuscolo punto inglobato in un ambiente immenso e catastrofico, in uno spazio in trasformazione: vasti paesaggi che cambiano e strutture geometriche deformabili, rapide e cascate, grande nave alla deriva in mare, città spazzata dal ciclone, ponte che si schianta allo stesso modo di un parallelogramma che si appiattisce […] È un’intuizione giusta, quella del produttore: se Chaplin può far ridere con la Prima guerra mondiale, ciò avviene perché, come si è visto, egli riferisce la situazione terribile a una piccola differenza in sé risibile. Keaton, al contrario, realizza una scena o una situazione fuori comica, un’immagine-limite, tanto per il ciclone quanto per il combattimento. Non si tratta più di una piccola differenza che farà valere delle “situazioni opponibili, ma di un grande scarto tra la situazione data e la situazione comica attesa (legge della grande forma). Come verrà colmato lo scarto, non solo in modo che l’azione comica si produca ‘comunque’, ma in modo che possa ricoprire e trascinare la situazione tutt’intera, e possa coincidere con essa? Proprio come per Chaplin, non possiamo dire che Keaton sia tragico. Ma il problema è nei due autori totalmente diverso. Ciò che è unico in Buster Keaton è il modo con cui innalza direttamente la comica alla grande forma”, Deleuze, 1984, pp. 200-201. Retour au texte

12 Cfr. Deleuze, 1984, pp. 199-200. Retour au texte

13 La distinzione deleuziana tra cinema classico e moderno è radicalmente autoctona e sebbene si sovrapponga in parte al modo di intendere tale distinzione all’interno della storia, della teoria e della semiologia del cinema non va identificata con essa. Retour au texte

14 Il riferimento deleuziano è qui Materia e memoria di Bergson: “Come dice Bergson, noi non percepiamo la cosa o l’immagine intera, ne percepiamo sempre meno, ne percepiamo solo quel che siamo interessati a percepire, o piuttosto quel che abbiamo interesse a percepire, in ragione dei nostri interessi economici, delle nostre convinzioni ideologiche, delle nostre esigenze psicologiche” (Deleuze, 1989, p. 32). Retour au texte

Citer cet article

Référence électronique

Nicola Turrini, « Charlot. Il gesto contro il cliché », K [En ligne], 10 | 2023, mis en ligne le 01 juin 2023, consulté le 17 février 2025. URL : http://www.peren-revues.fr/revue-k/565

Auteur

Nicola Turrini

Articles du même auteur