Esiste un potenziale estetico-politico dell’immagine-Charlot?
Per rispondere a questo interrogativo, retorico quanto si vuole nella sua apoditticità, farò ricorso a un détour intorno al carattere pulsionale dell’immagine cinematografica, adottando la categoria anti-rappresentativa di “regime estetico” dell’arte, cui è strettamente connessa la nozione di “inconscio estetico”, introdotta da Jacques Rancière, per verificare la capacità del cinema di far deragliare la struttura narrativa del dicibile a vantaggio del divenire erratico del visibile.
Bisogna prima di tutto chiarire cosa significhi per Rancière farla finita con la rappresentazione. Si tratta di affermare la tesi per cui il nuovo indirizzo delle arti, nel suo sottrarsi all’ipoteca della mimesis, sgancia il visibile dal dicibile per consegnare le immagini alla rivoluzione estetica, a una nuova definizione di arte come “identità di un sapere e un ignorare, di un agire e di un patire” (Rancière, 2007, p. 167). La fine del regime rappresentativo ad opera della revoca estetica interrompe il “privilegio dello spazio teatrale della visibilità” (p. 171) a favore dell’accidente, che è poi l’identità del volere e del non volere, del sapere e dell’ignorare, dell’attivo e del passivo. È questa la logica dell’inconscio estetico, che orienta la pulsione sul dettaglio, sull’oggetto parziale, “frammento non raccordabile che disfa l’ordine della rappresentazione per rendere diritto alla verità inconscia” (Rancière, 2016, p. 93).
L’immagine cinematografica, al netto della sua captazione conservatrice da parte dell’industria culturale e dello show business, rientra a pieno titolo in questo nuovo statuto del visibile, caratterizzato dalla sostituzione dell’adeguamento all’Idea con l’immanenza del divenire; dalla destituzione dell’imitazione a vantaggio della differenza; dalla rottura della necessità dell’intreccio, diluito nella contingenza degli accidenti; dalla destrutturazione della posa a favore del gesto.
Il cinema di Charlot è cinema del gesto. Il gesto è insieme sprigionamento della contingenza e luogo di intensità libidica; affettività corporea e condensazione di senso; pathos del (non)sapere e atto mancato. È per questo che i gesti di Charlot non appaiono affatto improntati a una logica mezzi-fini, ma piuttosto dettati dalla contingenza dell’incontro tra le peripezie della pulsione (l’aggressività di Charlot, le sue improbabili strategie seduttive, l’infantilismo pestifero) e l’accidente in agguato. Si veda a proposito come una combinazione di casualità per nulla ordinate trascini Charlot in The Pawnshop (1916) dalle zuffe immotivate col collega al banco dei pegni, alle maldestre e sconclusionate avance alla figlia dell’usuraio suo principale, fino alla improbabile auscultazione diagnostica di una sveglia recata in pegno da un cliente, poi “smontata” e “rimontata” senza criterio.
Il gesto di Charlot schiva la programmazione dell’azione compiuta, perché, semplicemente, si esaurisce nel farsi, con la stessa improntitudine del lapsus e la stessa enigmaticità dell’atto mancato. La poesis è dappertutto, perché è consegnata alla fulmineità delle immagini intermittenti – immagini labili –, di cui il gesto – eccessivo, gratuito, inadeguato, incongruo – è la quintessenza. Il “mondo fluttuante” dell’immaginità contingente si oppone all’imitazione proprio per questo suo carattere effimero, per la sua plasticità incessante e non-sensica.
Questa destituzione “gestuale” della mimesis, che sia di matrice platonica o aristotelica – copia dell’eidos o rapporto tra mythos e praxis –, è stata per il cinema un compito estetico-politico, sia a livello di arte sia di dispositivi di “cattura della realtà”. Tanto il cinema di propaganda quanto quello hollywoodiano, industria culturale alla cui nascita Chaplin contribuì significativamente, hanno infatti a che vedere con una sottomissione “mimetica” del visibile al dicibile. Ciononostante – ed è qui il carattere propriamente politico del cinema secondo Rancière –, le immagini cinematografiche si sono spinte oltre la dimensione rappresentativa dissolvendo la “misura comune” – la via del “buon senso” e del “senso comune”, direbbe Deleuze –, a favore di “un eterogeneo non gerarchizzato” (Rancière, 2007, p. 25), di una nuova ritmica. Non solo perché – quasi per ovvietà – Charlot è creatura del cinema muto ed è dunque sottratto alle maglie della parola. Ma ancor più perché la gestualità di Chaplin disubbidisce al codice del prevedibile per consegnarsi all’imprevedibilità dell’evento. Charlot mette in scena lo splendore puro dell’immanenza, l’evento-effetto di superficie frutto dell’assoluta contingenza: in altri termini, l’innocenza insubordinata del divenire-folle.
È sulla strada di questa insubordinazione ritmica – danzante, goffa, acrobatica, scomposta –, sulla scia di questa sovversione dello spirito di gravità, che intendiamo rintracciare Charlot. Si pensi alla marcia dalla postura innaturale, niente affatto marziale, di Chaplin in Shoulder Arms (1918), o alla vanità di tutti i tentativi dell’ufficiale di irreggimentare la recluta Charlot, i cui movimenti col fucile in spalla non sono affatto “mimetici” rispetto a quelli dei commilitoni, che si muovono ordinatamente in risposta agli ordini dati al reparto inquadrato. Il dettaglio più “fuor di sesto” di Charlot sono naturalmente i piedi ruotati verso l’esterno, che aggiungono goffaggine alla scena destrutturando l’andatura rigida e compatta della truppa.
È a questo livello che un nuovo regime di “immaginità” ci restituisce, coerentemente, delle immagini “altre”, sottratte alla misura comune dell’intreccio ordinato, della subordinazione mimetica e “composta” della favola alle azioni (il mythos come mimesis praxeos), a vantaggio di un divenire affrancato dalla rappresentazione, che fa dell’azione scomposta e insubordinata il motore della favola.
L’inadeguatezza, l’equivocità, l’ellissi, l’improvvisazione dei gesti del vagabondo-Charlot (The Tramp), sono in questa cornice altrettante strategie visuo-concettuali per schivare la gabbia discorsiva del linguaggio che imbriglia il gesto nei processi di significazione, della struttura verticale che lega le immagini al modello, sottomettendo il succedersi delle scene a una concatenazione “reale” di fatti.
In estrema sintesi, è all’opera nel cinema delle immagini-lampo, del gesto superfluo, del movimento inefficace, della presenza erratica, un divenire-folle che segue precisamente la logica dello scompiglio, quello che Charlot porta sulle scene.
Nel primo film con protagonista Charlot, Kid Auto Races at Venice, Cal. (1914), il vagabondo disturba una gara annuale di macchine per bambini, tenutasi effettivamente domenica 11 gennaio 1914 a Venice, California. Charlot improvvisa, testando le reazioni del pubblico ai suoi reiterati tentativi di farsi filmare dal cameraman intento a riprendere la gara. La confusione portata da questo “ingombrante” Charlot turba con la sua irriducibilità “pulsionale” la normalità, prevedibilmente borghese, dell’evento festivo. Il suo rientrare ostinato nell’inquadratura sembra voler testimoniare il carattere ingovernabile e incoercibile della sua immagine, del simulacro-Charlot, o forse dello stesso incombere dell’evento e dell’accidente nelle nostre vite.
Cosa ci dice tutto ciò sulla natura dell’immagine cinematografica di cui Charlot sembra fornire un “campione” quintessenziale, presentandosi al pubblico fin dalla sua prima apparizione come un’icona “insopprimibile”, dotata di tratti ad un tempo irritanti e burleschi?
A proposito della destituzione dell’ordine mimetico ad opera dell’immagine cinematografica, viene in soccorso di Rancière l’affermazione di Epstein riguardo alla stessa tecnica di ripresa e registrazione dell’occhio meccanico, che vede e trascrive “una materia uguale allo spirito, una materia sensibile immateriale, fatta d’onde e corpuscoli, che abolisce ogni opposizione fra apparenze ingannevoli e realtà sostanziali” (Rancière, 2006, p. 11). È nientemeno che la logica dei simulacri, che sovvertono la distinzione tra copie e originali, come già temuto da Platone nel Sofista. La logica della “favola” aristotelica, l’intreccio di azioni necessarie opposte alla contingenza delle immagini-simulacro, è in realtà lontana dalla vita proprio nel momento in cui cerca di imitarla. “La vita [...] non è fatta di storie, in essa non troviamo azioni orientate verso fini determinati, ma solo situazioni aperte in ogni direzione [...] un movimento lungo, continuo, composto da un’infinità di micro-movimenti” (p. 10).
È questa serie contingente di azioni erratiche a caratterizzare Charlot come figura dell’evento, del concatenamento molecolare destituente l’ordine molare, sia esso naturale o sociale.
C’è una singolare convergenza, in Charlot, delle due accezioni dell’immagine-simulacro, tecnica ed estetica, nella maschera dell’automa burlesco. Per Rancière, non si tratta solo di intravedere nella mimica di Charlot, con Bazin, “la forma fissata dai sali d’argento sulla pellicola di celluloide” (p. 23), enfatizzando la natura fantasmatica-simulacrale del personaggio-icona di Chaplin, quasi fosse una creatura al servizio dell’essenza del mezzo cinematografico. In realtà, “già prima del cinema l’automa burlesco era una figura estetica costituita [...] che ricusava la psicologia tradizionale” (p. 23). La rottura del principio mimetico di somiglianza implica quindi un sabotaggio dell’identità individuale, dell’identificazione come rispecchiamento nei meccanismi dell’intreccio, cui subentra un divenire-passivo – divenire-folle –, caratterizzato da “azioni e reazioni sempre in eccesso o in difetto” (ib.), che operano la sovversione dei nessi causali e destrutturano la logica “ordinaria” del film d’azione. La somiglianza mimetica viene rimpiazzata, per così dire, da una dissimilitudine erratica; l’evento scompagina la rappresentazione.
Ma ad essere messa in discussione dall’apertura di Charlot sull’evento, dalla sua presa nel flusso (cinematico) del divenire-folle, è la stessa soggettività, consegnata, come detto, a un’altalena “dell’impotenza e dell’eccesso di potere” (p. 25). È un tratto quasi spinoziano di Charlot, che sembra volerci insegnare cosa può un corpo, nelle sue azioni e passioni, a patto di restare aperto all’incontro: l’incendio, l’incidente, la svolta ad ogni angolo di strada che ci espone all’amore e alla morte, alla violenza e alla carezza.
Tiriamo le fila di quanto detto finora. Esiste un regime estetico dell’arte, affine al discorso dell’inconscio, capace di scardinare la logica della rappresentazione (è questo il principale guadagno teorico di Rancière). La ricaduta politica di tale postura anti-mimetica è nel senso della sovversione di ogni ordinamento gerarchico del gesto, sganciando il visibile dalle maglie del dicibile, l’immagine dalla parola. In particolare, l’immagine cinematografica, in alcune sue espressioni, per caratteristiche non tanto o non solo tecniche quanto più prettamente estetiche, è stata capace di esprimere al meglio questo nuovo regime anti-rappresentativo dell’arte, fondato non più sull’intreccio ma sull’incontro. All’interno della storia del cinema, la figura di Charlot appare come il punto di condensazione di questa nuova poetica dell’evento, della contingenza, dell’incontro e del caso.
Si tratta ora di verificare ulteriormente quest’ipotesi sulla scorta dell’utilizzo di Charlot all’interno della riflessione sul cinema di Gilles Deleuze.
Come detto poc’anzi, la dimensione evenemenziale di Charlot descrive un movimento erratico, sottratto a qualsiasi destinazione. L’impredicibilità del gesto ironico trova in Charlot – in linea con le notazioni deleuziane de L’immagine-movimento – una formidabile incarnazione, nel segno dell'incomparabilità tra situazioni svelata dall'azione “burlesca” attraverso la messa in scena di differenze infinitamente piccole.
In altre parole, la dimensione visuale dell'arte cinematografica, segnatamente nell'opera di Chaplin, si manifesta come apertura della differenza all'infinitamente piccolo attraverso l’incoercibilità espressiva dei corpi.
Per Deleuze, il cinema cospira con arti come la danza, il balletto e il mimo per sbaragliare le pose e le figure, consegnandole all’immanenza del movimento, un movimento riportato all’istante qualsiasi. Non si tratta più, nel cinema – e nella torsione che esso impone alla danza, al balletto, al mimo –, dell’arte “figurale”, “ieratica”, delle pose, intese come attualizzazione di una forma trascendente, ma di istantanee immanenti al movimento, di una successione di istanti qualsiasi cui va ricondotto il movimento stesso (non ci si soffermerà in questa sede sulla necessaria sintesi teorica operata da Deleuze in Cinema 1, che, tenendo conto della nozione bergsoniana di durata, è in grado di spiegare l’irrompere del nuovo in ciascuno degli istanti qualsiasi del movimento o dei fotogrammi della pellicola).
Qui ci interessa sottolineare, con Deleuze, come Chaplin strappi “il mimo all’arte delle pose per farne un mimo-azione” (Deleuze, 1984, p. 19). Si tratta, evidentemente, di un’azione (panto)mimica che contrasta lo spirito di gravità e non si sottomette alla “vocazione ieratica” delle pose ingessate, all’imposizione dall’alto di forme di ascendenza platonica e legate al regime della rappresentazione. Deleuze riprende a tal proposito la chiara impostazione di Jean Mitry nella sua Histoire du cinéma muet: “[…] Charlot […] dava al mimo un nuovo modello, funzione dello spazio e del tempo, continuità costruita a ogni istante che si lasciava scomporre solo nei suoi elementi immanenti notevoli, invece di riportarsi a forme preliminari da incarnare” (ib.). Charlot non è una bella statuina; piuttosto, come detto in precedenza, è un “automa burlesco”, la cui boxe è anche sempre una danza, o, più precisamente, percorre tutto il nastro di Möbius fino al punto in cui il pugilato si trasmuta in balletto – è il meccanismo dell’esagerazione del comico.
Charlot è la maschera del burlesque, e quest’ultimo, nelle pagine de L’immagine-movimento, si staglia come il genere per eccellenza della “piccola forma”, quella che, nella grammatica deleuziana, ribalta la supremazia della situazione definita a vantaggio dell’azione equivoca, dell’indizio ambiguo che porta lentamente al disvelamento di una situazione (lo schema della “piccola forma”, come noto, è ASA’).
Ma in che modo Charlot declina il burlesque? Attraverso “una piccola differenza nell’azione, o tra due azioni, che farà valere una distanza infinita tra due situazioni, e che esiste solo per far valere tale distanza” (p. 196). Questa arte burlesca della contraddizione tra azioni e situazioni innesca nello spettatore una compresenza di affetti contrastanti, capaci di potenziarsi a vicenda. A proposito di Charlot soldato (Shoulder Arms), Deleuze scrive infatti:
la distanza infinita tra S’ e S’’ (la guerra e la partita di biliardo) ci commuove maggiormente in quanto il riavvicinamento delle due azioni, la piccola differenza nell’azione ci fa ridere di più. [...] È un circuito risata-emozione: una rinvia alla piccola differenza, l’altra alla grande distanza, senza che l’una cancelli o attenui l’altra, ma tutt’e due si danno il cambio e si rilanciano. [...] Il genio di Chaplin è di fare tutt’e due le cose insieme, di far sì che si rida quanto più si è commossi (p. 198).
È uno schema che si ripete in City Lights (Luci della città), dove Charlot dà e riceve fiori e denari, a seconda che la situazione lo metta dinanzi alla giovane cieca nei panni del “milionario” o in quelli dello “straccione”, e che nei film sonori, tra tutti Il grande dittatore, sembra acquisire una nuova potenza, attraverso quella che Deleuze chiama la Figura del discorso: la differenza minima tra i baffi del barbiere ebreo e del dittatore è il correlato di due situazioni incommensurabili, incommensurabilità che si disvela nella torsione che trasforma il discorso bellicista e nonsensico di Adenoid Hynkel in quello pacifista e meditato del barbiere ebreo.
È qui che il burlesque viene condotto da Chaplin al parossismo, ma ciò che più ci interessa in questa sede è la sua caratteristica peculiare: far deflagrare il cortocircuito patico tra risata ed emozione, attraverso la percezione del contrasto, rispettivamente, tra la differenza minima a livello di azioni e la differenza massima a livello di situazioni. È emblematico in questo senso il caso di The Idle Class: “visto di spalle, Charlot abbandonato da sua moglie sembra scosso dai singhiozzi, e invece, non appena si gira, si vede che sta scuotendo uno shaker e si prepara un cocktail” (ivi. p. 196).
L’umorismo è qui “generato dal segno di un’azione equivoca” (Bogue, 2003, p. 88); questo segno è l’indice di Peirce con valore di indizio, un’immagine equivoca che punta verso due differenti situazioni, come piangere disperatamente su un amore perduto o prepararsi incurantemente un drink.
Secondo Deleuze, come noto, non bisogna ravvisare in Chaplin il tragico, proprio per la commistione emotiva di risata e commozione evocata attraverso la differenza minima tra azioni e la distanza massima tra situazioni. Ma la capacità deflagrante della comicità burlesca a livello estetico investe una posta in gioco ancora più alta, riconducendoci al nesso essenziale tra estetica e politica da cui siamo partiti. Può esserci di grande aiuto in questo senso la densissima opera di Alenka Zupančič dedicata al comico.
In The Odd One In. On Comedy, Zupančič sottrae il comico alla presa dei communication studies attraverso una serie di innesti filosofici e psicoanalitici, afferenti a una declinazione della differenza (e della ripetizione) debitrice tanto della lezione di Gilles Deleuze quanto di quella di Jacques Lacan. La differenza è infatti la chiave di volta per smarcare il comico dall’ipoteca della mimesis, così come, per Rancière, la rottura con l’identità o la somiglianza aveva inaugurato il regime estetico e segnato il primato dell’evento sull’intreccio.
L’ipotesi di Zupančič è che non sia il tragico, ma il comico, a rendere giustizia alla natura smagliata, lacerata, frammentaria dell’esistenza, articolando ciò che non potrebbe stare insieme, rendendo possibile la coesistenza di realtà alternative e contraddittorie. Si diceva in precedenza che l’arte mimetica, al contrario, nel suo tentativo di imitare la vita, finisce per tradirla, mancando il tratto generativo-differenziale della ripetizione, il carattere plastico della pulsione (plasticità che si palesa quando la si smarca dalla sua deriva mortifera, propria di una ripetizione ossessiva e sterile).
La logica “comica” della coesistenza di due eventi contraddittori – ad esempio, l’essere milionari e straccioni –, di due affetti incompatibili – la risata-pianto –, presuppone lo smantellamento dell’ordine proposizionale, naturale, sociale, e a conti fatti anche di quello ontologico, laddove “licenzia” il principio di identità per far posto al divenire-folle.
È alla luce di un simile rovesciamento della “rappresentazione” che la distinzione tra commedia e tragedia va problematizzata, ribaltando a favore del comico il giudizio in merito alla capacità di esprimere l’universalità delle emozioni e di risuonare con la vita tout court.
In questo senso, Zupančič scrive che il vagabondo, The Tramp, è “perfettamente stereotipico”, eppure, “allo stesso tempo sarebbe difficile trovare qualcosa di più concreto, soggettivo e universale [...]” (Zupančič, 2008, p. 37). Anche allargando lo sguardo a The Gold Rush o Modern Times, Charlot diventa l’incarnazione di un nome generico: “Lone prospector” (in The Gold Rush) o “[Factory] Worker” (in Modern Times). L’abdicazione al nome proprio, al contrassegno più immediato dell’identità personale, ha naturalmente a che vedere con la crisi di qualsiasi identificazione speculare-mimetica e con una metamorfosi della soggettività di cui il cinema si fa testimone. Si tratta, ovviamente, per Charlot, di incarnare l’universale in una maniera assolutamente non-platonica, decisamente anti-mimetica: per Zupančič, Charlot non è il “rappresentante” imperfetto della “trampship”, “prospectorship” o “workership”, ma è il divenire-vagabondo, divenire-cercatore, divenire-lavoratore. Nella commedia è evidentemente all’opera un movimento opposto rispetto a quello tragico:
Nella tragedia il soggetto agente, attraverso le varie traversie cui va incontro, deve lasciare – spesso a prezzo della propria morte – che qualche principio, idea o destino universali risplendano attraverso di lui. Nella commedia, al contrario, qualche universalità (‘vagabondo’, ‘lavoratore’, ‘misantropo’) deve lasciare che un soggetto in tutta la sua concretezza splenda attraverso di essa – non come l’opposto di questo universale (o come il suo supporto irriducibile), ma come la sua verità inerente, la sua flessibilità e vita (pp. 37-38).
È la vagabondaggine che deve cedere il passo al vagabondo. Qui, naturalmente, non si tratta di rappresentare l’Idea, ma di incarnare una virtualità, di attualizzarla. Siamo evidentemente di fronte a una lettura lacaniana della Fenomenologia hegeliana che la sfronda dal registro della rappresentazione, innescando un movimento interno all’universale che ne rivela lo spirito autentico. “È solo con il concreto che giungiamo al vero spirito dell’universale”, e in questo consiste la specificità e la “superiorità” del comico, poiché “il materialismo della commedia è precisamente il materialismo dello spirito” (p. 38). Charlot, dunque, come “universale concreto”, in termini hegeliani, ma, volendoci attenere all’ontologia deleuziana da cui siamo partiti, lo si potrebbe altrettanto bene definire come un’incarnazione del senso-evento.
La produzione eccedente del senso è la stessa capacità generativa della ripetizione, quella che, con Deleuze, non apporta l’identico, ma produce il nuovo, con tutto il suo portato autenticamente rivoluzionario. È facile dunque intravedere come al crocevia tra incarnazione comica, irruzione del nuovo e potenziale rivoluzionario si situi l’eccedenza estetico-politica di Charlot di cui andavamo in cerca all’avvio di questa trattazione.
Il comico rivoluzionario, che incarna la potenza generativamente contraddittoria della differenza, e, in ultima istanza, del desiderio, al rovesciamento del regime mimetico affianca la possibilità di un nuovo mondo. Charlot come nome del comico è l’immagine-lampo che, nel suo guizzo effimero, mima la possibilità di fare, disfare e rifare il mondo – un fare e disfare che è come lo smontaggio e il rimontaggio alla bell’e meglio della sveglia del banco dei pegni, in cui non ci si preoccupa di qualche ingranaggio fuori posto, perché l’eccedenza, il resto, non sono errori di sistema, ma dispositivi per sabotare il sistema.