Jeanne d’Arc allo Specchio

Del femminile assoluto

DOI : 10.54563/revue-k.640

Résumé

The biographical story of Joan of Arc can be read in psychoanalytic terms as a response to the call of the divine Other. While Joan cannot be categorized as a mystic, it is necessary to avoid framing her within the clinical realm of psychosis or delirium.

Joan of Arc embodies, rather, the possibility of another form of enjoyment, in Lacan’s terms “Other enjoyment” or “feminine enjoyment”, which challenges the phallic claim to occupy the field of jouissance.

Texte

Ritroviamo il diritto di evocare le voci allucinatorie di Giovanna d’Arco
Jacques Lacan

La figura di Giovanna d’Arco si situa all’intersezione di un coacervo di dimensioni: mistica, clinica, estetica, politica. Cionondimeno, il punto di partenza non può non essere la vicenda biografica di Jeanne d’Arc, nei termini della sua risposta alla chiamata dell’Altro/Dio e delle implicazioni psicoanalitiche di questo appello. Di fronte alla possibilità del deragliamento nel delirio, l’attribuzione di senso da parte di Jeanne alla chiamata dell’Altro configura la vertiginosa parabola della “Pulzella” – passata nel breve volgere di un paio di estati da fanciulla di campagna a guida del Delfino di Francia e capo di un’armata – come l’enigmatica risposta di una ragazza al cospetto di un Dio “mancante”.

Nello scoprirsi, non senza inquietudine, come colei che manca a Dio e all’uomo, Jeanne permane tuttavia, come si tenterà di argomentare, al di là della mistica e della psicosi1. La Pucelle, infatti, si sottrae tanto alla caduta nell’abisso psicotico e alla presa del godimento dell’Altro, quanto al delirio erotomaniacale e all’apparente identificazione con La Donna nel senso inteso da Jacques Lacan, per assumere invece su di sé il carattere non-tutto del godimento femminile nella sua infinità2. Questo Altro godimento, per sua la capacità di tenere infinitamente aperta la relazione con l’alterità, è in grado di destituire la pretesa del godimento fallico di esaurire il campo della jouissance. Jeanne d’Arc sarebbe così il nome di una jouissance Altra, l’incarnazione di una “gioia senza padronanza” (Recalcati, 2021, p. 150).

Nell’attendere dal luogo dell’Altro il segno della sua mancanza, Jeanne fa propria un’identificazione ideale come “Pulzella” e “Figlia di Dio”, “reinventando” tra l’altro il proprio corpo sotto abiti maschili. Sentirsi “La Pulzella” di cui Dio ha bisogno, la femme de Dieu, e “La Donna” che manca a tutti gli uomini, che può regnare su di essi e guidarli in guerra, permette a Jeanne di elevarsi immaginariamente come il loro Altro assoluto (femminile). Ciò non significa, ad avviso di chi scrive, che Jeanne si chiuda nella specularità di un “Io Ideale” in un quadro delirante, per una serie di considerazioni che proveremo ad enucleare nel corso dell’esposizione, ma che qui anticipiamo.

Da un lato, Jeanne sfugge alla presa soffocante del godimento dell’Altro divino non tramite un semplice ribaltamento erotomaniacale, per cui tutta la mancanza verrebbe spostata sul lato dell’Altro e il godimento insisterebbe nel soggetto sottratto alla castrazione3, ma andando oltre la mera acquiescenza alla domanda dell’Altro e prolungando il proprio slancio generativo grazie all’incarnazione del tratto eccedente (non-tutto) del desiderio e del godimento femminile. In questo senso, sarebbe utile chiamare in causa la dimensione del misticismo proprio nella connessione individuata da Lacan con l’Altro godimento. Dall’altro, se la forclusione del Nome-del-Padre fa sì che l’inconscio torni nel Reale sotto forma di “voci” – i “messaggi divini” –, Jeanne riesce a riannodare simbolicamente il Reale proprio attraverso la creatività dei nomi che configurano la sua nuova identità e battezzano la sua missione di “Pulzella” e “Figlia di Dio”. Il fantasma pulsionale di Jeanne, che ritorna enigmaticamente nel Reale attraverso le “voci”, si fa carne nel nome (nei nomi) che suppliscono alla mancanza del Nome-del-Padre. È il suo modo di “tenersi stretta” di fronte alla pressione delle voci dell’Altro, ed è anche il motivo joyciano in Lacan, su cui si ritornerà più avanti.

Infine, il tema della certezza come tratto della psicosi, che sembrerebbe indirizzare clinicamente il caso di Jeanne, andrebbe rivisto nel senso di una riconsiderazione della follia in termini “antipsichiatrici”, sulla scorta del primo Lacan (e, certamente, di André Green), nel suo nesso inscindibile con la libertà e con una forma di “idealismo appassionato” in obbedienza alla carica vitale di Eros. Si proverà a tenere insieme questa magmatica costellazione di senso.

A margine di ciò, anche le interpretazioni psichiatriche della condizione psichica di Jeanne nel quadro diagnostico del disturbo di conversione andrebbero rilette nella cornice del contesto storico e delle aspettative sociali dell’epoca, ma di ciò si darà brevemente conto in coda alla trattazione, unitamente a una suggestione riguardo al ruolo della fabulazione e del pensiero magico nell’esperienza della Pucelle.

Prima di dare spazio alle argomentazioni succitate, può essere di grande utilità affrontare le tesi espresse da Nicolas Brémaud qualche anno addietro (Brémaud, 2008, pp. 685-695), per proporne una rilettura critica che ne riconosce l’indubbio valore euristico ed ermeneutico.

Il discorso di Brémaud prende le mosse da un ben documentato inquadramento biografico della vicenda di Jeanne d’Arc4. Quella di Jeanne è una “vita di diciannove anni, guidata dalle sue voci, che si imporranno a lei dall’età di tredici anni e da quel momento non la lasceranno più” (p. 686). Dunque, la centralità delle “voci” nella storia di Jeanne, come espressione della presenza dell’Altro divino5. Ma c’è senz’altro una Jeanne di “prima delle voci”. Padre autoritario, madre devota, Jeanne viene descritta dalle fonti dell’epoca come vivace, gioiosa, gentile – “una ragazzina come le altre” (ib.). Nonostante ciò, la ragazza mostra una pietà religiosa fuori dal comune, senza riserve, che spesso la porta ad allontanarsi dai compagni di giochi per appartarsi e parlare con Dio (cfr. Giraud, 1948). Questa devozione sembra poter essere messa in riferimento con una forte identificazione alla figura materna (Brémaud, 2008, p. 691). Al di là del fervore religioso, viene segnalata dalle fonti anche un’emotività incostante, un carattere umorale, per così dire. Nell’estate del 1425, all’età di tredici anni, come detto, Jeanne sente per la prima volte “le voci”: la ragazza, all’inizio inquietata dall’evento, alla terza volta in cui esse si presentano le attribuisce all’arcangelo Michele, che le annuncia la prossima visita delle sante Margherita e Caterina, cui Jeanne, su loro richiesta, fa voto di verginità (rifiutando così di andare in sposa all’uomo scelto dal padre). Oltre a ciò, Jeanne apprende di essere stata prescelta per salvare la Francia e liberarla dal giogo inglese andando in soccorso del re (il Delfino di Francia, poi asceso al trono come Carlo VII di Valois). Per tre anni, Jeanne mantiene il segreto su quanto le sta avvenendo. Nel 1428, però, le voci si fanno più pressanti: in ragione di ciò, Jeanne lascia la propria casa a Domrémy e, grazie al signore di Baudricourt, ottiene udienza dal Delfino (è il 6 marzo del 1429), cui annuncia la propria missione: liberare Orléans dall’assedio inglese e condurre Carlo a Reims per farlo incoronare. Il resto della vicenda è ben noto. Dopo le prime esitazioni, il futuro Carlo VII le dà ascolto: Jeanne, “inguainata” nella sua armatura, recando con sé lo stendardo che ella stessa ha concepito (il Cristo Re che tiene in mano il mondo assiso su un arcobaleno e contornato da due angeli), si mette in marcia verso Orléans il 22 marzo; l’8 maggio la città è liberata, fatto che infiamma la fede e l’entusiasmo del popolo verso la Pulzella. Il 18 luglio, Carlo VII è incoronato a Reims, e Jeanne è al suo fianco. Dopo il compimento della missione, le voci di Jeanne diventano meno insistenti, ma lo slancio guerresco della Pulzella non si arresta. Durante una missione, Jeanne è catturata a Compiègne il 23 marzo del 1430 dalla parte borgognona e consegnata agli inglesi che la imprigionano. Il processo, celebrato all’inizio dell’anno successivo, la condanna al rogo per eresia: Jeanne muore il 30 maggio del 1431 a Rouen.

Sulla scorta delle testimonianze sulla vita della Pulzella, Brémaud ricusa l’attribuzione di una vena mistica a Jeanne d’Arc (p. 688), pur interrogandosi sulla questione. Vedremo come questa negazione recisa non colga appieno, a mio avviso, la potenza della jouissance di Jeanne. Ad ogni modo, può essere utile seguire questo punto di vista per introdurre la tesi che si andrà a sviluppare più avanti.

In accordo con una certa tradizione di studi, il misticismo si caratterizzerebbe per Brémaud per la sua natura di movimento verso Dio, di ricerca attiva di una connessione con il divino:

Questo sentimento indica che il mistico sperimenta una jouissance particolare, ma che questa jouissance non può essere raggiunta o sperimentata improvvisamente, all’istante, bensì solo attraverso un processo, un percorso che implica una regola di vita volta alla perfezione, richiedendo quindi una dimensione di volontà e sforzo da parte del soggetto. Per quanto riguarda Giovanna d’Arco e la sua relazione con il divino, gli elementi di vita menzionati precedentemente sono sufficienti per affermare che il misticismo non la riguardava (p. 689).

Dunque, l’estasi mistica come cammino e come ricerca non si riscontrerebbe nell’esperienza di Jeanne, che è quella di una rivelazione folgorante più che di una paziente metamorfosi. Se, con il Lacan dei Nomi-del-Padre, il mistico si “immerge” nella jouissance divina (cfr. Lacan, 2006a), accedendo con difficoltà a un “godimento Altro”, nel caso di Jeanne d’Arc le cose starebbero altrimenti. Più che un “appello a Dio”, si tratterebbe di un “appello di Dio”, di una chiamata al servizio – una “chiamata alle armi – subìta, di fronte alla quale Jeanne ubbidirebbe, mettendosi al servizio di Dio e della sua volontà. Questo tratto “impositivo” avrebbe a che fare con la psicosi e non con la mistica, trovandoci di fronte, riguardo alle “voci” sentite da Jeanne, a un’immersione della jouissance di Dio nel soggetto, a una resa dell’Io di fronte al godimento dell’Altro. È a proposito di tale opposizione tra mistica e delirio – tra “appello a Dio” e “appello di Dio” – che Lacan, nel 1958, nella sua Questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi, si esprime in questi termini (il caso in esame è quello arcinoto del delirio paranoideo del presidente Schreber):

Non mostra nulla, per chiamare le cose col loro nome, della Presenza e della Gioia che illuminano l’esperienza mistica: opposizione non solo dimostrata ma anche fondata dalla stupefacente assenza in questa relazione del Du, vogliamo dire del Tu: vocabolo (Thou) che certe lingue riservano all’appello di Dio e all’appello a Dio, e che è il significante dell’Altro nella paranoia (Lacan, 1974b, p. 572).

A riprova dell’asserita differenza tra l’esperienza allucinatoria di Jeanne e l’estasi di una Teresa d’Avila, Brémaud riprende il tema lacaniano dell’ineffabilità dell’esperienza mistica: “È chiaro che la testimonianza essenziale dei mistici consiste appunto nel dire che provano il godimento, ma che non ne sanno nulla” (Lacan, 2011, p. 72). Laddove il mistico si confronta con un Altro ineffabile e, dunque, vive un’esperienza non condivisibile, Jeanne sarebbe portavoce profetica della volontà di Dio. Se il Dio della mistica è vuoto, muto, inattingibile, e, dunque, l’unione estatica si risolve nel tentativo di unirsi al Tutto e, a conti fatti, di “ridursi e diventare nulla”, per dirla con Battiato, il Dio di Jeanne è ben presente, si rivela, assegna missioni da compiere. Tuttavia, ed è qui una falla significativa dell’argomentazione di Brémaud, il Dio cui si rivolge Jeanne, come si vedrà meglio in seguito, non rivela, nel farsi presente, esattamente la propria mancanza, la faglia che lo attraversa?

Se il mistico cerca di colmare attraverso la sofferenza l’incompletezza dell’Altro, la risposta attiva (non segnata dal patimento) di Jeanne alla chiamata di Dio non rivela forse il suo tentativo di venire incontro alla necessità di Dio, al suo bisogno di lei? Vedremo a breve come questo possa, di primo acchito, configurarsi come un ribaltamento erotomaniacale del delirio psicotico – lo stesso Brémaud sembra far prendere questa piega al discorso –, che sostituisce al godimento dell’Altro l’onnipotenza del soggetto, ma si anticipa fin d’ora la tesi secondo cui questo carattere attivo della jouissance di Jeanne smarchi la sua esperienza dal côté psicotico e la avvicini alla generatività dell’Altro godimento – infinito, senza limiti, al di là dei Nomi-del-Padre –, confinante, tra l’altro, proprio con la dimensione estatica della mistica.

V’è da dire che Brémaud introduce un elemento di particolare interesse quando libera a sua volta l’enigma di Jeanne dall’ipoteca psicotica e dà conto dello “slancio vitale” della Pucelle – che non si ferma certo a Reims, perché vorrebbe proseguire con la riconquista di Parigi e Rouen, di Gerusalemme6, e, più essenzialmente, esprime nella sua azione liberatrice una jouissance senza limiti, al di là della castrazione – nei termini di una “psicosi inesplosa” per grazia di un “rammendo”, di un elemento di “supplenza” – o “sinthomo” nella terminologia dell’ultimo Lacan7 – capace di suturare simbolicamente l’instabilità del soggetto in sostituzione della metafora paterna. Ritorneremo più approfonditamente anche su questo punto, che è quello in cui il discorso lacaniano sulla clinica, e nevrotica e psicotica, abbandona Edipo per Joyce.

È a partire dal 1428, come detto sopra, che le voci di Jeanne si fanno più insistenti, e che Jeanne si identifica con gli appellativi “Jeanne la Pulzella” e “Jeanne Figlia di Dio”, “Jeanne la Pucelle, Fille de Dieu”, come richiestole dalle voci. È a proposito di queste identificazioni che Brémaud intravede un raccordo con la funzione stabilizzatrice del “sinthomo”. Per puntellare un’identificazione mancante, si rende fondamentale, per Jeanne, l’opera della nominazione. “In tutti i casi, obbedendo scrupolosamente alle sue voci, non venne mai in mente a Giovanna di farsi chiamare Giovanna d’Arco. Un altro riferimento diverso da quello ereditato dal padre si impose quindi su di lei” (Brémaud, 2008, p. 692). Jeanne destituisce, perciò, per scelta più che per imposizione – volendo seguire la tesi generale del mio contributo –, la nominazione paterna8, e rifiuta l’uomo cui è stata promessa in matrimonio, tenendo in massimo conto quanto richiesto dalle sue “voci”: mantenere la propria verginità. Jeanne si fa chiamare “Pulzella”, dal latino puella: in questo termine, risuona la vicinanza semantica tra puella e virgo, in quanto la “fanciulla” è colei che si trova nel periodo puberale, nell’adolescenza o pre-adolescenza, prima del matrimonio, dunque, nell’Europa medievale, attesa come vergine. Ancora, nell’uso corrente dell’epoca, la puella è (anche) una serva (cfr. Guillemin, 1970), in questo caso, appunto, una “serva di Dio”, anche se, come si è mostrato si proverà a mostrare, Jeanne, dal mio punto di vista, non lo è (una negazione senza alcuna implicazione religiosa, si intenda).

Ancora, nel nominarsi “Figlia di Dio”, Jeanne destituisce non solo la nominazione, ma la stessa filiazione paterna. Questa esclusione del padre a vantaggio del Padre/Re (quello celeste e quello terreno) mette in rilievo un’altra questione fondamentale: quella del salvataggio del padre, parte della missione divina di Giovanna d’Arco, che, oltre a sollevare la Francia dal giogo francese, sente di dovere, appunto, riabilitare Carlo VII, rassicurandolo sulla legittimità della sua pretesa al trono – quindi, sulla sua legittimità in quanto figlio di Carlo VI –, e accompagnandolo fino all’incoronazione a Reims. Si noti, in questo passaggio, l’importanza del concetto di filiazione, legato evidentemente a dei significanti che ruotano intorno al Nome-del-Padre inscrivendolo in una costellazione che riconfigura il soggetto attorno alla realizzazione del suo fantasma – nel caso della Pucelle, essere l’eletta. Su questa istanza del “salvare il padre”, e, non a caso, a proposito di Joyce, si esprime Colette Soler, in un testo giustamente richiamato da Brémaud: se c’è un figlio redentore, è perché c’è un padre di salvare, secondo il tema cristologico di fondo (cfr. Soler, 2001). “Jeanne la Pucelle, Fille de Dieu” si sente investita, in virtù di questa nuova identificazione – venuta dall’inconscio a occupare il Reale –, di un compito soteriologico: liberare il regno, umano e divino, salvare la Francia e il Re, essere la chiave di volta, la pietra angolare: il capo che manca all’armata, il Cristo che manca all’umanità, la Donna che manca all’Uomo.

È possibile a questo punto abbordare un altro tema fondamentale per l’economia del presente discorso. L’altra chiave di lettura con cui Brémaud interpreta la jouissance attiva di Jeanne è a conti fatti una versione ribaltata (o perversa) del delirio psicotico, ossia l’erotomania per cui il godimento dell’Altro diventa appannaggio del soggetto, che gode sentendosi investito di un amore senza limite da parte dell’Altro mancante – Dio, il re, l’uomo. L’Altro (l’Uomo) mancante non può far altro che chiedere salvezza dalla Donna assoluta, amandola perdutamente. Jeanne diventerebbe così la Femme-Toute, secondo un processo identificatorio connotato in senso narcisista e connesso al registro dell’immaginario, cui pure Lacan assegna un ruolo decisivo nella clinica della psicosi, da cui il simbolico è cassato e in cui il Reale è invasivo. Questo avvicinerebbe ancora una volta il caso di Jeanne a quello del presidente Schreber, la cui identificazione delirante con La Donna costituisce l’esito di un delirio psicotico. Riprenderò questo punto, ma mi preme in questo momento richiamare alcuni aspetti fondamentali. Lacan utilizza l’espressione pousse-à-la-femme (spinta-a-la-donna) a proposito di Schreber9, ma l’importanza del concetto va ben oltre l’ambito della clinica della psicosi e investe il tema dell’assoluto, in quanto la spinta-a-la-donna è totalizzante e riguarda l’assoluto femminile che è al centro dell’interesse di questo saggio. Scrive Alex Pagliardini:

La spinta-a-la-donna è una spinta verso il non-tutto […], piegata a fare del non-tutto di questo reale un’eccezione, a trasformare il reale in una eccezione che sia un tutto. In questa direzione la spinta-a-la-donna al fondo non è un modo di assecondare il reale ma di rifiutare il reale, di negare il reale trasformandolo in una eccezione totalizzante. […] Infatti la-donna di spinta-a-la-donna indica proprio che tale spinta è verso il godimento femminile (ecco donna), cioè verso il reale, il non-tutto, per trasformarlo in una eccezione totalizzante (appunto la-donna) che faccia un universale (appunto la-donna) proprio di quel che è impossibile fare una totalità universale, cioè il reale, il non-tutto, la femminilità (ecco ancora donna). In quest’ottica la spinta-a-la-donna è un fenomeno più evidente e massivo nella paranoia. In questa in effetti la spinta al reale piegata a trasformarlo in un’eccezione totalizzante si concretizza e realizza in una identificazione – essere la donna di Dio ad esempio – totalizzante e che si impone come reale, cioè come assoluta e come unico luogo di godimento (Pagliardini, 2018, pp. 134-135).

Il brano succitato è densissimo, ma è il caso di problematizzarlo ai fini dell’argomentazione portata avanti in questo articolo. Ovviamente, attraverso il movimento “delirante” della pousse-a-la-femme si mira a diventare La Donna e non una donna, a divenire un’eccezione assolutizzante che assorba tutto il godimento. In questo senso, siamo, con Schreber, dentro la psicosi. O, più precisamente, in una forma di delirio erotomaniacale o di megalomania, per cui il “soggetto alla deriva tende verso la figura assoluta dell’Altro, La Donna, dirà Lacan, Femme-toute, non castrata e non sottomessa alla legge del Padre” (Pinto, 2010, p. 175): La Femme-Toute come figura identificatoria. Tuttavia, nel caso di Jeanne, la situazione non si pone in questi termini, per almeno due ordini di motivi. Sulle orme di Brémaud, l’identificazione di Jeanne come La Femme che regna su tutti gli uomini, che li guida in guerra, e si pone come Altro assoluto per quegli uomini, per l’armata e per il re, non è la via verso la psicosi, al contrario, “sinthomaticamente”, la via per la soggettivazione e per tenere stretto il nodo dei tre registri (Brémaud, 2008, p. 692). Jeanne La Femme (Fils) (de Dieu) è il punto di caduta simbolico che annoda il Reale delle “voci”, così come accade in Joyce con l’invenzione letteraria. Ancora, la generatività dell’identificazione di Jeanne mostra in maniera lampante che il carattere infinito, al di là della Legge, debordante del suo godimento non ha esiti psicotici, ma scollina dalla parte dell’Altro godimento, femminile, non-tutto. Si tratta, nell’effusione dell’Altro godimento, di voler essere amata senza limiti – ancora –, nella propria unicità ed eccezionalità, mantenendo un’apertura inesauribile verso l’alterità, affermando il paradosso, non di un’eccezione totalizzante, ma di una totalità senza chiusura – aperta, non-tutta –, in cui vi è sempre un’eccedenza di senso. Jeanne, in questo senso, incarna l’assoluto femminile. Non si tratta, ovviamente, di incarnare nel senso platonico-hegeliano di rappresentare un’idea, ma di attualizzare il campo virtuale inesauribile del femminile, di non cessare di divenire-donna.

A proposito dell’identificazione ideale di Jeanne, è significativo il fatto che il suo immaginario le restituisca un corpo abbigliato al maschile: maschili sono gli abiti della Femme per Jeanne, la sua veste da eroina pronta a dar battaglia, così come maschile è la veste della statua di santa Margherita nella chiesa di Domrémy. Questa è, verosimilmente, la fonte dell’identificazione ideale di Jeanne. Gli abiti “al maschile” di Jeanne, una pratica di “cross-dressing” o “travestitismo” considerata “ignominiosa” dai giudici del suo processo, sono considerati dalla Pucelle centrali per la sua identità, al punto da non volervi rinunciare a costo della vita. In qualche modo, si può azzardare, indossare “abiti da uomo” permette a Jeanne di trascendere il limite imposto all’identità femminile e di estenderne il dominio. La strega-santa-guerriera destituisce il maschio appropriandosi delle sue vesti. Si fa solo cursoriamente cenno a come questo immaginario della ragazza guerriera (sovente anche “maga”) in abiti maschili sia estremamente diffuso nella cultura pop contemporanea, facendo della figura di Jeanne un riferimento diretto o indiretto, ad esempio, di molti personaggi degli anime e dei manga giapponesi10.

 

Riannodiamo adesso le fila del discorso esulando dalla lettura critica del contributo di Brémaud con cui mi son voluto confrontare in funzione di termine di paragone. Di seguito, si cercherà di superare la categorizzazione psicotica dell’esperienza di Jeanne, seppure nell’accezione “non persecutoria” tratteggiata da Brémaud. Nella successiva ricognizione, sarà fondamentale l’interpretazione di Massimo Recalcati della clinica della psicosi in Jacques Lacan.

Innanzitutto ritengo eccessivamente tranchant l’esclusione, per l’esperienza di Jeanne, del campo della mistica. Accettando di ascrivere la jouissance di Jeanne nella dimensione dell’Altro godimento, ci si situa, infatti, al confine con l’estasi. Come sottolinea Recalcati, in riferimento all’idea lacaniana di una jouissance altra-femminile-non-tutta, “supplementare rispetto al godimento fallico” proprio del fantasma maschile, capace di dissolvere il limite simbolico di quest’ultimo e di generare un debordamento potenzialmente devastante, “possiamo avere anche fenomeni di deragliamento dal binario del godimento fallico verso l’alto. Il godimento dell’eccesso, folle, irragionevole, il godimento estatico, la dimensione illimitata e insaziabile dell’Altro godimento” (Recalcati, 2012, p. 541). È significativo il richiamo di Recalcati alla Pentesilea della tragedia omonima di von Kleist, che divora estaticamente l’amato in stato di incoscienza. Resasi conto dello strazio compiuto, Pentesilea non vede molta differenza tra baciare e mordere, e trasforma la furia del dilaniare nella foga del baciare. Questo passaggio, segnato dalla logica dell’hainamoration (“odioamoramento”), sta a significare un confine sottile, che non sempre porta a una fine devastatrice o al delirio erotomaniacale (ib.). L’eccedenza del godimento femminile incarna la possibilità di superare il limite angusto del godimento fallico e di affermare la potenza vitale su tutta la superficie del corpo, in maniera erratica, nomadica, anarchica, illimitata. È tramite questa via che il godimento può sconfinare e unirsi all’amore, unendo il nome al corpo secondo l’esigenza fondamentale del desiderio femminile (cfr. Recalcati, 2021, p. 144). Torneremo a breve su questo punto, che ci sembra centrale per connotare il rapporto di Jeanne con le proprie voci, con la propria identificazione e con la propria jouissance.

Prima, è importante però sgombrare una volta di più il campo dalla possibile confusione con la clinica della psicosi e, in particolare, della paranoia, a proposito di Jeanne Fille de Dieu. Il vissuto paranoico è caratterizzato dall’invasività dell’Altro nel campo del soggetto: si tratta, per Lacan, del trionfo della jouissance dell’Altro, che si impone dilagando nella psiche. È il Dio di Schreber che gode e abusa delle sue creature prendendole nel gioco arbitrario dei suoi capricci:

Schreber è aspirato in questo vortice – nel vortice del godimento che Dio realizza di lui come suo oggetto –, è soggiogato dalla volontà di godimento dell’Altro. […] La paranoia di Schreber offre il ritratto scabroso di un Altro che anziché mantenersi staccato dal godimento vi aderisce senza alcuna discontinuità. L’Altro di Schreber non è più l’Altro come manifestazione dell’ordine simbolico, ma un Altro abitato da una volontà oscura di godere (Recalcati, 2016, p. 166).

L’invasività di questo godimento mortale verrà ulteriormente tematizzata da Lacan nel Seminario XXII, inedito, dove viene ribadita la centralità del registro dell’immaginario nella paranoia, sia per le sue connessioni con la “fase dello specchio”, sia per la tesi che vede il soggetto paranoico inchiodato allo sguardo implacabile di un Altro giudicante, accusatorio, persecutorio – alla “sonorizzazione di uno sguardo” (p. 167).

Si è già fatto notare come non si possa parlare di una simile passività rispetto alle voci da parte di Jeanne, che, certamente, le ascolta e asseconda ma oltrepassa le loro richieste, usandole piuttosto come “puntello” per la propria identificazione e come “trampolino” di lancio per la propria traiettoria vitale. Ancora, le “voci” non rappresentano per Jeanne un’accusa o una persecuzione, non solo in virtù della sua identificazione giovanile con la “fanciulla devota”, ma anche perché esse risultano, al contrario, una fonte di conforto, l’espressione di una benevolenza e di una predilezione dell’Altro verso di lei.

Non si tratta, per Jeanne, dunque, di una certezza nel senso di quella che caratterizza per Lacan la paranoia: il paranoico “ha una certezza, che è che ciò di cui si tratta – dall’allucinazione all’interpretazione – lo riguarda. Non è di realtà che si tratta per lui, ma di certezza […]. Questa certezza è radicale […] significa qualcosa di incrollabile per lui” (Lacan, 1981, p. 89). Nella paranoia questa certezza riguarda la malvagità indubitabile dell’Altro, la sua volontà di godere malignamente ai danni dell’Io, contro cui va organizzata una difesa incrollabile sotto forma di cristallizzazione rigida dell’identità. Di questa identità corazzata contro un Dio persecutorio e della rigida distinzione amico/nemico non troviamo testimonianze nella vicenda di Jeanne, che, nella sua missione, è guidata da intenzioni salvifiche e da un irrefrenabile spinta alla liberazione, sebbene certamente declinate, nel contesto storico, nel segno della battaglia per la cacciata degli inglesi e dello “spirito di crociata”. Mi sembra di poter ravvisare nell’opera di Jeanne una sorta di “purezza” o naïveté dell’agire, per cui la missione si configura non a partire dalla demonizzazione paranoica dell’Altro, ma della costruzione narrativa dell’Io sulla base di un fantasma erotico ma non erotomaniacale, sulla congiunzione del desiderio e del godimento nel segno dell’infinità della domanda d’amore di una jeune fille o jeune femme.

E, lo si ribadisce ancora una volta, non si tratta di invocare, per spiegare l’identificazione di Jeanne alla Pucelle, Fille de Dieu, il caso del ribaltamento della paranoia nell’erotomania, ottenuto in virtù dell’inversione speculare tra il soggetto e l’Altro, per cui l’io passa da oggetto della persecuzione in agente “persecutore”, rigettando tutta la mancanza e la perdita sul versante del “nemico”. Nell’erotomania non vi è, infatti, alcuna prossimità con la dimensione dell’amore, perché si resta confinati nell’altalena immaginaria tra odio mortifero e identificazione ideale di tipo “erotomaniacale” (“sono La Donna amata da tutti, il Tutto di cui l’Altro non può fare a meno”). Commenta Recalcati:

Nell’erotomania, infatti, non si dà la possibilità dell’amore perché il soggetto è animato dalla certezza delirante di sentirsi amato dall’Altro; il suo desiderio non è mosso dall’oggetto piccolo (a) come oggetto che lo causa, ma si identifica nella posizione dell’oggetto desiderato dall’Altro. È questo il “postulato fondamentale” dell’erotomania fissato magistralmente da de Clérambault: “È lui, non sono io, che mi ama!” (Recalcati, 2016, p. 171).

È il tema che ritorna nella clinica della perversione, in cui, più correttamente, va inquadrata l’erotomania come perversione del desiderio femminile: laddove il desiderio maschile si “fissa” sull’oggetto-feticcio, il desiderio femminile deborda, per cui la donna “vorrebbe essere amata sino al delirio, vorrebbe essere ‘tutto’ per l’Altro, l’assolutamente unica” (p. 408). In realtà, questa ricerca eteromaniacale da parte della donna nell’uomo del segno della sua unicità e insostituibilità, così come quella maschile dell’oggetto-feticcio, pur determinando un cortocircuito tra le due domande, maschile e femminile, ed essendo, dunque, d’inciampo al rapporto sessuale, nel loro orientare il desiderio verso il godimento, non mettono necessariamente fuori gioco l’amore. Anzi, il carattere infinito del godimento femminile è fondato proprio sull’inesauribilità della domanda d’amore, ciò che fa sì che la bilancia possa pendere non dal lato dell’erotomania ma da quello dell’Autre jouissance (o jouissance Autre).

La deriva erotomaniacale è la soluzione di Schreber, ossia quella della pousse-à-la-femme di un Io che, come già detto, identificandosi a La Donna, sostituisce alla metafora paterna indisponibile una metafora delirante, che gli permette “di trasformare la sua posizione passiva – essere l’oggetto goduto dall’Altro sin nei suoi nervi – in quella di un’eccezione; essere la Donna di Dio significa non essere più esposto all’anarchia del godimento dell’Altro, ma offrire a questo godimento la possibilità di una localizzazione” (p. 112). Si tratta non di una donna nella sua condizione di eccezione rispetto all’uniformità dell’universale, ma di una “donna-tutta, non marcata dalla castrazione” (cfr. Maleval, 2012), incarnazione assoluta dell’eccezione.

Nel desiderio di Jeanne, invece, non si consuma l’altalena immaginaria tra godimento mortifero ed erotomania, tra odio paranoico e delirio di essere “Femme-Toute”: resta infatti in seno all’Io l’apertura all’Altro – la tensione desiderante –, ciò che rende possibile l’esperienza dell’amore: amore verso Dio, verso il Re, verso il popolo, verso un altro.

Si può azzardare che l’erotizzazione della vita sconfigga la morte anche sul rogo. Lo dicono magnificamente i versi della canzone di Leonard Cohen (Joan of Arc) poeticamente tradotta da De André, in cui l’incontro col fuoco si traduce in un amplesso: “e tacendo gli si arrampicò dentro / ad offrirgli il suo modo migliore di essere sposa”. Lungi dall’essere un martirio, l’esecuzione della condanna non cancella la “gloria del suo sguardo raggiante”, quasi un amor fati. Jeanne d’Arc è, fino alla fine, all’altezza del suo desiderio, pur senza bramare in alcun modo la morte11, perché la sua missione tende all’infinito del godimento femminile e non al cupio dissolvi.

È qui che si può rivendicare il nesso, intravisto da Lacan, tra Altro godimento e godimento dei mistici. Nell’erotica per cui una donna indirizza la propria domanda d’amore al luogo in cui l’Altro manca, desidera che le venga donato ciò che manca all’Altro, sotto forma di segni che provengono dalla faglia, dal taglio, nel cuore nell’Altro: parole e gesti, poesie, lettere, baci, l’amore “senza limiti e confini”. Non è forse anche quella di Jeanne d’Arc una domanda d’amore infinita, che prende di mira la mancanza nell’Altro divino e desidera, unicamente attraverso il suo essere Jeanne, pucelle, fille, femme, tenere aperta la frattura nel suo cuore?

Giunti a questo punto, è possibile mettere a fuoco ancora più chiaramente la questione cruciale della jouissance feminine in rapporto alla castrazione. La discriminante da tenere d’occhio è, in ultima istanza, l’aggancio residuo dell’Altro godimento con l’ordine simbolico. È questo a segnare tutta la differenza del mondo tra jouissance de l’Autre e Autre jouissance:

Le donne non sono orientate dall’alleanza tra la Legge e il desiderio che la funzione simbolica della castrazione supporta. Il femminile appare attraversato da un altro godimento che rifiuta l’esperienza del limite. Ma mentre il godimento dell’Altro della psicosi lo rifiuta perché lo forclude – ovvero, perché non accetta la castrazione –, quello femminile lo rifiuta al di là della castrazione che pure ha assunto. L’eccesso dell’Altro godimento è un eccesso che la donna percepisce come totalmente straniero (Recalcati, 2012, p. 543).

Da un lato, dunque, la legge non è accettata, sul versante della psicosi; dall’altro, la legge è superata, sul versante del godimento femminile. Questa seconda opzione apre la strada una creazione eccedente, a un godimento senza limiti: è quest’ultimo a orientare la missione di Jeanne, che appare inarrestabile – niente la può fermare –, al punto che la Pucelle oltrepassa la sua stessa missione e mostra come essa derivi da un nucleo vitale inesauribile. L’esperienza di Jeanne si trova, a conti fatti, al crocevia tra Altro godimento – godimento femminile – e godimento Altro – estasi mistica –, assumendo sembianze decisamente anti-edipiche, erratiche, nomadiche.

È utile aggiungere alcune considerazioni ulteriori, di particolare interesse, a mio avviso, perché evidenziano un’affinità tra il rapporto di Jeanne con la propria identificazione alla Pucelle, Fille de Dieu e la creazione artistica. La scoperta del carattere barrato dell’Altro implica la destituzione del Nome-del-Padre, per cui “‘qualsiasi cosa’” (Lacan, 1992, p. 18) può prenderne il posto. Questa supplenza del “significante fondamentale” rende un “significante qualsiasi” capace di prendere il posto del Nome del padre nel processo di soggettivazione, aprendo la strada a una nuova filiazione, plurale, eccedente, erratica. Il nome di questa filiazione “altra” è per Lacan James Joyce, che rappresenta il superamento dell’impasse di Schreber: “Joyce rivela […] la possibilità di una filiazione non più ancorata alla funzione trascendentale del Nome del padre. Egli esprime l’esistenza di una soggettività che sia al di là dell’Edipo, senza però mai cadere nella scompensazione psicotica. Lo scrittore dublinese supplisce all’assenza del Nome del padre generando da sé il proprio Nome” (Recalcati, 2016, pp. 115-116). Si tratta dunque di farsi un nome senza passare per il padre forcluso – per Joyce, il suo stesso nome proprio –, di supplire all’assenza dell’Altro facendo di se stesso l’Altro – un Altro capace di generare un’opera-mondo e di “partorire” il soggetto. Se il reale del godimento non può essere, con l’ultimo Lacan, imbrigliato semplicemente nelle maglie del simbolico, è possibile immaginare un altro modo di sostenere la soggettività, di evitare che si sfaldi, e questa modalità è il “sinthomo”. Quest’ultimo, secondo le tesi dei seminari della metà degli anni Settanta, va inteso come un “rammendo”, una supplenza all’inconsistenza del simbolico – inconsistenza che non è più esclusivo appannaggio della psicosi, ma sarà propria di qualsiasi funzionamento psichico. Il “sinthomo” è il quarto anello che tiene uniti gli altri tre, il quarto nodo che previene lo scioglimento del nodo borromeo, che evita lo sfaldamento dell’annodamento dei tre registri, immaginario, simbolico e reale. In Joyce il “sinthomo” è la scrittura, che tiene in piedi il soggetto a livello immaginario (nella sua consistenza), simbolico (nel suo “buco”) e reale (nella sua ex-sistenza12). Il sinthomo non ha a che fare con la Legge e il simbolico, ma con il godimento e il reale. Siamo alle prese con un’organizzazione libidica che non si struttura attorno a un significante fondamentale, all’interdetto edipico, ma si sostanzia in un atto di creazione – una sublimazione –, che permette al soggetto di supplire alla tenuta fallica. In altri termini, grazie all’invenzione “sinthomatica”, in assenza della trasmissione simbolica paterna13, si tratta “di diventare ‘figlio’ delle proprie opere, di fare da sé il proprio libro, di creare ex nihilo, senza l’ausilio del padre” (Recalcati, 2016, p. 126). Il “sinthomo” scrittura, in ultima istanza, come “sgabello” che sostiene il nome proprio del soggetto Joyce, il suo Ego. Non un Ego narcisistico ancorato all’alienazione dell’identificazione immaginaria, ma un Ego “correttore” (Lacan, 2006b, p. 148), il quarto nodo che riannoda il reale al godimento in assenza del Nome-del-Padre. Joyce può così fare a meno del Codice tradizionale del linguaggio, destituire l’Altro della lingua comune, per dedicarsi all’atto di creazione di una lingua poetica che fa di lui l’Altro, il creatore senza limiti – non colui che si offre in sacrificio per l’Altro (Cristo), ma colui che diventa l’Altro. L’artista, infatti, “non è il redentore, è Dio stesso, in quanto modellatore” (p. 77).

Dal punto di vista di questo saggio, è chiaro come anche Jeanne si fa da sé il proprio Nome (Jeanne la Pucelle, Fille de Dieu), per diventare l’Altro dotato di infinita potenza creatrice. Jeanne non si mette semplicemente al servizio delle “voci” dell’Altro, perché coglie il carattere barrato dell’Altro divino e, nell’identificarsi con la pucelle, fille, femme che manca all’Altro, non si offre in sacrificio – per cui il rogo non è da intendersi come un martirio –, ma plasma la propria missione, non le pone un limite, dà spazio all’infinità libidica della propria jouissance annodata attorno al nome che si è creata, con cui si è identificata. È lo stesso nome di Jeanne la Pucelle, Fille de Dieu a permettere una proliferazione generativa che investe Dio, il re, il popolo francese.

È importante sottolineare come questa prolificità creatrice dello “slancio” di Jeanne evochi il nesso tra libertà e follia, al centro della prima riflessione lacaniana su quest’ultima. Lacan si inserisce, nel discorso di Bonneval sulla causalità psichica del 1946, in una riflessione che è quella dell’esistenzialismo e che sarà dell’antipsichiatria di Basaglia e Foucault. In contrapposizione al riduzionismo nosografico sulla psicosi, per Lacan la follia si pone come rifiuto del limite e dell’impossibilità. Di più, l’essere umano “non può essere compreso senza la follia” (Lacan, 1974a, p. 170). Ancora, la follia “è la virtualità permanente di una faglia aperta nella sua essenza, […] la più fedele compagna” della libertà (ib.).

Associare la follia alla libertà significa mettere in evidenza la mancanza di fondamento della condizione umana.

La follia converge con la libertà perché solo per un soggetto che non è il fondamento di se stesso, che non è un ens causa sui – non è una sostanza autofondata –, diventa possibile l’esperienza vertiginosa e inaggirabile della libertà. L’assenza di fondamento dell’esistenza è la condizione che rende possibile la libertà separando il regno naturale della necessità da quello esistenziale della contingenza” (Recalcati, 2016, p. 73).

Dal campo virtuale della follia, dall’apertura infinita della sua faglia, l’essere umano estrae ed attualizza delle incarnazioni esistenziali che lo tengono in contatto con la sua libido. È qualcosa che risuona evidentemente con l’idealismo appassionato di Jeanne d’Arc, connesso al campo pulsionale e alla spinta libidica, e tradotto in un fantasma capace di orientare il suo desiderio. Si è vicini a quanto espresso da André Green sul nesso tra passione e follia. La follia, e ciò è vero anche per Jeanne, qualora si volesse evocare questo orizzonte di senso per descrivere la vicenda della Pucelle, non è la psicosi. Piuttosto, ci protegge da essa. Se ben intesa, la follia permette al soggetto di mantenere un legame profondo con la dimensione passionale e affettiva. Ancora una volta, siamo al di là degli argini metaforici e del teatro rappresentativo della psicoanalisi freudiana. L’affetto profondo è “folle” perché è la follia a tenerci in contatto con Eros, con la pulsione di vita che scongiura il deserto esistenziale della psicosi. Il nucleo più intimo della persona, la sua riserva libidica, possono essere messe in gioco nell’esistenza tramite lo slancio vitale della follia, generando, a partire dal campo pulsionale, il fantasma che alimenta il desiderio.

Del resto, al di là dell’orizzonte psicoanalitico, anche gli studi psichiatrici basati sulle testimonianze relative alla biografia di Jeanne d’Arc non avallano una diagnosi di tipo psicotico, mettendo piuttosto in evidenza l’aspetto contestuale (nell’Europa tardomedievale, “sentire le voci” rientrava in un orizzonte di senso comunemente validato), e ipotizzando la presenza di un disturbo bipolare, così come di un disturbo di conversione (quindi, di fattori psicosomatici), nel quadro di un’adolescenza normale (cfr. Baratta et al., 2009).

In questo senso, viene fatto notare come, a livello clinico:

La diagnosi di disturbo conversivo non dovrebbe essere formulata se il sintomo in questione è legato a un’esperienza culturalmente determinata. [...] La cultura tradizionale locale assume quindi tutto il suo valore e modifica il modo in cui le allucinazioni di Jeanne vengono interpretate. Inoltre, il carattere non intenzionale del disturbo conversivo sembra essere messo in discussione dal discorso di Jeanne. Quest’ultima segnala ai membri del tribunale di non essere l’unica ad aver visto le sue apparizioni: anche Carlo VII in persona, così come i membri della sua corte, le avrebbero percepite. Tali affermazioni spostano le pseudo-allucinazioni dal campo della conversione subita a quello della fabulazione. Il contesto socioculturale, con la sua tradizione di profezie e la proliferazione di profetesse che avevano visioni ed esperienze mistiche diversi decenni prima della nascita di Jeanne, ci fa considerare la possibilità di una completa assenza di disturbi psichici nella Pucelle (pp. 913-914).

Mi sembra decisivo enfatizzare questo punto: la fondata possibilità che l’esperienza di Jeanne d’Arc sia totalmente scevra di disturbi psichici, se la stessa ipotesi clinicamente più accreditata, quella di disturbo di conversione, sembra in realtà poter essere letta nei termini di “allucinazioni intenzionali”, ossia pseudo-allucinazioni. Nel fare riferimento ad esse, di fronte alla corte o al tribunale, Jeanne appare assolutamente in linea con le aspettative del contesto e con quanto è considerato socialmente accettabile nell’Europa della Guerra dei cent’anni. In coerenza con quanto sostenuto in questo saggio, l’opera di Jeanne si situa, dunque, al di fuori della psicopatologia e all’interno di una pratica di fabulazione. In particolare, ha dato vita a un fantasma inconscio animando la spinta del desiderio tramite la potenza di una storia, il racconto delle sue “voci”. Jeanne ha creduto nella storia che si è raccontata, non nel senso della psicosi ma in quello del potere immaginifico del “pensiero magico”, e ha fatto in modo che ci credessero gli altri, spingendoli a compiere insieme a lei un’impresa storica eccezionale. La Pucelle ha estratto dal campo virtuale dei mondi possibili una storia da incarnare nella sua vita e ha creduto senza esitazioni nella possibilità di realizzarla, guidata dallo slancio della sua jouissance. Il desiderio di Jeanne, a differenza del desiderio isterico, non è mai disgiunto dal godimento.

E, a questa jouissance altra, femminile, concorre il potere infinito di creazione e generazione della fabulazione, della storia, del racconto. Ma, per creare un mondo, bisogna crederci, perché le “voci” di Jeanne sono in qualche modo un “potere magico”. Come ci ricorda Ernesto De Martino, “si finisce prima o poi col rendersi conto che il problema della realtà dei poteri magici non ha per oggetto soltanto la qualità di tali poteri, ma anche il nostro stesso concetto di realtà” (De Martino, 1973, p. 10).

La magia funziona solo per chi ci crede.

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Notes

1 In ciò ci si discosta evidentemente dall’interpretazione di Lacan delle “voci” di Jeanne d’Arc in senso allucinatorio (cfr. Lacan, 1974a, p. 171). Retour au texte

2 Jeanne non è, in questo senso, “la Donna di Dio” nei termini del discorso lacaniano su Schreber, come si preciserà più avanti. Retour au texte

3 Quest’idea che la certezza della mancanza in seno all’Altro, certezza derivante dalla domanda rivolta al soggetto dall’Altro – “se Dio fosse completo, perché dovrebbe rivolgersi a me?” –, si traduca in un delirio erotomanico per cui il soggetto psicotico (emblematico il caso di Schreber) ritiene di esser stato chiamato a completare quel vuoto, di essere l’eletto/a, “la femme, ou le fils, de Dieu”, viene formulata efficacemente, tra gli altri, da Jacques-Alain Miller. Vedi Miller, 1997. Retour au texte

4 Tra le fonti storiche di Brémaud: Duby, Duby, 2003; Fabre, 1977; Giraud, 1948; Guillemin, 1970; Hanne, 2007; Pernoud, Clin, 1986. Retour au texte

5 Non è la sede ove approfondire questo aspetto, ma il tema della “chiamata” a una missione, a un compito da svolgere, da parte dell’Altro soprannaturale è stata ripresa di recente in maniera narrativamente avvincente dalla serie televisiva Netflix The Manifest. Anche nella serie, il carattere persistente, pressante e allucinatorio (in quel caso a livello visivo) delle chiamate viene messo in primo piano. Retour au texte

6 Sullo spirito “da crociata” di Jeanne d’Arc, vedi Hanne, 2007. Retour au texte

7 È il discorso dei seminari XXII e XXIII. Il Seminario XXII [Livre XXII. R.S.I. (1974-1975)] è inedito. Per Il Seminario XXIII, vedi Lacan, 2006b. Retour au texte

8 La destituzione della nominazione paterna non è da intendersi rispetto al rifiuto del cognome “D’Arc” (o “Darc”), ma in senso più ampiamente simbolico. Si rammenta il dato storico per cui a Domrémy, a quell’epoca, fosse tradizione per le bambine ereditare il cognome materno. Retour au texte

9 “Potrei a questo punto, sviluppando l’iscrizione della psicosi di Schreber che ho fatto tramite una funzione iperbolica, dimostrare, in quel che ha di sardonico, l’effetto di spinta-a-la-donna specificato dal primo quantificatore”. Lacan, 2013, p. 463. Il concetto era già presente nella Questione preliminare…, come si può notare da questo passaggio: “Processo impegnatosi già da tempo, quando in Schreber ne appare il primo segno nell’aspetto di una di quelle idee ipnopompiche che nella loro fragilità ci presentano una sorta di tomografia dell’io, idea la cui funzione immaginaria è indicata a sufficienza dalla sua forma: sarebbe bello essere una donna mentre subisce l’accoppiamento” (Lacan, 1974b, pp. 540-541). Retour au texte

10 Sull’immaginario delle ragazze guerriere, sulla sovversione dei ruoli di genere e sul crossdressing negli shōjo manga (in particolare in Ribon no Kishi di Tezuka Osamu e Versailles no Bara di Ikeda Riyoko), si vedano i seguenti contributi: Shamoon, 2007; Fanasca, 2021; Gioioso, 1991; Ōgi, 2001. Retour au texte

11 Si rammenta in questo senso come Jeanne rifiuti in prima battuta di firmare l’abiura, ma, davanti alla minaccia del rogo da parte del giudice Cauchon, il 24 maggio 1431, dichiari il proprio pentimento e confessi la trasgressione delle prescrizioni religiose per aver indossato abiti maschili. La questione dell’abito diventa infatti centrale per la giuria via via che il processo va avanti, in quanto “emblema dell’eresia” (Boyd, 1986), sebbene il tema del processo sia ovviamente quello delle “voci”. Comminata la pena di morte in una condanna al carcere a vita, Jeanne viene dunque temporaneamente graziata; il 27 maggio la Pucelle è tuttavia ritrovata in vesti maschili, e ciò conduce alla definitiva e immediata condanna come eretica relapsa (recidiva). Sulla centralità della questione degli abiti maschili per la condanna, vedi Pernoud, Clin, 1986. Retour au texte

12 Joyce “si è ritrovato a mirare con la sua arte, in modo privilegiato, al quarto termine, detto sinthomo” (Lacan, 2006b, p. 36). Retour au texte

13 Come fa notare Lacan, “il padre di Joyce “non è mai stato un padre per lui” (p. 85). Retour au texte

Citer cet article

Référence électronique

Fabio Domenico Palumbo, « Jeanne d’Arc allo Specchio », K [En ligne], 11 | 2023, mis en ligne le 01 décembre 2023, consulté le 17 février 2025. URL : http://www.peren-revues.fr/revue-k/640

Auteur

Fabio Domenico Palumbo

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