È merito della critica recente aver individuato nella narrazione dell’Iliade la capacità programmatica di visualizzare, come all’interno di una dimensione teatrale, le dinamiche del racconto, creando una esatta geografia poetica. Un punto principale di questa geografia è offerto dalle mura di Troia, nella misura in cui nell’architettura e nel layout urbano di Ilio le mura per l’appunto “define the city and differentiate its space from the world outside1”. La consapevolezza dei fatti che questo spazio offre ai personaggi dell’Iliade, nonché al fruitore del poema, in questo modo, regola il dipanarsi degli episodi, conferendo spessore speciale, in non poche fasi del racconto, alla struttura drammatica del poema2. Tra questi episodi, il primo in ordine di tempo e, certo, quello presentato come paradigmatico in questa direzione nell’Iliade è la Teichoscopia del III libro: la visione, la skopè, dalle mura, i teichea, compiuta da Elena in compagnia di Priamo e dei consiglieri troiani dopo che la donna è uscita dal talamo di Paride3. Nelle pagine seguenti sarà mio intento mettere in luce della Teichoscopia, al là della componente proto-teatrale sul piano della fiction, la portata ideologica sul piano del racconto, e ad un tempo osservare anche la ripresa, la rifondazione e il significato che lo stesso episodio assume nel monologo drammatico Η Ελένη, scritto durante il confino a Karlóvasi di Samo tra il maggio e l’agosto del 1970, da Giannis Ritsos e inserito nella raccolta Τετάρτη Διαστάση, Quarta dimensione4.
Episodio centrale nella struttura narrativa del III libro, la visione dalle mura ha in realtà la sua premessa nel talamo di Paride. Qui Omero descrive per la prima volta un’Elena silenziosa e pensosa, avviluppata dai sensi di colpa che ormai la angosciano da tanti anni per la nuova condizione nella quale vive5. Improvviso l’arrivo di Iride, dea messaggera, giunge a convincere la donna a recarsi fuori dai propri appartamenti, per vedere lo spettacolo della guerra, il duello tra i due sposi rivali, Menelao e Paride, finito il quale Elena resterà a Troia o tornerà a Sparta. Si ha come l’impressione che a Elena non spetti un’autonomia, una possibilità di scelta, la libertà individuale: il destino della donna è regolato dall’abilità militare di Paride o di Menelao come se Elena fosse un premio in palio6.
Per creare una dimestichezza con Elena, per essere più convincente nel suo invito, Iride appare nelle sembianze di Laodice, cognata troiana di Elena, membro di un clan – potremmo dire oggi – che a Troia lavora con forza alla restituzione della Greca a Menelao7. Soprattutto, però, con le sue parole indica a Elena quale oggetto della visione un argomento preciso e non casuale (III 125-1318):
τὴν δ’ εὗρ’ ἐν μεγάρῳ· ἣ δὲ μέγαν ἱστὸν ὕφαινε
δίπλακα πορφυρέην, πολέας δ’ ἐνέπασσεν ἀέθλους
Τρώων θ’ ἱπποδάμων καὶ Ἀχαιῶν χαλκοχιτώνων,
οὕς ἑθεν εἵνεκ’ ἔπασχον ὑπ’ Ἄρηος παλαμάων·
ἀγχοῦ δ’ ἱσταμένη προσέφη πόδας ὠκέα Ἶρις·
δεῦρ’ ἴθι νύμφα φίλη, ἵνα θέσκελα ἔργα ἴδηαι
Τρώων θ’ ἱπποδάμων καὶ Ἀχαιῶν χαλκοχιτώνων.
Secondo Iride dalle mura Elena può osservare azioni straordinarie, portentose, al di là della capacità umana, per l’appunto theskela erga, l’agire bellico dei Greci e dei Troiani che si traduce nel dolore e nella gloria, argomento preferenziale dell’epos. Questo tema, come ho detto, non è immotivato nella retorica di Iride-Laodice, ma collima con gli interessi della stessa Elena. Non appena Omero introduce l’eroina, infatti, la descrive intenta su una tela doppia e purpurea alla tessitura di quella guerra portentosa, quale narratrice delle molte prove che patiscono per colpa sua, hethen eineka, gli eserciti rivali9. A ben vedere, tramite lo hyphainein, il suo textus, gli orditi della tela di grandezza straordinaria, gestita con esperienza accorta, Elena racconta per la prima volta una sua Iliade come maschera dello stesso Omero10.
L’argomentazione opportuna di Iride spinge Elena sulle mura in compagnia di due ancelle, Etra e Climene, in un moto improvviso e veloce. Sulle mura, dopo essere stata destinataria del sussurrato giudizio dei consiglieri Troiani, come una Susanna tra i vecchioni, dopo l’accorata assoluzione rivolta da un Priamo affettuoso e paterno, tra il re ed Elena si sviluppa una dinamica narrativa ben riconoscibile: una sticomitia funzionale, un botta e risposta serrato che nasce dalla visione dei Greci in armi, una visione che parte dall’alto, lo hypsos, e si rivolge al basso, il bathos11. Solo Elena sembra conoscere gli eroi iliadici che soffrono, solo Elena sembra poter offrire alle domande di Priamo, alla ricerca dell’identità di quei Greci, una risposta veritiera e plausibile. In questo modo Elena descrive e visualizza il potente Agamennone (179), l’accorto Odisseo (200), il forte Aiace (279), eroi che dall’alto del torrione vede Priamo, come rivela il ricorrente campo semantico della visione (169, 191 e 194). Dalla piana mancano solo i Dioscuri, Castore e Polluce, i fratelli di Elena. Elena, infatti, non li vede tra i ranghi dell’esercito, esacerbato dalla fatica, con il suo sguardo infallibile (236). Un senso di tristezza fulminea vela gli occhi dell’eroina, la tristezza dovuta alla vergogna. Elena crede che i fratelli non siano giunti sotto le mura di Troia per l’onta del turpe adulterio commesso dalla sorella. Ma questa opinione, retaggio del senso di colpa, è da subito annullata da Omero, il poeta onnisciente, che assolve e pacifica: Elena, ormai da dieci anni a Troia, non può sapere che i fratelli da troppo tempo sono morti12.
Per quanto radicata nella produzione letteraria epica, la Teichoscopia di Elena in Omero rivela da subito in maniera vistosa, intenzionale, una palese componente drammatica se non propriamente teatrale: drammatica per l’intreccio ineludibile tra le voci dei protagonisti dell’episodio tanto quanto teatrale per la dimensione spaziale e soprattutto visiva sulla quale si fonda. Le mura di Troia coincidono con un palco privilegiato, un punto di osservazione preferenziale e ineludibile dal quale lo spettacolo della guerra, l’affresco spietato dei polloí aethloi, le molte imprese patite da Greci e Troiani, in altri termini il mondo della sofferenza umana e della morte che Omero racconta, è osservato nella sua complessità dinamica. Tramite gli occhi di Elena, tramite una descrizione puntuale dello spettacolo, tramite la voce della spettatrice per eccellenza, il mondo iliadico, che prima la figlia di Leda ha tessuto sulla tela, assume una configurazione verbale, finalizzata a introdurre nella fase inziale del poema i protagonisti del racconto. Alla voce di Elena, sul piano mimetico, tuttavia, Omero attribuisce anche la capacità di dare forma poetica, nel senso di forma plasmante, alla materia che Omero, quale poeta, richiama sul piano diegetico. Certo, a ben vedere, colpisce la scelta di Elena come narratrice della guerra. In fondo, come Elena stessa afferma più volte, quella guerra che osserva con i suoi più significativi rappresentanti è dovuta alla sua responsabilità, una responsabilità che forse Omero sfrutta per rendere ancora più autorevole e sofferto il punto di vista di questo personaggio13.
La dimensione teatrale che si ravvisa nella Teichoscopia a lato di Elena, come ho detto, è ereditata anche nella produzione letteraria successiva, anche se, come viene facile capire, è spesso mediata dall’ulteriore elaborazione condotta intorno a Elena sulla scena tragica del V secolo a. C., soprattutto nella produzione drammatica di Euripide. La costellazione poetica, nella quale si inserisce Elena in Euripide, vasta, variegata, multiforme, si articola, come è noto, in una proliferazione straordinaria di motivi e mutamenti continui14. Euripide rielabora le tessere della tradizione, le combina, le mantiene e le altera, tanto che nelle sue tragedie tradite, di Elena, Euripide suggerisce sia il volto subdolo, malefico, ambiguo, quello di un’astuta macchinatrice – si pensi ad esempio all’Elena dell’Andromaca e ancor di più all’Elena delle Troiane – sia quello puro, quasi virginale, remissivo e innocente, la vittima degli dei, che connota la supplice protagonista dell’Elena, assolta in Egitto anche grazie all’eidolon, il fantoccio, la bambola inanimata, il simulacro doppio, giunto al suo posto a Troia. Un eidolon in fondo che vanifica la guerra che nell’Iliade Elena osserva dalle mura15. Euripide, in questo modo, spinge alle estreme conseguenze la tradizione su Elena, invitando il suo pubblico a riflettere che, se la guerra di Troia è nata per una vuota opinione, una kenè dokesis come afferma la stessa protagonista nell’Elena (36 e 119-121), che non corrisponde alla realtà, osservare e interpretare la realtà non è sempre un’operazione facile per l’uomo16.
Questa raffinata operazione esegetica che Euripide mette in scena nella seconda metà del V secolo, sullo sfondo di un gioco di maschere intercambiabili, si combina con il lavoro di Omero e finisce per offrire una base solida se non necessaria alle riscritture drammatiche che popolano la rivisitazione del mito di Elena in tempi a noi più vicini, ad esempio, nella produzione teatrale del ’900: da Die ägyptische Helena Hugo von Hofmannsthal del 1928, a La guerre de Troie n’aura pas lieu di Jean Giraudoux del 1935, per citare esempi celebri e attentamente studiati nelle letterature dell’Europa17. Esempi forse tanto noti, divenuti quasi imprescindibili per la loro popolarità, da imporsi in maniera vincolante quali pietre miliari nel Nachleben di Elena sino a mitigare, a volte, il ricordo, se non addirittura il peso, di altri decisivi esperimenti letterari che vedono l’eroina quale protagonista. All’interno di questo Nachleben, un capitolo decisivo, ricco di fascino, spesso connotato anche sul côté ideologico, è offerto, a mio avviso, dalla riflessione potente e vitale che su Elena traspare nei poeti neogreci nel ’900, alla continua ricerca di un legame tra la madre Grecia di Omero e la storia di un popolo angariato da folli vessazioni politiche. Le variazioni su Elena sono qui numerose e spesso dialogano tra loro: dall’Elena di Odisseas Elitis in Orientamenti del 1940, nella quale la paretimologia Ελένη-Εσένα, Elena – tu, rende l’eroina il simbolo trascendente della memoria greca, all’Elena in Giornale di bordo III, del 1955, di Ghiorgos Seferis: al poeta, presentatosi novello Teucro insonne tra gli usignoli di Plastres, un’Elena euripidea suggerisce, nella dimensione rarefatta dell’insonnia, l’inganno irrefrenabile della storia18. E non solo: mentre nella sua Odissea del 1938 Nikos Kazantzakis rende Elena sposa di Odisseo, l’anno prima, in Ταξιδεύοντας del 1937, il tour di viaggio richiesto dal quotidiano Kathimerinì allo scrittore, la funzione metastorica dell’eroina continua a esplicitarsi nel simbolo della coesione e dello spirito ellenici19.
Nella produzione letteraria neogreca, tuttavia, non avanza solo il profilo edificante di Elena che la tradizione cerca di depurare dalle oscure macchie della colpa, come abbiamo visto forse già a partire da Omero. La figlia di Leda rivela un aspetto complesso, anche quando perde il volto nobile della vittima e, pur non rinunciando a un legame sostanziale con la tradizione classica, indossa abiti nuovi. E certo nello spazio drammatico del monologo, un abito nuovo è indossato con enfasi speciale dalla vecchia Elena, abbandonata da tutti, sola, chiusa in una casa che la imprigiona, per l’appunto l’Elena che Ghiannis Ritsos consacra nella sua Η Ελένη in Quarta dimensione20.
La scelta tematica di Ritsos è innovativa, se non addirittura rivoluzionaria: sulla scena non avanza fiera e affascinante la regina di Sparta, nel momento del massimo splendore, non è concesso spazio all’elogio della bellezza che in Elena elude ogni dimensione umana tanto da non avere paragone tra le donne della Grecia e del mondo. Ritsos non vuole provare la responsabilità o affermare l’innocenza di una eroina che ha amato, ha tradito, ha causato una guerra sanguinosa, o quanto meno questo lato della vicenda di Elena non costituisce la problematica principale, indagata nel soliloquio all’inizio flebile e sempre più cosciente nello sviluppo convulso, che avviene la sera che si rivelerà come unica e determinante nell’esistenza di Elena, perché ultima sera della vita di Elena. Ritsos relega Elena in un letto di morte, quasi inerte prefigurazione della fine, per esemplificare l’inderogabile potere del tempo, un tempo che cancella, vanifica, elimina, rettifica ogni grandezza e ogni piccolezza dell’umanità, un tempo rispetto al quale all’uomo è solo concesso di opporre resistenza21. Non a caso, la prima frase che apre la sezione didascalica del monologo, l’incipit extradiegetico, è eloquente: από μακριά κιόλας φαινόταν η φθορά22. E la phthorà, la rovina, lo sfacelo, il senso della fine che si vede chiaramente (phainotan) diventa da subito la caratteristica principale dell’Elena di Ritsos, anche sul piano esistenziale. Non serve, dunque, sul volto di Elena la bellezza luminosa e sovraumana: ora la donna, stesa su un letto, malconcia e silenziosa, avvizzita, quasi un relitto in quella che fu una dimora sontuosa, sa di aver perso tutto, a partire dalla sua bellezza proverbiale declamata da sempre23.
Della forza inarrestabile e irresistibile del tempo, di questa azione senza sosta, in Ritsos Elena si mostra cosciente. Non appena entra a farle visita un ospite, giunto dal passato, un ospite anonimo, inizia il monologo: un flusso di coscienza, come se il silenzio da troppo tempo protratto sia sopraffatto da un volere più dirompente, spinto da un’esigenza di estrema parrhesia. Perché inizi il soliloquio, perché si stabilisca il corso delle parole, serve però la vista. Da subito Elena tematizza l’azione fondamentale esercitata dal suo sguardo: afferma di osservare, esaminare, guardare con attenzione ciò che la circonda attraverso la pietra nera che porta all’indice, durante le ore interminabili della notte, αυτή την πέτρα περιεργάζομαι τώρα, σε απέραντες ώρες, μέσα στη νύχτα24, ma ad un tempo afferma anche di vedere l’ospite, la sua espressione attonita, quasi l’imbarazzo dinanzi a uno spettacolo impensabile, βλέπω κι εσένα μ’ ένα πρόσωπο εμβρόντητο, αμήχανο25…, lo spettacolo di un’Elena vecchia che stravolge la tradizione rispetto al ritratto e alla fama della donna più bella del mondo. Non è improbabile che nelle intenzioni di Ritsos questo sguardo dell’eroina sia in fondo uno sguardo extra-scenico: nell’osservare il suo ospite, al di là della dinamica teatrale, Elena guarda anche i suoi spettatori, sbalorditi della metamorfosi impietosa che ha subìto in un processo di indebolimento del mito26.
Del resto, come riconosce la stessa donna, il trascorrere inarrestabile del tempo certifica la vanità delle cose umane:
Πέρασε πια ο καιρός των ανταγωνισμών· στερέψανε οι επιθυμίες
ίσως μπορούμε τώρα να κοιτάξουμε μαζί το ίδιο σημείο της ματαιότητας
όπου, θαρρώ, πραγματοποιούνται οι μόνες σωστές συναντήσεις — έστω αδιάφορες,
μα πάντα πραϋντικές — η νέα κοινότητα μας, έρημη, ήσυχη, άδεια,
χωρίς μετακινήσεις κι αντιθέσεις, — ν’ αναδεύουμε μόνο τη στάχτη στο τζάκι,
φτιάχνοντας πότε πότε με τη στάχτη ψηλόλιγνες, ωραίες τεφροδόχες,
ή, καθισμένοι κατάχαμα, να χτυπάμε το χώμα με άηχες παλάμες.27
La consapevolezza del tempo passato è legata di nuovo alla possibilità di vedere, di osservare con attenzione l’esistenza senza orpelli, senza il peso delle aggiunte. Non occorre darsi pena per gli eroismi, per la gloria, acquisizioni che non servono a nulla in rapporto al futuro. Un insegnamento che a Elena giunge dalla riflessione sulla propria vicenda, esplicitata da un riso rauco che sconvolge il viso avvizzito, nel rifiuto della tradizione, un insieme di leggende senza senso, ανόητοι θρύλοι, dalla guerra alla bellezza: Τί ανόητοι θρύλοι / κύκνοι και Τροίες και έρωτες κι ανδραγαθίες28. In fondo, nella vecchiaia, l’unico sollievo, i soli conforti, alleati dell’esistenza, οι μόνοι βοηθοί, che giungono a Elena, sono garantiti dalle ampolle e dalle boccette famigliari, oggetti inanimati e immuni dalla consunzione del tempo, gli oggetti che guardano la donna vecchia nelle ore dell’insonnia, della paura, dei ricordi e delle dimenticanze, nell’affanno prolungato della notte. Elena è una vecchia decrepita, una donna che non parla da tempo, ha ormai dimenticato i λόγια, le parole, come spesso sottolinea, abbandonata in una casa che si sta sgretolando e sulla quale ormai si è stesa l’ombra logorante dell’oblio29.
Il silenzio avvolge l’ultima dimensione umana di Elena, quel silenzio che annulla la capacità di parlare, di raccontare, che, invece, a partire di Omero, prima tramite la tessitura sulla tela e poi tramite le risposte a Priamo, è stata prerogativa ufficiale dell’eroina. Ma non solo: Elena è ormai sola. Il mondo passato si è sgretolato nella voragine vorticosa del tempo e dello spazio: non più circondata dagli amanti, non più cercata dai Greci e dai Troiani che hanno combattuto caparbiamente per tenerla o ricondurla a casa, Elena è sorvegliata solo da uno stuolo di ancelle sciocche e malvagie, nel ruolo di guardie più che di compagne. Le serve dileggiano la vecchia che non ha la forza di alzarsi, si prendono gioco della regina, un tempo superba e bella, ora ridotta a un pagliaccio patetico e ridicolo, sporcato da trucchi verdi e neri, quasi senza possibilità di autocontrollo e reazione. Si ha come l’impressione che Elena sia divenuta, pur se ancora viva, una sorta di fantoccio, come quell’eidolon inanimato e passivo, il doppio, che nella tradizione euripidea rappresenta la parvenza della verità e che, tuttavia, serviva a stabilire l’integrità dell’eroina. I rapporti umani nella casa di Elena sono inesistenti o meccanici, il più delle volte anaffettivi: le serve dell’Elena di Ritsos sono esseri crudeli e meschini, perché non creano una relazione simpatetica con la padrona, anche nel momento estremo della vita, l’imminente decesso, perché hanno perso o non hanno mai avuto il ricordo, la consapevolezza, la conoscenza, purtroppo anch’essa effimera nell’umanità, di chi fu Elena30. Tempo che passa, silenzio, sfacelo, morte: questi sono gli elementi principali e quasi palpabili de Η Ελένη. Del resto, la grande innovazione di Ritsos, nella riscrittura drammatica di questa pièce, sta nel fatto che Elena è colta nel momento decisivo della sua esistenza, il momento in cui sta per morire. In questo modo il soliloquio di Elena può essere letto come un testamento verbalizzato da parte di una grande reclusa che esamina la sua vita mentre se ne accomiata in una solitudine angosciante.
Che questo monologo debba essere o possa essere letto come una sorta di testamento di Elena è suggerito dalla conclusione che Ritsos nell’explicit in prosa31:
Ο επικεφαλής σφράγισε το σπίτι – «ώς να βρεθούν οι κληρονόμοι», είπε,– αν και ήξερε πως κληρονόμοι δεν υπάρχουν. Θα’μενε έτσι σφραγισμένο το σπίτι σαράντα μέρες, κι ύστερα τα υπάρχοντά του – όσα γλιτώσαν – θα βγαίνανε στον πλειστηριασμό προς όφελος του δημοσίου.32
Un destino beffardo spetta a Elena dopo la morte, non appena l’ospite senza nome lascia la camera da letto, la stanza della segregazione. Tramite una deroga al mito, tramite una alterazione forte sulla storia e sulla famiglia di Elena, Ritsos nega all’eroina eredi per enfatizzarne la solitudine esistenziale: non esiste più una Ermione che la tradizione classica ha consacrato, a partire da Omero, quale unica figlia di Elena e di Menelao. Dopo aver ricevuto il furto estremo delle servette che alla morte della padrona cercano di portar via dalla casa gli ultimi oggetti preziosi rimasti in casa, l’ufficiale dello Stato, l’επικεφαλής, l’unica altra voce che risuona seppur per un attimo nella pièce, mentre appone i sigilli alla casa prima che il cadavere della vecchia Elena vada all’obitorio nell’indifferenza delle strade e del mondo affermando: “ώς να βρεθούν οι κληρονόμοι” (trad. it.: “fin quando non si trovino gli eredi”).
A ben vedere, la solitudine dell’Elena di Ritsos è una costante che non pervade solo l’ultima parte della vita dell’eroina, quella avvilente, perché sembra distinguerla dal resto dell’umanità già nella fase dello splendore. Questa distinzione è evidente, ad esempio, in maniera programmatica nel racconto di Elena sulla Teichoscopia, l’episodio del III canto dell’Iliade dal quale sono partito, un racconto che Ritsos propone in due momenti principali del monologo, dopo l’accenno all’amore con gli uomini di Elena, e soprattutto al termine del monologo in connessione, non casuale, con la descrizione di un teatro pericolante di periferia che, ormai chiuso a mezzanotte, mantiene qualche fioca luce dello spettacolo appena concluso. La Teichoscopia dell’Elena di Ritsos, tuttavia, non è semplice riscrittura, ma tende a collimare con una mitopoiesi narrativa33. La scena, infatti, presenta un ampliamento narrativo di particolare forza rispetto all’episodio dell’Iliade. Nel racconto della sua Teichoscopia l’Elena di Ritsos rinuncia alla visione personale per diventare oggetto della visione, smette di guardare, per essere guardata. Osserviamo da vicino il testo:
Κείνο το δείλι,
τριγυρισμένη απ’ τις ατελείωτες κραυγές των πληγωμένων,
απ’ τις ψιθυριστές κατάρες των γερόντων και το θαυμασμό τους, μέσα
στη μυρωδιά ενός γενικού θανάτου που, στιγμές στιγμές, λαμπύριζε
πάνω σε μιαν ασπίδα ή στην αιχμή ενός δόρατος ή στη μετόπη
ενός αμελημένου ναού η στον τροχό ενός άρματος, — ανέβηκα μόνη
στα ψηλά τείχη και σεργιάνισα,
μόνη, ολομόναχη, ανάμεσα
σε Τρώες και Αχαιούς …34
Dopo un elegiaco congedo all’amore, Elena ammette di non aver perso del tutto la memoria. La differenza tra oblio e memoria presente sta nel fatto che i ricordi di Elena non provocano più commozione, quando sono richiamati alla mente. Si sono rappacificati e, divenuti lindi, impersonali, sereni, dimorano ormai nei recessi più insanguinati del corpo. Solo un ricordo, invece, mantiene ancora una carica emotiva, inalterata e passionale: quello della Teichoscopia, la visione dalle mura, ambientata κείνο το δείλι, “quella sera”, un’indicazione temporale sfumata, sospesa nella memoria, ma capace di creare subito un’associazione immediata sul piano della tradizione con il passato. La sera che richiama Elena è convulsa, in quanto sera di un giorno frenetico di guerra, risuonante di suoni e gemiti, sui quali si stende l’odore permanente e pregnante della morte. In questo affanno inutile degli uomini, Ritsos propone un’ulteriore modifica rispetto a Omero. Nella sua anabasi, Elena sale da sola sulle mura, senza ancelle, si trova completamente sola tra i Greci e i Troiani, come sottolinea l’anafora voluta μόνη … μόνη, ολομόναχη (trad. it.: “da sola … sola, completamente sola!”). Non sappiamo all’inizio perché Elena sia andata sulle mura di Troia: certo in Ritsos non interviene Iride a infondere nella donna il desiderio del passato, come nel III libro dell’Iliade: l’ascesa sembra essere una scelta personale e inderogabile. In questo modo, però, sulle mura, al centro dei Greci e dei Troiani che combattono, Elena diventa spettacolo da osservare. Non a caso, proiettata nell’alto delle mura, Elena si distingue ancora di più per il bagliore delle vesti e della cintola argentea che adorna l’abito sull’oscurità della sera che avanza inarrestabile. Il particolare chiaroscurale è significativo: offre una sottolineatura cromatica che mette in evidenza Elena come un punto visivo unico e privilegiato da focalizzare, in questo caso a differenza della Teichoscopia iliadica, dal basso, la piana di Troia, il bathos, dove infuria la guerra, verso l’alto, le mura di Troia, lo hypsos, che ora sono lo spazio occupato da una donna solitaria. Ma non solo: come in Omero, anche in Ritsos Elena ha la consapevolezza del fatto che ora tramite lo scontro imminente tra Paride e Menelao i due rivali in amore, si risolverà l’annosa guerra. Elena, dunque, sta per tornare moglie del Troiano o legittima consorte dello Spartano, in ogni caso, sta per perdere la sua condizione di donna che può scegliere, che può rivendicare una libertà personale.35
La consapevolezza di questa perdita di libertà si intreccia, tramite una puntuale serie di verbi della percezione, alla caparbia e consapevole negazione della visione da parte di Elena: secondo Ritsos vedere ciò che sta per accadere sulla piana priva Elena della piena libertà che l’eroina rivendica e desidera. Non a caso, Elena afferma che dalle mura “non vidi neanche rompersi il legaccio dell’elmo di Paride”, forse “scorsi solo un bagliore rotondo, minimo … uno zero di luce”. Del resto, secondo Elena, “non vale la pena guardare dalle mura sulla piana il tranello degli dei”. Elena, per tutto ciò, decide di non osservare lo spettacolo della guerra, concentrandosi in sé stessa, tanto da non ascoltare neanche le grida che giungono dalla piana. L’eroina preferisce essere guardata nella sua aerea carnalità mentre rivolge il suo interesse all’alto:
Δεν κοίταξα άλλο· ούτε άκουγα σχεδόν τις πολεμόχαρες κραυγές τους —
εγώ, ψηλά, στα τείχη, πάνω απ’ τα κεφάλια των θνητών, αέρινη, σάρκινη,
χωρίς ν’ ανήκω σε κανένα, χωρίς να ’χω κανενός την ανάγκη,
σα να ’μουν (ανεξάρτητη εγώ) ολόκληρος ο έρωτας, — ελεύθερη
από το φόβο του θανάτου και του χρόνου, μ’ ένα άσπρο λουλούδι στα μαλλιά μου,
μ’ ένα λουλούδι ανάμεσα στα στήθη μου, κι ένα άλλο στα χείλη να μου κρύβει
το χαμόγελο της ελευθερίας.36
Avulsa dal mondo degli uomini, Elena acquista o riacquista, liberata dal timore della morte e del tempo, una indipendenza totale. Potrebbe essere bersaglio delle frecce dei Greci e dei Troiani, mentre avanza ormai con gli occhi chiusi sulle mura, ma sa che il bagliore emanato dalla sua bellezza unitamente alla sua presunta immortalità, la protegge dalle frecce. Cammina serena con un fiore tra i seni, un fiore bianco tra i capelli e uno in bocca tra le labbra per nascondere il sorriso della libertà, το χαμόγελο της ελευθερίας. In questa processione solitaria Elena si arresta all’improvviso: getta i fiori che porta in mano e sul seno sulla piana, suscitando il desiderio dei soldati che si lanciano a raccogliere quei fiori dalla terra intrisa di sangue, per donarli di nuovo all’eroina. Elena continua a non guardare, tiene chiusi gli occhi. Ormai, sollevate le punte dei piedi sulle mura, si leva al cielo, facendo cadere anche il terzo fiore, per separarsi definitivamente dal mondo che rimane in basso, per giungere a una dimensione superiore, ancora più distinta da quella elevata delle mura. La realtà, tuttavia, rivela subito il suo volto razionalistico. Il ricordo si interrompe: quella ascesa che per Ritsos rappresenta la forza immanente nell’unico ricordo vitale in Elena coincide con una libertà momentanea, immaginaria, illusoria, forse un sogno che non si avvera nel passato, dovuto all’ignoranza, μια στιγμιαία ελευθερία, / φανταστική, βέβαια, κι αυτή — παιχνίδι της τύχης και της άγνοιάς μας.37 L’Elena di Quarta dimensione è umana, non sembra avere parentele divine, come pur ha creduto la tradizione: è destinata alla morte, che a Troia avverte ancora lontana, ma con la quale, ora, nel presente di Sparta, si conclude la ricerca della libertà, ελευθερία, nella fredda stanza di un obitorio, unico spazio atemporale nel quale, forse, Elena diventerà immortale.38
Non è un caso, come dicevo, che nell’ultima parte del monologo Elena ripensi e riproponga sul letto della sua stanza, l’azione salvifica cercata durante la Teichoscopia. In un bagliore immediato della memoria, per associazione di idee, al suono che giunge dal teatro di periferia, dove si annida il ronzio del silenzio, si lega il ricordo di un’altra dimensione, la visione dalle mura che in Ritsos diventa anche visione delle mura:
… Κι εκείνη η σκηνή, πάνω στα τείχη της Τροίας, – να αναλήφθηκα τάχα στ’ αλήθεια
αφήνοντας να πέσει απ’ τα χείλη μου – ; Καμιά φορά δοκιμάζω και τώρα,
εδώ πλαγιασμένη στο κρεβάτι, ν’ ανοίξω τα χέρια, να πατήσω
στις μύτες των ποδιών – να πατήσω στον αέρα, – το τρίτο λουλούδι.39
La morte che sta per arrivare collima con l’unica liberazione concessa a Elena, con la vera libertà. Più volte sul letto, nel quale è ormai costretta, Elena ha cercato di salire al cielo, in punta di piedi, ripercorrendo i gesti della Teichoscopia, momento nel quale la donna ha cercato di allontanarsi dall’umanità deludente. Ora, invece, finalmente, il terzo fiore, il fiore della libertà, το τρίτο λουλούδι, è concesso a Elena dal destino. Alle parole di Elena, all’ultimo ricordo della visione dalle mura di Troia, segue il silenzio eterno. Elena tace per sempre, muore, riesce solo ad aprire le braccia al cielo, ad abbracciare la libertà in una dimensione ultraterrena, che trascende il tempo degli uomini: Elena occupa la sua quarta dimensione nell’eterno ricordo che le è tributato. Resta, tuttavia, in Ritsos il dubbio che il poeta affida al muto e anonimo ospite di Elena, l’uomo che resta in vita, un dubbio che forse condivide con l’umanità. Una volta morta Elena, una volta uscita dalla casa prigione, in una notte di plenilunio tranquilla e ingannatrice, l’uomo si sente perso, abbandonato, privo di una guida che, pur nella fragilità del tempo, finché Elena è vissuta, è rimasta al suo fianco. La domanda conclusiva che chiude l’explicit extradiegetico, πού θα πήγαινε τώρα; (trad. it.: “ora dove sarebbe andato?” p. 363), risuona nella notte senza un’univoca risposta. Morta Elena, infatti, l’uomo riprende il suo cammino o inizia un nuovo viaggio di riflessione che lo porta a comprendere l’inevitabile dissoluzione di tutte le cose, la fuga infallibile del tempo, la necessità di dedicarsi ad azioni che non siano inutili pur nell’immanenza fragile, il bisogno ineludibile della resistenza.