K: Siamo molto contenti d’incontrare Davide Susanetti che ha, senza saperlo, una grave responsabilità: senza la sua straordinaria cura di una nuova edizione, nel 2023, dell’Elena di Euripide per Feltrinelli, forse sarebbe stato ancora più ardito il tentativo della rivista K. di dedicare un numero a un’“eroina” del femminile greco, cioè Elena, dopo Antigone e Medea. Le ultime due donne, però, sono immediatamente riconoscibili come figure della destituzione, del “no”, della rivolta, della lacerazione del canone del femminile nella Grecia classica. Con Elena, come dovrebbe emergere, le questioni sono paradossalmente e probabilmente più complesse. Bisogna dire che l’edizione dell’Elena di Euripide del 2023, curata da Susanetti, grazie all’introduzione ed anche grazie alla ricchezza delle note a commento del testo, tenendo insieme anche un pubblico di non specialisti, a cui ci iscriviamo, e uno più avveduto, rappresenta un notevole avanzamento degli studi e un rinnovamento speciale della figura di Elena.
Prima di dare avvio alla conversazione, ricordiamo alcuni lavori di Davide Susanetti: il volume del 2007, Euripide: fra tragedia, mito e filosofia (Carocci), riproposto nel 2024. E poi altri due volumi, cruciali nell’economia del discorso che cercheremo di allestire intorno a un’Elena che vorremmo de-mitizzare – come Euripide – e, allo stesso tempo, ri-mitizzare: Catastrofi politiche. Sofocle e la tragedia di vivere insieme (Carocci, Roma 2011) e il più recente L’altrove della tragedia greca. Scene, parole e immagini (Carocci, Roma 2023).
Entriamo nel vivo delle questioni. Il punto cruciale è la demitizzazione del mito che Euripide articola nella tragedia del 412 a. C.: Elena diventa una moglie fedele di un marito che non vede da diciassette anni, nonostante le lusinghe del Re egiziano, Teoclimeno; quindi, non è una donna ambigua, come invece è ancora in Omero nel terzo libro dell’Iliade. Tuttavia, questa visione di una donna mite, familiare, in realtà nasconde più di un’opacità: lo scollamento tra eidolon, nome e corpo conserva un’istanza di indeterminatezza speciale. Nella tragedia di Euripide, d’altronde, Elena si riconosce una certa colpevolezza, pure se concretamente le colpe sono – platonicamente – tutte della sua immagine arrivata a Troia al suo posto. Iniziamo, dunque, a muoverci in questo contesto.
Prendiamo una citazione da L’altrove della tragedia greca, che potrebbe introdurre i nostri lavori, per poi lasciare la parola a Susanetti:
Quel conflitto era stato suscitato e si consumava in suo “nome”, per quel simulacro che tutti scambiavano per Elena, convinti che ella si trovasse tra le mura della città di Priamo. Tutti la consideravano un’adultera, una svergognata, un’assassina. Tutti ferocemente la odiavano per le perdite e le stragi che ella avrebbe provocato. Tutti esecravano il suo “nome”, pronunciandolo con ribrezzo e disgusto, come un abominio su cui si dovesse sputare. Quelli erano i discorsi, malevoli e distorti, che da chiunque e ovunque venivano detti sul suo conto. Ma non era così. Il “corpo” di Elena era sempre stato assolutamente puro e incontaminato. Nessun altro uomo, che non fosse suo marito, l’aveva mai toccato. Il suo “corpo” non si era mai macchiato di alcun crimine e di alcuna colpa, non aveva mai compiuto alcun gesto sconveniente o trasgressivo. Il suo “corpo” non era mai stato presente in quei luoghi e in quelle azioni. L’impurità, il tradimento e la colpa appartenevano integralmente al simulacro, alla “nuvola” fatta d’aria. Appartenevano al “nome” e all’“immagine”. Ed era solo sulla base di quel “nome” e di quell’“immagine” che tutte quelle dicerie e quelle opinioni si erano diffuse e radicate (pp. 133-134).
Susanetti, dunque, sottolinea come in Euripide sia presente una non scontata equivalenza tra immagine e nome, che per la cultura occidentale è tutt’altro che un’ovvietà. In Euripide, invece, nome e simulacro, contrapposti al soma, al corpo, diventano il luogo di scissione interna: tra la bontà dell’Elena egiziana e invece la puttana per eccellenza della cultura occidentale. Grazie a questo corpo puro e incontaminato di Elena, in Euripide, la tragedia è dedicata all’“assoluta insensatezza della guerra” – a cui Susanetti fa riferimento. Insensatezza della guerra: è la salvaguardia del corpo di Elena, la sua purezza, a garantire il fatto che la guerra è una folle illusione, ma un’illusione per cui, molto concretamente, si muore.
L’attacco all’eidolon da parte di Euripide forse può essere paragonato solo a quello di Platone, anche se le intenzioni sono diametralmente opposte. Sollecitiamo quindi Susanetti innanzitutto sulle strane ambiguità della non ambigua Elena di Euripide; fino al punto in cui il nome si fa carico delle colpe della donna. Infatti, nonostante Elena sia così devota alla casa spartana, in realtà, ha momenti di grande disorientamento; ad esempio, ha l’idea di farsi fuori da sola quando crede che Menelao sia morto (una nuova, imprevedibile, Antigone?). Per un altro verso, sembra molto forte: Elena è la vera ispiratrice del piano per abbandonare l’Egitto, nel momento in cui, invece, Menelao risulta una figura diversa dal solito, non particolarmente brillante. Peraltro, l’idea che uno dei Re della Grecia si presenti per buona parte della tragedia come uno straccione, potrebbe anche meritare un’attenzione particolare.
Davide Susanetti: Prendo spunto da alcune delle parole che sono state evocate. Non so esattamente cosa voglia dire che Euripide de-mitizza Elena, perché a mio avviso in Euripide c’è semmai una consapevolezza e una drammaturgia molto scaltrita nella fedeltà al mito; di quella strana materia che è il mito. E anche rispetto a quelle che sono le prospettive ma anche i miraggi che si creano nel momento in cui una vicenda mitica si materializza su una scena teatrale. E nel caso di Elena questa condizione è più vistosa che in altri personaggi, perché in qualche modo quel corpo e quel sembiante che vediamo sulla scena e che pronuncia delle parole usando la prima persona ci dà l’idea di essere una donna, un mortale di natura umana, e con un effetto di ambiguità voluta ci fa entrare – ma forse immediatamente anche uscire – dalla tentazione della psicologia. Allora, dobbiamo chiederci: è una donna fedele? Infedele? Quanto è cambiata rispetto ad altre immagini che la letteratura ci offre? Secondo me, come dicevo, possiamo riscontrare una fedeltà mitica di Euripide, al suo mito arcaico, tanto che direi, evocando qui il nome di Roberto Calasso, Elena è un’entità metafisica. E ancora, giocando con Lacan e il suo “la donna non esiste”, aggiungerei, Elena non esiste. Certo, è una donna, è un personaggio che ha una collocazione di genere che evidentemente innesca determinate dinamiche e determinati processi, che coagula intorno a sé una serie di vicende, ma è “un pieno” così accecante da rinviare a “un vuoto” e a un’assenza, quindi anche a una dimensione assolutamente indefinibile. Da questo punto di vista, mi verrebbe anche da dire che se noi pensiamo al mito e alla forma del pensiero mitico arcaico, Elena ne è il segno per eccellenza: più di ogni altro, proprio perché oscilla tra la pienezza di una presenza e l’assoluta assenza; è una superficie – ossia, un luogo di cattura per qualsiasi sguardo la incroci – che pone radicalmente la questione se ci sia qualche cosa sotto la superficie e che cosa, eventualmente, ci sia sotto la superficie. E questo è il primo aspetto.
Chiaramente, Euripide mettendo in scena Elena e in qualche modo delegandola, più che in altri contesti della letteratura greca, a una rappresentazione di sé, le dà la consistenza di un soggetto, o quantomeno l’effetto di un “soggetto” che si lamenta, patisce; che, evocando delle sirene che hanno a che fare con l’aldilà, con lo spazio della morte, articola anche un lamento. Dunque, abbiamo la perfetta illusione di un io. Dall’altra parte, sin dalle prime battute e per tutto il Prologo, c’è la questione del nome e dell’immagine che, certo, poggia su una variante del mito – tutti evocano Stesicoro come l’autore che avrebbe dato in forma epica o lirica consistenza a questa possibilità di un’Elena mai stata a Troia. Probabilmente, il punto di partenza lo si intravede già in un frammento di Esiodo. Sul punto, c’è una pagina di Erodoto impressionante della sua razionalità, con un movimento che appare demitizzante ma splendidamente mitico poi nella sostanza. Nel secondo libro delle Storie, dedicato all’Egitto, si ricorda quell’area geografica in cui anche nella vicenda euripidea Elena è collocata (Faro è la residenza di Proteo): Erodoto insiste prima di Euripide e con molta forza sul fatto di un’Elena che non è mai andata a Troia, e va addirittura a cercare punti del testo omerico che sarebbero la spia di una conoscenza già in Omero della variante di un’Elena rimasta in Egitto e mai andata a Troia.
Ma ciò che mette in evidenza la dinamica del vuoto e del pieno, e quindi poi che ha a che fare con un discorso sul desiderio, è che i Greci non potevano credere che Elena non fosse a Troia; i Troiani hanno raccontato, detto e giurato in ogni maniera che loro non avevano Elena, ma nessuna delle due parti era disposta a credere alle affermazioni verbali dell’altra, per cui, finché la città non è stata completamente distrutta, non si è accertato che Elena effettivamente non c’era. Dunque, bisogna andare a fondo, arrivare alla distruzione completa per osservare quel vuoto che verbalmente si dichiarava sin dall’inizio, ma che tutti prendevano invece per un pieno che veniva negato in un vuoto.
Fatto questo détour, per ritornare alla questione euripidea: abbiamo un’Elena di Euripide che racconta la sua storia; dice un io e dice di una frattura permessa dalle due varianti del mito: a Troia/non a Troia. La frattura è una questione legata al tema del doppio, dell’eidolon, e alla giuntura tra il nome e l’immagine – saldatura non scontata. Questa non è poi la frattura fondamentale contro cui i meccanismi del desiderio vanno continuamente a sbattere? C’è un nome che dovrebbe identificare qualcuno; c’è un’immagine che corrisponde a questo nome; ed entrambi – e forse per questo motivo è possibile la giuntura – funzionano come dei significanti, che luccicano e che si inseguono. Tutto sommato anche qui: abbiamo evocato il nome di Platone, ma Platone naturalmente non va inchiodato a una scolastica. Sì, certo, Platone nel Fedro fa quel discorso sulla scrittura che tutti conosciamo, ma utilizza ogni risorsa della scrittura, del teatro, per mettere in forma un attraversamento; impiega, in tutti i suoi dialoghi, le forme di esperienze che eccedono la concettualizzazione, altrimenti non avrebbe senso il teatro di Platone. Perché il teatro di Platone non è l’esercizio della dialettica; l’attraversamento è una forma di esperienza e di pratica che mette insieme più piani: quello del pensiero, certo, ma anche quello dell’emozione, del corpo. E tutto sommato nel Cratilo, quando si parla della consistenza dei significanti che poi si scompongono in un gioco di paraetimologie che, però, a sua volta produce immagini, non è in fondo, per certi versi la stessa cosa, o comunque un tratto che si inscrive nella fedeltà paradossale ma necessaria a un dettato mitico?
Sto aprendo troppe parentesi; torniamo indietro: un soggetto che viene messo in scena e rappresenta una frattura. Questa frattura si gioca su due piani: quello che riguarda l’io che parla e quello che riguarda gli altri. Quello che riguarda tutti gli altri è facilissimo; è la cosa più ovvia e l’abbiamo appena detta: è una superficie che luccica e diciamo che è ciò che attira irresistibilmente ed è ciò a cui qualsiasi desiderio punta; lo si vuole raggiungere, prendere, toccare. Dopodiché, però, non ci si assume fino in fondo la conseguenza degli effetti di questa caccia; per cui la cosa più desiderata è insieme la cosa più odiata e distruttiva, nel momento in cui non la si riconosce come una superficie; come un oggetto che fa segno a qualcosa e, allo stesso tempo, non c’è. Per quanto riguarda lei: qui c’è sì un aspetto che punta a una psicologizzazione, ma che non concerne, io credo, la coerenza o la tenuta del personaggio, ma che invece guarda il pubblico; che si rovescia, per così dire, sul pubblico. Nell’introduzione del 2023 all’Elena tentavo di dirlo: al di là della variante mitica, il problema concerne un io che non riconosce una narrazione che viene fatta da altri a suo riguardo; che non si riconosce, quindi, nel modo in cui la sua immagine viene recepita da tutti quelli che sono intorno a lei e che reagiscono nei suoi confronti proprio in relazione a quell’immagine. Per cui, da una parte, c’è questo movimento di assoluto allontanamento: “io non sono quell’immagine”, che significa anche che “io non sono quella narrazione”; “tutte quelle rappresentazioni non mi riguardano, non mi corrispondono”. Ma dall’altra parte – e questa è la cosa interessante che fa Euripide – è anche l’impossibilità di scindersi da questa stessa immagine, che è una questione anche di lingua: è lei? È l’altra? È l’eidolon? Il simulacro? Il nome? È tutto questo non è corpo, non è io? E quindi viene fatta un’elementare coincidenza tra io e soma. Dunque, Elena non può fare a meno di dire “a causa mia”, reinserendo il pronome personale diretto o indiretto, in accusativo o in dativo, nel momento in cui evoca certi snodi e in particolare i risvolti più cruenti della guerra; innanzitutto, i morti prodotti dalle battaglie. C’è un movimento per cui “tutta questa storia non è la mia verità”, ma contemporaneamente si può anche affermare: “io non posso evadere da me perché sono sempre io e questa verità che io non riconosco sento però che in realtà è inscindibile da me”. Ma anche qui, ripeto, non è tanto il personaggio o la donna; non è tanto che ci interessi se sia fedele o meno. Piuttosto, è il movimento la chiave di tutto. Euripide qui è geniale nel mettere in scena questo movimento e questa sorta di double bind, che va avanti per cento e più versi, e lo fa con una sostanza, con una materia mitica che in realtà per certi aspetti funziona esattamente nello stesso modo: è l’estrema prossimità dislocata in un passato assoluto, che poi accade un’altra volta nel presente; è vera perché lo dicono i poeti o le muse, ma, allo stesso tempo, le muse sono ambigue. Oppure non è vera; però, allo stesso tempo, è verissima perché nel momento in cui sono ricatturato in un meccanismo di identificazione ci sono dentro un’altra volta. Insomma, a mio avviso, questa macchina è perfetta.
K: Appare dunque decisivo nell’Elena questo “doppio gioco”: “non è colpa ma è colpa mia”; non si può sfuggire alla propria immagine: è questo un incredibile colpo di genio di Euripide. Forse un punto di rottura con questa adesione necessaria alla propria immagine, potrebbe trovarsi quando, alla fine della tragedia, Elena, per sfuggire dall’Egitto, si rende “brutta”, irriconoscibile… Al di là della narrazione della tragedia, lì ci potrebbe essere un segnale, un indice, un sintomo esattamente in questa direzione.
Noi, comunque, abbiamo iniziato a indagare la figura di Elena, sulla scia di Antigone e Medea – ma che è una figura certamente non dal carattere gigantesco come il loro –, per verificare se quello che lei chiama il “vuoto” di Elena sia in grado d’indicare anche la questione del fondamento della guerra. Che tipo di bellezza è a fondamento della guerra? Una bellezza imparagonabile a qualsiasi altra bellezza; tant’è vero che la stessa Elena nella tragedia di Euripide, nel momento di massimo sconforto, si riconosce come mostruosa. E lei, d’altronde, parla, nelle note a commento dell’edizione dell’Elena del 2023, di Elena come di una “mostruosa anomalia”. Elena: una dimensione sublime della bellezza, tanto da diventare pressocché intrattabile. È un eccesso che la rende mostruosa, con tutte le implicazioni che ci possono essere.
D. S.: Giraudoux, nella Guerra di Troia non si farà (1935), in un passaggio dice qualcosa rispetto a quello che abbiamo già evocato: se la bellezza fosse sempre stata presso di loro – e qui “loro” possono essere tanto i Greci quanto i Troiani – non avrebbero mai depredato i loro amici, né venduto le loro figlie, né sperperato ricchezze, né quindi esercitato violenza. Ma la bellezza non è mai presso qualcuno, e qui Giraudoux coglie un nodo fondamentale rispetto agli inneschi della violenza.
K: Per ritornare in qualche modo alla questione del “pieno e vuoto” di Elena, dialettica che si rispecchia nella sua immagine: nella rivisitazione del mito da parte di Euripide, Elena sembra apparire una sorta di custode della tomba di Proteo. Nel saggio introduttivo all’edizione dell’Elena euripidea lei, a questo proposito, scrive che “Elena sta immobile alla tomba di Proteo, già sovrano del paese, cui Ermes, quel giorno, l’aveva affidata: Proteo, faraone egizio e insieme, per tradizione greca, divino veggente, creatura del mare, capace di ogni metamorfosi, così come continua metamorfosi è il divenire stesso di ciò che nasce e perisce” (p. 7). Sembra risuonare qui il regno delle Madri del Faust goethiano, il solo luogo in cui il protagonista deve arrivare (scendere o salire) per portare in vita Elena e Paride, cioè per ritrovare le loro immagini, per assecondare il volere dell’imperatore presso cui si trova. Similmente alla tomba di Proteo, il regno delle Madri è il luogo del puro nulla, ma è anche il luogo del divenire, luogo di generazione di ogni immagine. La tomba di Proteo, luogo della morte per eccellenza, sembra apparire una sorta di rifugio della “vera immagine” di Elena. Infatti, vegliando questa tomba, Elena sembra custodire in qualche modo anche la verità della sua immagine – lei appare come l’unica che effettivamente sa come stanno le cose; l’unica che sa davvero dove è il suo corpo e dove sono, invece, la sua immagine e il suo nome; l’unica che sa dell’inganno. Alla questione della verità, d’altronde, potrebbe collegarsi la vicinanza tra Elena e Persefone, su cui lei si sofferma spesso, sia nel capitolo di L’altrove della tragedia greca dedicato a Peripezie tragiche e misteri sia nell’introduzione all’Elena di Euripide, e che forse richiama il rapporto tra ónoma, èidolon e lógos.
D. S.: Per quanto riguarda la questione del regno delle Madri goethiano in rapporto a Elena: la parola “mutamento” viene ripetuta e scolpita in alcuni versi. Mutamento e anche metamorfosi, che evoca evidentemente anche il tema della nascita e di ciò che sempre daccapo si genera. Certo, possiamo vedere in questa Elena che si trova presso una tomba, come l’evocazione di Elena dal regno delle Madri, un’immagine del passato però non del passato nel senso cronologico, ma del luogo di tutte le immagini possibili, e delle immagini, diciamo poi, nella loro “potenza simbolica” più forte, perché poi chiaramente “il simbolo riposa su sé stesso” (questa è un’espressione di Bachofen che Furio Jesi amava ricordare). E lì c’è una giuntura tra passato, memoria e tomba; che appunto però non va presa alla lettera. Diciamo che è l’altrove di qualsiasi evocazione; è l’altrove di qualsiasi attualizzazione a partire da una serie di possibilità, non sappiamo se finite o infinite; ma, se dovessimo ragionare miticamente, forse dovremmo dire infinitamente finite: che poi, appunto, hanno luogo, germogliano. Che la verità sia presso una tomba, è anche questa la migliore rappresentazione; se c’è una verità che appartiene a un altrove, a una zona oscura, a una zona da cui la verità si rifrange, non essendo mai, in qualche modo, sé stessa. Che la verità sia in una tomba, è anche un simbolo della sua indisponibilità. Della sua indisponibilità come oggetto e come enunciato che possa essere padroneggiabile e che può, appunto, essere giù, cioè nel regno dei morti, o essere su, in un qualche iperuranio – ma, appunto, come dice Mefistofele, rispetto al regno delle Madri, salire e scendere è la stessa cosa, nel senso che, in entrambi i casi, abbiamo un’indisponibilità, a meno che il soggetto non si metta in gioco con sé stesso. Ma mettersi in gioco con sé stesso vuol dire affrontare la propria morte, assumerla, attraversarla, passare attraverso quella dimensione di dissoluzione della forma stessa, che è propria del dionisiaco, e poi, forse, riemerge da un’altra parte. Ed è per questo che è facile per Euripide anche innestare, all’interno della drammaturgia, il filo rosso della coppia Demetra-Persefone e, quindi, la vicenda misterica per eccellenza; nell’Elena c’è quel coro, il secondo Stasimo, meraviglioso e assolutamente fuori luogo da un certo punto di vista, in cui appunto si narra della disperazione di Demetra che va in cerca della figlia. Il testo euripideo, però, si ferma non con l’inno omerico, evocando la restituzione della figlia alla madre, che in qualche modo rappresenterebbe la chiusura dell’anello della vicenda, e quello che comunque anche lo spettatore ha in mente; nel momento in cui Euripide evoca quella vicenda, per costituire il parallelo con la situazione di Elena in Egitto, di questa Elena che sta verso la tomba di Proteo. Demetra ha un punto di arresto, in cui si placa non nella restituzione, ma nel fatto che Zeus e alcune divinità la raggiungono cantando e facendo musica. Quindi, sostanzialmente, il momento di arresto non si ha con la restituzione della figlia, ma con la poesia. Ed è lì che poi la vicenda mitica dell’evocazione cantata si ferma. Nell’assenza della figlia, che poi è anche l’assenza di Elena, la ricerca e lo sprofondamento nell’altrove di Demetra non si ferma con la restituzione del corpo di Persefone: si va incontro a un dono di poesia; cioè, si va incontro a un dono di parola altrimenti pronunciata; dove, ancora una volta, non c’è una verità disponibile nella forma di un enunciato, di una predicazione. C’è, diciamo, una poesia che, ancora una volta, come un gioco di specchi, è un meta-piano. Di che cosa parla la poesia, se non del mito dell’immagine? È quella l’unica cosa che può essere restituita, medicata, maneggiata, attraversata, rispetto anche al tema della bellezza stessa. E questo è un punto cruciale in Euripide: se c’è una verità, la verità è, alla fine, l’opera poetica stessa. Che, poi, è chiaro, fa segno ad altre dimensioni della verità, mostrando che, finché siamo nel campo del linguaggio, questo è il perimetro da cui non possiamo evadere. Dopodiché, lo si può sfondare in su o in giù, ma si sta facendo un’altra cosa.
K: A tal proposito, un’altra suggestione: Giorgio Agamben, nel suo saggio dedicato a La ragazza indicibile. Mito e mistero di Kore (2010), libro che contiene anche i disegni di Monica Ferrando, presenta la divinità proprio come colei che può essere nominata ma non detta, rivisitando in qualche modo il rapporto tra ónoma e lógos, e quindi il loro nesso con l’immagine.
D. S.: Giustamente evocate il saggio di Agamben, che è un saggio molto bello, molto interessante, con anche quel bellissimo complemento, non estrinseco alle parole, di Monica Ferrando. Ho un’unica cosa da rimproverare, naturalmente, si fa per dire, ad Agamben; così come, con altre inflessioni, la rimprovero a Massimo Cacciari. Vale a dire che, quando si arriva sulla soglia del mystérion, cioè del mistero in senso proprio, tutti e due hanno paura – “quella cosa lì non la vogliono toccare”. In modi diversi: Agamben si protegge con un rinculo heideggeriano sul linguaggio. Cacciari arretra, invocando delle modalità, delle teoresi che, in qualche modo, permangono dentro il dicibile. E, a un certo punto, comunque, tutti e due rifiutano di attraversare il tema dell’indicibilità. Agamben è molto chiaro su questo: la fanciulla di cui non si può dire il nome, perché non è altro che sé stessa; non c’è nessuna, come dire, ineffabilità, non c’è nessun oltre; è un equivoco pensare all’ineffabile, sia per quanto riguarda Persefone, dando una lettura mistica al testo platonico, perché anche l’idea non è altro che il dicibile e non c’è una dimensione ulteriore. Ecco, su questo aspetto, non sono tanto d’accordo; nel senso che lì c’è una soglia. Chiaramente c’è una soglia che è marcata; dopodiché, o si ha il letterale coraggio di attraversare quella soglia – che poi è un gesto dissolutivo, di una forma e di un’identità personali, e quindi, forse, c’è l’evento di qualcos’altro, la cui verità però solo nell’evento puoi esperire o testimoniare a posteriori, non dicendolo –, oppure ti fermi lì, però a mio avviso così facendo c’è qualcosa che non comprendi di questa dimensione dell’antico. Vale a dire, quella cosa che vediamo nella dimensione eleusina, quella cosa con cui gioca Euripide, quella cosa con cui gioca tantissimo anche Platone, alla fine è una dimensione che toglie il nome, che toglie la definizione, toglie l’immagine, toglie forse anche la cosa in sé come oggetto, ma è assolutamente reale. Ed è nel momento in cui avviene questo evento che, poi, a cascata, tutto il resto si tiene. Dopodiché, questa cosa la posso dire un’altra volta soltanto miticamente. Chiaramente, anche Platone – che è ossessionato dal simulacro, e anche nel Timeo c’è l’immagine-paradigma – lo dice: ovviamente, c’è un unico mondo, non ce ne sono due. Solo che il passaggio dall’uno all’altro è la questione di un evento, da un lato, individuale e soggettivo; dall’altro, linguisticamente, si può fare solo con un mito. E, non per niente, Socrate, nel Fedone, dice, a proposito della narrazione mitica: kalós kíndynos, è un bel rischio. È sempre un bel rischio; come Elena è un bel rischio. Tu non sai che cosa c’è, se non ti fai catturare e, quindi, come dire, non avveri la storia, attraversandola. Questo è un problema diverso da quello di Elena: è un problema di chi la guarda. Di chi, appunto, si trova di fronte alla bellezza, laddove, non c’è dubbio, comincia anche il terribile.
Non è un caso che Platone, nel Fedro, quindi in un dialogo in cui si parla della bellezza, ambienti la conversazione sotto un platano, che è l’albero di Elena, per eccellenza: il platano è l’albero in cui Elena, nella sua dimensione più divina, viene venerata dalle vergini a Sparta, come testimoniano sia Pausania sia Teocrito. Platone evoca Stesicoro, quindi evoca il fatto che Elena non è mai andata a Troia. Apparentemente, Platone fa questo discorso, cioè evoca l’Elena di Stesicoro e di Euripide per denunciare una menzogna e far segno a una verità, nel momento in cui deve opporre, a un falso discorso sull’eros, la palinodia di Socrate, che dirà la verità sull’amore e sulla bellezza. Però, che cosa sta al centro di quel discorso sulla vera bellezza e sulla verità a cui la bellezza darebbe accesso? C’è una parola incandescente come ágalma – Lacan, nel Seminario VIII, fa tutto il discorso sull’ágalma nel rapporto tra Alcibiade e Socrate, sul objet petit a, ecc.; mentre non tira in ballo il Fedro, dove al centro del discorso sulla bellezza c’è proprio l’ágalma. L’ágalma è questa cosa psichica che, in qualche modo, l’amante elabora, costruisce, adorna e venera in rapporto alla bellezza dell’amato che gli sta davanti; quell’ágalma, poi, è ciò in cui traspare, nella sua costruzione, un qualche cosa che riguarda il soggetto che l’ha elaborato, la verità della sua identità. Contemporaneamente, l’ágalma è a sua volta l’immagine del Dio con cui sia l’amante sia l’amato hanno a che fare. Platone, quindi, riprende in modo cruciale la dimensione dell’immagine come una dimensione di “alto/basso”: dimensione di una relazione a due e di un’elaborazione di questa immagine. L’ágalma che sta nel Fedro, e che ha dietro di sé lo spettro di Elena, è, allora, l’uso dell’immaginazione, che poi va a finire nel mundus imaginalis di Corbin, che quindi riemerge nella mistica erotica persiana e sufica, che in realtà non è altro che cultura greca – platonica o neoplatonica – e che, semplicemente, nel momento in cui è stata dissodata, la conosciamo come persiana. È una cosa diversa dalla paura del doppio, che abita il Sofista, e diversa dal tentativo, ovviamente fallimentare, di sterminare i doppi, perché poi, in qualche modo, anche il filosofo è Elena; esattamente come il sofista che lo rappresenta, e, anche qui, in questa coppia di fratelli-nemici, non fa altro che riprodurre la stessa frattura che c’è tra, appunto, ónoma e érgon nel prologo euripideo. Questo aspetto lo aveva notato, per esempio, Linda Napolitano Valditara in un libro di qualche tempo fa: è abbastanza impressionante il fatto che, in Euripide, questo simulacro – che è ovviamente la menzogna, quello in cui tutti sono caduti – sia custodito dentro una grotta. Da qui a una caverna platonica, il passo è breve.
K: In effetti, rispetto al suo discorso, è notevole che l’Elena di Euripide, nonostante non sia colpevole, voglia liberarsi della propria bellezza, sino a riuscirci, quando, per ingannare Teoclimeno, si taglia i capelli e si rovina il viso.
D. S.: Sì, certo, c’è un’Elena che, già all’inizio della tragedia, dice che vorrebbe cancellare la sua bellezza, così come con un colpo di spugna si cancellano i colori della tavola di un pittore. Quindi, non solo non avere corpo, ma, probabilmente, anche non avere volto – cancellare il volto, cancellare il prosopon, che però è anche sempre una maschera. E, nel finale, lei si dimostra una signora della métis, una signora dell’intelligenza astuta – che è propria, peraltro, di tutte le creature metamorfiche del mare e quindi di quel Proteo alla cui tomba lei caparbiamente risiedeva – e, quindi, appunto, ha il capo rasato, le guance graffiate, la parvenza del lutto. Il che sembra, per così dire, rispondere a quel desiderio iniziale di cancellazione: la mia bellezza è qualcosa di così abnorme da essere un teras, un prodigio, un elemento del mostruoso, e quei gesti parrebbero in qualche modo esserne il contrario. Ma sono davvero il contrario? Perché, appunto, la cancellazione del prosopon, cioè la cancellazione del teras, della mostruosità, e la cancellazione del volto dovrebbe implicare un’operazione molto più radicale: dovrebbe essere letteralmente mortale, o simbolicamente mortale. Lei allestisce una recita, in cui in qualche modo si rivela un sé stesso che decide di far teatro, decide di recitare letteralmente una parte. L’unico che ne è in qualche modo preoccupato, in realtà, è il marito, che sente una maggiore prossimità tra quello che le parole dicono e quello che può essere un destino. Menelao ha qualche imbarazzo a farsi passare per morto, perché percepisce la morte quasi addosso o prossima all’interno di questa finzione. Elena, invece, è disinvoltissima nella finzione. Quindi non c’è, secondo me, un effettivo rovesciamento.
K: Fare i conti con l’Iliade e con l’Elena dell’Iliade significa, prima di ogni altra cosa, tollerare che il fondamento mitico della guerra – che, in qualche modo, è il fondamento di un’intera cultura: sterminio, dolore, scannamenti, vere e proprie carneficine – è la bellezza. Vale a dire, il fondamento, la ragione, il movente del conflitto, in qualche modo, è la bellezza, che, per farla breve, ha a che fare con le immagini. Tutto sommato, anche nell’Iliade, in realtà, c’è questo nesso tra bellezza e immagine. Ed era quello che stavamo cercando di dire prima, e su cui adesso vorremmo ritornare: è come se Omero già sapesse qualche cosa. Per la natura della bellezza di Elena, se fosse lecito usare una categoria che non ha nulla a che fare col mondo greco classico, ma con quello romantico, impiegheremmo quella di sublime. La bellezza per cui ci muoviamo alla guerra, alla bellezza della guerra, al topos per eccellenza dell’eroismo della guerra, è una bellezza che eccede qualsiasi altra bellezza; è una bellezza, potremmo dire, inumana. Facevamo prima, non a caso, riferimento a quella dimensione del mostruoso. Tanto è vero che, in un passaggio, credo, cruciale – lo ricorda Dino De Sanctis nel suo Il canto e la tela. Le voci di Elena in Omero (2018) –, nel terzo libro dell’Iliade, gli anziani della città, non in un momento certo sereno per la vita di Troia, hanno il tempo di guardare Elena e di notare: forse, tutto sommato, ne valeva la pena di combattere per questa donna dalla bellezza, direi, inimmaginabile. Ne valeva la pena, perché questa bellezza lambisce una dimensione divina, non umana e, quindi, tendente all’incorporeo paradossalmente. La bellezza per eccellenza, imparagonabile a ogni altra bellezza, lascia affiorare l’idea che, in realtà, Omero avesse intorno alla questione della guerra un’idea più problematica di come generalmente si ritiene (e che forse emerge in altri punti dell’Iliade; ad esempio, nel secondo libro, quando quel disgraziato, poveraccio di Tersite attacca Ulisse e Agamennone), una guerra che nasce per catturare un impossibile, la bellezza assoluta di Elena, è infondata, ingiustificata. Perché se la bellezza è sublime, non avendo paragoni, tende a coincidere con un impossibile, cioè con un tratto che eccede il possibile, oltrepassando tutto ciò che può essere normalmente concepito, pensato. Ora, la banalità di Elena, che si esprime, ad esempio, proprio nel terzo libro dell’Iliade, in un carattere finanche modesto (lei aspetta il proprio destino, senza fare troppe storie, attendendo come finirà il duello tra Paride e Menelao), evoca una traccia preziosa, rispetto a quel vuoto di cui si parlava. In questo senso, il farsi della guerra, già in Omero, che concepisce il libro per eccellenza della nostra cultura guerresca, in realtà è fondato su un infondato: la guerra non può avere nessuna ragione. Per quanto lo si esprima in maniera chiara ed evidente nell’Elena di Euripide, lo dice un servo, “sofferenza per niente”, proprio perché si è combattuto per un eidolon, probabilmente tutto questo incubava, l’insensatezza della guerra, certo, in maniera meno plateale, proprio per il tipo di bellezza e quindi di immagine che Elena incarna e restituisce, incredibilmente già in Omero.
D. S.: Sì, sono d’accordo su questo aspetto. Peraltro, quando, nel terzo libro dell’Iliade, i vecchi guardano Elena, non dobbiamo dimenticare un aspetto molto rilevante: noi traduciamo cose del tipo “è comprensibile” fare la guerra. Loro però usano un aggettivo a questo punto per noi molto prezioso: nemesis. Vale a dire: non è nemesis, appunto, combattere per questa bellezza. Però il collegamento non è casuale, perché, ancora una volta, sul piano della narrazione mitica, c’è la divaricazione tra un’Elena figlia di Leda, e un’Elena che nasce dall’uovo prodotto sostanzialmente da uno stupro di Zeus-cigno nei confronti di Nemesis. E Nemesis è, appunto, la giustizia distributiva, è la punizione, la vendetta. “Non c’è nemesis”, vuol dire: non si può riprovare o biasimare questa cosa. Però, possiamo considerarla nel punto di partenza, cioè, appunto, che la giustizia stuprata produce questa bellezza inumana, su cui poi tutti si scannano. E questo è un punto simbolico su cui riflettere: che la giustizia violentata produca la bellezza come l’esca di una punizione universale, di una carneficina generale. Elena dice teras di sé stessa, e quindi prodigio e mostruosità. Voi, giustamente, usate questo termine, appunto, di “inumano”. Ed è forse la cosa giusta, nel senso che la bellezza, da un certo punto di vista, per fare quello che fa, per portarci dove ci deve portare, non può mai essere umana. L’unica questione che si ingenera è il divaricarsi della relazione. La dico adesso semplificando brutalmente le cose: la voglio possedere o la voglio contemplare. Ma sempre inumana resta. La via platonica è quella di una contemplazione che poi usa l’immagine per produrre l’incandescenza e, nell’incandescenza, come dicevamo prima, lasciare oltrepassare la soglia di un’esperienza “mistica”. Dall’altra parte, certo, si muore, ci si ammazza. Cos’altro si può fare, se si pensa di poterla o di volerla possedere? Appunto, è la migliore risposta che gli Dèi possano dare alla questione.
Aggiungo una cosa, da legare alla questione dell’inumano. Nelle Troiane di Euripide, Elena, quando è convocata come responsabile o supposta responsabile a cui chiedere conto di una colpa, si trova di fronte un’accusatrice come Ecuba, che, essendo la vittima, ha tutte le ragioni per denunciare non solo quello che ha patito attraverso i Greci, ma anche quello che Elena ha fatto o non ha fatto o che avrebbe potuto fare perché la guerra finisse. Ma la mossa che fa Elena, o meglio che Euripide le fa fare nella tragedia, è di aderire alla lettera del racconto mitico. Vale a dire, ancora una volta, Elena è un’immagine e, mentre nel movimento dell’Elena si lavora sulla scissione, lì, nel momento in cui qualcuno le chiede conto, lei semplicemente ripete alla lettera la vicenda: la contesa delle dee, la promessa a Paride, l’intervento di Afrodite. Dunque, Elena, ancora una volta, non si pone come un soggetto che, sullo stesso piano di Ecuba, entra in un confronto di giustificazioni o di colpe che appartengono a un orizzonte umano. Usa il mito, ma usare il mito, cioè farsi riassorbire dall’immagine del mito è, ancora una volta, un’operazione inumana, perché chiaramente nessun essere umano può esser pago della tautologia che il mito rappresenta. Un po’ tutto il movimento delle tragedie, in generale, è il tentativo di interrogare l’immagine-racconto che sono queste storie, schiacciando insieme l’immagine e il racconto, perché è anche questa una cosa omerica. Perché – e qui torniamo nel regno delle Madri –, quando Odisseo, nell’XI libro dell’Odissea, scende o evoca (perché c’è una sovrapposizione delle due ritualità all’interno della narrazione), nel mondo dei morti, dove il suo scopo principale è interrogare Tiresia per sapere come tornare a casa, si apre una lunga e letterale theoria di eroi ed eroine, ognuno di essi viene evocato con il suo nome e nella sua genealogia, in alcuni casi con l’elemento minimale di quello che al nome e alla genealogia si lega in termini di eventi mitici tra loro connessi. Tutto questo, però, si dà come un’immagine, perché Odisseo non parla con la maggior parte di questi personaggi; dice, ripete: “E vidi”… “E vidi”… “E vidi”. Questi spettri sono, letteralmente, eidola: sono dei simulacri in cui c’è un’immagine e un nome; un’immagine, un nome e un fatto. Il che ovviamente ha un senso; se si comincia a farlo parlare, a chiedergli conto di qualche cosa umanamente, si passa a un altro piano: necessario, ma, da un certo punto di vista, come dire, anche impertinente.
Per tornare alla “nostra” Elena: lei è, necessariamente, inumana. Così come lo è il mito con cui lei, a un certo punto delle Troiane, coincide. Così come è inumana Medea. Medea è un avatar dionisiaco, nella dimensione in cui e attraverso cui il femminile esprime la sostanza dionisiaca che è lì per lýein, per sciogliere, dissolvere; dove, anche qui, sciogliere e dissolvere può significare due cose: distruggere o rigenerare; dipende da come si abita questa operazione. Si tratta, in realtà, probabilmente della stessa cosa. Secondo me, però, il caso di Antigone è diverso. Perché Antigone, da questo punto di vista, è molto più umana, è – come le dice giustamente il coro – “figlia di suo padre”. È, quindi, la sua un’altra condizione rispetto a quella di Medea e di Elena.
Allora, sì, come si diceva, probabilmente Omero era consapevole della bellezza “impossibile” di Elena e quindi della radicale assurdità della guerra; così come è impressionante quella scena in cui c’è un’Elena che sembra umana di fronte ad Afrodite che le dà degli ordini e che insieme la minaccia; lei tenta di ribellarsi e poi, ovviamente, rientra nel comando afroditico; cioè, potremmo dire che torna a ricoincidere con un archetipo. Ma nessun soggetto umano può coincidere con un archetipo, perché, appunto, non si è più umani, se questa corrispondenza accade.
D’altra parte, pensate all’inumano che rende in quel caso diversamente pericoloso e intoccabile Psiche di Apuleio. La Psiche di Apuleio è una bellezza tale che, in quel caso, genera ammirazione e quindi non scatena una guerra, ma, appunto, è talmente eccessiva che nessuno mai oserà avvicinarsi a questa fanciulla, nessuno mai la sposerà. Anche lì c’è la sostanza di un qualche cosa di numinoso, di radioattivo e, quindi, di potenzialmente mortale.
K: Una suggestione: c’è uno spettacolo di danza di Virgilio Sieni che si ispira alla Kore interpretata da Agamben. A un certo punto, lei ha sottolineato, e si è detto: la verità presso una tomba, una verità oscura, indisponibile, a meno che non si assuma la propria morte. E questa assunzione della propria morte o, addirittura, dell’abbandono di qualcosa che sembra veramente decisivo come una figlia – la perdita di Persefone, che non ritorna –, ha come dono la poesia. E ha anche detto che lo scioglimento, lo slegarsi può avere due dimensioni, due strade (e questo è un tema molto prossimo alla destituzione di cui K. si occupa con insistenza): o la distruzione o la rigenerazione. Come diceva Artaud, ci si slega davvero quando si costruiscono nuovi legami – era questo che chiamava “poesia”. Lei ha parlato di musica; noi recentemente abbiamo dedicato un numero alla danza, a Jane Avril, in particolare. Questo assumere la propria morte come condizione – bisogna scendere nel regno dei morti per diventare danzatrice (la Persefone, la Kore di Virgilio Sieni). Se non si passa tra i morti non c’è verità; non c’è sorgere di verità, se non si perde un’identità, se un soggetto non si disfa. Perché questo accade? Semplicemente perché può anche non accadere. Può accadere, al contrario, che l’unica strada sia la distruzione. Questo consente una strana assonanza tra poesia-verità-evento (ha nominato l’evento e probabilmente l’evento anche nell’Elena è un tema decisivo). Lei diceva: Elena in qualche modo si dà al teatro. Ci sarebbe da chiedersi se ad Elena manchi una sosta nella danza, sosta che ritrae il passaggio attraverso la morte, ma non coincide con il teatro (per quanto si possa pensare che il teatro venga dalla danza, ma abbiamo i nostri dubbi). Oppure il teatro – e il teatralizzarsi di questa figura – è un’ulteriore elaborazione o conseguenza della danza. Sempre per dirla con Artaud: il teatro è una conseguenza della danza. Non nel senso che il teatro è causato dalla danza: questo non funziona per niente. La danza non è un evento che causa una cosa determinata, ma piuttosto è un’apparizione in qualche modo mostruosa, misteriosa.
Secondo lei, questo accesso al teatro, in cui Elena diventa una figura che in qualche modo mette insieme una rappresentazione, è un’ulteriore elaborazione di un oscuro momento che possiamo definire musica o danza oppure è come se mancasse questa dimensione di una pura apparenza, di una pura mostruosità che non si teatralizza?
D. S.: Chiaramente stiamo ragionando su una serie di discorsi “meta-”. Ma quest’ultima formulazione proposta, la seconda alternativa – che non tutto venga teatralizzato – mi trova consonante. L’Elena che si dà al teatro, e lì il teatro non è poesia, è un trick, è un’Elena – se vogliamo seguire il filo di questo discorso – che non è abbastanza morta. È lo Stasimo che, cantando e danzando, fa quello che lei non fa. Da questo punto di vista sono assolutamente d’accordo con questa suggestione. Ovviamente, Euripide può evocare queste possibilità, ma, per non far esplodere quell’oggetto convenzionale che è la tragedia che propone ai suoi spettatori, non può portarle a termine. È evidente: è un gioco al limite della forma, nel quale c’è tutta una serie di punti di fuga, nonché una riflessione meta-poetica, che è affiora attraverso il personaggio stesso nel limite del teatro e in quello che lo eccede, dove l’interfaccia della traiettoria misterica sarebbe – diciamolo in questo modo – il nucleo di un’Erlebnis che sta oltre e che viene esclusivamente additato. Dopodiché il teatro fa il gioco necessario dell’essoterico rispetto all’esoterico, ma è la stessa cosa che diceva Colli (ovviamente con Colli non siamo nel teatro della crudeltà). Anche qui, ristabilendo un ponte tra Euripide e Platone, che il teatro lo capisce benissimo, bisogna avere le ceneri di Troia fumanti vicino a sé: nelle Troiane non solo ci sono queste ceneri fumanti, ma c’è anche Ecuba che smentisce sé stessa. Mentre dice: “noi abbiamo sofferto, ma ci sarà gloria, saremo materia di canto”, nel finale afferma: sarà cancellato anche il nome, anche ónoma sarà aphanés, punto.
Dall’altra parte, si potrebbe dire tutto ciò in tedesco: Gelassenheit; ciò che passa attraverso la contemplazione, la eccede; porta ad una destituzione totale e produce una nascita. L’anima dell’Iperuranio è un’anima (e poi ci sarà il conflitto plotiniano) che è obliosa, cioè è l’anima agathè nel momento in cui leléthousa, nel momento in cui dimentica. “Dimentica” significa che abbandona e, a sua volta, per così dire, si fa inumana, ma felicemente inumana, misticamente inumana. Queste sono le due alternative.
K: Insteremmo sulla questione della “morte” di Elena nella tragedia di Euripide. Il secondo Stasimo prima evocato – e d’altronde nel suo commento all’Elena lei lo dice molto apertamente – si presenta come un problema: sembra deragliare, sembra rompere verso la conclusione che tutti si aspettano. Forse è proprio il luogo in cui Euripide fa quello che non può fare, con quello Stasimo, dicendo: guardate che tutto si può ricomporre in questa doppia tensione, co-implicazione di distruzione-generazione. Tanto è vero – se vogliamo – che lo stesso Menelao straccione, in qualche modo, muore a sé stesso come re, pur con le sue resistenze (non vuole diventare un supplicante). Però la questione che si poneva prima è che quel teatro in realtà non è un semplice teatro nel teatro – si fa per dire “semplice” – di matrice pirandelliana. Ma forse il secondo Stasimo dell’Elena così dirompente, così incomprensibile, esprime veramente, per analogia, quella rottura dell’identità di Elena, la quale si ricompone nella sua radicale distruzione. Allora, dopo la morte, ossia, dopo l’evocazione di Demetra e Persefone, si può ritornare a Sparta e, tutto sommato, nonostante diciassette anni di sventura, apparentemente, solo apparentemente, non è successo niente. Ma questo solo se, appunto, si attraversa un teatro che non ha più nulla da rappresentare. È molto interessante il punto in cui lei mostra, nella “sua” Elena, l’irriducibilità di questo Stasimo alla tragedia stessa, quasi che fosse uno sviamento in cui si può, in realtà, rintracciare il vero colpo di genio di Euripide che potrebbe essere letto in questa maniera: nella cornice della guerra, si prende congedo dalla guerra solo perdendo radicalmente sé stessi. Ma non mimando, come a teatro, questo abbandono, ma andando fino in fondo, come morendo: noi, come cadaveri, non facciamo la guerra.
D. S.: Assolutamente sì. Quello Stasimo, che apre un altro mito, che dev’essere messo in relazione con quello rappresentato, è il segno radicale dell’altrove; l’altrove che evoca il titolo della monografia, L’altrove della tragedia, che gentilmente avete ricordato. Dimensione, quella dell’altrove, che attraversa molte tragedie, certamente, con sagomature diverse. L’altrove dell’esperienza, poeticamente mediata, della vertigine, dello spaesamento che toglie tutti i punti di riferimento e fa ripiombare – o, meglio, calare – nell’unica dimensione in cui si può riconfigurare il rapporto con la realtà. È un attraversamento degli inferi (anche qui verrebbe facile giocare lacanianamente: la consistenza di Elena come phasma): un attraversamento fino in fondo del fantasma. Ma l’attraversamento del fantasma come distruzione non è, come diceva Lacan nel Seminario I, un’esperienza crepuscolare del soggetto, e subito dopo evocava Silesio; evocava quella dimensione di svuotamento che si ha attraverso la guerra ma che è in antitesi a tutte le ragioni della guerra.
Vi faccio un “trailer”: uscirà la prossima primavera il mio ennesimo “blateramento” intitolato La soglia e l’oltranza (editore Tlon), dove ricucino alcuni di questi elementi, ma evoco a un certo punto una cosa che ha a che fare con la guerra, ossia, un racconto presente ne L’Aleph di Borges (1949), intitolato La scrittura del Dio. Lì c’è una guerra, o meglio un’opera di conquista: i conquistadores spagnoli; un sacerdote calato in un antro profondo e buio, che chiaramente anche qui sembra un po’ una caverna cosmica; una parte del racconto è il tentativo di trovare una soluzione che sia una rivalsa, una riscossa, un rovesciamento della violenza subita attraverso l’invasione spagnola. Per farla breve, perché naturalmente non possiamo attraversare tutto il racconto: La scrittura del Dio si conclude con un’esperienza di “visione” totale nella quale il sacerdote destituisce totalmente sé stesso e non evoca la formula magica che gli consentirebbe di rovesciare le ragioni e le sorti della guerra. Ed è lo stesso tracciato, lo stesso itinerario: lui alla fine si abbandona come un cadavere sul pavimento di pietra della cella, non ha più nessuna ragione per agire nei confronti della storia – Storia in questo caso con la “s” maiuscola, perché Storia con la “s” maiuscola significa guerra. Ma non avere più nessuna ragione per agire contro la storia è, in realtà, l’unico modo possibile per agire sulla storia. Aggiungo questo: forse anche l’unico modo possibile arrivati a questo punto, oggi, per noi.
K: Ancora sulla bellezza di Elena: possiamo vedere, già a partire dall’Elena omerica, un motivo contraddittorio rispetto al concetto di kalokagathìa, che è un grande valore già nella Grecia arcaica. E rispetto a questo, cosa ci dice l’Elena di Euripide? In che modo Euripide si inscrive sempre in questo solco, già tracciato da Omero? L’Elena di Euripide recupera forse la dimensione dell’areté, della virtù, ma a prezzo di cosa? Vi è, certo, una scissione tra soma ed èidolon. Anche l’operazione di Euripide si inscrive in questo solco di contraddizione della kalokagathìa: quella di Elena rimane una bellezza mostruosa, un eccesso che già prelude a una dimensione del sublime; apre quasi a una concezione moderna, oltre l’antica Grecia, di bellezza. Nella kalokagathìa vi è un equilibrio tra bellezza fisica ed areté. Quale squilibrio rappresenta Elena in questo quadro? Uno squilibrio che nei Greci è sempre associato anche alla sventura, a una certa dimensione, l’incorrere nel phtonos ton theon, ravvisabile anche in Euripide, che mette in mostra come, per Elena, la bellezza è ciò che porta alla sventura. La bellezza di Elena è una bellezza non domata. Invece il concetto di kalokagathìa è forse anche una sorta di tentativo di domare la bellezza o quantomeno di domare le nostre emozioni di fronte a questa bellezza.
D. S.: Rispondo con una frase di Valéry: “La vita è fatta di estremi, si vive coi medi”. In realtà la kalokagathìa è un’invenzione dei sofisti. C’è un ideale di essere belli e buoni, un fil rouge lungo, che parte dall’età arcaica; la concettualizzazione di questo nesso è stata un’operazione del V secolo, inscritta in quella nebulosa rappresentata dalla sofistica: maestri di un “saper fare” che la nobiltà, un’aristocrazia che deve farsi vedere, impiega per trovare delle soluzioni per imporsi nello scenario democratico, legittimando sé stessa.
Kalokagathìa, per dirla alla Jaeger, è una “storia lunga” ma lessicalmente, paradossalmente, qualcosa di circoscritto. Chiaramente, quando parliamo di sublime ci viene in mente sempre lo Pseudo-Longino; ci viene in mente l’immagine del fulmine, l’immagine dell’incandescenza: ancora una volta si tratta di un’esperienza di rottura. Però, se vogliamo trovare un’altra parola, prima di arrivare allo hupsos dello Pseudo-Longino, se vogliamo trovare una parola che corrisponda a quell’espressione della bellezza inumana che c’è in età arcaica come in età classica è il sébas, quella cosa che si prova di fronte a qualsiasi cosa che chiamiamo divino, non umano, ed è un misto di reverenza, attrazione, terrore. Anche qui la cartina di tornasole è sempre Platone che nel Fedro, nella descrizione dei cavalli che vanno verso la bellezza desiderata, per possederla; nell’operazione dell’auriga la scrittura platonica tematizza la sophrosyne, la temperanza, il controllo della pulsione di appropriazione. C’è, però, un punto in cui, nel momento del rinculo del carro, nell’avvicinarsi alla bellezza, l’auriga cade indietro tutto sudato ed è pieno di sébas. Allora, un conto è il discorso di una scienza della morale che riguarda il padroneggiare le pulsioni, i desideri; prima di tutto questo, però, uno davanti alla bellezza, quando è folgorato, è preso dalla paura. Se quella bellezza è presa sul serio, se è veramente vista, c’è un momento in cui ci terrorizza. Poi, come succede nel Fedro, si riparte con i due cavalli perché si è testoni. Che significa? Le pulsioni girano in circolo finché da quel circolo non si emerge nascendo o rinascendo.
Chiaramente è presente tutto un discorso all’interno delle mura della polis che foucaultianamente propone varie soluzioni di stilizzazione di sé stessi e di padronanza di sé nell’uso dei piaceri; quindi, anche in relazione a una bellezza esperita nell’incontro di corpi e oggetti. Ma questa dimensione, che viene continuamente e strenuamente ribadita, sia nei testi di Senofonte, sia di Platone, ma perfino nel teatro di Euripide (la parola sophrosyne è al centro di una tragedia catastrofica come l’Ippolito), ossessionato dall’idea eterna della sophrosyne, del controllo. Questa dimensione, però, sta dinanzi a un’esperienza continua del contrario, dell’eccesso, anche dentro le mura della città. Infatti, chi ricade perfettamente, dal punto di vista storico, in questo schema – forse già implicitamente evocato nell’Elena di Euripide – ma comunque soprattutto presente nelle fonti storiche, è Alcibiade; Elena, direi di più, è Alcibiade.
Plutarco, nella biografia di Alcibiade, gioca su questa contrapposizione, su questo link tra Alcibiade ed Elena. Alcibiade, poi, lo vediamo in azione sia nel Simposio di Platone sia nelle pagine di Tucidide. Alcibiade è l’eccesso, è la bellezza, la dimensione di una bellezza sconvolgente che in questo caso coincide – cosa che non avviene con Elena – con l’essere il soggetto, e non l’oggetto, di desiderio che muove alla guerra. Alcibiade ha questo di interessante: è una bellezza che seduce tutti; è l’eccesso continuo dei comportamenti che seducono e insieme terrorizzano gli ateniesi ed è quello che a un certo punto spinge tutta la città a fare la guerra. Tutti gli ateniesi, grazie a lui – lo dice Tucidide – diventano duserotés, come presi da un eros che è dus-, che, già si sa, sarà rovinoso, catastrofico, esiziale, come la guerra in cui sono condotti. Però poi Platone, nel Simposio, mostra l’altro versante della questione (notate che il Simposio platonico è cronologicamente ambientato l’anno prima che Alcibiade porti tutta la città a fare la guerra in Sicilia). Alcibiade, nel Simposio, è paradossalmente quello che capisce di più: perché lì, nel suo eccesso, nella sua mostruosità inumana, Alcibiade è il dionisiaco, l’incarnazione provvisoria di Dioniso evocata all’inizio del dialogo (“Verrà Dioniso a giudicarci”, e arriva Alcibiade). Alcibiade, nell’eccesso dionisiaco, dice che cos’è la filosofia. Ma la sua descrizione della filosofia non è l’elemento della dialettica. È l’evento del pathos che schiude, ancora una volta, rompendo (con) il soggetto. Alcibiade, se fosse stato capace – cosa di cui già Platone nel Simposio dubita – di sostenere quella stessa intuizione di una verità che gli si fa chiara, l’anno dopo la guerra non l’avrebbe fatta.