“Constelada de lágrimas”

Potenza della passione di Giovanna d’Arco

DOI : 10.54563/revue-k.618

Résumé

Joan of Arc often cries. As Dreyer shows in his film, La Passion de Jeanne d’Arc, these tears are testimony to her suffering before some unjust judges, but they also allow her to unleash another time within her time. This contribution attempts to show how a status of powerlessness, expressed in weeping, can be transformed into a possibility for collective action.

Index

Keywords

prophecy, tears, Dreyer, revolt

Plan

Texte

Che cosa posso dire? Credo che Dreyer fosse molto felice che Jean-Luc avesse voluto rendergli omaggio inserendo La passione di Giovanna d’Arco interpretata dalla Falconetti nel suo film Vivre sa vie. Siccome avevamo visto il film insieme alla Cinémathèque, quando Jean-Luc ha girato questa sequenza non avevo la Falconetti davanti a me, ma bisognava che immaginassi la scena che avevo visto tre anni prima. È una scena molto forte e mi ricordavo benissimo il viso della Falconetti: mi sconvolgeva e mi sono messa a piangere spontaneamente. Ero molto commossa da questa immagine che vedevo sì sullo schermo, ma anche nella mia immaginazione”.
Anna Karina

Hemos guardado una de sus lagrimitas, que rodó hasta nosostros, en una cajita de celuloide. Lágrima inodora, insípida, transparente, gota del mís acendrado manantial”.
Luis Buñuel

1. Giovanna la Pulzella doppia, tripla, infinita

Giovanna d’Arco non è una pastorella qualsiasi, non è un personaggio “minore”, per riprendere il concetto che Deleuze-Guattari applicano alle figure umane o animali che circolano nei testi di Kafka. Essa occupa un posto centrale, se non “maggiore”, nella storia culturale e politica francese. Diviene uno dei simboli patriottici più importanti in Francia durante la Terza Repubblica e almeno sino alla Prima Guerra mondiale, senza contare la sua ripresa nel nazionalismo e nel conservatorismo più beceri negli ultimi decenni; è fatta santa, ci sono chiese che le sono consacrate; tutto un discorso andrebbe fatto anche sul modo in cui la sua figura incida sull’architettura e la toponomastica delle città francesi, dalla strada principale di un villaggio sperduto in Bretagna alla piazzetta affianco al museo del Louvre.

Una figura monumentale, nel senso proprio del termine.

Nondimeno, dentro e contro o in parallelo rispetto alle coordinate di una storia “maggiore”, la figura di Giovanna d’Arco persiste (e insiste) anche perché conserva tratti plebei, antichi, di una antichità che affonda le sue radici nella cultura popolare contadina. Già il nome, l’unico nome con cui è conosciuta quando è in vita, Jeanne la Pucelle, Giovanna la Pulzella, non è veramente un nome adatto per strade e statue. Pur tuttavia è stata messa su tanti piedistalli, instaurando un’antinomia forte fra una ragazza in carne ed ossa (Jeannette) e una vera e propria eroina nazionale.

Sappiamo, e Badiou lo dimostra ancora, che il fascino che essa ha esercitato su tanti artisti deriva dalle polarità che la caratterizzano; quelle che Badiou chiama gli “oxymores pratiques”, le “collisions improbables” (p. 28). La vita e la fortuna postuma della Pulzella si situano in un equilibrio precario fra queste antinomie: è una bambina che diviene guerriera; è una povera campagnola che discute con il re delle sorti del suo paese; è considerata una puttana dai suoi nemici e viene proclamata santa. È accusata di essere una strega che danza sotto gli alberi e sente delle voci, ma i suoi stessi accusatori temono le sue doti di profetessa.

Non si tratta, ora, di privilegiare una polarità rispetto ad un altra. La passione per Giovanna d’Arco deriva forse principalmente dalla sua capacità a non lasciarsi rinchiudere in queste categorie del suo tempo (una donna, in mezzo ai soldati, non può, ad esempio, all’epoca, che essere una puttana…). Essa le attraversa quasi “per caso”: nulla, infatti, la destina a divenire una paladina dell’armata del re. Proprio questo azzardo, questa casualità, le permette di schivare alla fine le categorie che il suo tempo impone. Giovanna d’Arco, insomma, non lascia cristallizzare la sua figura nel tempo, o meglio, essa riesce ad essere un’eccezione rispetto a quel tempo.

2. Giovanna la Pulzella profetessa/eretica

La vicenda storica di Giovanna si consuma intorno alle questioni delle voci. Lei sente qualcuno, degli angeli, delle sante, dei santi che la incitano a compiere delle imprese militari e politiche volute da Dio. È in questo senso che la sua esperienza si configura come quella di una profetessa. Queste voci che sente costituiscono anche il capitolo centrale delle accuse che il Tribunale le rivolge, finendo per condannarla come eretica. Non rinnega di aver sentito quelle voci davanti ai giudici. Anzi, quelle voci possono azzerare in un solo istante l’autorità del Tribunale: questa possibilità si trasforma in una minaccia vera e propria che Giovanna d’Arco grida in faccia ai suoi giudici: “Vous dites que vous êtes mon juge, mais prenez garde à ce que vous faites, parce qu’en vérité je suis envoyée par Dieu et vous vous mettez vous-mêmes en grand danger” (Gauvard, 2022, p. 52).

È più che una contestazione del potere religioso e politico: Giovanna d’Arco proprio non lo riconosce. E decide di sottrarsi, oppure cerca di sottrarsi, proprio perché si percepisce e si comporta come una profetessa. La sua non è una parola umana: è questione di una parola che viene da un altrove radicale. Ma chi le parla, in che lingua?

Dieu ne donnait pas directement ses ordres à la Pucelle. Elle les reçut de ses apparitions. Ce fut, on l’a dit, d’abord l’archange saint Michel, ensuite et jusqu’à la fin la sainte Marguerite et sainte Catherine. Ces voix ne faisaient que transmettre la volonté divine. Si Jeanne se disait, comme dans les lettres, “messagère de Dieu”, elle exerça cette mission par l’intermédiaire de “ses” saintes. Elle ne cessa de le répéter à ses juges qui redoutaient par-dessus tout le dialogue qu’elle aurait pu avoir directement le Créateur (pp. 95-96).

In effetti, è sempre inquietante l’emergenza di una parola divina nel corso delle dinamiche storiche perché essa potrebbe stravolgerle soprattutto quando le cose già non procedono come dovrebbero. La profezia di Giovanna d’Arco, come quella di tante altre donne del suo tempo, sta nel fatto che essa, trasgredendo gli obblighi legati al suo genere e alla sua condizione sociale e geografica, rompe nel momento della crisi il silenzio che è tradizionalmente imposto alle donne e riesce ad imprimere un altro indirizzo al corso degli avvenimenti. In un testo oramai classico, Bourdieu fece notare che la differenza fra il profeta e l’uomo di religione si situa precisamente nel loro diverso rapporto con il tempo: “De même que le prêtre a partie liée avec l’ordre ordinaire, de même le prophète est l’homme des situations de crise, où l’ordre établi bascule et où l’avenir tout entier est suspendu” (Bourdieu, 1971, p. 331).

Ecco: anche le donne profetesse, non solo gli uomini di cui parla Bourdieu, intervengono, dall’esterno, sorgono, come un evento, dentro la crisi e squarciano la vuota omogeneità dei giorni, cioè aprono ad un destino diverso.

È innegabile che Giovanna d’Arco abbia svolto un ruolo decisivo dentro una congiuntura storica estremamente difficile per la Francia. Il messaggio celeste le dice di salvare il Re e il Regno di questo paese che sono in perdizione. Nello spazio di qualche mese la ragazza riesce a compiere l’essenziale di questa missione. Il corso della storia della Francia cambia. Le sue voci divengono, cioè, potenti nell’effettività. Il sorprendente divenire-soldato di Giovanna d’Arco le permette di incarnare e realizzare, per qualche lunghissimo mese, i desideri, le azioni di tutto un popolo.

I gesti di quella ragazza sono riusciti a suscitare un popolo. È in questo senso che la definizione di Péguy si rivela illuminante: Jeanne “la petite fille espérance”. Seguendo Pernoud e Clin, possiamo dire che “elle personnifie désormais l’espoir – l’unique espoir au dire des témoins du temps – que le royaume en détresse ne peut plus attendre que de Dieu” (Pernoud, Clin, 1986, p. 53). La parabola storica di Giovanna d’Arco rappresenta allora veramente una rottura nella linea del tempo, un evento: laddove non esiste nessuna resistenza efficace al dominio di Enrico VI, essa riesce a creare le condizioni per rompere questa situazione. Fa nascere un esercito vigoroso e a tratti vittorioso. La storia non sarà più come prima. Il problema principale che pone Giovanna d’Arco dentro il suo tempo, ma anche contro di esso e oltre di esso, è il rapporto che riesce a instaurare fra una profezia e una politica a venire.

3. La Passione di Giovanna d’Arco

Eppure, eppure… la sua forza resta una forza debole (Bensaïd, 2017, p. 61), è forse proprio la sua fragilità – bambina, ignorante la guerra, lontana dal potere – che le dà questa forza. Segno patente di questa sua debolezza sono le lacrime. Giovanna d’Arco piange, non smette di piangere. Ha il dono delle lacrime (Contamine, Bouzy, Hélary, 2012, p. 794). In diversi momenti della sua vita è effettivamente attestato che pianga: quando si confessa, quando gli inglesi la chiamano “la puttana degli Armagnacs”, quando viene ferita, dopo la morte del capo inglese Glasdale che affoga nella Loira (e molte testimonianze concordano nell’affermare che Giovanna d’Arco pianga quando vede feriti o morti sul campo di battaglia). Le lacrime sono il segno della sua fragilità.

Nel film di Dreyer (1928), ad esempio, vediamo spesso il viso dell’attrice protagonista, Renée Falconetti, solcato da lacrime. “Constelada de lágrimas”, scrive Buñuel (p. 178). La Pulzella soffre, patisce, quindi a volte, spesso, deve piangere. Nel suo film Dreyer si sofferma sugli ultimi momenti della vita di Giovanna d’Arco e si concentra sul processo, ma, in fin dei conti, come suggerisce il titolo del film, Dreyer non filma tanto il processo di Giovanna d’Arco quanto piuttosto la sua “passione”, che è precisamente quella sofferenza indicibile che apre verso un’altra dimensione spazio-temporale. “Passione” deriva dal latino “passio, -onis”, formato sul participio passato del verbo “pati”, “soffrire”, “patire”. Il film segue il supplizio che Giovanna subisce, dai dibattiti processuali alla messa a morte, ma la sua “passione”, come quella di Cristo, ha un obiettivo grandioso: la passione di Cristo deve salvare l’umanità, la passione di Giovanna deve salvare la Francia.

Il film è un susseguirsi quasi ininterrotto di primi piani di Renée Falconetti chiamati a segnalare la sua sofferenza. Spesso l’inquadratura si sofferma su un particolare, dettagli di oggetti che divengono anch’essi documenti della “passione” della Pulzella. Il regista mostra i ceppi che incatenano le gambe della ragazza, gli strumenti della tortura, in piani ravvicinati e ripetuti ossessivamente, mostra anche le tappe del supplizio finale con dovizia di particolari, dall’arnese del boia al legno che inizia ad ardere. L’ingrandimento dell’immagine, la sua ripetizione amplificano la sofferenza della ragazza. Nell’insistere sui volti Dreyer sottolinea anche l’abisso che separa due mondi. Il regista danese non filma solo il volto della Pulzella – sola, sperduta, straniata – ma anche il mondo dei suoi carnefici, mondo di maschi, mondo di quelli che comandano, mondo della cultura. La ragazza, unica donna dentro le mura del tribunale, non riesce a capire nemmeno cosa le chiedono i giudici; non si rende forse nemmeno ben conto di cosa sta succedendo. Lo sfondo bianchissimo sul quale il suo volto appare è come se ponesse la Pulzella in una condizione limbare. È come se fosse sospesa, o meglio immobilizzata, dentro quel bianco, dentro una situazione i cui contorni non sono ben definiti e dalla quale diventa sempre più evidente, tuttavia, che non potrà uscire. E pertanto Giovanna d’Arco resiste, tiene testa ai giudici, gli dà anche risposte sorprendenti, scandalose per il divario culturale che esiste fra di loro. La “passione” di Giovanna segnala, innanzitutto, mi sembra, una tenace resistenza. Tenace perché Giovanna d’Arco non si fa piegare dalla forza e dalla violenza dei giudici. Filmare i volti è necessario perché Dreyer lascia vedere i meccanismi del potere, il modo in cui un’esistenza può esserne schiacciata. I loro volti (il volto di Giovanna e quello dei giudici) sono delle testimonianze. Gli attori che non hanno fatto ricorso a nessun tipo di trucco sono delle persone colte in un normale fare quotidiano: gli uomini dominano in maniera ordinaria, Giovanna d’Arco soffre come soffrirebbe qualsiasi ragazza questa dominazione.

Il film non è, tuttavia, solo un film realistico. Il meccanismo del campo/controcampo che dovrebbe evidenziare questa opposizione fra i giudici e Giovanna d’Arco non è molto usato da Dreyer. La Pulzella non guarda i giudici, il suo sguardo si volge in basso, di lato, spesso verso l’alto. È che la sua resistenza è meno un’opposizione che il tentativo di trovare un fuori. I suoi occhi che si dirigono fuori campo stanno cercando qualcosa d’altro rispetto alla situazione presente.

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È probabilmente sensato affermare che il contrasto fra i giudici, con le autorità militari inglesi alle spalle, e Giovanna d’Arco si giochi, nella prospettiva di Dreyer, sulla questione del tempo. Il potere si esercita nella storia, dentro le sue congiunture; il potere è un potere perché controlla le lancette del tempo. Giovanna la Pulzella tenta, persino suo malgrado, di destituire la logica del potere perché cerca una fuga fuori dal tempo. In uno dei momenti più drammatici del film, quando i giudici sembrano aver avuto il sopravvento sulla ragazza obbligandola ad una lettera di abiura, affiorano delle immagini nello spirito di Giovanna d’Arco. Vede, ad esempio, una zappa che smuove un campo, emerge un teschio che è roso dagli insetti. Quel cadavere raffigura la condizione finita dell’uomo, il fatto di essere sottomessi all’usura del tempo. Giovanna d’Arco insorgendo contro i giudici insorge contro il tempo, contro la normalità del tempo, contro l’assuefazione alle cose che esso induce. La profezia è questa insurrezione.

Le lacrime allora non sono semplicemente la testimonianza di quanto abbia sofferto la ragazza durante il processo. Coprendo la vista normale, esse fanno anche vedere altro alla Pulzella, le permettono di uscire dalla realtà, dal tempo.

Giordano Bruno parlerà, un secolo dopo, di una “inmensa forza de le lacrime che sono ne gli occhi” (p. 134). Il filosofo nolano sviluppa le sue considerazioni nell’ambito di un discorso sulla capacità che ha l’immaginazione di figurarsi l’infigurabile, cioè l’infinito. La “fonte d’acqua viva” degli occhi è “infinitamente feconda” (p. 135), il che permette agli uomini di comporre, secondo forme e gradi diversi, l’immagine di un universo infinito. Per Bruno si tratta di un “inebriamento” senza fine, in un gioco fra “cuore” e “occhi”, che poco a poco avvicina, per un attimo, a questa immagine, senza tuttavia mai poterla afferrare completamente1: “Gli occhi lacrimosi significano la difficultà de la separazione della cosa bramata dal bramante, la quale acciò non sazie, non fastidisca, si porge come per studio infinito, il quale sempre ha e sempre cerca” (p. 137). Le lacrime derivano, dunque, dallo sforzo di uno “studio infinito” che potremmo anche chiamare un “amore divino” perché consente di andare oltre la finitezza delle cose, verso la “divina bellezza”. Essa non è colta, come un oggetto di amore qualsiasi, o più precisamente è colta solo in un brevissimo lasso di tempo; è per questo che va infinitamente perseguita, le lacrime segnalano la separazione da essa e anche questo “studio infinito” che occorre per rincorrerla e guardarla, infine, forse, nel mare di acqua, per un attimo. La storia di Atteone (pp. 127-128) segnala precisamente questo percorso che porta il cacciatore, che insegue le ombre delle cose di natura in modo sempre più travolgente, a vedere l’immagine intera, “una”, della natura: Diana nuda. Ciò produce la sua metamorfosi: Atteone diviene egli stesso cosa di natura ed è sbranato dai suoi stessi cani. Il cacciatore diviene caccia quando viene assorbito nell’immagine divina ed universale. I suoi occhi indagatori, venatori, hanno gettato ogni muraglia a terra e non vedono più questa immagine “come per forami e per fenestre”, diventano “tutto occhio a l’aspetto de tutto l’orizzonte”.

Questa unione, momentanea, dell’umano con l’oggetto della sua ricerca, questa sua fusione in essa, fanno pensare a quest’altra dimensione della “passione” di Giovanna d’Arco. Le sue lacrime hanno, cioè, anch’esse una “inmensa forza”: le permettono di scorgere, velando col pianto lo stato attuale delle cose, un’altra modalità dell’esistenza. Quando la Pulzella piange, i suoi occhi stanno, insomma, cercando un’altra dimensione oltre e dentro la contingenza disperante delle cose.

La morte? Il Paradiso? Un dialogo diretto con Dio? Noi, bruniani, persi e esaltati nella ruota delle metamorfosi, fedeli all’idea di una divinità – molteplici, innumerevoli, soffi vitali – insita nelle cose, non possiamo crederci, non guardiamo in alto e non ci mettiamo “in ginocchioni” ad aspettare, ma non possiamo negare che la lotta della Pulzella, la sua rivolta contro il tempo, contro la Storia – incarnati dai giudici e dagli inglesi – stia determinando un evento dentro la storia.

Sul rogo, terrorizzata, la ragazza si calma allorché, volgendo come al solito gli occhi verso l’alto, vede, nonostante o grazie alle lacrime, uno stormo di uccelli in volo. Sembra quasi seguirli, sembra che essi indichino una possibilità. Uscendo di nuovo dal campo, gli occhi di Giovanna d’Arco esprimono la sua volontà di uscire dallo spazio – la prigione, il tribunale – e dal tempo – la storia – dei giudici.

Il simbolo di questo arresto del tempo è, in Dreyer, la croce. Dentro quegli spazi vuoti, dentro quel grigio passare dei giorni, dentro quelle aule bianche del tribunale e della cella del carcere, dentro quel cielo biancastro della Normandia, Dreyer conficca una croce scura che spezza il pallido biancore degli ambienti e indica la possibilità di spezzare anche il tempo. Ecco perché la croce ritorna spesso nelle immagini del film. Quando entra in prigione disperata, all’inizio del film, la Pulzella si rasserena guardando il riflesso che le graticole della cella disegnano sul pavimento; si tratta di una croce. È questa croce che lei vorrebbe portare contro il potere e il suo tempo per fermarli. Non è un caso che Dreyer mostri allora un giudice che, poco dopo, calpesta quest’ombra, quasi in modo intenzionale. Quel giudice sta difendendo il suo tempo, non vuole che si rompa la sua continuità.

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Sul rogo poco prima di vederla arsa viva, Jean Massieu (interpretato da Antonin Artaud, uno dei pochi preti che non la condanna e partecipa subito del suo dolore) le porge una grande croce.

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La croce segnala allora l’apertura del tempo verso quello che Dreyer definirebbe il soprannaturale, un’altra temporalità contro il tempo (secondo un’immagine persistente della fortuna di Bruno, invece, il Nolano avrebbe distolto lo sguardo dal crocifisso quando qualcuno glielo ha offerto nel momento in cui stava per essere “arrostito”: per lui non è possibile una mediazione fra infinito e finito).

4. Vive Jeanne !

Per conciliare il tratto realistico, storico, del suo film e l’aspirazione cosmica di Giovanna d’Arco, Dreyer parla di una “mistica realizzata” (1997, p. 42). È appunto, quello della Pulzella, un tentativo di portare dentro la storia, di realizzare, il suo incontro con Dio, la sua unione con esso, attraverso la mediazione delle voci.

L’estasi di Giovanna d’Arco entra nella realtà perché si rivela essere avvincente. Le sue lacrime si espandono, coinvolgono. In questo stesso suo articolo Dreyer precisa che i suoi “strani” primi piani erano indirizzati allo spettatore (p. 41), dovevano colpirlo (ad ascoltare Anna Karina l’obiettivo è stato raggiunto, come poi Godard mostrerà in Vivre sa vie). Ciò che, tuttavia, è sorprendente è che già all’epoca di Giovanna d’Arco, le lacrime della ragazza hanno suscitato emozioni. Anche da un punto di visto storico, quindi, le lacrime hanno un effetto nella pratica. Xavier Hélary fa notare che tutti i testimoni del suo processo interrogati nel 1456 ricordano le lacrime suscitate dall’esecuzione di Jeanne. Secondo la testimonianza di Pierre Boucher addirittura diecimila persone si lamentano, piangendo, davanti al rogo della Pulzella (Contamine, Bouzy, Hélary, 2012, p. 795).

Dreyer mostra questa emozione collettiva alla fine del suo film. Una delle immagini più forti che ci resta della Passion de Jeanne d’Arc è quando appare sullo schermo – in un frangente terribile per la ragazza che è portata sul patibolo per essere giustiziata – il volto di un neonato che smette di succhiare il seno della sua nutrice e volge lo sguardo quasi come se si mettesse a guardare verso la Pulzella. Giovanna d’Arco piange in un piano; nel piano successivo appare, fatto assolutamente imprevedibile vista la drammaticità della sequenza, questo neonato che abbandona il seno materno e si gira verso di lei; quindi, in un altro piano, riappare Giovanna d’Arco affranta che sembra anch’essa dirigere i suoi occhi verso quel neonato; di nuovo, in un piano successivo, il poppante che sembra continuare a guardarla, anche un po’ sconcertato, come solo gli sguardi dei lattanti possono esserlo, per poi saggiamente riprendere il seno; la Pulzella, poi, piange…

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Il montaggio alternato indica che una comunione si è realizzata fra due esseri puri (Salvestroni, 2011, p. 54), ma ancor di più fa vedere come quella passione coinvolga tutti, davvero tutti. Nell’attimo dell’arresto della poppata, in quel possibile scambio di sguardi, in quell’incontro, Dreyer esprime l’emozione del popolo di fronte alla tragedia in atto (Sémolué, 2005, p. 80). In effetti, quell’arresto annuncia che tutti coloro che assistono all’esecuzione sono coinvolti dalla passione di Giovanna d’Arco.

Infatti, la piazza di Rouen, avvolta dal fumo del rogo, inizia a muoversi. Quelle che prima erano innocue silhouette venute solo per fare le figuranti nello spettacolo del rogo, si animano piano piano sino a trasformarsi in una moltitudine in tumulto. Nella nebbia grigia, in un quadro non più dominato dal bianco, non si vedono più i volti della gente in piazza, ma si sente qualcuno gridare “Viva Jeanne”, “Avete ucciso una santa”. Queste parole emerse dalla folla segnano l’inizio di una rivolta.

Cos’è successo? Sono le lacrime di Giovanna d’Arco che generano il sollevamento popolare che chiude il film di Dreyer. Il dono delle lacrime della Pulzella non solo viene condiviso, diventa una potenza politica. Vorrei chiudere questo contributo riferendomi rapidamente ad uno degli ultimi lavori di Georges Didi-Huberman, Peuples en larmes, peuples en armes (2016) per capire come l’espressione di un’emozione vissuta normalmente in solitudine (piangiamo quando siamo nascosti) possa trascinare gli altri in un’azione politica. Didi-Huberman fonda il suo discorso principalmente su Eisenstein, ma credo che sia possibile leggere anche il film di Dreyer con le griglie interpretative che lui ci offre.

Il pianto è senza dubbio una manifestazione di fragilità. Non piangono i giudici nel film di Dreyer. Non si esercita il potere con le lacrime agli occhi. Giovanna d’Arco, come Antigone, piange, non Creonte, non Warwick. Ora – ecco cosa dimostra Didi-Huberman – questo “impotere”, che si manifesta nelle lacrime (si piange quando si patisce una situazione da cui non si riesce ad uscire), può generare dei “gesti”, può diventare, cioè, una potenza effettiva. I primi piani di Dreyer, l’insistenza sulla manifestazione delle emozioni vissute dalla Pulzella devono proprio far vedere come è possibile che una “passione” si trasformi in un’azione, come il suo gesto patetico, passivo, ne crei altri che sono potenti nella praxis (ed è forse questa la ragione principale per cui Dreyer sceglie questo titolo). Quello che Didi-Huberman vede all’opera nella Corazzata Potemkin di Eisenstein è quello che succede anche nella Passion de Jean d’Arc di Dreyer, cioè, la morte di una persona, in conflitto con un potere ingiusto, commuove tutto un popolo al punto da spingerlo alla rivolta, rivolta che lo porterà a sua volta ad essere schiacciato, massacrato, sotto i colpi dell’esercito di quel poter ingiusto.

Quello che è importante è proprio il momento in cui un dolore subito, delle lacrime, possano trasformarsi in un atto. Pensiamo a Giovanna d’Arco, ma anche ad esempio alle donne di Eisenstein – non è un caso che si parli di donne, sono figure che sono escluse dal potere, ma che non cercano nemmeno il potere, vogliono, cioè, dimorare nell’“impotere” (nella destituzione, potremmo anche dire). Le lacrime le tengono lontane dal potere, eppure quelle lacrime diventano armi di tutti. Quando la lamentela diventa un’accusa allora inizia la rivolta del popolo: le lacrime sono, cioè, spesso una manifestazione del potere politico di chi manifesta a partire da una situazione fondamentale di “impotere”.

Portando al cinema la passione di Giovanna d’Arco, Dreyer ci lascia capire perché, cent’anni dopo, noi andiamo ancora al cinema e aspettiamo di trovare delle immagini come le sue. Non sappiamo niente del vero volto di Giovanna la Pulzella, ci resta del suo tempo solo un fantasioso disegno abbozzato a margine di un registro da Clément de Fauquembergue, cancelliere del Parlamento di Parigi, il 10 maggio 1429, dopo la revoca dell’assedio di Orléans. Non ci interessa nemmeno conoscere quale esso sia. Abbiamo mille rifrazioni del suo corpo, del suo gesto. Fra di esse quella che ci offre il cinema di Dreyer ha il merito immenso di farci ri-sentire quell’emozione che i testimoni del rogo dovettero provare sulla pubblica piazza a Rouen davanti al martirio di Jeanne d’Arc. Nelle immagini in cui appare il viso rigato dalle lacrime, pieno di emozioni, quasi fino alla follia, di Renée Falconetti, noi spettatori laici e disincantati riusciamo a vedere, per qualche lunghissimo istante, come una passione vissuta (subita) in solitudine, come un’impotenza estrema possano ricadere sulla vita politica e farla esplodere.

Bibliographie

Badiou, A., 1997, L’insoumission de Jeanne, in “Esprit”, 238 (12), Décembre, pp. 26-33.

Bensaïd, D., 2017, Jeanne, de guerre lasse, Paris, Don Quichotte.

Bourdieu, P., 1971, Genèse et structure du champ religieux, in “Revue française de sociologie”, 12-3, pp. 295-334.

Bruno, G., 1995, Eroici furori (1585), a cura di S. Bassi, introduzione di M. Ciliberto, Roma-Bari, Laterza.

Buñuel, L., 1982, Juana de Arco, de Carl Dreyer (1928), in Id., Obra literaria, introducción y notas d’A. Sanchez Vidal, Zaragoza, Heraldo de Aragon.

Contamine, P., Bouzy, O., Hélary, X., 2012, Jeanne d’Arc. Histoire et dictionnaire, Paris, Laffont.

Didi-Huberman, G., 2016, Peuples en larmes, peuples en armes, Paris, Minuit.

Dreyer, C. Th., 1928, La passion de Jeanne d’Arc (film)

Dreyer, C. Th., 1997, Réflexions sur mon métier, préface de Ch. Tesson, Paris, Cahiers du cinéma.

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Pernoud, R., Clin, M.-V., 1986, Jeanne d’Arc, Paris, Fayard.

Salvestroni, S., Il cinema di Dreyer e la spiritualità del Nord Europa. Giovanna d’Arco, Dies irae, Ordet, Venezia, Marsilio, 2011.

Sémolué, J., 2005, Carl Th. Dreyer. Le mystère du vrai, Paris, Cahiers du cinéma.

Notes

1 Per un’analisi dettagliata di questi passi degli Eroici furori di Bruno rinvio a M. Ciliberto, Occhi e cuore negli Eroici furori di Giordano Bruno, in U. Pfisterer, M. Seidel, a cura di, Visuelle Topoi: Erfindung und tradiertes Wissen in den Künsten der italienischen Renaissance, München-Berlin, Deutscher Kunstverlag, 2003, pp. 123-130. Retour au texte

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Citer cet article

Référence électronique

Luca Salza, « “Constelada de lágrimas” », K [En ligne], 11 | 2023, mis en ligne le 01 décembre 2023, consulté le 17 février 2025. URL : http://www.peren-revues.fr/revue-k/618

Auteur

Luca Salza

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