Malevič è il crocevia di grandi tensioni estetiche e politiche in grado di sollecitare l’intelaiatura più essenziale di ciò che noi intendiamo per potere destituente. Per questo motivo, crediamo, la sua vicenda oltrepassa, senza però soffocarla, una più canonica dimensione biografica, storica, artistica. Materializza, in questo senso, una figura concettuale destituente innanzitutto perché, esaurendo con la sua pittura qualsiasi forma di rappresentazione, sino al grado zero della visione, concepisce nell’opera stessa il compimento/fine di ogni opera come programma rivoluzionario.
La rivoluzione d’Ottobre con la quale Malevič non ha mai mancato di dialogare, attraverso la sua produzione artistica, sia essa scritta o immaginale, è anche il tentativo di aprire uno spazio assolutamente vuoto nella storia, purificando il nuovo mondo da tutte le tradizioni culturali del passato. Come nota Boris Groys, il suprematismo pensa che il partito comunista non possa portare all’estremo questo programma.
Malevič, El Lissitzky intervengono nell’arte e nella società perché credono che il loro lavoro possa fare tabula rasa (impressionante il testo di Malevič del 1919, intitolato Sul museo, che propone di distruggere tutto il patrimonio culturale del passato) e anche cambiare le abitudini quotidiane dei cittadini qualsiasi. Il suprematismo concepisce il compito della rivoluzione come un dis-fare tutto (da qui la differenza profonda col costruttivismo).
Il rifiuto radicale di Malevič per tutte le forme del passato, la sua “barbarie” radicale, per riprendere dei termini di Benjamin, esplode già prima della rivoluzione d’Ottobre. Con la Grande Guerra l’artista ucraino-polacco-russo (semplicemente poi sovietico) mette a punto la propria tensione estetica fondamentale; di fronte alla carneficina non c’è niente da vedere perché dovremmo vedere soltanto ciò che non è possibile vedere: l’inimmaginabile. La carneficina della guerra imprime una sterzata nell’opera pittorica di Malevič imponendo al suo gesto artistico una forma di diserzione pura e radicale: è qui che affiora la visione di un vuoto. In effetti, nel 1915, con Quadrato nero su fondo bianco (Black square), siamo di fronte a un gesto che prende congedo da qualsiasi distanza e dualismo tra la realtà e il suo racconto. Nessun’immagine da vedere è riconoscibile; nessuna doppiezza trascendente dell’immagine. Piuttosto, la mera pura oggettività come forma di assoluto realismo contro ogni realismo estetico. Lungo questa direzione, la parabola del pittore appare parallela a quella dell’allora nascente cinema sovietico che sceglie per sé la stessa vocazione anti-realista, almeno fino alla metà degli anni Trenta: vocazione che si sostanzia in un uso del tutto specifico del montaggio, inteso non come strumento per costruire narrazioni, quanto come tecnica attraverso cui mettere in forma l’esperienza rivoluzionaria.
Ma c’è anche di più: la versione estrema del suo capolavoro, Quadrato bianco su sfondo bianco (1918), presenta una tensione ancora più rarefatta e diafana delle forme esposte in precedenza, esibendo l’idea di un evento puro attraverso il congedo dalla pittura perché la pittura in Malevič osa esporre la propria fine.
L’azione dell’artista con Malevič si emancipa dal suo tipico movimento riproduttivo o figurativo per diventare un gesto incondizionato, ossia slegato da qualsiasi riferimento. Forme assolute sembrano infatti popolare i quadri di Malevič e dei suoi allievi; iperspazi bidimensionali in cui il colore, la fattura e il materiale presentano valore in sé, quasi a testimoniare l’inaugurazione di un modo altro di pensare, sognare, vivere, definitivamente affrancato dalle determinazioni del simbolismo e della rappresentazione; oltre la logica, il fondamento, il capitale che le suscita, provoca, alimenta. Ecco perché la rivoluzione dell’immagine del mondo che Malevič conduce sulla tela, sino a portarla al collasso, esprime anche la verità di ogni rivoluzione: il suo nichilismo. È nel “nero-nero nichilista” (Alain Badiou) che la pittura di Malevič incontra l’aspirazione più profonda della rivoluzione sociale e politica.
D’altronde, il gesto di Malevič, che lascia finire la pittura nella pittura (e lascia finire anche la cultura religiosa dell’icona), come a prendere congedo da un intero universo culturale, si accompagna con una sottile e radicale riflessione teorica in cui si rivendica all’inizio degli anni Venti la crucialità rivoluzionaria di un’esistenza destituente. Parliamo della questione dell’inattività come “verità effettiva dell’uomo” (concepita da Malevič in un breve testo del 1921 che significativamente e pericolosamente prende le distanze dal culto del lavoro), cifra occultata anche da quelle tradizioni che, pur nel tentativo di riscattare l’uomo, in realtà, lo catturano nella tirannia del valore, del lavoro e dell’opera, disconoscendo in questa maniera il tratto destituente di qualsiasi esistenza.